Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

SPRECOPOLI

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

L’ITALIA DEGLI SPRECHI,

OSSIA, … ED IO PAGO !!!

"Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi. Gli amministratori pubblici nominino i loro collaboratori, rispondendone del loro operato. Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, sia identificato con cartellino di riconoscimento. Il difensore civico obbligatorio presso ogni ente pubblico difenda i cittadini dagli sprechi o dagli abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico".

di Antonio Giangrande

SPRECOPOLI

L'ITALIA DEGLI SPRECHI....ED IO PAGOOOOO!

 

«Ma quanto mi rubi? (Sprechi di Stato). Uno Stato che si fa rubare più di 565 miliardi di euro all’anno non è in crisi: è una nazione di deficienti! Evasione fiscale, Corruzione,  Sprechi, Non funzionamento dello Stato, Mafie,  Incidenti sul lavoro,  Estorsioni e usura, Contraffazione, Crac finanziari, Costo economico della burocrazia,  Lentezza della giustizia. Per un totale di 565 miliardi di euro all’anno.»

Di Antonio Giangrande

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

FONDI STATALI PER "I PARTIGIANI".

PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

CHI FA LE LEGGI? 

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

SPENDING REVIEW? NO, SPENDING CUCU’.

L'ULTIMA RAPINA COMUNISTA A DANNO DEGLI ITALIANI.

LA SPECULAZIONE FLOP SUI DERIVATI.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LO SPRECO DEI PASTI AI CLANDESTINI.

IMMIGRAZIONE: RISORSA? MA QUANTO MI COSTI? UN MILIARDO O 4O MILIARDI DI EURO ALL'ANNO?

ZINGARI ED IMMIGRATI: GLI SPRECHI SOLIDALI.

BAGNOLI: LA STATO FA FALLIRE SE STESSO.

RIMBORSI. LA GRANDE ABBUFFATA DEI PARTITI.

I PAPPONI DELLE PENSIONI E DEI VITALIZI.

L'ITALICA FURBATA: TANGENTE O RACCOMANDAZIONE.

L'ITALIA DEI FURBI: TANGENTI E SPRECHI.

CORRUZIONE E STAMPA.

GRANDI OPERE: GRANDI SPRECHI E GRANDI SCANDALI.

IL CIMITERO DEI CARRI ARMATI.

SPRECHI SPAZIALI.

UNIVERSITA': TUTTO TRUCCATO.

GLI SPRECHI E LE PRESE PER IL CULO….

QUOTE LATTE E DEFERIMENTO DI STATO.

ANTROPOLOGIA CRIMINALE ED I PREGIUDIZI DELLA SINISTRA.

PERCHE’ L’EVASORE LA FA FRANCA?

I TESORI DELL'ARTE NELLE MANI DELLA MAFIA.

PERCHE' I DETENUTI NON LAVORANO?

LE SPESE DEI MUNICIPI.

L'ITALIA DELLA DILAPIDAZIONE. DAL BASSO DEI COMUNI ALL'ALTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE, PASSANDO PER LA OMESSA SPESA DEI FONDI COMUNITARI.

SPRECOPOLI. L’ITALIA DEGLI SPRECHI.

LA SPRECOPOLI DELLE PARTECIPATE.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

PARLAMENTO E DINTORNI COME DIVENTARE RICCHI CON LO STIPENDIO FISSO.

ELETTRONICA E MOBILI: CHE SPRECO DI 30 MILIARDI.

RAI: VA IN ONDA LO SPRECO KOLOSSAL.

AGENZIA DELLE ENTRATE: SPRECO DA 50 MILIONI DI EURO.

LE TRUFFE RECORD ALLA SANITA’.

I CARROZZONI DEI CONSORZI DI BONIFICA.

PARLIAMO DELL’AUTHORITY ANTI SPRECHI, DEI DIPENDENTI DEL PARLAMENTO E DEGLI AFFITTI D’ORO DEGLI UFFICI DEI PARLAMENTARI.

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI E QUANTO CI COSTANO???

I PREZZI DUBBI DEI FARMACI.

IL DUBBIO SISTEMA INFORMATICO DI ASSEGNAZIONE DEI CONTRIBUTI UE. 

VIZI ITALICI. LE OPERE INCOMPIUTE. POZZI SENZA FONDO.

LE BELLEZZE TRADITE. UNA RICCHEZZA IMMERITATA. I MONUMENTI PRIGIONIERI DEI CANTIERI E/O DELL'ABBANDONO.

SPRECHI: NON SOLO PARLAMENTARI. IL POZZO SENZA FONDO DELLO STATO.

LO STATO DELLA CASTA: COME EVADE LE TASSE E COME TRUFFALDINAMENTE SI FINANZIA.

LO SPRECO DELLA CARTA PARLAMENTARE.

IL PAESE DELLE STAZIONI FANTASMA.

LO SPRECO DELLE MISSIONI MILITARI.

GARIBALDINI, ANTIFRANCHISTI ED ANTIFASCISTI: QUANTO CI COSTANO GLI EX COMBATTENTI?

REGIONI: PAPPONI, SPRECONE E....INDAGATE E NON MANCA LA CASTA A STATUTO SPECIALE.

I MAGISTRATI: UNO SPRECO CONTINUO. LAVORANO POCO E MALE E NESSUNO LO DICE.

LA GIUNGLA DELLE SOCIETA’ IN MANO PUBBLICA.

I PRIVILEGI DEGLI STATALI.

PARLIAMO DEI DIRIGENTI PUBBLICI.

PARLIAMO DEI DIRIGENTI DI PALAZZO CHIGI.

PARLIAMO DELLA CORRUZIONE DEI DIPENDENTI PUBBLICI E DELLE TRUFFE DEI CITTADINI.

PARLIAMO DELLA CONSIP E DEGLI SPRECHI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

PARLIAMO DI AMBASCIATORI. AMBASCIATOR PORTA PRIVILEGIO.

LEGGI INCOSTITUZIONALI SUL FINANZIAMENTO AI PARTITI.

PARLIAMO DELL’AVVOCATURA DELLO STATO.

PARLIAMO DEGLI AVVOCATI PUBBLICI E DEGLI INCASSI PRIVATI.

I FURBETTI DELLE BORSE DI STUDIO.

CHE CAZZO DI FINE FANNO I NOSTRI SOLDI? ITALIA. I CODARDI DEL TAGLIO DELLA SPESA PUBBLICA ED I SUICIDI DI STATO.

PARLIAMO DI UNA TASSA CHIAMATA ACI: 191 MILIONI DI EURO PER UN REGISTRO INUTILE.

DISOCCUPAZIONE E RICERCA DEL LAVORO. LO SPRECO DEI CENTRI PER L’IMPIEGO.

SOLIDARIETA’, CATASTROFI E GLI SMS. DOVE CAZZO VANNO A FINIRE LE DONAZIONI?

TRASPORTI: SPESE E FALLIMENTI.

LO SPRECO NON SI FERMA. ISTITUZIONI ALLA SBARAGLIO. LE MANGIATOIE. ALTRO CHE PARLAMENTO: CSM E REGIONI.

CONTRAPPASSO: SERGIO RIZZO, L'ANTICASTA CON LO SPRECO IN CASA.

SERVIZI PUBBLICI E SPESA PUBBLICA. SACRIFICI, MA NON PER TUTTI.

PARLIAMO DELLE TOGHE IN FERIE.

SALERNO REGGIO CALABRIA: L’ETERNA INCOMPIUTA.

LA SALERNO REGGIO CALABRIA FINISCE NEL LATO OSCURO DEL POTERE.

ENTI, LO SPRECO INTERNAZIONALE.

MEGLIO LA CASTA REGIONALE DI QUELLA PARLAMENTARE?

REGIONI, L'ALTRA CASTA.

GOZZOVIGLI ALLA REGIONE.

INVITO A CENA CON CARABINIERE.

DA UN GENERALE AD UN ALTRO. DA FAVARA A SPECIALE.

ITALIANI IGNAVI.

IL COSTO DELLA POLITICA.

IL COSTO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

SEMPLIFICARE?

GLI SPRECHI DELLA MAGISTRATURA.

PARLIAMO DEL PROCESSO AI MAGISTRATI: LA CASTA DELLE CASTE.

L’ITALIA DEGLI SPRECHI

PARLIAMO DELL’ITALIA DI M……..UNO STATO DI LADRI INGORDI. DOVE VANNO A FINIRE I SOLDI ESTORTI AI CITTADINI CONTRIBUENTI??

CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.

PARLIAMO DI CONSULENZE E COLLABORAZIONI ESTERNE

PARLIAMO DI REGIONOPOLI

PARLIAMO DEL MAGNA MAGNA GENERALE

PARLIAMO DELLE SOCIETA’ REGIONALIZZATE 

PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BILANCI DISSESTATI

PARLIAMO DELLE CONCESSIONARIE DELLA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI CHE POI SE LI INTASCANO

PARLIAMO DI USURA DI STATO: EQUITALIA

PARLIAMO DI ONERI DI URBANIZZAZIONE NON AGGIORNATI

PARLIAMO DELLA SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI. TUTTO IN FAMIGLIA

PARLIAMO DELLE COMUNITA’ MONTANE: UNA MACCHINA DI SPRECHI.

PARLIAMO DEI MANCATI INVESTIMENTI SUI CONTRIBUTI UE

A PROPOSITO dI SPRECHI PARLIAMO DELLA MACCHINA PUBBLICA.

NON CI RESTA CHE PIANGERE....ANCHE PER LA MASSONERIA

PARLIAMO DI PENSIONI: D'ORO, BABY, PRIVILEGIATE

PARLIAMO DI STIPENDI A STATALI NULLAFACENTI

PARLIAMO DEGLI STIPENDI DEI PARLAMENTARI

PARLIAMO DEI BENEFICI DELLE BANCHE

PARLIAMO DI ITALIA E SISTEMA DI POTERE: UN POZZO SENZA FONDO

PARLIAMO DI ICI, QUELLI CHE NON PAGANO

PARLIAMO DI CARRIERE MISTERIOSE DI AMICI ED AMANTI SENZA ALCUN MERITO

PARLIAMO DEI PRIVILEGI DELLA CASTA DELLE STELLETTE

PARLIAMO DEI COMMESSI PARLAMENTARI, L'ALTRA CASTA

PARLIAMO DEI BONUS, DEI CONTRIBUTI E DEI SUSSIDI AI PRIVATI CITTADINI

PARLIAMO DELL'ITALIA DEI DOPPIONI PER UNA SINGOLA GESTIONE

PARLIAMO DELL'ISLAM E DELLE TRADIZIONI COSTOSE

PARLIAMO DELLE SOCIETA’ CONTROLLATE O PARTECIPATE DAGLI ENTI LOCALI: L’ARMA DEL GETTONE.

PARLIAMO DELLA TRUFFA DEL DOPPIO, TRIPLO E QUADRUPLO STIPENDIO

PARLIAMO DI QUANTO CI COSTA LA CHIESA CATTOLICA

PARLIAMO DEGLI OSPEDALI MAI NATI

PARLIAMO DI ENTI INUTILI

PARLIAMO DELLA BUROCRAZIA A FONDO PERDUTO

PARLIAMO DEI FINANZIAMENTI A FONDO PERDUTO

PARLIAMO DEGLI AEROPORTI INUTILI ED INUTILIZZATI D’ITALIA

PARLIAMO DELLE COMPAGNIE AEREE INUTILI E DANNOSE D’ITALIA

PARLIAMO DELLE COMPAGNIE MARITTIME INUTILI E DANNOSE D’ITALIA

PARLIAMO DEI PAPPONI DI STATO. FORAGGIAMENTO DEI PARTITI, COMPRESI QUELLI ESTINTI

PARLIAMO DI VOLI DI STATO

PARLIAMO DI AUTO BLU

PARLIAMO DI PENSIONI FARAONICHE

PARLIAMO DI PRIVILEGI FARAONICI: PARLAMENTARI, MAGISTRATI, ECC.

PARLIAMO DEGLI AVVOCATI DI STATO

PARLIAMO DEL FORAGGIAMENTO ALLA INFORMAZIONE

PARLIAMO DEL FORAGGIAMENTO A SINDACATI ED ASSOCIAZIONI DI CONSUMATORI

PARLIAMO DELLE PROVINCE

PARLIAMO DI BRACCIALETTI ELETTRONICI.

PARLIAMO DELLE ASL

PARLIAMO DELLE SCORTE.

PARLIAMO DEGLI IMPIANTI TURISTICI INVERNALI.

ENIT. IL RE DEGLI ENTI INUTILI.

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Anche l'anticorruzione costa Per l'Anac voli, cene e hotel. A Cantone e ai consiglieri in 6 anni rimborsi per 270mila euro e 5 milioni di compensi. Ma il malaffare non cala, scrive Pasquale Napolitano, Martedì 11/12/2018, su "Il Giornale". In Italia la corruzione, in base a uno studio di Unipresa pubblicato a giugno di quest'anno, nell'ultimo decennio ha avuto un costo di 10 miliardi di euro di prodotto interno lordo l'anno. La corruzione, dunque, pesa tantissimo sui cittadini. Ma anche la lotta a politici e funzionari infedeli comporta degli oneri. Costi che emergono controllando le spese sostenute, per cene, viaggi e alberghi dai consiglieri del presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Spese che ovviamente non sono minimamente paragonabili a quelle che lo Stato sopporta per appalti truccati e altre ruberie, ma che comunque incidono sul bilancio dello Stato. Nella struttura di vertice dell'Anac siedono, oltre al presidente Cantone, quattro consiglieri: Michele Corradino, Francesco Merloni, Ida Angela Nicotra, Nicoletta Parisi. Tutti hanno profilo impeccabile e un curriculum eccellente con incarichi di prestigio tra magistratura amministrativa, università e vertici della pubblica amministrazione. Il più francescano di tutti è l'ex magistrato: Cantone ha speso, dal 2014 ad oggi, tra cene, alberghi e trasporti, 17.185 euro. Il 2015 è stato l'anno meno austero, con una richiesta di rimborso per le missioni esterne pari a 5100. Da duro e puro magistrato qual è stato nel corso della carriera di giudice, prima di approdare alla guida dell'Anticorruzione, Cantone si fa bastare lo stipendio che non è male: 180mila euro l'anno. Soldi con cui può tranquillamente pagarsi una trasferta. Nei sei anni alla guida dell'Anticorruzione, l'ex magistrato antimafia intascherà 1 milione di euro. Meno francescani sono stati fino ad oggi i suoi consiglieri, che tra cene e trasferte hanno abbondantemente superato la somma dei 17mila euro del presidente. Evidentemente il carico di lavoro, tra ispezioni, audizioni e verifiche, è più elevato. Dai dati consultati da il Giornale la più spendaccione è Ida Angela Nicotra, che dal 2014 ad oggi ha speso 101mila euro tra viaggi, pranzi, alberghi e trasporti. La Nicotra, ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Catania, nel 2015 ha chiesto 27mila euro di rimborso per le trasferte per conto di Anac: quasi il doppio di quanto il presidente Cantone ha speso in 4 anni al vertice dell'Anticorruzione. Un'altra donna, Nicoletta Parisi, insidia la prima posizione: dalla nomina ad oggi ha speso 69mila e 200 euro per pagare hotel, vitto e trasporto. Il 2017 è stato l'anno del record con 20mila euro chiesti all'Anac come rimborso per le trasferte. Il primo di sesso maschile è Michele Corradino con i suoi 60mila euro di spese. Anche per il consigliere Corradino, magistrato al Consiglio di Stato, c'è un primato: tra luglio e dicembre del 2014 ha speso 11mila e 425 euro. L'unico in linea con le spese francescane del presidente Cantone è Francesco Merloni che ha pesato sulle casse dell'Anac per 25mila e 736 euro. Per avere una radiografia completa di quanto costa l'anticorruzione in Italia va analizzato un altro capitolo: i compensi dei consiglieri. La retribuzione più alta è quella di Cantone: 180mila euro l'anno. Per i consiglieri, lo stipendio è leggermente più basso: 150mila euro annui. Una cifra pari a 900mila euro in sei anni. Complessivamente Cantone e i suoi consiglieri costeranno 4 milioni e 600mila euro in 6 anni. Costo a cui vanno aggiunti gli oltre 270mila euro spesi per pagare trasferte, alberghi e cene. Ma quali sono i risultati portati a casa? Si intravedono segnali di miglioramento. Nel febbraio 2018 Transparency International, l'ong che lotta contro la corruzione, ha stilato una classifica: l'Italia si piazza al 54esimo posto, migliorando di sei posizioni rispetto al 2017, ma complessivamente resta il voto insufficiente. Siamo in compagnia della Slovenia ma ancora dietro nazioni come il Ruanda e la Spagna.

Corruzione, disastro italiano: ci costa 230 miliardi l'anno (siamo tra i peggiori in Europa). I risultati di uno studio europeo: il nostro Paese è il peggiore tra quelli occidentali. Con quello che viene sottratto alla comunità si potrebbero risolvere le principali emergenze sociali, scrive Federica Bianchi il 6 dicembre 2018 su "L'Espresso". È l'Italia il Paese con il più alto livello di corruzione in Europa. Almeno in termini assoluti e non in percentuale al Pil. Ogni anno perdiamo infatti 236,8 miliardi di ricchezza, circa il 13 per cento del prodotto interno lordo, pari a 3.903 euro per abitante. La cifra della corruzione, già impressionante di per se, è due volte più alta di quella della Francia, pari a 120 miliardi di euro e al 6 per cento del Pil e di quella della Germania, dove la corruzione costa 104 miliardi di euro (il 4 per cento del Pil). Questi sono i numeri contenuti in uno studio pubblicato dal gruppo dei Verdi europei basato sulle analisi condotte dalla ong americana RAND per il parlamento europeo, relatrice la deputata 5 Stelle Laura Ferrara. Complessivamente l'Unione europea perde per corruzione 904 miliardi di euro di prodotto interno lordo se si includono nel calcolo anche gli effetti indiretti, come le mancate entrate fiscali e la riduzione degli investimenti esteri. Tanto per mettere le cifre in contesto: porre fine alla fame del mondo costerebbe 229 miliardi; fornire educazione primaria a tutti i bambini dei 46 Paesi più poveri del globo 22 miliardi; 4 miliardi per eliminare la malaria; 129 miliardi per offrire acqua pulita e fognature a tutti gli esseri umani. In Europa le persone non credono che gli sforzi del governo per combattere la corruzione siano efficaci e le uniche istituzioni di cui hanno fiducia a larga maggioranza sono le forze di polizia. La fiducia nelle istituzioni europee poi è bassissima: si ferma al 4 per cento. All'interno della Ue, il Paese più corrotto in termini di perdita percentuale del prodotto interno lordo è la Romania, con il 15,6 per cento di perdita del Pil. Non è un caso. Il suo governo socialista, che sta per presiedere il prossimo semestre dell'Unione, è da tempo nel mirino della Commissione e del parlamento europeo per le misure legislative prese con lo scopo di coprire la corruzione. E la mancanza di lotta contro la corruzione è stata al centro di uno dei rapporti più duri inviati recentemente da Bruxelles a Bucarest. Più in generale, la corruzione sembra essere un vero problema per l'Europa dell'Est, oltre che per l'Italia: Bulgaria, Lettonia e Grecia perdono circa il 14 per cento di Pil ogni anno, la Croazia il 13,5 per cento, la Slovacchia il 13, la Repubblica Ceca il 12. Al contrario, è l'Olanda – una notizia che non dovrebbe essere una sorpresa per chi segue le vicende europee – il Paese più virtuoso. Qui la corruzione vale solo lo 0,76 per cento del Pil (circa 4,4 miliardi di euro). Sul podio sono anche Danimarca e la Finlandia, 4 miliardi entrambe, rispettivamente il 2 e il 2,5 per cento del Pil. E non se la cava male nemmeno il Regno Unito dove la corruzione ruba al Pil “solo” il 2,3 per cento, ovvero circa 41 miliardi di euro. Con riferimento al nostro Paese, lo studio mette in evidenza come le risorse così sprecate potrebbero da sole risolvere le maggiori emergenze sociali. La perdita di ricchezza dovuta alla corruzione è infatti pari a oltre una volta e mezza il budget nazionale per la sanità pubblica; a 16 volte gli stanziamenti per combattere la disoccupazione; a 12 volte i fondi per le forze di polizia e addirittura è di 337 volte più grande della spesa per le abitazioni sociali. Per non parlare degli investimenti sull'istruzione, nota dolente, che con quei soldi potrebbero essere più che triplicati. Infine, se quei 237 miliardi fossero distribuiti agli italiani basterebbero per dare a oltre il 18 per cento della popolazione 21mila euro l'anno, la media nazionale. In oltre la metà degli stati europei (Italia, Bulgaria, repubblica ceca, Croazia, Cipro, Grecia, Ungheria, Lituania Lettonia, Romania, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna) l'80 per cento degli abitanti ritiene che la corruzione sia un fenomeno diffuso nel loro Paese al punto che la maggioranza di loro non la denuncia. Un'abitudine al peggio che viene ribadita anche in un sondaggio condotto da Eurostat nel 2017, secondo cui il 55 per cento degli intervistati riteneva che l'alto livello di corruzione fosse peggiorato negli tre anni precedenti e il 30 percento che fosse rimasto allo stesso livello. Solo il 4 percento pensava che fosse diminuito. E difatti l'89 per cento degli italiani pensa che la corruzione sia estremamente diffusa nel Bel Paese, con l'84 per cento convinto addirittura che faccia parte della cultura d'impresa del Paese. Ma c'è un segno di speranza. Secondo il 79 per cento la corruzione non è un fenomeno accettabile e dovrebbe essere combattuta aggressivamente. Se solo lo Stato lo volesse.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

FONDI STATALI PER "I PARTIGIANI".

Il generale della Folgore scrive a Pinotti contro l'Anpi. La lettera del generale Bertolini dell'Associazione dei Parà contro le proteste dell'Anpi per la stele in memoria dei paracadutisti tedeschi, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale". Non si ferma la polemica a Cassino tra paracadutisti e partigiani. La querelle della stele per i "parà nazisti", aspramente contrastata dall'Anpi, è diventata un vero e proprio caso istituzionale. Che ha coinvolto anche il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. Il Generale Marco Bertolini della Folgore, presidente dell'Assciazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, infatti, ha scritto una lettera al ministro per chiedere spiegazioni riguardo la "frittata" partigiana e suggerendo di togliere i fondi ai nipoti dei partigiani.

Fondi statali per i partigiani: ecco il tesoretto antifascista. "Alcuni giorni - si legge nella missiva - fa il Generale di Corpo d'Armata Hans-Werner Fritz, Presidente dell'associazione paracadutisti tedesca, mi aveva avvertito che stava venendo in Italia con un gruppo di associati per una cerimonia a Cassino in memoria dei valorosi paracadutisti tedeschi che caddero durante la Seconda Guerra Mondiale. Il generale Fritz era il mio corrispettivo presso il Coiu tedesco di Potzdam quando io ero in servizio con lui vennero affrontati molti problemi comuni, tra cui il coordinamento dei nostri sforzi per l'ormai dimenticato ripiegamento dell'Afghanistan, l'alternarsi italo-tedesco al Comando della Task Force a Erbil, ed altre cosette del genere. Ovvio quindi che tra lui e me si creasse una certa familiarità sfociata in amicizia nel corso del Congresso delle Associazioni Paracadutisti Europee del 2017, durante il quale ci siamo reincontrati, seppur in vesti differenti da quelle con le quali ci eravamo salutati un anno prima a Erbil". Dopo la protesta dell'Anpi e la cancellazione della cerimonia, il generale Bertolini ha esoposto al collega "i miei sentimenti. Che sono di vergogna profonda". E così ha deciso di prendere carta e penna e scrivere alla Pinotti "per metterla a parte della frustrazione di tutta l'Anpd'I e per suggerirle di prendere qualche misura per ribadire ai nostri commilitoni tedeschi, ma non solo, che gli appelli alla sbandierata "difesa comune" europea non sono parole vuote. E che non abbiamo dimenticato i doveri che ci derivano dalla nostra ppartenenza alla civiltà cristiana, che ha nel culto dei morti, di tutti i morti, e soprattutto dei Caduti, di tutti i Caduti, uno dei suoi più radicati appigli". Infine, l'accusa contro l'associazione dei partigiani: "Le chiedo - scrive Bertolini - anche di valutare se un'associazione come l'Anpi, protagonista di questa bella frittata oltre che di tutt'altro che edificanti manifestazioni di carattere virulentemente politico come quello che ci ha proposto la cronaca degli ultimi mesi, possa essere confusa con le associazioni d'Arma, avendo anzi contributi finanziati dal Suo Ministero che le altre non possono neppure immaginare". Finanziamenti che Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo avevano svelato in un'inchiesta sul Giornale.

Fondi statali per i partigiani: ecco il tesoretto antifascista. Crescono le sovvenzioni per i gruppi partigiani. Dai garibaldini ai combattenti in Spagna: 4 milioni di euro in 6 anni, scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo, Giovedì 26/10/2017 su "Il Giornale". Ogni anno decine di associazioni aspettano l’autunno con ansia. Le attende una sorta di rito: la perpetua elargizione di fondi (statali) che in buona parte dei casi significa sopravvivenza. Anche quest’anno il Governo, approvando la legge di bilancio 2017, provvederà a sovvenzionare con quasi tre milioni di euro una pletora di organizzazioni combattentistiche dalle più disparate sigle. Dai garibaldini all’Arma di Cavalleria, passando - ovviamente - per i partigiani.

Dai Mille alla Resistenza. Ecco: i partigiani. I fondi per le associazioni combattentistiche provengono da due voci di bilancio: da una parte il ministero della Difesa mette a disposizione 1,7 milioni di euro da dividere tra 47 raggruppamenti; dall’altra il ministero dell’Interno, in collaborazione con quello delle Finanze, elargisce altri 1,6 milioni. Mica bruscolini. Buona parte di questi proventi finisce nelle tasche di organizzazioni che in un modo o nell’altro si riconoscono nell’esperienza delle varie brigate antifasciste. Per esempio, la Difesa si appresta a versare 23.500 euro all’Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti in Spagna. E qui vi chiederete: cosa fa il comitato? Sul sito si trova lo statuto del gruppo costituito da "superstiti ex volontari che hanno partecipato alla guerra di Spagna nelle formazioni anti-franchiste ed i loro familiari e discendenti". Ma se qualcuno è interessato e ne condivide i principi, può iscriversi lo stesso. Le iniziative riguardano soprattutto la pubblicazione di memorie e biografie di comunisti, anarchici e antifascisti vari che presero la via della penisola iberica per combattere contro Francisco Franco. Per dire, sabato scorso si sono visti a Tolmezzo (Udine) per ricordare i volontari internazionalisti antifascisti "che dalla Carnia e dall'alto Friuli" parteciparono alla guerra spagnola "al fianco delle istituzioni democratiche". Saluti, convegni, targhe e concerto. Nella colonna delle uscite del bilancio del Governo ci sono poi 55mila euro finiti alla Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane, 115.000 euro all’Associazione nazionale Reduci della Prigionia dell’Internamento e della Guerra di Liberazione, 84mila per la Federazione Italiana Volontari della Libertà e altri 41.800 euro all’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione Inquadrati nei Reparti Regolari delle Forze Armate, che solo a pronunciare il nome serve una riga. E infine l’Anpi: alla più famosa organizzazione partigiana finiranno ben 107mila euro tondi tondi. Ognuno si è fatto il suo comitato: i partigiani, i militari, i deportati, i volontari all'estero e chi più ne ha più ne metta. Spesso i vari Enti stampano riviste, sostengono siti internet e in alcuni casi pubblicano pure libri sulla sempreverde resistenza antifascista. C’è anche il caso dell’Associazione Nazionale tra le famiglie italiane dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria, che quest’anno incasserà 102mila euro. Voi direte: impossibile non essere d’accordo con chi rappresenta i martiri per la libertà. Certo. Il fatto è che riguarda solamente gli “antifascisti, partigiani, semplici civili” morti durante l’occupazione nazi-fascista del Centro e del Nord Italia. In particolare l’attenzione dell’ANFIM si concentra sulla strage delle Fosse Ardeatine (nacque proprio dal desiderio dei parenti delle vittime di ottenere verità) e si allarga a Marzabotto, Forte Bravetta, Leonessa e al reatino. L’obiettivo? “Mantenere viva la Memoria” e promuovere i “principi di libertà e democrazia”. Due cose - in realtà - che già fa egregiamente l’Anpi. Non potevano allora unire le forze, riducendo così le elargizioni statali? A quanto pare no, visto che la Memoria delle Fosse Ardeatine se la “contendono” l’ANFIM e la sezione locale dell'ANPI di Roma. Doppi fondi, più festa per tutti. Un piccolo inciso lo merita pure l’Associazione Nazionale Veterani Reduci Garibaldini, che “deriva direttamente” - come si legge nel sito - dalla “Società di Mutuo Soccorso fra garibaldini che fu fondata dallo stesso Generale Garibaldi nel 1871”. Visto che ormai dei Mille - per motivi anagrafici - non ne è rimasto in vita neppure uno, quando alla fine della Guerra si decise di ripristinare il sodalizio “su base democratica ed antifascista”, furono ammessi come iscritti i “reduci della Divisione italiana partigiana Garibaldi che aveva combattuto in Jugoslavia” perché “continuatori della tradizione garibaldina”. Oggi i soci sono di fatto solo ex partigiani e alcuni simpatizzanti (dal 1993), a cui non dispiaceranno certo i 23mila euro donati dal ministero.

Lievitati gli incassi. A conti fatti alle organizzazioni partigiane vanno 467mila euro l’anno, un terzo del totale. A questi però vanno aggiunti anche i fondi stanziati dal Viminale: Marco Minniti si appresta infatti a versare 202.071 euro all’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti (ANPPIA), un ente da 3.643 soci nato nel 1954 e che ora fa appelli “alle forze democratiche” (tra cui il Pd) per fare da “argine nel modo più unitario e largo possibile, alla recrudescenza fascista”. In totale negli ultimi 6 anni l’intera galassia dei gruppi partigiani ha drenato 4 milioni di euro dalle casse dello Stato. Negli ultimi anni gli stanziamenti hanno avuto un andamento ondivago: cresciuti fino al 2014, si sono contratti nel 2015 per poi tornare a crescere. Nel 2017 la Pinotti ha registrato un incremento di 164.349 euro rispetto all’anno precedente, mentre quello del ministero dell’Interno si è ridotto di soli 77mila euro. Per molto tempo le sovvenzioni sono state elargite a pioggia, con metodi di ripartizione dei contributi slegati dalle reali attività svolte e senza trasparenza: per cinque anni laCommissione Difesa ha chiesto i rendiconti annuali degli enti beneficiari, ma li ha ottenuti solo quest’anno e solo per 27 associazioni su 47. Per carità: quale correttivo è stato fatto. Dal 2014 per ottenere i fondi bisogna presentare dei progetti precisi, altrimenti ci si deve accontentare del “contributo per i costi fissi di funzionamento” e di una decurtazione del 20% per ogni anno in cui non si elaborano programmi meritevoli di essere finanziati. Comunque vada, un po' di soldi non vengono mai fatti mancare. Non sia mai che la lotta partigiana finisca (finalmente) sugli scaffali della storia.

Ecco tutti i soldi ai nuovi partigiani. Gli esborsi alle 179 associazioni di reduci, rifinanziati dal Governo Fondi anche ai «garibaldini» che combatterono dal ’43 al ’45 in Jugoslavia, scrive il 25 Aprile 2016 "Il Tempo". Centosettantanove sfumature di partigiano. E il Governo le finanzia tutte: dai reduci garibaldini agli antifascisti. Ecco le associazioni che lo Stato foraggia e di cui si sente parlare solo il 25 Aprile. Anpi, Anvrg, Aicvas, Anvcg, Aned, Anppia, solo per citarne alcune. Con molta probabilità solo gli iscritti, vedendo queste sigle, sapranno riconoscere le associazioni di cui stiamo parlando: "Associazione Nazionale Partigiani Italiani", "Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti", "Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra", "Associazione Nazionale Ex Deportati", "Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti". C’è chi strabuzzerà gli occhi quando leggerà che il primo acronimo sta per "Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini". Ovviamente non si tratta di un’associazione di mummie del 1861, bensì dei reduci della divisione italiana in trincea dal ’43 al ’45 con i partigiani in Jugoslavia. I suddetti acronimi appartengono all’immensa galassia delle associazioni combattentistiche che godono di stanziamenti pubblici annuali predisposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dai ministeri della Difesa, dell’Interno e dell’Economia. La crisi non tocca le tante associazioni rosse che possono dormire sonni tranquilli. A mettere in cassaforte il tesoretto ci ha pensato lo Stato inserendole nella legge di stabilità del 2014: «Per il sostegno delle attività di promozione sociale e di tutela degli associati svolte dalle Associazioni combattentistiche - si legge nel testo - è autorizzata la spesa di euro 1.000.000 annui per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016». E stiamo parlando solo di quelle sottoposte alla vigilanza della Difesa. Al milione di euro stanziato da questo ministero, infatti, se ne aggiungono altri due disposti dal Viminale di concerto con il ministero dell’Economia. Totale: tre milioni di euro circa per sostenere associazioni combattentistiche e d’arma. Nella maggior parte dei casi non si tratta di cifre stellari. Eppure, sommando tutti i contributi diretti alle varie associazioni, l’esborso da parte dello Stato non è trascurabile. Il Viminale, nel dicembre 2014, ha previsto un contributo di 1,892 milioni di euro per tre sole associazioni: l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra a cui andrà la fetta più grossa (quasi un milione e mezzo), seguita da altre due per le quali, almeno stando ai nomi, è difficile dire in cosa divergano: ANPPIA, Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (227 mila euro), e l’ANED, Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti (189 mila euro). Il rischio è di avere decine e decine di associazioni tra le quali è assai difficile cogliere distinzioni tra ambiti e finalità. Tra i tanti finanziamenti a pioggia destinati alle associazioni spicca anche quello di 34 mila euro del 24 marzo 2016 stanziato dal Governo a favore dello spettacolo teatrale "Tante facce nella memoria", di Francesca Comencini. Si tratta di sei storie di donne partigiane e non che nel ’44 vissero l’eccidio delle Fosse Ardeatine, feroce rappresaglia per l’attentato di via Rasella: una sorta di oratorio sulla memoria in scena a Roma. La regista, madre del Viceministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda, fa l’en plein garantendosi anche un ulteriore finanziamento da 20 mila euro concesso dalla Regione Lazio. Insomma sui soldi i partigiani non fanno resistenza.

Quanto costa la scuola d'antimafia. I finanziamenti del ministero, scrive Salvo Toscano Giovedì 16 Giugno 2016 su "Live Sicilia". L'Antimafia vuol vederci chiaro sui soldi dati per la legalità. Il Miur illustra gli stanziamenti. Follow the money, diceva Gola Profonda in Tutti gli uomini del Presidente. Segui i soldi, una lezione che i grandi investigatori in prima linea contro la mafia fecero propria tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, per infliggere colpi durissimi ai boss. Oggi, quasi per un beffardo contrappasso, il tema del “seguire i soldi” torna d'attualità, tra le polemiche, quando si parla d'antimafia. Soldi, tanti soldi piovuti su un sottobosco variopinto che sotto diverse forme ha beneficiato di un ingente flusso di denaro pubblico. Stanziato di certo con le migliori intenzioni. Un tema, quello della “antimafia spa”, di cui s'è parlato non solo nei commenti e negli editoriali che predicano il ritorno all'antimafia “scalza” (la definizione è di Claudio Fava), ma anche nelle sedi istituzionali. La commissione Antimafia dell'Ars, ad esempio, ha avviato un'indagine sui contributi statali, regionali ed europei incassati dalle associazioni antiracket e antiusura in questi anni per capirne meglio l'utilizzo. Un'indagine “per verificare i contributi pubblici percepiti, il fatturato delle aziende confiscate gestite e l'utilizzo dei fondi del Pon sicurezza” che è ancora alle prime battute, spiega il presidente Nello Musumeci. Ma anche l'Antimafia nazionale ha affrontato il tema. La commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi da tempo ha avviato una serie di audizioni per scandagliare il variegato mondo dell'antimafia. Tra le altre audizioni quella del giornalista Attilio Bolzoni, che, sentito dai commissari di San Macuto, dopo essersi a lungo soffermato sulla Confindustria siciliana analizzando criticamente la sua svolta “legalitaria”, ha allargato il discorso al “mondo associativo e all'antimafia sociale”, che “sopravvive fra liturgie e litanie e soprattutto grazie a un fiume di denaro – diceva Bolzoni ai commissari –. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia certificata si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio”. Lo “spargimento di risorse economiche” passa, spiegava il giornalista, anzitutto dai Pon, i Programmi Operativi Nazionali di sicurezza del Ministero dell'interno. E poi dal Ministero dell'istruzione, che, ha “distribuito milioni e forse anche decine di milioni a scuola e che poi smistava quelle somme ad associazioni sul territorio sulla base di legami e patti”, diceva Bolzoni. Proprio quell'audizione ha spinto il Ministero dell'Istruzione a rispondere con una dettagliata missiva inviata alla Commissione Antimafia dal direttore generale Giovanna Boda, in cui veniva descritta nel dettaglio l'attività di sostegno economico a iniziative per diffondere la cultura della legalità nelle scuole. Tanta roba, più di quattro milioni all'anno. Destinati a iniziative di grande respiro come le commemorazioni del 23 maggio ma anche a piccoli progetti portati avanti dalle scuole. Somme che sono però poca cosa rispetto alle più ingenti risorse gestite con analoghe finalità dal ministero dell'Interno, tra le quali, appunto, quelle del Pon Legalità che per la programmazione 2014-2020 ha una dotazione di 377 milioni. Insomma, tra Roma e Palermo l'Antimafia istituzionale vuole vederci chiaro sull'ombra del business che si è affacciata sull'antimafia dei movimenti, una galassia che in questi anni è cresciuta a dismisura, assumendo in certi casi le sembianze della holding, dell'ufficio di collocamento o magari della claque per l'icona del momento. La prima puntata del viaggio nel mondo del denaro destinato all'antimafia parte quindi proprio dal Ministero dell'Istruzione, che sul tema offre tempestivamente informazioni precise e molto dettagliate. E utili a evitare generalizzazioni.

I soldi alle scuole. In totale per l'anno scolastico appena concluso il Ministero della Pubblica Istruzione ha stanziato più di quattro milioni. Di questi, 3,4 milioni sono stati erogati attraverso un bando pubblico per il finanziamento di 1.139 progetti educativi sul tema della promozione della cittadinanza attiva e della legalità realizzati su tutto il territorio nazionale. La media degli stanziamenti quindi è di circa 3mila euro per progetto. L'anno precedente per questa stessa voce c'era ancora di più: 4 milioni e 200mila euro. La parte del leone la fanno le scuole siciliane che quest'anno si sono accaparrate più del 16 per cento delle risorse disponibili (seconda la Campania). I soldi vanno alle scuole che a loro volta li utilizzano per le attività finalizzate a diffondere la cultura della legalità, che magari coinvolgono vari attori del territorio – è qui che possono entrare in scena varie associazioni antimafia, antiracket e via discorrendo –, sotto il monitoraggio e il controllo del Miur. I progetti sono i più svariati e riguardano argomenti legati alla promozione della legalità con il coinvolgimento degli studenti. Le stesse scuole possono attingere a loro volta, oltre che ai fondi del Miur, anche a finanziamenti di altri ministeri (come il Viminale) o regionali o degli enti locali (per quelli che ancora hanno qualche spicciolo da spendere).

I bandi. A questi 3 milioni e mezzo si aggiungevano nel 2015 altri 840mila euro che attingono a un altro capitolo di bilancio. Di questi, 100 mila euro hanno finanziato un altro bando pubblico per sostenere attività in accordo con associazioni impegnate sul campo dell’educazione alla legalità in tutta Italia, assegnando a ciascuna delle realtà selezionate piccoli stanziamenti compresi tra i quattro e i settemila euro. Tra i beneficiari le fondazioni Rocco Chinnici e La Città Invisibile (7.200 euro per creare un'orchestra che coinvolge i bambini delle aree a rischio dell'hinterland catanese), l'Auser di Augusta e l'Acmos (7.470 euro per attivare laboratori didattici sul gioco d'azzardo all'interno di beni confiscati). I restanti 740 mila euro di questa voce (“Spese per iniziative finalizzate a promuovere la partecipazione delle famiglie e degli alunni alla vita scolastica. Spese per il sostegno del volontariato sociale”) vanno alle attività di interesse nazionale organizzate dalla Fondazione Falcone (490mila euro) e Associazione Libera (250). Queste le cifre del 2015, quest'anno il contributo alla Fondazione Falcone è sceso a 400mila euro e quello a Libera a 150mila euro.

I protocolli d'intesa. Le somme impegnate dal ministero per le attività realizzate insieme a Fondazione Falcone e Libera (740mila euro nel 2015, 550mila nel 2016) sono stanziate in base alle convenzioni che danno attuazione ai protocolli d'intesa sottoscritto dal Miur con questi due soggetti. La convenzione con Libera, l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, finanzia la Giornata della Memoria delle vittime delle mafie, che si celebra ogni anno in una città diversa il 21 marzo con partecipazioni da tutta Italia e la presenza di migliaia di studenti. I fondi per la Fondazione Falcone finanziano le iniziative del 23 maggio e gli altri eventi analoghi organizzati per tenere viva la memoria del magistrato ucciso a Capaci (quest'anno oltre a Palermo erano coinvolte altre sei “piazze” in Italia). “Facile dunque comprendere che non si tratta di generose elargizioni a favore di Associazioni che non hanno alcun obbligo di rendicontazione”, ha scritto al riguardo il Ministero alla Commissione Antimafia. “Come vengono dunque spesi i soldi? Per assicurare l’organizzazione, la sicurezza, il ristoro di tutti i partecipanti – si legge nel documento del Miur –. Se si calcola quindi circa 20.000 partecipanti (per il 23 maggio, ndr) lo stanziamento prevede un costo persona pari a circa 25 euro (analogo il costo per persona per l'iniziativa di Libera, ndr) che devono coprire rimborsi spese, pranzo e merenda, allestimenti stand, palchi, sicurezza, stampe, eccetera”. Le manifestazioni del 23 maggio hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti italiani avvicinando generazioni alla conoscenza dei valori incarnati da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Abbiamo cercato di portare avanti un movimento culturale che coinvolga tutti i giovani d'Italia – spiega Maria Falcone, sorella di Giovanni e da sempre anima della Fondazione - per portare avanti i valori nei quali hanno creduto Giovanni, Francesca, Paolo. Ai ragazzi il messaggio della legalità arriva più forte grazie all'accostamento di queste figure. E il ministero ha sempre creduto in questo lavoro, a prescindere dal colore politico”. E lo stesso ministero ricorda nel documento sopra citato come Falcone e Borsellino si fossero espressi sulla sfida “culturale” che la mafia impone alla società.

Le altre attività nelle scuole. Il ministero della Pubblica Istruzione, inoltre, realizza altre attività per diffondere la cultura della legalità nelle scuole in forza di convenzioni sottoscritte con vari soggetti, dal Csm all'Autorità Anticorruzione, dalla Federazione Nazionale della Stampa all'Anm. Sulla base di queste carte d'intenti, gli esperti dei partner del ministero vanno gratuitamente nelle scuole per parlare agli studenti di legalità. Anche le convenzioni possono avere dei costi: il Miur nella sua lettera all'antimafia allega a titolo d'esempio la convenzione con l'Università di Pisa per la realizzazione di un “piccolo Atlante della Corruzione”, progetto che ha un costo di 35mila euro.

Associazione Libera: numeri da grande azienda, contributi pubblici e incarichi professionali d'oro; Foti "forti dubbi su imparzialità".

Regione Emilia Romagna. Atti di sindacato ispettivo. Numero: 3102. 19/08/2016. Soggetto: ASSESSORATO CULTURA, POLITICHE GIOVANILI E POLITICHE PER LA LEGALITÀ. Data Risposta: 13/10/2016.

Per sapere, premesso che:- 

"Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" è nata il 25 marzo 1995, su ispirazione di Don Ciotti, con l'intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie promuovendo legalità e giustizia; 

dopo oltre 20 anni di attività Libera raccoglie 1500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alle mafie e parrebbe essersi trasformata in una vera e propria holding che, oltre alla cultura della legalità, ha saputo ben promuovere anche se stessa stando agli oltre 5 milioni e 800 mila euro di entrate iscritti a bilancio 2015; 

le erogazioni liberali all'associazione, nel 2015, ammontano a 2 milioni 220 mila euro, contro gli appena 742 mila euro derivanti dai proventi per la gestione dei beni confiscati direttamente afferenti all'associazione. Fra i finanziatori, oltre ad una serie di enti locali spicca Unipolis, la Fondazione del Gruppo Unipol che fa riferimento a Legacoop; 

fra i quadri dirigenti di Libera sono presenti vari esponenti della sinistra e alle feste dell'Unità (se così si possono ancora definire le feste del PD) spicca immancabile il banchetto di Libera con tanto di bandiere, quasi a voler assegnare una "certificazione di legalità" al gioioso momento di incontro e di riflessione politica; 

se il "primato morale", bandiera ai tempi del PCI, era venuto meno dopo le numerose inchieste che hanno messo a nudo un vero e proprio sistema di corruzione attivo all'interno della cooperazione rossa, il colpo di grazia è venuto dallo scioglimento per mafia del comune di Brescello; 

in tutta risposta certa sinistra ha eretto Libera ad icona, a faro nelle tenebre dell'illegalità, tanto da portare il neo presidente di Alleanza 3.0 (ultima nata in casa Legacoop) a definire l'associazione come la «più grande esperienza di risveglio delle coscienze». In questo clima l'associazione Libera, fino a prova contraria una organizzazione non governativa al pari di tante altre, con gli stessi pregi e gli stessi difetti delle altre, è stata eretta a novello oracolo cui rivolgersi per ottenere vaticini sulla penetrazione mafiosa nel nostro territorio o piuttosto evocata da amministratori per ottenere patenti di legalità per sé e la propria giunta; 

l'intreccio fra l'associazione Libera, suoi esponenti apicali e PD è tracciato in maniera egregia in un articolo pubblicato su Prima Pagina di Modena del 17 agosto 2016 dove il giornalista ricostruisce l'excursus di Vincenza Rando, responsabile dell'ufficio legale di Libera: "Enza Rando, nata a Niscemi (Comune del distretto di Caltanissetta di cui è stata vicesindaco per il centrosinistra) il 9 giugno del 1958, l'anno scorso è entrata nel cda della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena dalla quale percepisce un compenso annuo di oltre 51 mila euro (spinta da Francesca Maletti, ma sostenuta in pieno da Giancarlo Muzzarelli), dopo essere stata membro del cdi della Fondazione (nel 2010 a nominarla fu invece l'esponente Pd cattolico Emilio Sabattini, allora presidente della Provincia). Ma i legami dell'avvocato siciliano con le amministrazioni targate Pd (ex Margherita o ex Ds poco importa) sono innumerevoli. Ad agosto 2015 ha ottenuto dalla Regione del presidente Pd Stefano Bonaccini una consulenza da 25mila euro per l'«armonizzazione e semplificazione fra la normativa regionale e nazionale in materia di legalità». In pratica è stata tra le ideatrici del famoso «Testo Unico», non a caso tanto apprezzato dal suo collega di Libera Zavatti. Bonaccini che, per completare l'opera, dopo averla provata a inserire nella lista dei consiglieri regionali Pd (la Rando rifiutò su consiglio di Ciotti stesso) l'ha voluta nella sua neo-creata Consulta legalità. Dal 2014 ha avuto un incarico annuo da 20.400 euro da Sorgea, la multiulity che offre servizi acqua e gas in alcuni Comuni della Bassa (Finale in testa) e del Bolognese e il cui revisore è quella Alessandra Pederzoli, moglie del sindaco Muzzarelli."; 

lo stesso articolo evidenzia poi come "L'associazione è sostenuta a livello nazionale anche da gruppi da sempre vicini al Pd come Unipol che, per esempio, destina un euro per ogni polizza alla creatura di Don Ciotti."; 

ovviamente quanto descritto in premessa è perfettamente legale, ma sicuramente è altrettanto inopportuno; 

Catello Maresca, Pubblico Ministero alla Procura della Repubblica di Napoli che ha condotto le indagini che hanno portato all'arrestato di Michele Zagaria, in un'intervista rilasciata al settimanale Panorama del 14 gennaio 2016, ha dichiarato: "Libera è stata un'importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa" ed ancora "L'antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa"; 

quali rapporti sono intercorsi negli ultimi cinque anni tra la Regione e l'associazione Libera, in particolare quali somme, a qualsiasi titolo, siano state erogate dalla Regione all'associazione Libera o alle sue partecipate; 

per quali ragioni la Giunta Regionale abbia deciso di affidare all'avv. Vincenza Rando la citata «armonizzazione e semplificazione fra la normativa regionale e nazionale in materia di legalità», se l'ufficio legislativo non disponeva di figure professionalmente adeguate a svolgere detto incarico, per quale ragione l'incarico in oggetto non è stato affidato ad un magistrato; 

se non si ritenga che lo stretto legame economico fra PD, mondo cooperativo, Libera (o suoi dirigenti) non limiti fortemente la capacità di oggettività e di denuncia di quest'ultima; 

quale si ritenga possa essere la reale capacità di denuncia di un'antimafia che è appesa ai finanziamenti pubblici e appare sempre più consociativa al potere che tiene i cordoni della borsa.

Tommaso Foti

RISPOSTA

Per quanto attiene alle sovvenzioni regionali a "Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie", si specifica quanto segue: 

"Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" ha ottenuto finanziamenti nell'ambito di bandi pubblici attivati nel 2011 e nel 2013 per gli interventi previsti dall'art. 4, comma 2, della L.R. 3/2011 («Misure per l'attuazione coordinata delle politiche regionali a favore della prevenzione del crimine organizzato e mafioso, nonché per la promozione della cultura della legalità e della cittadinanza responsabile»). 

In particolare, con la D.G. 1935/2011 (Cod. documento GPG/2011/1795), a favore del loro progetto interprovinciale denominato «Responsabilità» è stato concesso un contributo di €. 40.625,00, pari al 65% delle spese ammissibili dell'intero progetto (€. 62.500,00). L'elenco completo dei progetti finanziati è nel prospetto B alle pagg. 14-15 della Delibera in questione, allegata (o consultabile) in pdf. 

Inoltre, con la D.G. 1624/2013 (Cod. documento GPG/2013/1764), a favore del loro progetto interprovinciale denominato «Responsabilità 2» è stato concesso un contributo di €. 20.000,00, pari al 70% delle spese ammissibili dell'intero progetto (€. 28.571,43). In questo secondo caso l'elenco completo dei progetti finanziati è nel prospetto B alle pagg. 16- 18 della Delibera in questione, allegata (o consultabile) in pdf.

Infine con D.G. n. 1150/2016 (Cod. documento GPG/2016/1065) è stato assegnato a "Libera - Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" per il progetto denominato "Coscienze inquiete" un contributo di 8.000,00 Euro, pari a quasi il 20% delle spese ammissibili dell'intero progetto (40.200,00 Euro) ai sensi dell'art. 5 della L.R. 37/94 (« Norme in materia di promozione culturale»). L'elenco completo dei progetti finanziati è nell'All. 1 alle pagg. 10- 13 della Delibera in questione, allegata (o consultabile) in pdf. 

In complesso, i contributi concessi a "Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie" da parte della Regione Emilia-Romagna negli ultimi cinque anni assommano a € 77.196,43. 

Rispetto al secondo punto sollevato dal consigliere interrogante, si specifica che l'incarico di consulenza conferito all'Avvocato Vincenza Rando con determina dirigenziale 9344 del 27/07/2015 è finalizzato all'implementazione, all'armonizzazione e alla semplificazione fra la normativa regionale e nazionale in materia di legalità, con finalità di razionalizzazione di un corpus normativo organico. 

In particolare l'obiettivo è articolare le norme regionali in un unico Testo normativo coordinato finalizzato a valorizzare l'impianto normativo statale, per ottemperare alla esigenza di favorire l'attuazione coordinata delle politiche regionali a favore della prevenzione del crimine organizzato e mafioso e per meglio garantire il coordinamento degli interventi regionali posti in essere ai sensi delle LL.RR n. 11 del 2010, n. 3 del 2011 e n. 3 del 2014. 

È stata pertanto ritenuta necessaria una professionalità che conoscesse approfonditamente la normativa statale e la sua applicazione operativa in materia di legalità e di prevenzione del crimine organizzato e mafioso, nonché le norme regionali che si vogliono adeguare alla normativa nazionale e coordinare producendo un corpus normativo regionale organico. 

In tal senso si pongono il programma di mandato della Presidenza della Regione Emilia-Romagna che sottolinea tra i propri obiettivi quello della lotta alle infiltrazioni mafiose e alla criminalità organizzata, e le Risoluzioni dell'Assemblea legislativa della Regione Emilia- Romagna n. 157, approvata il 9 febbraio 2015 e n. 784, approvata il 16 giugno 2015, che prevede in particolare l'adozione di un Testo Unico teso a dare maggiore organicità ed efficacia agli strumenti normativi fin qui predisposti. 

L'avvocato Vincenza Rando ha acquisito chiara fama professionale nonché una elevata professionalità e specializzazione in materia di legislazione antimafia ed etica delle professioni, come si evince dal curriculum acquisito agli atti. 

In particolare si citano docenze e relazioni sulle tematiche della legalità, della trasparenza degli appalti, della tutela legale delle vittime e dei testimoni di giustizia, consulenze in materia di diritto amministrativo-civile, cura di importanti pratiche legali nel settore amministrativo, civile e penale specificatamente in materia di legalità e di prevenzione del crimine organizzato e mafioso, l'esperienza nel Programma Operativo Nazionale "Sicurezza per lo Sviluppo del Mezzogiorno d'Italia" Programmazione 2000-2006 nonché in materia di supporto a Enti locali assegnatari dei beni immobili sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e mafiosa ai sensi dell'articolo 2-undecies, comma 2, lettera b), della legge 31 maggio 1965, n. 575. Infine, per quanto attiene agli ultimi due punti sollevati nella presente interrogazione, si precisa che la valutazione che spetta a questo Ente non può che essere esclusivamente di natura tecnica ed amministrativa. Viceversa non spetta all'ente in questione una valutazione di carattere politico ancorché se di natura allusiva, priva di qualunque supporto concretamente dimostrativo.

Massimo Mezzetti

PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.

"Le aziende scappano: l'Italia è una giungla di tasse e burocrazia". Il giuslavorista Fava: "Imprenditori in fuga nei Paesi in cui lo Stato non li perseguita", scrive Giacomo Susca, Lunedì 05/09/2016, su "Il Giornale". Mentre gli Agnelli portano la cassaforte Exor in Olanda, al riparo dal fisco vorace di mamma Italia, migliaia di imprenditori con cognomi magari meno ingombranti si chiedono ogni giorno se è arrivato il momento di fare le valigie. E alla fine optano per un biglietto di sola andata. Gabriele Fava, giuslavorista e legal advisor, di capitani d'azienda al bivio della delocalizzazione ne ha conosciuti molti. «Sia chiaro, nessuno decide di lasciare il nostro Paese a cuor leggero. Spesso è una scelta dolorosa, ma inevitabile. L'alternativa è chiudere e ritrovarsi col piattino in mano. D'altronde cosa si può argomentare di fronte a chi reclama più redditività e meno oppressione fiscale?».

Avvocato Fava, su chi fanno più presa le sirene d'oltreconfine?

«Parliamo di realtà medio-grandi, dai 100-200 dipendenti fino ai 10mila. Imprese in salute del settore metalmeccanico, dell'energia o dei servizi, che possono permettersi di spostarsi all'estero senza maggiori rischi».

Perché dicono addio al Belpaese?

«Ha ragione Nicola Porro quando scrive che gli imprenditori non sono i responsabili di una onlus. Hanno lo scopo di realizzare profitti, e operano laddove le condizioni consentono di essere competitivi e di crescere. Assumono solo se le prospettive sono positive. Ci sono Paesi che ti accompagnano nel business passo per passo, ti coccolano, fanno di tutto per averti. L'Italia ormai non è certo tra questi».

Dove conviene scappare, allora?

«Mica tanto lontano, altrimenti la logistica sarebbe un problema. I nuovi paradisi delle imprese si trovano a un'ora, un'ora e mezza al massimo di aereo da Roma: Olanda, Paesi scandinavi, Polonia, Portogallo. E nell'ultimo periodo il vero boom è verso la Tunisia, l'Albania, la Serbia, ... posti in cui la manodopera parla anche italiano».

Quali attrazioni i nostri imprenditori scoprono a Tirana o a Tunisi?

«Una fiscalità eccezionale, costo del lavoro ai minimi (mentre da noi è la gabbia più odiosa), burocrazia inesistente, finanziamenti statali, dialogo trasparente con le istituzioni... devo continuare?».

Continui.

«Per capirci: in Tunisia il governo ha previsto per chi avvia un'attività 10 anni di esenzione fiscale totale, più 10 anni di esenzione dagli oneri previdenziali. Il costo del lavoro è pari a 2,5 euro all'ora per 40 ore settimanali. Il costo dell'energia è inferiore del 70% rispetto all'Italia. A Tirana, l'affitto di un locale commerciale di 1.500 mq costa non più di 1.500 euro al mese. E ancora in Albania, ci vogliono 48 ore per costituire una S.r.l. con capitale sociale minimo di 5mila euro. Altro che la giungla delle scartoffie a cui siamo abituati dalle nostre parti».

Messa così, c'è poco da difendere l'italianità delle produzioni.

«Infatti sono sempre di più quelli che partono. E non si tratta solo delle delocalizzazioni, bisognerebbe aprire un capitolo a parte sulle start-up dei talenti italiani che emigrano all'estero. Negli ultimi due anni il fenomeno è addirittura aumentato».

E la famosa ripresa? Il premier continua a ripetere che le cose vanno meglio adesso che in passato.

«Questa crisi dura da 8 anni. Anzi, non è più una crisi: la situazione sembra patologica».

Si può guarire solo portando i capannoni all'estero?

«Tutt'altro. Gli imprenditori chiedevano riforme organiche nel nostro Paese, ma non sono state fatte. Il governo Renzi si è limitato a una caterva di pannicelli caldi per tamponare qua e là».

Compreso il Jobs Act?

«Ha funzionato fin tanto che ci sono stati gli indennizzi, poi man mano che sono andati a ridursi anche i risultati si sono sgonfiati. Il mercato del lavoro non si crea con iniezioni di danari estemporanee, servono interventi strutturali».

Come fermare l'emorragia?

«Agli imprenditori, più che il numero dei futuri senatori di Palazzo Madama, interessano le misure che hanno un impatto concreto sui bilanci. Per convincerli a restare ci vorrebbe un mercato del lavoro dinamico, flessibile, fiscalmente equo, a burocrazia ridotta, in cui si dia più valore alla contrattazione aziendale. E dove il pubblico sia al fianco dei privati per creare ricchezza, non per tormentarli con vincoli ottusi e stangarli con tasse insostenibili».

Troppe tasse, fuggono pure i call center. Dati preoccupanti: un'assunzione su due fuori confine. Il 20% del giro d'affari è all'estero. Operatori stritolati: "Anche se il settore è in crescita i margini di guadagno sono minimi", scrive Antonio Signorini, Lunedì 14/04/2014, su "Il Giornale". Un branco di ragazze, giovani e avvenenti, va al lavoro. Saltellano verso le rispettive postazioni al ritmo di musica da discoteca, intonando canzoni motivazionali improbabili, prima di inforcare cuffia e microfono. Il messaggio è chiaro: i dipendenti dei call center sono carne da cannone per imprenditori corsari. Sono passati sei anni dal film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, ma l'immagine dei call (e ora contact) center è ancora quella. Stereotipo coccolato da sindacati e politici a caccia di nuove classi sociali da salvare. Nel frattempo molto è cambiato. Intanto una selezione tra le imprese. Gli avventurieri ci sono, ma sono molti meno. C'è un contratto nazionale di lavoro. Su 80mila addetti nelle società che gestiscono servizi in outsourcing, il 60% ha un contratto tipico. Se il film si dovesse fare oggi, ambiente e attori sarebbero trenta-quarantenni, tante donne del Sud. Intere famiglie che lavorano per gli stessi centri, un po' come succedeva con le fabbriche degli anni Cinquanta. Lavoratori qualificati e formati; ci sono persino i primi pensionati, racconta un imprenditore del settore che si è ritrovato dopo un ventennio di servizio con l'età media dei suoi dipendenti cresciuta di una decina di anni. Il problema è che, a breve, la location di un film sui centri di contatto potrebbe cambiare, di nuovo, radicalmente. E non in bene. Crisi economica, burocrazia e tasse stanno riuscendo dove i vari movimenti e la sinistra radicale avevano fallito all'inizio degli anni 2000, cioè cancellare il lavoro atipico per eccellenza. Nel senso che i call center stanno fuggendo. Il prossimo film di Virzì potrebbe essere ambientato in Albania o in Romania, tra capannoni affittati a un euro, dove lavorano ragazzi che hanno imparato un'ottimo italiano grazie a mamma tv. Se ne sono accorti gli italiani che chiamano l'assistenza di grandi gruppi e dall'altra parte del telefono sentono accenti dell'est. E se ne sono accorti anche i giovani italiani a caccia di un lavoro: sempre più rare le offerte. L'offshoring è iniziato da tempo, ma è sempre più diffuso. Lo fanno le grandi aziende che gestiscono autonomamente i call center, ma anche le società che gestiscono il servizio per altri. Secondo i dati dell'associazione di categoria, Assocontact, il fatturato prodotto da queste società all'estero è di 60 milioni di euro. Il 20 per cento del giro di affari dell'outbound (le chiamate ai clienti) viene dai centri che si trovano all'estero. Principalmente Romania (che comunque è Unione europea), ma anche Albania. Numeri per difetto. Nel complesso, stima un sindacalista, ormai un'assunzione ogni due è all'estero. «La crisi l'abbiamo sentita anche noi - spiega Umberto Costamagna, presidente di Assocontact - i nostri committenti cominciano a chiedere sconti. Il settore continua a crescere, ma il margine è al minimo». Pesa l'alto costo del lavoro: circa l'80% del totale, contro il 20% medio dell'industria. Poi le tasse «l'Irap che penalizza chi assume», spiega Costamagna. Di fronte a questa situazione «qualcuno ha deciso di lavorare sul costo del personale e andare in offshoring. È una scelta non ci piace - aggiunge - perché non è strategica, ma è una necessita imposta dalla committenza nei costi». Una «ultima spiaggia» che rischia di fare diventare gli anni dei call center corsari, un ricordo felice. Almaviva Contact ha oltre 10mila dipendenti, segue clienti italiani esclusivamente con operatori che lavorano in Italia. «Questo ha garantito fino a oggi i livelli occupazionali». Però «è innegabile che rispetto a scelte alternative abbiamo avuto pesanti penalizzazioni economiche, oggi non più sostenibili. Ancor più in una situazione di gare al ribasso», spiega Andrea Antonelli, amministratore delegato del gruppo. Il riferimento è alla famosa gara indetta dal comune di Milano per la gestione del servizio 020202. La base d'asta decisa dalla giunta di Palazzo Marino non copre nemmeno il costo del lavoro. Dopo questo caso il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano ha deciso di avviare un'indagine conoscitiva. E dire che il sindaco Giuliano Pisapia appartiene a quella sinistra che, a parole, era contro lo sfruttamento da call center.

E poi ci sono loro...

Poteri invisibili: evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto, scrive Stefano Vergine il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Non solo Apple e l'Irlanda. Anche l'Italia ha concesso dei tax ruling. Si tratta di particolari accordi fiscali fra uno Stato e una multinazionale. Accordi simili a quelli di Luxleaks, uno dei più grandi scandali fiscali europei. O a quelli che hanno portato nei giorni scorsi la Commissione europea a condannare il colosso di Cupertino per aver evaso imposte per 13 miliardi di euro. Insomma, lo Stato concede a una grande azienda un regime fiscale di favore, con tasse sul reddito pari all'1 per cento o anche meno, mentre tutte le altre imprese sono tenute a pagare venti o trenta volte di più. Il tutto nel totale segreto di Stato. Nel numero in edicola domenica 4 settembre, attraverso due documenti finora inediti, “l'Espresso” racconta che anche il nostro Paese ha concesso dei tax ruling. Erano 47, alla fine del 2013. E nel frattempo le cose non sembrano essere cambiate. Lo scorso settembre, infatti, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il governo di Matteo Renzi non ha negato l'esistenza di tax ruling in vigore. Ha però evitato di fornire i nomi delle fortunate multinazionali. «Ragioni di riservatezza», è stata la giustificazione. Va precisato che non per forza tax ruling fa rima con elusione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. In pratica possono però essere usati per dribblare il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di Luxleaks. Dopo lo scandalo del 2014, sono stati tanti i politici europei a promettere un cambiamento. E una riforma dei tax ruling è stata in effetti approvata nel dicembre scorso proprio dalla Commissione europea. Dall'anno prossimo gli Stati dell'Ue avranno l’obbligo di scambiarsi tra loro le informazioni su questi contratti, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Chi può dunque garantire che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale? 

Poteri invisibili: gli evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto. Luxleaks? Storia vecchia. Sorpassata. Solo in teoria, però. Perché in pratica non è mai finita. E qualcosa di molto simile - dimostrano alcuni documenti finora inediti - potrebbe riguardare anche l’Italia. A leggere le dichiarazioni dei politici e le riforme presentate dalle istituzioni internazionali, lo scandalo che due anni fa fece tremare le multinazionali di mezzo mondo può essere catalogato nell’album dei ricordi. Stiamo parlando degli accordi fiscali fra il Lussemburgo e centinaia di società private. Colossi come Amazon, Ikea, Pepsi: 340 in tutto - comprese alcune italiane tra le quali Unicredit, Intesa Sanpaolo, Finmeccanica - che nel corso degli anni hanno ottenuto il lasciapassare dal Granducato per spostare lì buona parte dei profitti pagando tasse ridicole, l’1 per cento o addirittura meno. Questo mentre tutte le altre imprese sono tenute a versare imposte venti o trenta volte più alte. Era il novembre del 2014. «Mai più elusione fiscale, in nessuno Stato membro», gridò il rappresentante del Pd al Parlamento comunitario, il renziano Gianni Pittella, capo dei socialisti europei. Partì un’inchiesta a Bruxelles e un piano di riforma dell’Ocse. «Aumenterà la trasparenza delle imprese multinazionali», fu la promessa del segretario generale, Ángel Gurría. Com’è andata a finire? Secondo quanto può ricostruire “l’Espresso”, il trattamento di favore riservato alle multinazionali non si è mai interrotto. I documenti che lo raccontano sono due, entrambi mai pubblicati finora. Il primo è una tabella di tre pagine. Un file in cui compaiono i nomi di tutte le nazioni dell’Unione europea: al fianco di ognuna c’è il numero dei tax ruling concessi. Tax ruling, per chi non lo sa, è il nome tecnico dei contratti alla base dei LuxLeaks. Quelli accordati dal Lussemburgo alle multinazionali. Gli stessi contenuti nella tabella in questione. Firmato della direzione generale della Commissione, sezione Fiscalità e Unione doganale, il documento certifica che in totale, all’interno dell’Ue, alla fine del 2013 erano attivi 545 di questi accordi. Significa oltre mezzo migliaio di patti fra imprese e Stati. Fra cui spicca il Lussemburgo, con 119, ma anche tante altre nazioni insospettabili. Regno Unito, Ungheria, Spagna. Tutte sopra quota 50. Poco sotto - in quinta posizione con 47 ruling operativi – c’è l’Italia. Manca solo un’informazione: i nomi delle società che hanno firmato questi accordi. Un dettaglio. La tabella, come detto, è aggiornata alla fine del 2013, quindi prima dello scoppio di LuxLeaks. Nel frattempo sono successe cose che dovrebbero aver messo la parola fine al gran valzer dell’elusione fiscale. Prima fra tutte le multe comminate dalla Commissione a Fiat e Starbucks. E - ultima in ordine di tempo - ad Apple, accusata di aver evitato di versare imposte per 13 miliardi di euro. «Spero che le decisioni facciano passare questo concetto: tutte le imprese, grandi o piccole, multinazionali o non, devono pagare la loro giusta quota di tasse», è stato il messaggio della responsabile delle condanne, la commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Le parole fanno pensare che oggi sia tutto finito. Niente più vantaggi fiscali. Finalmente trasparenza sulle tasse pagate dalle multinazionali. Un altro documento ottenuto da “l’Espresso” dice che le cose non stanno esattamente così. Porta la data del 16 settembre 2015, meno di un anno fa, e la firma di Stefano Sannino, ambasciatore italiano presso l’Unione europea. Il diplomatico scrive per conto del ministero dell’Economia, guidato da Pier Carlo Padoan, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il francese Alain Lamassoure. Che chiede al governo guidato da Matteo Renzi una «panoramica, compresa la data e il nome delle società, di tutti i tax ruling concessi a partire dal 1991». Sannino non nega l’esistenza dei tax ruling ancora in vigore. Risponde però che «queste informazioni non possono essere rivelate per ragioni di riservatezza». Insomma, almeno fino al settembre scorso anche l’Italia aveva stretto con alcune grandi imprese degli accordi fiscali. Riservati. Va detto che non per forza tax ruling fa rima con evasione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. D’altronde la struttura di una multinazionale è molto più complessa di quella di una piccola impresa di provincia. E così diverse nazioni offrono ai grandi gruppi l’opportunità di spiegare in anticipo come intendono organizzarsi fiscalmente. Il vantaggio è duplice: lo Stato sa più o meno quanto incasserà a fine anno, la multinazionale evita il rischio di controlli a sorpresa. Questa, appunto, è la teoria. La pratica indica però che questi strumenti possono essere usati anche per eludere il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di LuxLeaks. In cui alcune imprese, grandi e potenti, sono risultate più uguali di altre. Come evitare un nuovo scandalo? Con la riforma dei tax ruling approvata di recente, è la tesi della Commissione. Pierre Moscovici, numero uno dell’economia a Bruxelles, l’ha definita «una rivoluzione per la trasparenza fiscale». Approvata nel dicembre scorso dall’Ecofin, la riforma entrerà in vigore all’inizio dell’anno prossimo e prevede per gli Stati l’obbligo di scambiarsi le informazioni sui tax ruling rispettivamente concessi, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Non proprio il massimo della sbandierata trasparenza. Ma tant’è. Il potente dimostra di essere tale quando è in difficoltà. Due anni fa le multinazionali sembravano alle corde. «Mai più LuxLeaks», appunto. Invece alla fine è cambiato poco. I tax ruling restano validi. E soprattutto segreti. Chi può garantire dunque che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale? Un dubbio che s’insidia con una forza proporzionale a quella delle multinazionali. Le quali, nell’ultimo anno, hanno annunciato grandi investimenti proprio in Italia, uno degli Stati con le finanze pubbliche più sgangherate dell’Ue. Apple realizzerà a Napoli il primo centro di sviluppo app d’Europa. Cisco investirà 100 milioni di euro in tre anni. Amazon ne metterà sul piatto ancora di più (si dice 500 milioni) per assumere 1.200 persone. Ryanair ha appena promesso di voler spendere un miliardo di dollari nel Belpaese. Che siano proprio queste alcune delle aziende beneficiare dei tax ruling tricolori? Impossibile saperlo. È un segreto di Stato.

C'è chi paga le tasse e chi invece le ruba. Un fiume di denaro pubblico sottratto da società private di riscossione. Ottocento comuni che perdono entrate per centinaia di milioni. Tra spese pazze, finti bond, ranch in Botswana, consulenze d’oro. E soldi a politici, scrive Paolo Biondani e Gloria Riva su "L'Espresso" il 19 maggio 2016. Nell'Italia dei record dell'evasione si apre un nuovo scandalo fiscale: le tasse rubate. Tributi regolarmente pagati dai cittadini, ma spariti dalla casse degli esattori. Che non sono funzionari dello stato, ma imprese private autorizzate alla riscossione. Società con forti agganci politici e bancari, che ora sono sotto accusa a Milano. E' quanto rivela l'Espresso nell'inchiesta in edicola venerdì 20 maggio, che anticipa i primi risultati di un'inchiesta della Procura di Milano e della Guardia di Finanza di Lecco. La prima certezza giudiziaria è che sono scomparsi almeno 150 milioni di euro. Le indagini riguardano tre aziende private di riscossione delle tasse entrate in grave crisi tra il 2014 e i primi mesi del 2016. Le tre società, Aipa, Gruppo Kgs e Mazal, gestiscono soprattutto le entrate fiscali locali, dalle imposte sulle affissioni alle tasse sui rifiuti. L'inchiesta ha verificato che molti tributi pagati dagli italiani sono poi spariti in un vortice di spese pazze, consulenze d'oro, intrighi finanziari con obbligazioni-fantasma e perfino acquisti di ville, scuderie di cavalli e ranch all'estero, tra Botswana, California e Wyoming. A contare i danni per le entrate perdute ora sono circa 800 comuni italiani, da Trieste a Foggia, da Genova a Trapani, Agrigento, Milano, Roma, Cagliari e molti altri centri sparsi per tutta Italia. Tra gli indagati già interrogati o perquisiti, scrive sempre l'Espresso, compaiono i principali manager delle tre società sotto accusa, in particolare Daniele Santucci, Luigi Virgilio e Fabio Massimo Ceccarelli, insieme all'ex sindaco di Forza Italia a Como, il commercialista Stefano Bruni, e al patron del Lecco Calcio, l'imprenditore Daniele Bizzozero. Le indagini riguardano anche un traffico internazionale di obbligazioni americane, che risultano di valore nullo, ma sono state utilizzate per nascondere le perdite delle società di riscossione: i bond-fantasma erano custoditi, in particolare, in una filiale di Banca Etruria. Gli inquirenti stanno ricostruendo molti altri casi di aziende italiane di vari settori che sono state ricapitalizzate, sulla carta, con questi titoli-spazzatura.

Rapporto annuale GdF: 4 mld di danni allo Stato nel 2015, tra sprechi e truffe. I numeri dell'attività della Finanza: aumentano gli evasori totali, oltre 13mila le denunce, scrive Corrado Zunino il 10 marzo 2016 su "La Repubblica". Tra sprechi nella Pubblica amministrazione e truffe ai finanziamenti pubblici, lo Stato italiano ha subito nel 2015 un danno patrimoniale superiore ai 4 miliardi. Il dato è contenuto nel Rapporto annuale della Guardia di Finanza presentato oggi. Nell'ambito di 2.644 accertamenti svolti su delega della Corte dei Conti, sono state 8.021 le persone per le quali si ipotizza responsabilità erariale.

Appalti pubblici assegnati per oltre 3,5 miliardi: quasi un terzo del totale è stato dato in maniera illegale nel corso del 2015.  I finanzieri hanno inoltre denunciato 1.474 persone, 73 delle quali sono state arrestate.

Aumentano gli evasori fiscali totali, vale a dire soggetti che pur avendo prodotto reddito risultano completamente sconosciuti al fisco: rispetto ai quasi ottomila individuati nel 2014, la Guardia di Finanza ne ha scoperti 8.485 l'anno scorso. Dal rapporto, inoltre, emerge che sono stati denunciati per reati fiscali 13.665 soggetti, 104 dei quali arrestati. Ai responsabili di frodi fiscali sono infine state sequestrate disponibilità patrimoniali e finanziare per il recupero delle imposte evase per 1,1 miliardi ed avanzate proposte di sequestro per altri 4,4 miliardi.

Sono stati scoperti casi di illegittima appropriazione o illegittime richieste di finanziamenti pubblici, comunitari e nazionali, per oltre un miliardo di euro: 4.084 denunciati, 38 gli arresti. Le truffe nel settore previdenziale e al Sistema sanitario nazionale sono state pari a 300 milioni di euro, ventisette gli arrestati. Ben il 69 per cento dei controlli (11.669) sui requisiti di legge previsti per l'erogazione di prestazioni sociali agevolate e per l'esenzione del ticket sanitario ha rivelato irregolarità per un danno complessivo, anche qui, di 4,2 milioni di euro.

Contro l'evasione e le frodi fiscali 104 arresti. Sono stati 2.466 i casi di "frodi carosello", ovvero la creazione di società cartiere o fantasma per la costituzione di crediti Iva fittizi e indebita compensazione. I casi di evasione internazionale sono stati 444, per la maggior parte riconducibili a fenomeni di fittizio trasferimento all'estero della residenza di persone fisiche e di società. Sono stati 5.184 i datori di lavoro che hanno impiegato 11.290 persone in nero e 12.428 i lavoratori irregolari accertati. Per tutelarsi dalle frodi fiscali, la Finanza ha sequestrato disponibilità patrimoniali per 1,1 miliardi di euro e proposto sequestri per altri 4,4 miliardi. Su 2.813 pompe di benzina controllate, 2.077 sono risultate irregolari: il 74 per cento.

Accertamenti economico-patrimoniali per indagini di mafia su 9.180 persone e 2.182 tra aziende e società. Sequestrati 4.261 beni mobili e immobili, 316 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per un valore di 2,9 miliardi di euro. La confisca ha riguardato 93 aziende, nonché quote societarie e disponibilità finanziarie per altri 747 milioni di euro. Settanta gli arrestati per associazione mafiosa, 111 per riciclaggio, 17 per autoriciclaggio, 53 per usura.

Nelle indagini svolte nei settori dei reati societari, fallimentari, bancari, finanziari e di Borsa sono state denunciate 6.253 persone di cui 267 tratte in arresto. Accertate distrazioni patrimoniali in danno di società fallite per due miliardi di euro. I controlli svolti ai valichi di confine, ai porti e agli aeroporti hanno accertato valuta in eccesso per 104 milioni di euro.

Sequestrati più di 390 milioni di prodotti illegali, perché contraffatti, piratati, pericolosi o recanti falsa o fallace indicazione di origine o provenienza: tre miliardi di euro il valore stimato.

Tolte dal mercato 8.800 tonnellate e 31 milioni di litri di generi agroalimentari contraffatti o prodotti in violazione alla normativa sul Made in Italy.

Sequestrati o oscurati 603 siti internet utilizzati per lo smercio di articoli contraffatti o opere audio-video riprodotte illecitamente. Su 5.765 controlli effettuati dalla Guardia di Finanza in sale giochi e centri scommesse, sono state riscontrate irregolarità nel 30% dei casi.

Sequestrati 576 apparecchi automatici da gioco e 1.224 postazioni di raccolta di scommesse clandestine. Sono oltre 36 milioni le giocate nascoste al fisco. Nell'attività di contrasto al falso monetario sono state sequestrate 1.402.945 banconote false per un valore complessivo di 57 milioni di euro. Scoperte, ancora, tre stamperie clandestine.

Sequestrate 69,7 tonnellate di droga, 52 delle quali in operazioni svolte in mare. Cinque i cargo sequestrati. In tutto, 1.709 gli arresti per traffico di stupefacenti. Altre trenta imbarcazioni sono state sequestrate perché utilizzate per l'immigrazione clandestina.

Il rapporto si riferisce a questo?

Scontrino di 0,10 euro in meno: il Fisco vuole togliergli il bar. All'imprenditore è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. E ora rischia di perdere il bar, scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 21/03/2016 su “Il Giornale”. L'ennesima, tremenda ingiustizia del Fisco. Che colpisce piccoli e grandi imprenditori senza alcuna intransigenza. Senza ascoltare l'urlo della crisi. La direttrice dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, aveva detto che "chi non collabora conoscerà il lato oscuro degli accertamenti". E il lato oscuro è proprio quello che ha colpito il Bar Gianni di Trieste e il suo titolare, Stefano Karis. Una vicenda che ha i contorni dell'assurdo. All'imprenditore, infatti, è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. Insomma, per errore ha scritto sullo scontrino appena 10 centesimi di caffè in meno. E così è arrivata la mannaia del Fisco. Forse l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza pensavano che per colpa di quei 10 centesimi dichiarati i conti dello Stato sarebbero andati in malora. Karis, da parte sua, prova a instaurare una battaglia contro i mulini a vento. Si è difeso, spiegando di aver premuto per errore il tasto “caffè” (1 euro) della cassa al posto di “decaffeinato” (1,10 euro). Niente da fare. I finanzieri hanno scritto il verbale, facendo scattare la multa contro il commerciante. Infatti, se l’Agenzia delle Entrate deciderà di punire fino in fondo, il titolare del bar rischia la sospensione della licenza, sanzione amministrativa di 516 euro e l'obbligo di chiusura del negozio. Su Facebook il titolare del bar ha pubblicato la foto del verbale, corredata da un commento amaro in dialetto veneto: "Verbale della finanza perché go battudo un scontrin de 1€ invece che 1,10 € perché el caffè iera deca. Ma con quel che succedi in sto Paese, vendo bar per due euro e vado via da questo Paese di merda". Una comprensibile reazione alla follia fiscale.

Fisco. Rapine in corso ed estorsione legalizzata. Inchiesta sulla mafia di Stato di Riccardo Trombetta su “Striscia la Notizia” di Canale 5 su Mediaset del 12 febbraio e 8,9,11,14,16,17 marzo 2016 e l’Inchiesta di Nicola Porro su Virus di Rai 2 del 17 marzo 2016.

Art. 416 bis c.p.: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.” INTIMIDAZIONE ED ASSOGGETTAMENTO. L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti".

IN UN PAESE NORMALE CON QUESTA INCHIESTA SAREBBE NATA UNA RIVOLUZIONE. IN ITALIA NULLA. PERCHE’ UN POPOLO DI COGLIONI SARA’ SEMPRE GOVERNATO, AMMINISTRATO, GIUDICATO DA COGLIONI.

A Striscia la notizia parla un funzionario dell'Agenzia delle Entrate sugli avvisi illegittimi. "La sera del 17 marzo 2016 a Striscia la notizia va in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia", scrive in una nota Mediaset. "Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40) andrà in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia" annuncia con un comunicato Mediaset. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto il funzionario ai microfoni dell'inviato Riccardo Trombetta, e ha aggiunto: «Voglio spiegarvi come funziona questo sistema, che è un sistema a discapito del cittadino. Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita. Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell'interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno. Pensano alle loro tasche, non a quelle dei cittadini». Inoltre, il testimone conferma che il mercanteggiare fa parte del sistema: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta»" rivela ancora la fonte di Striscia la notizia.

L'uomo del fisco si sputtana in diretta tv: se comprate una casa siete rovinati, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano” il 18 marzo 2016. A Rossella Orlandi, direttrice della Agenzia delle Entrate, piace il cinema. Tutti abbiamo potuto ammirarla mentre si calava nei panni del malvagio Darth Vader e si esibiva in una minacciosa citazione di Star Wars: «Chi non ha risposto ad un approccio collaborativo, conoscerà il lato oscuro dell'accertamento». Però a Rosella Orlandi piace un po' meno la televisione. Specie quando trasmette programmi che raccontano il «lato oscuro» del Fisco. E infatti, pochi giorni fa, l'Agenzia delle entrate ha emesso un comunicato in cui spiegava di stare «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali» nei confronti di Striscia la notizia. Da qualche settimana, il tg satirico di Antonio Ricci manda in onda servizi che raccontano le vicende di alcuni malcapitati a cui l'Agenzia ha indirizzato multe e sanzioni per migliaia di euro. Guardandoli con attenzione, se ne deduce che il Fisco non mostra il suo «lato oscuro» soltanto con chi fa il furbo, ma pure con chi segue le regole e, sulla carta, non avrebbe nulla da temere. L' aspetto più odioso della faccenda consiste nel fatto che, molto spesso, ci sono di mezzo immobili, dunque case o uffici acquistati dai cittadini a prezzo di sacrifici. L' inviato di Striscia Riccardo Trombetta ha intervistato varie persone a cui è capitata la stessa cosa: dopo l'acquisto di un terreno o di un locale, i poveretti si sono visti recapitare dall' Agenzia delle entrate un avviso con annessa sanzione, piuttosto salata per giunta. Facciamo un esempio. Uno degli intervistati ha spiegato di aver comprato un locale, pagandolo 210 mila euro, per farne una piccola palestra di yoga. Non passa molto tempo, ed ecco che arriva la comunicazione del Fisco, in cui si dice che - in base alle valutazioni dell'Agenzia delle entrate - il valore dell'immobile è in realtà di 313 mila euro e rotti. Segue multa di circa 20 mila euro. Stessa cosa per il proprietario di un terreno: lo ha pagato 35 mila euro, ma l'Agenzia gli ha attribuito un valore undici volte superiore: multa di 84 mila euro. Il problema, però, è proprio la valutazione del Fisco. Tutti gli intervistati spiegano che l'Agenzia delle entrate non ha effettuato sopralluoghi, dunque i funzionari hanno valutato case e terreni senza vederli. In alcuni casi, sui documenti ufficiali, hanno persino sbagliato gli indirizzi. Come hanno fatto a stabilirne il prezzo, allora? Semplice, hanno paragonato i terreni e gli immobili ad altri con un valore di mercato più alto. La sensazione, espressa da alcuni degli intervistati da Striscia, è che il Fisco abbia volutamente sopravvalutato locali e terreni per poter emettere una sanzione, contando sul fatto che - per non avere guai - i cittadini avrebbero pagato. «Poiché ho protestato», ha spiegato uno dei poveretti, «ho avuto la sensazione che mi facessero uno sconto». Di fronte a tutte queste testimonianze raccolte da Striscia, il «Fisco amico» della Orlandi che fa? Manda un comunicato in cui ventila azioni legali. Alla faccia della collaborazione. Peccato che, ieri sera, il tg satirico abbia mandato in onda una testimonianza eloquente. Un funzionario dell'Agenzia delle entrate, a volto coperto, ha rilasciato un'intervista all' inviato Trombetta. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto. Poi ha spiegato come funziona il sistema: «Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita», ha raccontato. «Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell' interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno». Inoltre, il funzionario ha confermato il mercanteggiamento sulle multe da pagare: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta». Capito? Il Fisco sovrastima le case e i terreni acquistati dagli italiani, e propone una sanzione pesante. Poi, quando il cittadino si presenta, la abbassa, mostrandosi «collaborativo», e convincendo i più ad aprire il portafogli e a pagare una multa che non si meritano. A questo punto, dopo il pagamento dell'ingiusta sanzione, l'Agenzia potrebbe consegnare ai cittadini una bella ricevuta con scritto: «Benvenuti nel lato oscuro». Se proprio bisogna prendere in giro la gente, lo si faccia fino in fondo.

Le Entrate attaccano «Striscia la notizia»: minacciati dipendenti, scrive Libero il 16 Mar 2016. Striscia la notizia denuncia l’approssimazione con la quale Agenzia dell’Entrate consegna ai contribuenti accertamenti fiscali, e l’anagrafe tributaria se la prende con la banda di Antonio Ricci. L’Agenzia delle Entrate ha infatti condannato «con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori» del servizio “Rapine in corso”, andato in onda lunedì 14 sera su Canale 5. Non solo l’Agenzia delle Entrate ha anche annunciato che sta «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti». L’anagrafe tributaria punta il dito non tanto sui contenuti, gli eventuali errori nell’erogare cartelle, quanto sui toni di Striscia. In particolare, sottolineano in una nota, «le espressioni utilizzate durante il servizio (...)sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale».

L’Agenzia delle Entrate condanna fortemente Striscia la Notizia. Pubblicato un comunicato in cui l'Agenzia condanna i toni utilizzati dal programma di Canale 5 nella puntata del 14 marzo di "Rapine in corso", scrive Marco Napoletano il 15 marzo 2016. Una cosa è certa, Striscia la Notizia ha infastidito e non poco, l’Agenzia delle Entrate. L’ha infastidita al punto da far diramare un comunicato stampa di ferma condanna nei confronti della trasmissione di Canale 5 diretta da Antonio Ricci rea, secondo il comunicato, di aver utilizzato espressioni lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate ma soprattutto intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Tutto nasce dai servizi di Striscia realizzati da Riccardo Trombetta e denominati “Rapine in corso” nei quali, il conduttore, si sofferma su presunte pratiche dell’Agenzia delle Entrate, non cristalline nella valutazione di immobili acquistati dai contribuenti definendole addirittura “estorsioni legalizzate”. Il comunicato è stato diramato oggi 15 marzo in relazione, nello specifico, alla puntata del 14 marzo di Striscia la Notizia. Nel servizio, l’Agenzia delle Entrate viene accusata di effettuare valutazioni sul valore di un terreno senza fare i dovuti sopralluoghi e quindi, incrementare il suddetto valore di circa 11 volte il valore di acquisto imponendo quindi una sanzione all’acquirente. Nel comunicato l’Agenzia precisa che il programma televisivo non ha mai chiesto di poter verificare la correttezza delle affermazioni riportate rendendo quindi impossibile riscontrare se vi siano errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale. A far infuriare ulteriormente le Entrate è stato l’accostamento dei propri funzionari al personaggio di Marlon Brando interpretato ne “Il Padrino” facendo quindi alludere ad un atteggiamento mafioso della stessa Agenzia superando, secondo il comunicato, il limite del buon gusto e del rispetto delle istituzioni. L’Agenzia delle Entrate si riserva quindi la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti.

Roma, 15 mar. (AdnKronos) - L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda ieri sera all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti". In particolare, sottolinea in una nota, "le espressioni utilizzate durante il servizio, come ad esempio “trovare l’indirizzo del funzionario che ha firmato e bruciargli la casa”, sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Riteniamo, altresì, che l’accostamento del comportamento dei nostri funzionari alla condotta mafiosa del personaggio del film 'Il Padrino', del quale viene trasmesso un estratto modificato, per alludere ad un atteggiamento vessatorio dell’Agenzia, abbia superato il limite del buon gusto e del rispetto delle Istituzioni". Nel merito dei casi trattati, sottolinea l'Agenzia delle Entrate, "va sottolineato che la redazione di Striscia la Notizia non ha mai chiesto all’Agenzia delle Entrate di poter verificare la correttezza e la genuinità delle affermazioni riportate nel citato servizio, rendendo impossibile a questa Amministrazione poter riscontrare se vi sono errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale". "Riaffermare nel sistema Paese, tempestivamente e con ogni lecito mezzo, la mission e il ruolo di migliaia di funzionari, che altro non chiedono che di lavorare con serenità, soddisfazione, adeguata remunerazione, prestigio e, quindi, legittimazione sociale". Questo l'auspicio di Sebastiano Callipo, segretario generale del Confsal Salfi, sindacato autonomo dei lavoratori finanziari, in una lettera inviata al direttore dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Il leader sindacale prende atto, con soddisfazione, "del comunicato stampa, diramato dall'Agenzia, sul merito del servizio 'Rapine in corso', in quanto esistevano ed esistono, da un lato, sufficienti motivazioni per stigmatizzare apertamente il comportamento dei responsabili del servizio televisivo in narrativa e, dall’altro, ampie quanto diffuse ragioni per sostenere, anche con siffatta tipologia comunicativa, l’onorabilità delle lavoratrici e dei lavoratori dell’Agenzia delle Entrate".

Dall'altra parte c'è il grande fallimento di Riscossione Sicilia. Spese esagerate, lussi incomprensibili, contrasti politici e casse vuote: il crac dell'ente siciliano preposto alla riscossione delle tasse, scrive "Panorama" il 18 gennaio 2016. Un aereo da 12 milioni di euro è rimasto fermo per quattro anni all'interno di un hangar dell’aeroporto di Catania. Apparteneva a una signora che gestiva un bar a Maletto, un paesino della provincia etnea. È stato pignorato pochi mesi fa. La proprietaria aveva eluso il fisco per centinaia di migliaia di euro. La storia della riscossione in Sicilia è anche questa. È storia pirandelliana di paradossi e abusi. Di follie e mafia. Di patrimoni ed evasioni allo stesso modo enormi. Oggi, a riscuotere le tasse nell’Isola è un'azienda che ha come socio al 99,9 per cento la Regione siciliana. Si chiama Riscossione Sicilia. Ma l’ironia è già nel nome. Perché questa agenzia di riscossione non riscuote granché. Anzi. I numeri sono deprimenti. Nel 2014, a fronte di 5,7 miliardi da incassare, la Sicilia ha portato nelle sue casse appena 481 milioni. L’otto per cento. Per i redditi più alti, quelli superiori a 500 mila euro, la quota era ancora più bassa: il 3,66 per cento. Cifre un poco migliorate nell’ultimo anno. Ma ancora imbarazzanti. Eppure per il presidente della Regione Rosario Crocetta quell’azienda è un fiore all’occhiello. È uno degli ultimi baluardi di un autonomismo che oggi, dati alla mano, pare quantomeno anacronistico. «La Lega Nord pagherebbe per avere un gabelliere tutto suo» ripete il governatore. Nella maggior parte delle Regioni d’Italia, in effetti, a svolgere quelle funzioni è Equitalia: una società certamente non amata dai contribuenti ma che, quantomeno, grazie anche ai contributi statali riesce a stare in piedi senza denunciare perdite. E verso la quale in tanti, anche nell’isola, iniziano a guardare, in vista di un possibile trasferimento delle funzioni dell'agente di riscossione siciliano. In Riscossione Sicilia lavorano 702 persone, in bilico da quando l’assemblea regionale siciliana ha negato la ricapitalizzazione dell’azienda: 2,5 milioni, questa la richiesta giunta a Natale dal governo Crocetta ai deputati siciliani, per mantenere in piedi una società che ha eroso ormai completamente il capitale. Ma che nonostante ciò si appresta a erogare premi ai dipendenti per un totale di 7 milioni di euro. Somme frutto di un accordo sindacale di un paio d’anni fa e mai rispettato. Parte del consiglio d’amministrazione, però, si è messo di traverso, bloccando per il momento quei bonus. Oggi, infatti, nelle casse della società non c'è un euro, malgrado nel 2014 a Riscossione fosse stato assicurato un altro contributo pubblico di 40 milioni. L’agente di riscossione siciliano, insomma, è praticamente fallito. «Non mi resta che portare i libri in tribunale» ha tuonato infatti a fine dicembre il presidente dell’azienda, l’avvocato catanese Antonio Fiumefreddo, dopo il no alla ricapitalizzazione del consiglio regionale. L'amministratore ha poi accusato gli stessi deputati siciliani che avevano bocciato il contributo: «Sono mascalzoni travestiti da esponenti delle istituzioni» ha detto Fiumefreddo, che a sua volta ha un passato politico assai variopinto, prima a fianco del sindaco berlusconiano Raffaele Stancanelli, poi del governatore Raffaele Lombardo condannato in primo grado per associazione mafiosa. Fiumefreddo è entrato da tempo nelle grazie di Crocetta. Il presidente della Regione ha provato più volte a nominare Fiumefreddo assessore della sua giunta. Ma si è sempre dovuto scontrare col veto dei partiti della sua coalizione, Pd in testa. E il presidente di Riscossione, a dire il vero, non ha fatto nulla per farsi amare dai politici siciliani. Anzi, si è beccato anche una querela per diffamazione dall’assemblea regionale proprio per le sue parole. Non solo «mascalzoni», ma anche «pirati». Fiumefreddo, che ha anche chiesto di essere ascoltato in Procura a Palermo, ha denunciato: «Non mi meraviglierei se tra i pirati, che si sono nascosti dietro il voto segreto (per negare la ricapitalizzazione i Riscossione Sicilia, ndr), ci siano parte dei 61 parlamentari ai quali per la prima volta nella storia abbiamo notificato i pignoramenti delle loro laute indennità». Insomma, su 90 consiglieri regionali, secondo Fiumefreddo 61 sarebbero stati pignorarti per inadempienze fiscali. Pochi giorni dopo, ecco saltare fuori una lista dei politici «morosi». Tra questi, anche il presidente Crocetta che aveva chiesto la rateizzazione del suo debito. Mentre molti deputati replicavano: «Da Fiumefreddo solo slogan e offese al parlamento. Pensi a far funzionare la società: non si può pensare di regalare all'azienda ogni anno milioni di euro». Così la guerra tra Riscossione e consiglio regionale è finita in tribunale. Un destino già scritto, in un certo senso, per una società che fino a pochi mesi fa poteva contare sulla bellezza di 887 avvocati, il triplo di quelli a disposizione della Casa bianca. Legali «scelti clientelarmente» ha denunciato Fiumefreddo. Quegli incarichi sono poi stati azzerati. Ma sono il segno di un’azienda azzoppata da sprechi e inefficienze. Come quelle relative alle spese per le sedi sparse per tutta l’isola. La società, per esempio, ha pagato fino a pochi mesi fa un contratto d’affitto da quasi mezzo milione l’anno in uno dei più piccoli capoluoghi dell’Isola, cioè Ragusa. Spese esagerate, lussi incomprensibili e strumenti tecnologici obsoleti. Ingredienti che hanno portato al dissesto. Che eppure nell’ultimo anno ha dato segnali di risveglio con una crescita del riscosso del 31 per cento e anche con alcune azioni clamorose. Come le decine di pignorare d’auto di lusso in possesso a grandi evasori fiscali. «In Sicilia» ha spiegato Fiumefreddo «a causa di elusioni fiscali o mancato versamento di imposte andrebbero pignorate 230 mila automobili». Riscossione si è limitata a sequestrarne un migliaio. Tra cui 116 Porsche, 46 Jaguar, 33 Ferrari e tre Cadillac. In quell’occasione, è stato pignorato anche l’aereo da turismo della barista di Maletto. Ma non basta. Anche perché l’impotenza della società di Riscossione si traduce nei dati sull’evasione fiscale nell’Isola, di gran lunga più elevati rispetto alla media nazionale. È questo il risultato di anni in cui la riscossione in Sicilia è stata terra di abusi e sprechi, di ingenti e repentine ricchezze ma anche di ombre e malaffare. A cominciare dagli anni in cui a gestire l’esattoria a Palermo e in 75 Comuni siciliani erano i cugini Nino e Ignazio Salvo, imprenditori di Salemi, paesino del Trapanese, legati a Cosa nostra. Non a caso entrambi finirono sul banco degli imputati del Maxiprocesso: Nino morì prima della sentenza, mentre Ignazio fu condannato a tre anni di reclusione. Negli anni novanta, arriva la Montepaschi-Serit, società che fa capo all’Istituto di credito. Nel 2010 la Regione siciliana acquista le quote in possesso a Monte dei Paschi di Siena con un’operazione su cui restano molti dubbi, soprattutto per il valore attribuito alle quote dei privati: la Regione siciliana pagò circa 400 milioni di euro, un prezzo «assolutamente esoso» denuncia Fiumefreddo: «Ma la cosa più grave» aggiunge «è che non l’ha deciso nessuno, anzi l’ha deciso chi vendeva». Ombre del passato su una società che oggi affonda. Eppure, nonostante le difficoltà, il riscossore fa sempre paura. Ne sa qualcosa il deputato regionale Michele Cimino, che in un’audizione in Commissione bilancio all’Ars, dopo la diffusione dei primi nomi di parlamentari morosi è intervenuto per precisare che «c’è anche un Cimino Michele nato a Trento. Io» ha spiegato «sono nato a Porto Empedocle e non ho 70 anni». È di Porto Empedocle, precisa il deputato: un paese a due passi dalla casa di Luigi Pirandello. Dalla sua penna sembra uscita la storia di Riscossione Sicilia, che non riscuote mai.

"L'Agenzia delle Entrate fa estorsioni": la confessione choc dell'ex dirigente, scrive “Libero Quotidiano” il 31 marzo 2016. A Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40 30 marzo 2016) la testimonianza di Luciano Dissegna che, per 30 anni, è stato dirigente e funzionario dell’Agenzia delle Entrate. Dissegna si è detto “sbalordito” per i servizi mandati in onda da Striscia nelle scorse settimane: "Finalmente un organo di informazione che dice la verità", ha dichiarato all’inviato Riccardo Trombetta. "I dirigenti hanno sempre fatto carriera in base al cosiddetto obiettivo monetario", racconta l'uomo, "più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi. Credo che, a fine anno, i dirigenti più grossi portino a casa anche 70-80mila euro in più". I cittadini più colpiti dagli accertamenti, ha spiegato l’ex dirigente, sono i piccoli imprenditori: "Arriva un avviso d’accertamento da 100mila euro e, davanti alla proposta di pagarne metà, ci si trova costretti a pagare. Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi. È una situazione di potere provocata da accertamenti presuntivi e discrezionali: dietro la discrezionalità c’è la corruzione. Sono andato via perché non potevo accettare questa situazione e anche perché rischiavo molto grosso. Mettersi contro l’amministrazione è pericoloso".

CLEPTOMANIA E CLEPTOFILIA NEL REGIME FINANZIARIO DELLA UNIONE EUROPEA E ITALIANO. Saggio di Manlio Tummolo. Il presente lavoro è dedicato a tutti i cittadini, lavoratori, contribuenti e consumatori, europei e italiani. Molti studiosi di economia e di scienza delle finanze, di fronte alla disastrosa situazione europea e italiana degli ultimi decenni si arrampicano su scivolosissimi specchi nel tentativo di spiegarla con le solite tradizionali dottrine d’impronta liberista che hanno dimostrato il loro insignificante vuoto almeno dal 1929. Viceversa, è ben più utile cercar di capire la crisi nelle sue reali ragioni in un libro di Mario Giordano, “L’Unione fa la truffa”, pubblicato da Mondadori già nel 2001 col sottotitolo “Tutto quello che vi hanno nascosto sull’Europa”. Eppure le radici di tutto questo sono ben lontane, almeno fin dal 1972, quando fu inventata l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) e creato il nuovo sistema fiscale col relativo Testo Unico delle Imposte sul Reddito (TUIR), di cui noi italiani abbiamo ben due versioni: una “previgente” (ma non del tutto abrogata) e l’altra vigente... pur significando in lingua italiana “unico” come ciò che è solo ed esclusivo (nondimeno questo aggettivo viene usato per imposte - cfr. IMU - tutt’altro che uniche). Allora si passò dalla vecchia Dichiarazione Vanoni, piuttosto semplice, all'attuale IRPEF - sempre più complicata allo scopo di spennare il popolo in modo crescentemente feroce.

Un sano sistema fiscale deve essere fondato: 

1) sulle reali esigenze di uno Stato, correlate alle effettive risorse della popolazione di quello stesso Stato;

2) sulla proporzione diretta o crescente tra i beni dei singoli e la serie di tributi, diretti e indiretti, che su di essi grava;

3) sulla semplicità e chiarezza delle procedure necessarie a pagare quei tributi;

4) sul buon uso che lo Stato dovrebbe fare della massa di introiti ricevuti dalla popolazione soggetta al fisco.

Viceversa, non occorre essere un esperto in materia finanziaria e fiscale per verificare che il nostro sistema fiscale è esattamente all'opposto perché non corrisponde alle esigenze dello Stato, non tiene conto delle reali risorse della popolazione, non è né direttamente né in modo progressivo proporzionato ai beni dei singoli, non utilizza procedure chiare e limpide, ma semmai estremamente contorte fin dai termini stessi adoperati (l’aggettivo “unico” ne è un manifesto esempio), non utilizza i propri introiti per il bene della popolazione ma li spreca nell'alimentare ogni genere di parassitismo, premiando il crimine piuttosto che l’onestà. Si parla e si straparla assai spesso di “paradisi fiscali” e di “evasione fiscale”, ma assai poco di “inferni fiscali” e di “invasione fiscale”, come - ahi, ahi, ahi noi !!! - si verificano nella UE (che vorrebbe dire Unione Europea”, ma va specificato che non è un’unione di cittadini bensì un’aggregazione di affaristi e imbroglioni capaci solo di sfruttare parassitariamente la pazienza dei cittadini sotto lo scudo di ideali pretestuosi). Troppo spesso si sente parlare della necessità di “più Europa”, mentre non si tratta di accrescere né i già troppi poteri affidati a chi non è neppure eletto (commissari e consiglieri europei), ma nominato dagli sgoverni degli Stati, né aumentare il numero degli Stati aderenti sulla base poi solo del cosiddetto PIL. Viceversa, si tratta di creare un’Europa vera, autentica, migliore, nella quale non si cede la sovranità ad un’accozzaglia di nullafacenti e complici di trafficanti, ma di condividere pienamente ed egualitariamente una sovranità europea. E cominciamo pure dalla stessa “imposta sul valore aggiunto”, nata nel 1972, che è ben un’imposta aggiunta alle altre indirette, ma il “valore aggiunto” qual è?  Dove si trova?  Di che si tratta?  Durante le lezioni universitarie di Diritto   Tributario, docenti e ricercatori ben si sforzano di chiarire agli attoniti studenti che non è un’imposta a “cascata”, come la vecchia IGE (Imposta Generale sulle Entrate), ovvero che si ripercuote su  tutti i livelli di esazione, e credono di aver detto una cosa intelligente, dimenticando però che la vecchia IGE era piuttosto bassa (il 3 %, suppergiù) e che per la sua piccolezza si risentiva relativamente, ma che anche l’IVA è a cascata, con questa differenza che, dal produttore all’ultimo consumatore,  si paga un’IVA crescente man mano  che il prodotto nei vari gradi di vendita aumenta di prezzo, e che chi la paga è l’ultimo fesso della scala economica, che non avendo partita IVA, non può scaricarla su nessuno, nemmeno, come sarebbe equo,  sulla propria dichiarazione dei redditi.  Non solo: ma l’aliquota IVA è ben più alta di quella IGE. Che si fa poi di questi introiti? Una bella parte di essi serve a mantenere i capricci della Commissione UE e dei Consigli associati, i suoi lussi e, quando essa vuole, ridistribuita su canali fissi, preventivi, arbitrari, tanto nessuno ha il reale potere di farli modificare: altro che il famoso principio anglosassone del “senza rappresentanza, nessuna tassazione”, che fu causa delle due Rivoluzioni Inglesi, di quella Americana e, in parte, della Rivoluzione Francese. Ma torniamo al “valore aggiunto”: dov’è, dove si trova, chi lo determina?  In che cosa consiste?  Nessuno ve lo sa dire, perché il valore di un prodotto o servizio risulta solo quello che viene ceduto a chi lo acquista, lo consuma o lo utilizza, o se preferite quello di chi lo paga di passaggio in passaggio. L’uso poi di questi introiti è assolutamente negativo ed incontrollabile, e lo verifichiamo, perché largamente e spropositatamente dato agli Stati che aderiscono per ultimi alla UE, mentre quelli che pagano da decenni (dal 1957, per intenderci) ricevono molto meno di quanto dato, e larga parte è persa in strani meandri (vedi la nostra beata Italia). Altra questione: dal linguaggio economico, che non brilla mai per chiarezza, si parla tanto del Prodotto Interno Lordo (PIL), come base di calcolo a cui riferire il debito pubblico di uno Stato: ma anche questo che diavolo significa?  Un lordo presuppone altresì un netto ed una tara: or dove sono il prodotto interno netto e il prodotto interno tarato? Mah, misteri e giochetti su termini che non hanno alcun significato esatto, tanto è vero che oggi - su indicazione della UE e della sua impareggiabile Commissione - vengono calcolati ad libitum o ad oculum anche i prodotti del tutto incalcolabili della criminalità, così come ad oculum si calcola l’evasione fiscale (lo Stato si aspetta, del tutto fantasiosamente, di guadagnare dalle imposte 100; ne riceve 50. Ecco che si mette a gridare: abbiamo il 50 % di evasione fiscale. Che ciò sia soltanto una disinvolta approssimazione è dimostrato quando, in conclusione di un contenzioso tributario, deve accontentarsi - specie con i ricconi che possono difendersi - del solo 30 % del preventivato, e allora canta vittoria). A parte il fatto indecente di considerare la criminalità  una fonte di reddito per lo Stato (invece di combatterla per annientarla o almeno per ridurla ad un termine minimo), nell’economia in versione UE, la morale non vale, ma evidentemente neppure il Diritto:  per definizione introiti illeciti e non denunciati sono incalcolabili, e quindi non vanno calcolati neppure per approssimazione, senza creare l’illusione di essere più ricchi del reale (è pur vero che le attività criminali generano, per chi le pratica, ricchezza,  ma questa non circola nello Stato in generale, bensì nell’ambito criminale, come in un cerchio quasi interamente chiuso. Lo Stato ne viene danneggiato, non favorito: di qui l’esigenza, non solo etico-giuridica, ma economica, di combattere la criminalità con ogni mezzo).  Ora, il punto è questo: uno Stato o Unione, che “legalizzi o formalizzi” l’attività criminale come PIL, non fa altro che manifestare la propria affinità e simpatia col crimine stesso, considerandolo un fenomeno fisiologico, invece che patologico, qualcosa di benefico anziché, come dovrebbe, di venefico e maledetto. Quanto all’Italia, il discorso è ben lungo e meriterebbe un’enciclopedia, a molti volumi, e non certo un singolo libro: data dall’intera storia italiana e potremmo risalire alla Repubblica Romana e ai suoi pubblicani.  Leggendo la “Vita di Lucullo” in Plutarco ed altri testi del tempo, scopriremmo i metodi di esazione feroci utilizzati da quel regime, e poi imitati in forme più o meno attenuate anche ai nostri tempi.  Del resto, dalle XII Tavole si sa che i creditori avevano anticamente il diritto di fare a pezzi letteralmente il loro debitore moroso, doloso o colposo che fosse. Poi ci si accorse che era più conveniente spogliarlo d’ogni bene, renderlo schiavo con l’intera famiglia, e considerarlo un oggetto. Non è che oggi la mentalità sia molto diversa, malgrado conclamate garanzie.  Ma di ciò più avanti.  E’ dunque almeno da duemila anni che si preferisce, per avidità, ricevere alla fine poco, non facilitando al debitore la possibilità di pagare decentemente il suo debito.  E come, vi domanderete?   Semplicemente non calcolando in modo assurdo e sproporzionato gli interessi attribuiti al debito (ben superiori a quelli sul credito, detto di passaggio), bensì dando all’interesse una diretta proporzione col costo della vita effettivo.  Chiunque legga studiosi italiani di politica fiscale, almeno dal XIX secolo e particolarmente dall’unità d’Italia vede che tali autori segnalarono fin da allora la costante esosità delle imposte, sia per volume complessivo e individuale delle stesse, sia per le procedure di esazione, sia infine per il pessimo uso delle stesse.   Per tutte queste ragioni, il cittadino italiano sente atavicamente, geneticamente, come odioso ed inaccettabile il sistema fiscale che grava su di lui. La propaganda di regime e giornalistica (serva della prima) giustifica l’enorme cumulo fiscale col pretesto del debito pubblico, ma per nulla cerca di spiegarne l’origine, anzi, per soprammercato, usa la frase tipica “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”, senza per nulla dire chi realmente “viva al di sopra delle sue possibilità”. Di certo, non il normale cittadino, lavoratore, pensionato, contribuente e consumatore, semmai oberato da questo peso insostenibile. Ma che cos’è il debito pubblico, donde nasce storicamente? Secoli fa, ancora nel Medioevo, il reuccio, il feudatario, il signorotto, ecc. ecc., non avendo cognizione alcuna di un’economia e di una finanza ben regolate, di un sistema fiscale adeguato alle risorse esistenti, si facevano prestare dalle prime banche (italiane e tedesche soprattutto) ingenti somme per i loro rispettivi capricci: una vita di corte sfarzosa, mantenimento di cortigiane e cortigiani, guerre e guerricciole, crociate, ecc. ecc.  Quando il sistema di gabelle imposto ai sudditi non bastava a pagare i banchieri creditori, i vari sovrani (Francia ed Inghilterra soprattutto) finivano per non pagarli affatto: da qui, le prime crisi bancarie della storia (specie delle banche fiorentine nel XV secolo). In caso “positivo” di solvibilità, erano i sudditi a dover pagare con sistemi forzosi, che però non consentivano l’attivazione di servizi per il pubblico interesse. Malgrado la Rivoluzione Francese avesse cercato di impostare la questione fiscale nei termini razionalisti dell’Illuminismo, il debito pubblico continuò, perché i vari malgoverni e sgoverni d’Europa, invece di creare un sistema fiscale chiaro e facilmente verificabile dai cittadini da utilizzare secondo le esigenze di uno Stato moderno (servizi pubblici), preferivano avere un sistema d’entrate incontrollato ed incontrollabile,  ma più comodo o “soft” (per dirla all’inglese), fondato su un atto volontario, distribuendo carta straccia come titolo ad interesse, così l’affarista versava volontariamente denaro allo Stato, in cambio di un interesse significativo nell’anno. Lo Stato a sua volta, senza dover rendere conto di quanto entrava volontariamente al resto dei cittadini (facendone un uso voluttuario come gli antichi signorotti), pagava e paga gli interessi agli affaristi facendoli incidere sul sistema di imposte. Così, per non essere “impopolari” con un sistema fiscale diretto, severo ma equo, facevano e fanno pagare al popolo questi onerosi interessi, come se il Debito pubblico fosse a vantaggio non di pochi, ma di tutti (basti pensare al buon Mario Monti quando asseriva non pagabili le pensioni con la storia dello spread: oggi sappiamo che tutta quella vergognosa manfrina serviva solo a spremere i contribuenti italiani che già dal 1973/74 hanno visto ridurre sempre più le proprie condizioni economiche per dover pagare i frutti delle speculazioni finanziarie o gli abusi del malgoverno). Il popolo è costretto a pagare, ma non sa né quanto paga, né esattamente perché paga: si pensi ad es., all’automobilista quando si reca a caricare di carburante il proprio serbatoio. In realtà, quando crede di compiere questo fatto privato, egli versa allo Stato da 2/3 a 3/4 di imposte al benzinaio, che così diventa un esattore d’imposta. Non sono i normali cittadini, lavoratori e pensionati, a vivere al di sopra delle loro possibilità, ma esclusivamente i dirigenti politici ed amministrativi dello Stato, i grandi managers delle varie aziende private o semi-pubbliche, certi signori dello sport e delle canzonette, gli acquirenti di titoli pubblici o privati. Generalmente si riconosce l’enorme divario tra i pochi ricchi e i molti poveri, ma la cosa, in regime capitalistico, viene considerata normale e lodevole, anzi si fa di tutto per incrementare (alla faccia della Costituzione e di varie leggi) tali abissali differenze, sicché 10 mangiano per 1000 e 990 devono mangiare quel che resta, come nella celebre favola della guerra del leone con i suoi “alleati” (il non meno celebre patto leonino, pur vietato dal Codice Civile). Biancaneve, nella fiaba, si fa un piattino portando via un cucchiaio dal piatto di ciascuno dei sette nani. Costoro, invece, prendono l’intero piatto, lasciando a tutti gli altri solo un cucchiaio. Pure hanno il coraggio, o meglio l’impudenza, di chiamare tutto ciò “democrazia”… La cosa tristissima è che i normali cittadini si fanno incantare dalla pubblicità del regime e accettano pure essi questo andazzo, ritenendolo fisiologico, corretto e “democratico”.  Fino agli inizi del ‘900, quando venivano imposti nuovi tributi sulle farine o altro genere necessario, la gente si ribellava (pensiamo ai Fasci Siciliani),  scatenava vere insurrezioni, e, pur riconoscendo che allora i poveri vivevano solo di pane o poco più mentre oggi ancora non siamo a tal punto (ma non ne siamo chissà che distanti), la popolazione contribuente lascia fare, non c’è neppure una rilevante protesta elettorale che richiederebbe agli elettori di evitare il voto, come solenne protesta; non si organizzano forti manifestazioni di piazza, ecc. ecc. . Il quietismo domina sovrano, provocato quasi sempre dal rincitrullimento collettivo (si protesta con violenza per una partita di calcio ma su cose essenziali ci si rassegna pecorescamente). L’ira si accumula ugualmente, ma si sfoga come tra i quattro capponi di Renzo, beccandosi a vicenda o uccidendosi, mentre i responsabili dei mali collettivi si divertono allegramente.  Fino a quando questo gioco durerà?  E’ difficile prevederlo: anche domani mattina potrebbe scoppiare qualcosa, oppure di qui a mille anni.  Di certo, come la storia insegna, più tardi esploderà la situazione, e più violenta sarà. Finora ho parlato della cleptomania dello Stato, ovvero di quanto i vari regimi, per tradizione derubano i cittadini comuni.  Ora si tratta di esaminare, viceversa, la cleptofilia dei regimi oggi dominanti.  Tutti sanno che il furto, ovvero l’indebita appropriazione aperta o subdola di un bene al suo legittimo proprietario da parte d’un altro,  è  pratica vietata dal Codice Penale con determinate sanzioni, più o meno gravi, secondo le circostanze e la metodologia,  ma forse non tutti sanno che lo Stato e pure organismi privati  ritengono il furto, specie quello con destrezza e subdolo,  un vero merito, mentre viene considerato demerito per il cittadino che sia derubato in quanto poco furbo o poco attento ai suoi beni.  E’ una tradizione molto antica che risale almeno alle norme di Licurgo, a Sparta: infatti, come testimoniano gli storici greci, nell’antica Sparta non era punito il furto in sé, ma il fatto che il ladro si fosse fatto scoprire, poco importa se dal derubato stesso oppure da qualcun altro per conto del derubato. Chiunque di voi lettori sia stato derubato, sa quale sia l’aria di compatimento che ricevete quando denunciate un furto, il cui autore, come nei vecchi films di Totò, è sempre il “solito ignoto”. Poiché giustamente non posso denunciare un nome qualsiasi, rischiando per soprammercato di essere controdenunciato per calunnia o simulazione di reato, devo denunciare un ignoto. Ora, come mi sono sentito dire (ma lo sapevo già) in cancelleria del Tribunale di Trieste, è difficile trovare un ignoto per questo semplice paralogisma: chi è ignoto è sconosciuto, quindi non è perseguibile (si può perseguire, indagare il signore ignoto? Ovviamente no). Pertanto, la denuncia contro ignoti è automaticamente destinata ad essere archiviata in breve tempo. Ovviamente si tratta di paralogisma, soprattutto oggi, quando si sa ogni cosa che viene fatta da qualcuno. Esemplifico: vi viene rubata una tessera bancomat. Il ladro vi spoglia di ogni vostro versamento sempre allo stesso impianto per una serie di volte, finché il vostro deposito si dissolve. Ogni bancomat dovrebbe essere tutelato da una telecamera, che si accorge che lo stesso individuo a quelle ore, mentre voi siete da tutt’altra parte e lo potete dimostrare, fa come il birraio che versa le birre nei boccali. Ora, malgrado questa garanzia, il ladro può presentarsi col casco o celato da un cappuccio, non si fa scorgere il viso, quindi non è individuabile. Oppure, più semplicemente la telecamera non funziona o è mal orientata. Il furto tramite bancomat, specialmente se accompagnato da quello del codice, potrebbe essere evitato se, oltre al PIN, avesse registrato le impronte digitali o una fotografia del titolare, in modo che, se non è egli stesso ad utilizzarlo, il PIN non basterebbe ad estrarre il denaro. Così il ladro di bancomat (a proposito, qualcuno sa dirmi se, per caso, vengano venduti a privati rilevatori di bancomat nei portafogli, considerata la presenza di un elemento elettromagnetico nella tessera, peraltro di sola plastica?), non avendo quelle impronte o quella fisionomia, o non mostrando il viso, non potrebbe rubare assolutamente nulla: ma aspettiamo ulteriori progressi della tecnologia a scopo di antifurto, anche per combattere la clonazione di tali tessere, che io certo, ed altri cittadini,  non sappiamo come realizzare... ma c’è viceversa un certo numero di persone che ha le cognizioni tecniche per realizzarla. Che il regime poi abbia un occhio di riguardo per i ladri, lo si nota pure dal comportamento delle banche di fronte al derubato: la banca si proclama proprietaria della carta, ma, quando uno è derubato della stessa, se ne lava le mani, punendo anzi il derubato con ulteriori costi (sostituzione della carta e nuovo PIN). Per fatto giuridico, la banca potrebbe farsi parte lesa e parte civile (a processo iniziato), ma se ne guarda bene, malgrado il furto riguardi sì il denaro del cliente ma in quanto avviene per mezzo di un uso illegittimo della carta stessa, la banca compartecipa delle conseguenze del reato.  Invece, si limita a promettere di rendere al proprio cliente la somma derubata, se denunciata, ma poi non riconosce come furto quello che è un furto (o lo fa solo a certe condizioni, decise dalla banca stessa).  Ora, vediamo: il derubato è costretto ovviamente a denunciare il furto subito sia nei confronti della legge in generale, sia nei confronti della banca stessa.  Nel contempo, per quantificare il furto subito (nell’eventualità di un futuro risarcimento in seguito a processo), è anche costretto a disconoscere come proprio il prelievo di una certa somma in quel o quei giorni e a quelle ore: perché un furto può ben avere un autore ignoto, ma l’oggetto derubato deve essere chiaramente specificato, si tratti di denaro o di cose, sempre in funzione di un futuro e possibile processo. Questo disconoscimento deve avvenire sia davanti alle Forze dell’Ordine, sia alla banca stessa, che però se ne lava le mani, pur facendo riempire moduli con quello scopo e, quindi, facendo perdere tempo agli impiegati e al derubato, visto che, con un pretesto o l’altro, non accetta il disconoscimento, anzi ti infligge costi aggiuntivi. Eppure, alla banca quel pezzo di plastica magnetizzato non costa nulla, anzi ti viene dato per poter ridurre, con procedure automatiche, la quantità di personale necessario. Non so altrove, ma a Trieste la società locale dei trasporti urbani e la stessa amministrazione comunale, per ridurre l’inquinamento, ti consigliano o ti impongono di utilizzare il mezzo pubblico. Poi aggiungono, con avvisi, di far attenzione ai borseggiatori che, vedi caso, non vengono mai presi o, se presi, restano in carcere giusto il tempo minimo, per poi tornare a rubare subito dopo. Da un lato ti incoraggiano a salire sull’autobus, dall’altro ti invitano a stare attento ai borseggiatori come se questi avessero un qualche distintivo o segno di riconoscimento. Se vieni derubato in autobus la colpa non è attribuita al borseggiatore, ovviamente, e nemmeno alla società di trasporti che ha eliminato da decenni il vecchio caro bigliettaio e ridotto al minimo i controllori... è colpa del borseggiato che non stava attento ai suoi beni come se mettesse i soldi appesi al berretto con su scritto “prendetemi”, oppure il portafoglio in bella evidenza con la stessa scritta. E’ evidente che il borseggiatore sa bene il proprio mestiere e, riguardo ai bancomat, penso che abbia qualche apparecchietto rilevatore (ovviamente di invenzione americana) che segnala la presenza di una tessera magnetica tanto da andare a colpo sicuro nella tasca o nel/la borsetto/a di un passeggero, senza farsene minimamente accorgere (è il mio caso sull’autobus numero 29 della Trieste Trasporti, non particolarmente affollato, in data 8 luglio 2015 circa alle ore 11.30, mentre candidamente e del tutto serenamente parlavo con una mia ex-collega d’Università). Quando ci si accorge del furto, perché si cerca il portafoglio, può essere tardi e il ladro, tutto felice della sua pesca di beneficenza, va ad incassare il meritato guadagno. Ma, se qualcuno denunciasse la società di pubblico trasporto per connivenza con i borseggiatori o per mancata sorveglianza, o altra forma di favoreggiamento colposo o doloso, rischierebbe probabilmente di essere perseguito per calunnia. Del resto, chiunque abbia avuto esperienza di un furto in casa, sa come la legge sia molto severa con chi affronta il ladro, o violatore di domicilio, e lo malmena, per non parlare poi del caso che lo ferisca con arma da fuoco, lo insegua o che altro. Il ladro è, nell’attuale regime, una professione molto onorata, rispettata e tutelata. D’altronde che il sistema bancario abbia molte affinità, somiglianze e parentele con gli autori ignoti di furto, lo si nota bene negli ultimi decenni: ad esempio, confrontando gli interessi di credito del cliente con gli interessi di debito del cliente stesso, malgrado le deflazioni tanto declamate dal capo supremo della Banca Centrale Europea. Oppure, quando si tratta degli interessi su un debito qualunque (mutuo o fido che sia): logica vorrebbe che si calcolassero prima le rate da versare sul debito iniziale, poi i relativi interessi, anche perché l’inflazione, il costo della vita, ecc., non si possono calcolare con approssimazione a distanza di dieci, venti o trent’anni. Chi ha una certa età, sa bene come dal 1973/ 74, l’anno della grande crisi petrolifera, ad oggi, le mutazioni finanziarie sono state enormi, addirittura inimmaginabili: come dunque calcolare preventivamente gli interessi oltre i cinque anni? E nondimeno le banche fanno pagare prima del tutto o prevalentemente gli interessi, poi il debito originario. Così per pura avidità rischiano di perdere o perdono somme rilevanti. Inoltre il sistema è tale che non facilita l’assolvimento dei doveri di un debitore: come già ai tempi dei pubblicani di Roma antica, il debito si accumula in modo tale da rendere impossibile il pagarlo, e oggi - fortunatamente - non esiste la schiavitù, né il “diritto” di far a pezzi il debitore, tuttavia esiste il diritto di rovinarlo per il resto dei suoi anni, talvolta anche per cifre relativamente basse, che però - non pagate – provocano interessi di mora e sanzioni varie. Le carte di credito, ad es, sono un caso di questo genere: si parte da cifre non alte, ma, dati gli interessi notevoli (il 14 % e più in questi anni!!), si finisce per rendere quasi impossibile senza ulteriori traffici o penosi sacrifici il saldare completamente. Ne consegue che per una somma ricevuta di 7.000 euro si finisce per vederla raddoppiata o triplicata. Si può anche constatare come il cliente della banca sia penalizzato come creditore, visto che riceve pochi interessi e vede sfumare i suoi depositi da imposte fisse dello Stato o da strani e poco precisati servizi bancari, solo perché si tratta di conti correnti, tanto “correnti” che spariscono. Il sistema telematico, inoltre, consente, almeno dal 1993 (sgoverno Amato), di depredare i risparmiatori senza nemmeno farlo sapere o facendolo sapere in ritardo. Un altro caso più recente, dello sgoverno Berlusconi, è quello di far sparire i libretti cosiddetti dormienti (nel caso di persone molto anziane o di deceduti, i cui eredi non sappiano dell’esistenza di questi depositi, si vedono poi depredati senza pietà). Se il cliente di banca è debitore, è sempre danneggiato sia che paghi in anticipo, sia che paghi puntualmente o che paghi in ritardo. Tutto ciò è provocato essenzialmente dalla brama di lucro senza freni né proporzioni: il Codice Civile non fa distinzioni proporzionali, una scala gerarchica nell’attivo di una determinata attività economica. Tale indeterminatezza favorisce appunto ogni forma di avidità. A solo titolo esemplificativo propongo, viceversa, questa scala di valore quantitativo, tenendo conto tuttavia delle diverse attività economiche e della situazione inflattiva o deflattiva:

1) pareggio: quando i ricavi pareggiano i costi complessivi di una certa attività economica;

2) attivo o utile: quando tali ricavi sono superiori, di poco o tanto, ai costi complessivi;

3) profitto: quando l’attivo giunge al 30 - 40 % dei costi complessivi;

4) lucro: quando l’attivo supera il 30 – 40 % dei costi complessivi.

Ora, mentre il profitto è necessario per l’esistenza del produttore o conduttore di attività economiche consentendogli una vita agiata e, al tempo stesso, di reinvestire una parte dell’attivo nel progresso della propria attività, il lucro finisce per essere adoperato in cose superflue, se non per la corruzione di altri, limitando la circolazione della ricchezza in un ambito ben limitato. Uno Stato non è ricco quando al suo interno esistono pochi grandi ricchi, ma quando e perché la ricchezza è distribuita il più ampiamente e proporzionalmente possibile. Una moneta da un euro non vale di più perché investita in un certo ambito ristretto, ma perché circola in più mani e consente a più persone di acquistare più beni in un tempo più rapido: se essa giace in un cassetto o in una cassaforte, o se viene investita nell’illusione di averne due in un dato tempo, essa è meno utile alla collettività rispetto al suo inserimento in una veloce circolazione. Ci si chiederà: ma il risparmio? Il piccolo risparmio (quello di un bambino, ad es.)  ha un significato educativo, che gli consente di accumulare un certo numero di monete per comprarsi ciò che gli piace e non per sentir tintinnare il suo salvadanaio personale; il risparmio di un adulto è depositato in una banca che lo utilizza appunto per farlo circolare, e non per accumularlo nelle proprie casseforti utilizzando somme più o meno rilevanti per determinati investimenti. Viceversa, sappiamo bene che così non è, e la finanza diventa un sistema ladresco più o meno scoperto che finisce per danneggiare il normale risparmiatore (volontario o forzato che sia, come il lavoratore a cui vengono tolti i contributi per proteggere la sua vecchiaia o periodo post-lavorativo... che però si vede defraudato sia del capitale versato, sia degli interessi accumulati in decenni di lavoro e di deposito: perché questa è ciò che, con termine ambiguo e vago, ma prevalente, viene chiamato “pensione”, mentre si dovrebbe chiamare “rendita da capitale di lavoro a scopo previdenziale”). Un altro sistema di furto sui cittadini è dato da certi servizi pubblici, privatizzati in tutto o in parte, e non più fondati sul principio del semplice attivo e del limitato e ragionevole profitto, bensì sul lucro più sfrenato. Ma che vuol dire “servizio pubblico”? Un ente che svolge una certa attività economica nell’interesse della collettività nel suo complesso: ad esempio i trasporti, l’energia elettrica, la distribuzione del gas, la scuola. Nel 1962 e fino a tutti gli anni ’80, il servizio pubblico aveva lo scopo, almeno dichiarato, di servire (essere utile, beneficiare) alla cittadinanza con tariffe tali da consentire pareggio o lieve attivo, sufficienti a mantenere il servizio stesso. Già con la crisi petrolifera, ma ancor più con gli anni ’90, il servizio pubblico viene inteso come un’organizzazione atta a far sì che il pubblico serva (sia schiavo del…) il servizio, onde procurargli non più modesti profitti, ma forti lucri da distribuire agli azionisti della società semiprivatizzata. Per quanto poi si parli di pluralità di erogatori di servizi che, per concorrenza, dovrebbero far diminuire i costi, essendo la fonte di tutto sempre unica, tale concorrenza è puramente dichiarata, non effettiva. Quello che è certo è che, a qualunque società erogatrice ci si rivolga, il costo è sempre molto elevato, a cui si aggiunge l’occhiuta e adunca zampa dello Stato e degli enti locali con le loro svariate imposte che si accumulano una sull’altra (tipici l’IVA, di cui si è detto sopra, e il cumulo di imposte). Esistono enti che dovrebbero tutelare il cittadino e contribuente (garanti, autorità, ecc.), tutta gente che aggiunge costi su costi al cittadino, ma che, se vi rivolgete ad essi, danno sempre ragione al più forte e quasi mai al singolo cittadino (vecchio principio giuridico: il forte ha sempre più ragione del debole). Farò un altro esempio personale recente che, per carità di patria, nasconderò sotto falsi nomi. Fin dal 1962 esisteva un ente chiamato MAGNETEL che, per conto dello Stato, distribuiva a prezzi decenti l’energia magnetica.  Esso, negli anni ’90, venne “privatizzato” su ordini della finanza internazionale e della sopra apprezzata UE.  Più recentemente, sempre per mimetizzare il debito pubblico, si è scorporata dalla vecchia società una MAGNETEL DISTRIBUTION, una società MAGNETEL MAGNETICS SERVICES, e infine una MAGNETEL FORCE. Quest’ultima ha scatenato una grossa campagna promotrice, giocando sul vecchio marchio MAGNETEL, sicché alcune persone, tra cui lo scrivente, hanno aderito. La proposta telefonica era allettante, perché si prometteva che a parità di condizioni le tariffe sarebbero di molto calate per un certo numero d’anni. Le prime due bollette della MAGNETEL FORCE sembravano realizzare questa promessa, ma la terza fu un disastro perché – per il medesimo periodo d’anno e di fronte ad uso pressoché identico (vivo solo e quindi so quanto consumo e come) - il costo complessivo era più che doppio rispetto a quello dell’anno precedente e di tutti gli anni precedenti… Questo in tempi di tanto decantata deflazione e di fronte alle flautate promesse della sirena telefonica (sirena nel senso omerico: ma si sa che, a seguirle, si impazzisce e si annega), non poteva non suscitare la mia legittima reazione di protesta e di ulteriore controllo (faccio presente che da anni controllo i miei consumi giorno per giorno e li annoto su un quaderno). Verificando i consumi da me registrati e quelli segnalati sulla bolletta, la cosa non faceva una grinza, ma controllando poi nelle varie fasce orarie, risultavano consumi di energia magnetica non corrispondenti all’uso effettivo, sempre uguale da anni (da quando vivo a Bertiolo, maggio 2007), mentre quelli risultanti sul contatore erano variabili. Tanto per dire, pur utilizzando il sistema biorario e pur magari in mia assenza, alla domenica vengono aggiunti, non in omaggio ovviamente, kw/h in più (almeno 5) per recuperare quanto si dovrebbe spendere di meno a causa dell’ora di utilizzo più “conveniente”. Lo stesso, in misura minore, nei giorni feriali. Ma confrontando a parità d’uso il giorno feriale con quello festivo, nel consumo di energia magnetica si notava un salto da 7 a 12 o più kw/h. In un primo tempo pensai a un guasto, ma ben presto pareva ovvio che il guasto non avrebbe distinto così bene i giorni festivi (numerosi in dicembre e gennaio) dai giorni feriali, a scapito di quella che doveva essere una tariffa più bassa. In sostanza, si fanno risultare kw/h in più di energia magnetica per recuperare quanto la giornata dovrebbe far pagare di meno. Come, vi chiederete? Guardate i vostri contatori: sono dei piccoli cervellini elettronici. Essi dovrebbero comunicare ad una centrale di raccolta-dati quanto avete consumato, senza che sia necessario mandare casa per casa un controllore, come si faceva circa dieci anni fa. Un risparmio di tempo e di stipendi che dovrebbe far felici e contenti gli azionisti della MAGNETEL FORCE. Ma ciò non basta; quando si è avidi si desidera guadagnare sempre di più e pagare sempre di meno: l’ideale dell’affarista è un diagramma in cui i lucri crescono a velocità uniformemente accelerata, anche se ciò è ben lontano dal realizzarsi. Quello è il desiderio, il sogno, e si utilizza ogni strumento per approssimarsi ad esso. Pare dunque ovvio che il contatore, tanto moderno, dialoga con la centrale: più che trasmettere, riceve i dati o aggiunge dati ulteriori a quelli che vengono trasmessi. Naturalmente i tecnici della MAGNETEL DISTRIBUTION lo negano con energia (ovvio), ma è facile capire che è così solo se si ha la pazienza di registrare sistematicamente i dati durante il giorno, in quelli feriali, come festivi. Così  ho pagato due esose bollette bimestrali (totale 478 euro più centesimi, mentre ne pagavo per quattro mesi  sotto i 250), ma ho già provveduto a rompere il contratto passando ad altra società (che ha anche il vantaggio di avere uffici con personale umano e non flautate voci telefoniche) e, in secondo momento, al deposito di una querela corredata  dalle mie registrazioni dei consumi e da altra documentazione alla Procura presso il  Tribunale Ordinario di Udine (non mi illudo, per diretta e pregressa esperienza, che indaghino a fondo, ma che almeno stiano in guardia e, in futuro, non possano dire “non sapevamo”). In conclusione, il cittadino contribuente e consumatore vede costantemente smentita non solo la finalità  tanto proclamata dell’Unione Europea (che non è “unione”, ma aggregazione d’affari, che non è Europa, in quanto in greco il prefisso “eu” significa “bello e buono”, bensì  Caco-ropa, ovvero “Ropa brutta e cattiva”,  come in cacofonia) del benessere diffuso, in quanto i vantaggi spettano solo ai grandi speculatori internazionali, ma anche le norme costituzionali a partire dall’art.1 (lavoro come fondamento della Repubblica), agli artt. 3 (uguaglianza), 4 (diritto al lavoro), 14 (inviolabilità del domicilio), 23 (prestazioni economiche in base alla legge), 28 (responsabilità civile dello Stato, enti pubblici, e dirigenti), 31 (agevolazioni per la famiglia), 32 (tutela della salute), 35 (tutela del lavoro), 36 (retribuzione proporzionata), 38 (diritti degli inabili e diritti previdenziali), 41 (II comma, divieto di danneggiare la sicurezza, la dignità, la libertà), 45 (funzione economico-sociale della cooperazione nel lavoro), e soprattutto l’art. 47 (sulla tutela del risparmio, mai tanto poco tutelato come in questi ultimi due decenni, tanto da diventare qualcosa di derisorio). Il popolo italiano se ne renda conto, soprattutto nelle prossime occasioni elettorali, punendo col voto i responsabili di tutto ciò.

Altro che evasione fiscale elevata: Lo Stato è un approfittatore sanguisuga e bugiardo. Le tasse che gravano sulle famiglie dei lavoratori dipendenti nel 96% dei casi vengono prelevate alla fonte dalla busta paga o sono incluse nei beni o nei servizi che vengono acquistati. Solo il 4% è versato al fisco attraverso una operazione di pagamento presso uno sportello bancario o postale. Lo rivela l'Ufficio studi della Cgia il 12 marzo 2016 che per il 2016 ha calcolato in 17 mila euro il carico fiscale complessivo che graverà su una famiglia tipo composta da due lavoratori dipendenti (marito e moglie) con un figlio a carico.

Il premier vampiro tutto tasse e polizia fiscale. Cresce la pressione fiscale e cresce lo stato di polizia fiscale. E tu, Renzi, che fai? Ci tartassi e autorizzi gli spioni di Stato a entrare nelle nostre vite, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 08/03/2016, su "Il Giornale".  Cresce la pressione fiscale e cresce lo stato di polizia fiscale. Da fine mese l'Agenzia delle entrate potrà accedere in tempo reale a tutte, dico tutte, le nostre transazioni: versamenti, prelievi, assegni, accessi alla cassetta di sicurezza, bancomat. Le banche, in sostanza, da imprese di diritto privato diventeranno agenzie pubbliche. Il denaro, il nostro denaro, esce di fatto dalla proprietà privata per passare sotto il diretto controllo dello Stato. Che fino a ieri poteva, giustamente, contestarci presunte evasioni o elusioni in base a documenti che, per legge, siamo tenuti a compilare, custodire ed eventualmente esibire. E che dal primo aprile mai data fu più significativa potrà invece curiosare nelle nostre vite, chiedere spiegazioni di una spesa, del perché in un dato periodo abbiamo aperto per ben tre volte la cassetta di sicurezza.Detto che non stiamo dalla parte degli evasori, stiamo comunque con chi crede che lo Stato non abbia il diritto di spiarci. E le due cose sono compatibili. La Apple immagino sia contro i terroristi, ma, giustamente, si rifiuta di svelare l'algoritmo che custodisce la memoria più segreta dei suoi telefonini. La libertà è un bene assoluto, e ha un prezzo sia nel campo della sicurezza che in quello fiscale. Ci sono poi altri due problemi. Il primo. È vero che in quanto ad evasione, in Inghilterra e negli Stati Uniti non scherzano. Faccio però notare che i sudditi di sua Maestà hanno una pressione fiscale del 32 per cento e gli americani del 26. Cioè l'11 e il 17 per cento in meno della nostra, attestata sul 43,6. Il secondo. I contratti vanno rispettati da tutti i contraenti. E non mi sembra che il governo rispetti i patti che sono alla base della richiesta, per di più esosa, di tasse: oltre ad essere il primo a non pagare, non garantisce certezza delle leggi, tempi della giustizia equi, asili per i nostri figli, edifici scolastici a norma, i risparmiatori non sono tutelati da banche disoneste che, se non erro, dovevano essere controllate da Bankitalia, cioè dallo Stato. Intere zone di molte città sono ghetti di immigrati fuori controllo, la gestione delle case popolari è spesso in mano al racket, i debiti pubblici non vengono saldati e gli sprechi si moltiplicano. E tu, Renzi, che fai? Ci tartassi e autorizzi gli spioni di Stato a entrare nelle nostre vite. Ma sai che c'è di nuovo? Vedi un po' di andare a...

Le troppe tasse (nascoste) degli italiani. Dalla scuola alle sigarette. Dalla sanità agli alberghi. Dalle targhe alle caldaie. Ti dicono che la pressione fiscale cala: in realtà aumenta, grazie a mille balzelli. Con vicende che sembrano fatte apposta per scatenare una protesta: come il sedicente «contributo volontario» per le scuole medie superiori (da 40 a 200 euro annui a seconda degli istituti, formalmente destinati a coprire le spese per laboratori e altro) che in realtà è un’imposta obbligatoria e serve a finanziare la manutenzione degli istituti. Panorama dedica alle troppe tasse nascoste degli italiani la storia di copertina del numero in edicola da giovedì 11 febbraio 2016.

Il Fisco sbaglia un po' troppo. Ora lo ammette pure Equitalia. Il Fisco invia cartelle Equitalia per debiti non dovuti. In quindici anni 217 miliardi di cartelle Equitalia "non dovute", scrive Sergio Rame, Martedì 09/02/2016, su "Il Giornale". Il Fisco ci perseguita. E lo fa con un margine di errore altissimo. Per sua stessa ammissione, infatti, sbaglia una volta su cinque. Tanto che, tra il 2000 e il 2015, il 20,5% delle cartelle in carico a Equitalia sono state emesse per un errore dell’ente creditore. Una "rapina" che, come riporta l'Huffington Post, vale circa 217 miliardi di euro. Durante l'audizione a Palazzo Madama, l'ad di Equitalia Ernesto Maria Ruffini ha spiegato che dal 2006 a oggi "le riscossioni sono sensibilmente aumentate" arrivando ad una media annua di 7,7 miliardi di euro e che il 53% delle cartelle riscosse nel 2015 riguarda debiti sopra i 100mila euro. "Su un carico totale lordo affidato a Equitalia nel periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015 che ammonta a 1.058 miliardi di euro - ha continuato - il 20,5% è stato annullato dagli stessi enti creditori, in quanto ritenuto indebito (cioè non dovuto dai contribuenti) a seguito di provvedimenti di autotutela da parte dei suddetti enticreditori o di decisioni dell'autorità giudiziaria". In quindici anni ci sono stati "errori" per 217 miliardi di euro. Si tratta di cartelle poi annullate perché un giudice le ha giudicate illegittime o perché lo stesso ente creditore si è accorto per tempo di aver commesso un errore e ha rimediato annullando la cartella senza attendere la decisione di un giudice. "Del totale di circa 217 miliardi di cartelle non dovute, e quindi annullate - spiega l'Huffington Post - 175 miliardi sono stati chiesti dall’Agenzia delle Entrate, 23,3 miliardi dall'Inps, circa 10 miliardi dall'Inail, 7,4 miliardi da altre amministrazioni".

Lo scandalo Equitalia: 15 anni di cartelle false per 217 miliardi di euro. Sconcertante audizione dell'ad Ruffini in commissione Bilancio: una richiesta su cinque non era dovuta. Esigibili solo 51 miliardi, scrive "Il Giornale" Mercoledì 10/02/2016. Più che «cartelle pazze», cartelle inventate. L'ad di Equitalia, Ernesto Maria Ruffini, parlando in commissione Bilancio al Senato chiama «patologia estrema» il nodo delle quote inesigibili assegnate negli ultimi tre lustri al riscossore dei tributi, ricordando che solo il cinque per cento dei 1.058 miliardi di euro di crediti sono «effettivamente lavorabili». Ma sembra patologico anche il più vistoso dei dati snocciolati da Ruffini ieri. Ossia che il 20,5 per cento di quei mille e passa miliardi di euro - pari a quasi 217 miliardi - sono inesigibili semplicemente perché i destinatari delle cartelle non li dovevano pagare. Tanto che quei crediti sono stati «annullati dagli stessi enti creditori in quanto ritenuti indebiti a seguito di provvedimenti di autotutela da parte degli stessi enti o di decisioni dell'autorità giudiziaria». Insomma, una volta su cinque il fisco bussa alla porta dei contribuenti senza alcun motivo, e alza le mani solo quando i tartassati loro malgrado riescono a farsi giustizia passando per le carte bollate, costringendo l'amministrazione pubblica a innestare la retromarcia. Una percentuale da brividi, una pioggia di errori che hanno attentato ingiustamente alle finanze dei contribuenti. E se le statistiche ci dicono che più del venti per cento delle cartelle sono farlocche, non dicono quanti contribuenti invece, ricevuta la cartella «creativa», hanno pagato senza contestare o fare ricorso, non accorgendosi, o non potendo controllare, se quella richiesta del fisco fosse o meno motivata. Un punto che fa pensare che l'«errore» tutto sommato possa spesso finire per far fare cassa al fisco, sfilando comunque soldi - non dovuti - alle tasche dei cittadini. Quanto alle amministrazioni «distratte», quelle richieste indebite per 216,89 miliardi di euro, ha spiegato ancora l'amministratore delegato di Equitalia, provengono in gran parte dall'Agenzia delle entrate (175 miliardi di euro), mentre il resto si divide tra Inps (23,3 miliardi), Inail (10 miliardi) e altre amministrazioni pubbliche (7,4).D'altra parte, se solo una cinquantina di miliardi su oltre mille di quei crediti sono «effettivamente lavorabili», sembra chiaro che anche il restante delle cartelle esattoriali spedite da Equitalia ha qualche problema. Oltre 300 miliardi di euro, per esempio, secondo Ruffini sono «difficilmente recuperabili» perché i debitori sono passati a miglior vita, falliti o nullatenenti, o perché le imprese destinatarie della cartella hanno già chiuso i battenti. E dell'ultima metà di quel monte di soldi che il fisco ha chiesto a Equitalia di recuperare, un gruzzolo pari a 500 miliardi di euro? Il 60 per cento riguarda posizioni «per cui si sono tentate invano azioni esecutive», un centinaio di miliardi sono quelli effettivamente riscossi (in parte a rate) e, appunto, i crediti realmente esigibili che restano sono solo 51 miliardi, il 5 per cento del totale. Quanto alla rateizzazione delle cartelle esattoriali, l'ad di Equitalia Ruffini ha ricordato come ormai la metà degli incassi arrivi proprio dalle pratiche dilazionate (sono state 1,2 milioni le richieste presentate dai contribuenti nel solo 2015). E sul punto, c'è anche una notizia positiva per chi ha scelto di saldare un po' alla volta il suo debito con il fisco. Fino a oggi, chi era stato indotto a pagare con il fermo amministrativo di un mezzo, prima di poterlo utilizzare di nuovo doveva aspettare di aver versato l'ultima rata. Ora invece le «ganasce fiscali» potrebbero diventare più morbide perché, ha spiegato ancora Ruffini, Equitalia si riserverà la «possibilità di sospendere» il fermo amministrativo (anche se «non la possibilità di toglierlo») per i «soggetti che fanno richiesta delle rate e che le pagano».

L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE. L’eterno equivoco sull’evasione scrive Carlo Lottieri il 2 gennaio 2016. La classe politica è determinata a difendere lo status quo e tenere in vita un disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo. Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella conferma quanto sia difficile, per la classe politica italiana, capire le reali condizioni della società. Non è sorprendente che gli uomini politici difendano in tutti i modi le prerogative del potere sovrano, ma certo stupisce il constatare quanto essi poco comprendano le sofferenze dei produttori e le devastazioni causate dalla regolazione, dalla tassazione e dai monopoli pubblici (si pensi, in particolare, al crollo del sistema pensionistico). Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. L’Italia non è in crisi perché gli italiani versano poche tasse, ma semmai perché lo Stato sottrae troppa ricchezza a quanti la producono. Alcuni decenni fa, quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese. È insomma falso sostenere che l’evasione danneggi la comunità nazionale, anche se certamente danneggia taluni privilegi di casta. Ma quanti sono nei palazzi romani al governo o in altre posizioni non intendono le ragioni di chi si ribella e ignorano le sofferenze all’origine di questa rivolta silenziosa e sotto traccia. Perché chi veramente ci sta negando la possibilità di avere un futuro è il ceto politico, che ha creato un terribile intreccio di ingiusti meccanismi redistributivi i quali sono l’esatta negazione di ogni ordinamento liberale. Continuare a ripetere che le tasse sarebbero più basse se tutti le pagassero significa non considerare la tendenza naturale degli uomini di potere ad allargare sempre più il proprio controllo della società. Significa fingere di non sapere che esistono uomini che comandano e altri che obbediscono, uomini che legiferano e altri che devono abbassare la testa. Nel discorso del presidente c’è insomma una visione angelicata della politica: l’idea che i professionisti del governo lavorino per noi. Essi ci tolgono ricchezza, ma per aiutare la società a farla crescere. Ed è di un certo rilievo anche l’accenno alla tesi del tutto falsa, affermata in questi anni da Thomas Piketty, secondo cui le diseguaglianze indebolirebbero l’economia. Per Mattarella i guai sono causati insomma dai ricchi, e non già dalla casta politica; e quindi bisogna far leva sull’invidia sociale, in modo tale che la gente confidi nel potere e si pieghi alla sua volontà. La classe politica italiana non è liberale e forse non lo è mai stata. Le parole del presidente ci dicono pure quanto essa sia determinata a difendere lo status quo e tenere in vita quel disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo che sta lanciandoci verso il precipizio. Carlo Lottieri.  (Da istituto Bruno Leoni).

Presidente Mattarella, si fidi: azzerando l’evasione le tasse non sarebbero più basse, scrive Giovanni Masini il 4 gennaio 2016. Ci è cascato anche il Presidente della Repubblica: secondo il capo dello Stato estirpando la piaga del sommerso il Paese tornerà a crescere. Ma i dati su lotta all’evasione e pressione fiscale dicono esattamente il contrario. “Ad ostacolare la crescita è l’evasione. Secondo Confindustria l’evasione fiscale contributiva nel 2015 ammonta a 122 miliardi: 7,5 punti di Pil. Lo stesso studio calcola che dimezzando evasione si guadagnerebbero oltre trecentomila posti di lavoro. Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti. Le tasse sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero.” Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto, nel messaggio di fine anno, affrontare la questione dell’evasione fiscale. Parole che asseverano uno dei più consolidati luoghi comuni in materia: quello secondo cui tutti gli evasori sarebbero dei ladri e per cui riducendo il tasso di evasione calerebbe automaticamente anche il prelievo fiscale. Rincresce criticare il Capo dello Stato già al primo dei messaggi per Capodanno, ma il passaggio sull’evasione lascia scoraggiati anche i più speranzosi. Ai sensi dell’articolo 87 della Carta Costituzionale, il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della Nazione – non dello Stato: sorprende quindi che Mattarella si limiti ad attaccare chi evade le tasse senza citare minimamente le pretese assurde di un Fisco esoso che è espressione, tra l’altro, di uno Stato spesso debitore nei confronti dei cittadini e promotore di bizantinismi legislativi e burocratici. L’argomentazione sottesa alle parole di Mattarella, evidentemente, non è economica ma etica. Se tutti facessero il proprio dovere, intendeva dire il Capo dello Stato, le cose andrebbero meglio. Peccato che abbia detto tutt’altro, azzardando peraltro teorie economiche che sono finite sotto attacco da più punti. Responsabile della mancata crescita del Paese, scrive Carlo Lottieri sul Giornale, non è solo e non è tanto l’evasione fiscale ma anzi l’ipertassazione di chi produce ricchezza e se la vede portare via dallo Stato. “Alcuni decenni fa – spiega Lottieri – quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese.” In un Paese in cui la spesa pubblica è fuori controllo, la difesa d’ufficio dello Stato nasconde una visione utopistica – la stessa che peraltro è implicita nello studio della Confindustria. Il giorno successivo al discorso di Mattarella, il vicepresidente degli industriali Andrea Bolla ammetteva che i calcoli su un eventuale incremento del Pil sono stati effettuati sulla base dell’ipotesi – tutta da verificare – “che tutto il nero recuperato diventi minor prelievo fiscale”. Quante possibilità ci sono che questa ipotesi si realizzi i lettori possono facilmente immaginarlo. Se non vi riescono, possiamo provare ad aiutarli con alcuni dati. La predica del “se tutti pagassero tutte le tasse, tutti pagheremmo meno” non è un’esclusiva di Mattarella: la aveva già utilizzata a scopi propagandistici anche Matteo Renzi. Ebbene, già nei mesi scorsi gli osservatori più attenti avevano fatto notare al presidente del Consiglio che negli ultimi anni, a fronte di un aumento delle entrate derivanti dal contrasto all’evasione il tasso della pressione fiscale continua a crescere, mostrando poca o nessuna correlazione con la percentuale di evasione. Se nel 2006, quando è stato inaugurato il sistema di misurazione basato sugli incassi, erano stati riscossi 4,3 miliardi di euro, nel 2013 si poteva contare su un’evasione recuperata di 13,1. La domanda è quindi spontanea, scriveva già a settembre Federico Cartelli su Qelsi: dove sono finiti tutti quei soldi? Nel taglio della spesa pubblica, che sarebbe l’unica misura efficace per ridurre la pressione fiscale, non di certo, come Capire davvero la crisi vi ha già dimostrato. Nel frattempo, il taglio delle tasse (si veda quello in programma per la prima casa nella Legge di Stabilità 2016) viene fatto a deficit. Troppo spesso, infatti, la classe politica italiana (anche se non sarebbe giusto attribuire questa responsabilità a Mattarella in persona, che è anzitutto uomo di legge) preferisce gonfiare a dismisura la spesa pubblica pur di estendere la base del consenso, sia pure a spesa delle generazioni future che vengono oberate dal peso del debito. Questo non toglie, naturalmente, che l’evasione fiscale – come anche il preoccupante deficit di etica pubblica – costituisca un problema serio che merita ogni attenzione. Tuttavia, in quel messaggio di fine anno così conciso, gli italiani alle cui “speranze e preoccupazioni” il Presidente della Repubblica ha detto di volersi rivolgere, si sarebbero aspettati di sentire, da parte di Mattarella, anche una parola sui doveri e sugli impegni che quello Stato di cui è capo troppo spesso non riesce – o non vuole – mantenere.

MATTARELLA AMA LE VOSTRE TASSE, LUI E LA CASTA VIVONO DI QUELLE. “L’evasione viola il patto sociale, peggiora il rapporto tra cittadini e Stato e riduce la solidarietà”. Pochi giorni fa è andato in onda, a reti unificate, il primo discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scrive Matteo Orsini. Tra i temi di cui si è occupato, grande rilievo è stato dato all’evasione fiscale. Mattarella ha citato una recente pubblicazione del centro studi di Confindustria, secondo il quale l’evasione ammonterebbe a 122 miliardi, ossia 7.5 punti di Pil. Secondo il CsC, se l’evasione fosse dimezzata il Pil ne trarrebbe grande beneficio, così come l’occupazione. Quello che Mattarella non ha riportato è l’ipotesi su cui si basa la stima del CsC: che l’evasione recuperata si traduca in altrettante riduzioni di tasse. Non mi interessa approfondire la questione dei calcoli fatti dal CsC, anche se nei casi in cui l’evasione sia “di sopravvivenza” (ossia in quei casi nei quali se l’imprenditore pagasse tutto quanto richiesto dallo Stato dovrebbe chiudere i battenti), mi risulta difficile supporre che la sua eliminazione porterebbe benefici netti in termini di Pil e occupazione. Credo sia invece interessante sottolineare l’ipotesi da “Alice nel paese delle meraviglie” alla base delle stime del CsC: ossia che il gettito recuperato da evasione si tradurrebbe magicamente in una riduzione del carico fiscale. Capisco che queste storie le raccontino i governanti (lo stesso Mattarella lo ha detto nel corso del suo messaggio), ma la loro credibilità è pari a zero. D’altra parte, nel fondo per la riduzione delle tasse al quale destinare i denari recuperati dall’evasione fiscale, pur essendo previsto da anni, non è mai entrato neppure un euro. Serve una grande ingenuità per credere che si sia trattato solo di sfortunate circostanze. Ciò detto, secondo Mattarella l’evasione fiscale “viola il patto sociale”. Peccato che il patto sociale in questione sia una finzione giuridica e che nessun cittadino abbia avuto la possibilità di aderirvi volontariamente. Secondo Mattarella l’evasione “peggiora il rapporto tra cittadini e Stato”. Indubbiamente fornisce meno linfa allo Stato, ma mi permetto di supporre che i cittadini, per lo meno quelli che non campano di tasse altrui, non abbiano un rapporto così sereno con lo Stato per via delle tasse, non per via dell’evasione. Infine, secondo Mattarella l’evasione “riduce la solidarietà”. Niente affatto: l’evasione riduce semmai la solidarietà coatta, che non ha nulla a che vedere con la solidarietà autentica, la quale può derivare solo da azioni volontarie. Dal Quirinale, già nei giorni precedenti il messaggio di fine anno, era stato comunicato ai mezzi di informazione che il presidente si sarebbe occupato dei problemi più sentiti dalla gente. Ebbene: che l’evasione sia un problema per i parassiti che campano di tasse altrui è abbastanza credibile, ma che lo sia per tutti quanti direi proprio di no.

L'Evasione Fiscale e la cantonata del Presidente Mattarella sulle tasse, scrive Giuseppe Timpone il 5 Gennaio 2016 su “Investire Oggi”. L'evasione fiscale è realmente il male dell'Italia? Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella farebbe propendere per il sì, ma i dati dimostrerebbero altro. Nel suo discorso di fine anno, il presidente Sergio Mattarella ha citato l'evasione fiscale tra i mali, che frenerebbero la crescita dell'economia italiana, riferendosi a uno studio pubblicato da Confindustria, secondo cui l'economia sommersa sottrarrebbe alle casse dello stato 122 miliardi di euro all'anno, pari al 7,5% del pil. Nell'interpretazione del capo dello stato, se tutti pagassero le tasse, pagheremmo di meno. Non solo: sempre citando lo studio di Viale dell'Astronomia, ha affermato che l'evasione fiscale farebbe venire meno 300 mila posti di lavoro. Ora, fatto salvo che pagare le tasse è un obbligo previsto dalle leggi e, in quanto tale, deve essere rispettato e sanzionata la mancata osservanza, ci concentreremo qui su un piano diverso da quello giuridico, ossia economico. L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, era solito dire che quando a non pagare le tasse è un'ampia fetta della popolazione, il fenomeno non è più penale, bensì sociale. Il senso di questa affermazione ce la spiega forse meglio una battuta dell'economista Milton Friedman, padre del monetarismo, che negli anni Ottanta definì "giusta" l'evasione fiscale in Italia, in quanto reazione dei contribuenti all'inefficienza dei loro malgoverni. Ma già alcuni decenni prima era stato un italiano e, addirittura, un futuro capo dello stato, Luigi Einaudi, a "benedire" il mancato pagamento delle tasse da parte di molti italiani, considerandolo una reazione alla cattiva gestione della spesa pubblica.

Italiani pagano già troppe tasse. Diremmo che sull'evasione fiscale si giochi un dibattito a distanza di 70 anni tra Einaudi e Mattarella, il primo seguace del pensiero liberale, il secondo evidentemente no. L'impostazione dell'attuale capo dello stato è quella che va per la maggiore tra i media e il ceto politico italiano, che ci ripetono a ogni piè sospinto che gli italiani avrebbero il vizio di non pagare le tasse, caricando la pressione fiscale su quelli più onesti. Si tratta di un'affermazione, sconfessata dai dati. I contribuenti del Bel Paese sono da anni proprio i più tartassati d'Europa e al mondo. Secondo l'ultimo rapporto annuale della Banca Mondiale, realizzato in collaborazione con Pwc, l'Italia si colloca al 137-esimo posto su 189 paesi al mondo per convenienza fiscale riguardo alle imprese. La tassazione complessiva, gravante sui loro redditi, è pari al 64,8%, quando la media mondiale è del 40,8%, attestandosi al primo posto in Europa. E non solo il Fisco italiano è più sanguinario, ma anche più farraginoso. Servono 269 adempimenti all'anno per essere in regola in Italia, contro una media mondiale di 261 e di 173 in Europa. La pressione fiscale generale si attesta nel nostro paese sopra al 43% contro una media di circa il 40% nella UE. Ma le distanze con il resto d'Europa aumenterebbero vertiginosamente, se si considerasse solo l'economia ufficiale e non quella sommersa: a quel punto, l'incidenza delle tasse sui redditi schizzerebbe al 52,2%, 2 punti in più che in Danimarca.

Pagare tutti per pagare meno, ma è vero? Ora, i sostenitori del "pagare tutti per pagare meno" potrebbero ribattere che se almeno parte dei 122 miliardi sottratti ogni anno al Fisco fosse recuperata, si avrebbero maggiori risorse con le quali abbattere le tasse per tutti. Ma ci credete davvero? Un altro politico ed economista, Renato Brunetta, ha dichiarato in più di un'occasione che sarebbe un'evidenza in Italia che lo stato più incassa e più spende. Il problema non evidenziato dal presidente Mattarella e che pochi giornalisti, economisti e politici sottolineano nel nostro paese ruota tutto intorno a questo punto: sarebbe realmente in grado lo stato italiano di limitare la spesa pubblica, nel caso in cui aumentassero le entrate? Ovvero, immaginiamo che magicamente nessuno evadesse più le tasse. Il Tesoro registrerebbe a fine anno incassi per 122 miliardi in più. Ciò annullerebbe il deficit e porterebbe i conti pubblici in attivo di quasi il 5% del pil. Ebbene, credete per caso che il governo (quale che sia) sarà in grado di resistere alle sirene di quanti chiederanno più investimenti nelle infrastrutture, aumenti degli stipendi pubblici, crescita della spesa sanitaria, per la scuola, etc.? Alla fine, è probabile che al capitolo della riduzione delle tasse andrebbero spiccioli, mentre la gran parte del maggiore gettito sarebbe destinata a finanziare voci di spesa. Saremmo punto e a capo.

Evasione fiscale è voto di sfiducia degli italiani verso i politici. Non ultimo, resta da affrontare un argomento spinosissimo per i politici, ma centrale nel dibattito: l'evasione fiscale è un voto di sfiducia dei contribuenti verso i loro rappresentanti. Quando una larga fetta della popolazione non paga le tasse, non può il solo malcostume spiegare le ragioni di questo comportamento di massa. E' noto, ad esempio, come l'evasione sia più alta al Sud che al Nord, a conferma finanche del disgusto che i cittadini meridionali nutrono nei confronti delle classi politiche locali, non certo un baluardo dell'efficienza amministrativa. Ai contribuenti, in uno stato di diritto, non può essere chiesto di pagare le tasse, in quanto dovere in sé, ma in cambio dell'erogazione di servizi. E' proprio questo legame flebile tra tasse e servizi a rendere l'evasione fiscale in Italia così accettabile e non riprovevole per la stragrande maggioranza degli italiani, la quale è consapevole che un euro in più pagato allo stato non equivarrebbe automaticamente a un euro in più in servizi diretti o indiretti alla cittadinanza. Infine, siamo così sicuri che un tasso inferiore di evasione fiscale creerebbe nell'immediato più ricchezza? E' evidente che non tutta l'economia sommersa potrebbe emergere e tradursi in economia ufficiale. Un artigiano, magari pensionato, che trascorre ancora qualche ora al giorno presso la sua attività a costruire sedie per arrotondare a fine mese, se fosse costretto a pagare le tasse, quasi certamente rinuncerebbe anche solo ad alzarsi la mattina per andare a lavorare. Risultato: lo stato non incasserebbe ugualmente un euro in più, mentre in circolazione ci sarebbe un po' di reddito in meno, con il quale si alimentano i consumi, sui quali si pagano le imposte.

Meno evasione, più crescita? Altro che stimolo per l'economia. Se l'evasione fosse contrastata in maniera draconiana, si rischierebbe un tracollo dei consumi e della produzione. D'altronde, i dati ci segnalano negli ultimi anni che la "ferocia" mostrata dall'Agenzia delle Entrate con l'arrivo al governo dei tecnici nel 2012 si è accompagnata a una contrazione del pil, oltre che a un aumento paradossale della stessa evasione fiscale. Non è forse anche per questo che il limite all'uso del contante è stato alzato dal governo Renzi da 1.000 a 3.000 euro? Sarebbe meglio che il capitolo dell'evasione fiscale fosse affrontato con una visione più ampia di quella tipicamente ristretta e ipocrita del politico. Il presidente Mattarella voleva richiamare al vincolo di solidarietà, che lega o dovrebbe legare tutti gli italiani. E' stato un discorso alto, sincero, umano, diretto. Solo su questo tema, forse, non ineccepibile.

L'Inps ha i conti in rosso ma ai figli degli statali paga le vacanze all'estero. Mantenuto il privilegio previsto dall'Inpdap, anche se il buco è di 13 miliardi: campus e corsi di lingua estivi per 35mila ragazzi, scrive Antonio Signorini, Domenica 13/03/2016, su "Il Giornale". Vacanze pagate, parzialmente o totalmente, a beneficio di ben 35 mila ragazzi. Il tutto a spese dell'Inps. Per 22.520 studenti si apriranno le porte di corsi estivi di lingua all'estero, altri 12 mila e 730 si accontenteranno di vacanze in Italia. Detta così sembra una notizia fantastica visto che la maggioranza dei genitori, gravati da tasse e contributi, non possono permettersi di sostenere i costi di campus e corsi di lingua. Ma quella di «Estate InpSieme» è un'altra storia italiana, fatta di generosità selettive se non malriposte e di conti pagati da altri. La vacanza finanziata con i soldi della previdenza è infatti offerta esclusivamente ai figli di lavoratori pubblici, attivi o in pensione. Residuo di un'era in cui lo Stato sociale era generoso anche con le giovani generazioni. Salvo poi, una volta tirate le somme, pesare sulle stesse lasciandogli in eredità conti sballati. Prima si chiamava «Valore vacanza» ed era un bastione dell'Inpdap, l'istituto di previdenza pubblica che nel 2012 è stato inglobato dall'Inps con il suo carico di bilanci in perdita e inefficienze. La fusione del mondo pubblico con quello privato non ha portato a una omologazione dei trattamenti e così le vecchie vacanze per i figli degli statali sono state confermate anche dalla gestione Inps, che non aveva e non ha niente di simile per i figli dei dipendenti privati. L'istituto si è perlomeno premurato di dare al «concorso» un nuovo nome. Qualche cambiamento c'è stato nei metodi di compilazione della graduatoria. Ora viene compilata sulla base di nuovi criteri di merito. Impossibile partecipare se lo studente è stato bocciato o se ha debiti. Quasi scontato, verrebbe da dire per chi pensa in termini privatistici. Ma non l'hanno pensata cosi centinaia di statali che tempo fa hanno presentato una class action contro questa novità introdotta dall'Inps e considerata «discriminatoria». Non è cambiato, invece, il numero di giovani che hanno accesso alle vacanze pagate, l'entità dell'aiuto Inps né il tipo di trattamento. L'offerta è rivolta a studenti della scuola secondaria superiore, per soggiorni da effettuare tra giugno e agosto in Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania e Spagna. L'Inps paga aereo, transfer dall'aeroporto, corso, college, vitto e assicurazione per un massimo di 2.400 euro per soggiorni di 15 giorni e di 4.000 euro per quelli di quattro settimane. Il programma italiano è meno generoso (il contributo è al massimo di 1.400 euro), ma l'impegno formativo è meno pressante (solo tre ore al giorno di corsi). Diritto acquisito, prestazione pagata con i contributi è l'obiezione che si potrebbe fare. Giusto, se non stessimo parlando di una gestione, quella dei pubblici dipendenti, che non sta in piedi da sola e che, seguendo una logica di equità, non potrebbe permettersi lussi. Il rosso dell'Inps sfiora i 13 miliardi di euro e la gestione delle pensioni pubbliche contribuisce a questo sbilancio per quasi sei miliardi di euro. La gestione dei parasubordinati, lavoratori con un futuro previdenziale più che incerto, contribuisce in positivo al bilancio Inps per sette miliardi di euro. Sono loro a tenere su la previdenza. E le vacanze dei figli se le pagano di tasca propria.

Le toghe spendono il 75% in più. E nascondono gli scontrini. Altro che spending review, il Csm passa da 39,3 a 69,4 milioni di spese per il 2016. E ricorre alla Consulta contro la Corte dei conti che vorrebbe verificare i bilanci, scrive Anna Maria Greco, Martedì 15/03/2016, su "Il Giornale".  Alla faccia della spending review il Consiglio superiore della magistratura aumenta del 75 per cento il bilancio delle spese previste per quest'anno. In tempi di crisi anche gli organi costituzionali, dal Quirinale alle Camere, sono costretti a tagliare i conti ma Palazzo de' Marescialli passa dai 39 milioni e 543 mila euro del 2015 ai 69 milioni e 450 mila del 2016. Pare che l'impennata si debba anche alla previsione di trasferirsi da piazza Indipendenza alla magnifica Villa Lubin, al centro del parco di Villa Borghese. Finora era sede di lusso del Cnel, abolito dal Parlamento. Evidentemente al Csm fa gola, non basta lo storico Palazzo de' Marescialli, con le due palazzine moderne accorpate ed è già stato commissionato uno studio di fattibilità. Sulla trasparenza delle sue spese l'organo di autogoverno della magistratura non sopporta intromissioni e si sottrae al controllo della Corte dei conti. Ha fatto ricorso alla Consulta per respingere le pressioni dei magistrati contabili che vorrebbero verificare il rendiconto dei soldi pubblici. Una volta il Csm lo presentava, ma dal 1997 non lo fa più. Una sentenza della Consulta del 1981 ha stabilito che gli organi costituzionali - Parlamento, presidenza della Repubblica e Alta corte stessa - non hanno questo obbligo. E Palazzo de' Marescialli rivendica lo stesso status. Solo che non si tratta di un organo costituzionale - quello è la magistratura - ma di un organo «di rilievo costituzionale», un gradino sotto. Distinzione che il Csm non accetta, respingendo come un attentato all'autonomia del potere giudiziario, in cui s'identifica, la pretesa della Corte dei conti di frugare tra le sue spese. Così, risponde no alla richiesta arrivata a giugno dai magistrati contabili. Un mese fa la sezione giurisdizionale del Lazio manda l'ultimatum di 120 giorni per mettersi in regola. Quello del Csm è un «peccato di superbia» verso il controllo di un altro organo dello Stato «di cui non riconosce l'autorità», dice il presidente della sezione Lazio. Per Palazzo de' Marescialli è un'«estemporanea iniziativa» e reagisce impugnando la decisione davanti alle Sezioni centrali contabili e sollevando davanti alla Corte costituzionale il conflitto tra poteri dello Stato. Il ricorso denuncia «una grave lesione dell'autonomia costituzionale della magistratura», un'interferenza nella «divisione dei poteri», per «un'interpretazione impropria, illegittima e incostituzionale» delle norme. Ieri il Csm precisava che «mai la Corte dei Conti aveva posto in dubbio l'autonomia contabile» del Csm, prevista dalla sua legge istitutiva. C'è già il controllo del Collegio dei Revisori e la trasmissione alla Corte dei conti del solo bilancio della gestione. Una terza verifica proprio no. Tanta insofferenza si spiega forse con il lievitare costante delle spese, in tempi di tagli e sacrifici. Per il bilancio di previsione 2016, quelle per l'acquisto di beni e servizi passano da 6 milioni e mezzo a oltre 26. A pesare sono appunto i 21 milioni e 291mila euro alla voce Fondo investimento per trasferimento sede, ristrutturazioni sedi in uso al Csm, interventi di sostegno ai consigli giudiziari. Ma spulciando qua e là ci sono anche 48 milioni (10 nel 2015) per divise degli autisti. D'altronde, l'aumento è costante. Nel bilancio 2015 erano previste spese superiori del 38 per cento a quelle effettive nell'esercizio contabile precedente. Nel 2014 l'aumento delle spese previsto era del 34 per cento rispetto al 2013.

SPENDING REVIEW? NO, SPENDING CUCU’. Niente risparmi, Perotti si dimette: la spending review non è una priorità. Il freno al lavoro sugli sgravi fiscali. Le dimissioni dopo quelle di Giarda, Bondi e Cottarelli, scrive Federico Fubini su “Il Corriere della Sera” il 10 novembre 2015. Dopo Piero Giarda nel 2012, Enrico Bondi nel 2013, Carlo Cottarelli nel 2014, è la volta di Roberto Perotti. La spending review non riesce mai a ridurre granché le dimensioni del bilancio pubblico, ma si conferma infallibile nel portare alle dimissioni i tecnici ai quali il governo si rivolge per riuscirci. Perotti, uno degli economisti italiani più riconosciuti all’estero, sabato ha fatto sapere a Matteo Renzi che rinuncia al suo incarico e uscirà dalla squadra di consiglieri di Palazzo Chigi. A suo avviso, il varo della legge di Stabilità e i segnali dati anche in seguito dal governo indicano che la riduzione della spesa pubblica non è una priorità. «In questa fase non mi sentivo molto utile», ha detto ieri a «L’erba dei vicini» di Beppe Severgnini su Rai3. Perotti, 57 anni, dottorato al Massachusetts Institute of Technology, docente prima alla Columbia University di New York e poi alla Bocconi, non dev’essere arrivato alla sua decisione facilmente. L’anno scorso aveva accettato di diventare consigliere di Palazzo Chigi solo a condizione che l’incarico fosse a titolo gratuito. Per evitare malintesi sul proprio ruolo, Perotti aveva anche rinunciato a qualunque forma di rimborso: per oltre un anno si è pagato da sé le trasferte ogni settimana da Lecco, dove vive, e l’affitto di un appartamento a Roma. Il suo obiettivo era realizzare il compito che Renzi aveva assegnato a lui e al commissario per la spending review Yoram Gutgeld: trovare dieci miliardi di tagli per il 2016, poi continuare negli anni successivi. In legge di Stabilità però gli interventi previsti valgono ufficialmente appena 5,8 miliardi (o meno, secondo molti analisti privati), e per metà sembrano di efficacia discutibile perché basati sulla compressione temporanea di alcune spese ministeriali. Negli ultimi nove mesi, Perotti aveva lavorato su alcuni fronti in particolare: la sfoltitura degli sgravi fiscali a categorie particolari, che oggi valgono 181 miliardi in tutto, e i costi di funzionamento dei ministeri e degli uffici dei dirigenti pubblici a livello decentrato. Su quasi tutti questi aspetti la legge di Stabilità registra passi avanti minimi o inesistenti. Nel presentare la legge di Stabilità il 15 ottobre, Renzi ha spiegato che dalla lista della spending review per il 2016 aveva rinunciato a quattro miliardi di tagli alle deduzioni e alle detrazioni (la materia di Perotti) perché l’addio agli sgravi avrebbe comportato un aumento della pressione fiscale e avrebbe colpito anche associazioni della società civile. Dunque il governo, secondo il premier, si è fermato per non colpire la fiducia all’interno del Paese. Non era questa la versione della spending review emersa fino a quel momento dalle indiscrezioni. L’operazione sugli sgravi progettata a Perotti sembrava impostata in modo diverso: il pacchetto degli interventi proposti valeva 1,5 miliardi (non quattro) e riguardava solo i trattamenti di favore per alcune specifiche categorie di imprese, per poter poi ridur re la pressione fiscale in modo più omogeneo su tutte. Difficile capire se Perotti si sia sentito preso di mira dalle parole del premier. O se abbia avuto l’impressione che il governo cercasse di scaricare su di lui la responsabilità di una spending review ancora una volta incompiuta. Sembra però probabile che, dopo il varo della manovra, l’economista abbia cercato un chiarimento con il premier sul futuro del piano di tagli ora che l’esecutivo deve realizzare nella pratica la riforma della pubblica amministrazione. Certo i due devono essersi trovati su posizioni diverse. Non pensa invece alle dimissioni l’altro uomo della spending review: Yoram Gutgeld, deputato del Pd, continuerà a lavorare sulla spesa sanitaria e sugli acquisti dell’amministrazione. Ma anche lui resterà fuori dall’«unità di missione» in preparazione a Palazzo Chigi, composta da una decina di esperti e guidata dall’altro bocconiano Tommaso Nannicini (che sembra destinato a diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio). Si vedrà nei prossimi mesi come funziona il rapporto dell’ultimo «commissario alla spending review» con questo gruppo che, sempre di più, sembra destinato ad accentrare molte leve della politica economica. 

La spending review diventa spending cucù. Un’altra figuraccia del governo: si dimette Perotti, prof della Bocconi chiamato a tagliare la spesa pubblica Dopo Bondi, Giarda e Cottarelli, è il quarto commissario che si deve arrendere alla burocrazia e alla politica. Su "Libero Quotidiano" l'11 Novembre 2015: GIANLUIGI PARAGONE VITTIME DELLA CASTA SCONFITTI DAI BUROCRATI IL MITO DELLE FORBICI. (...) un momento in cui le forbici si possano aprire e chiudere con utile efficacia. I muri di gomma non si possono tagliare, figurarsi squarciare. Ed è strano come la presunzione di questi professori non voglia ammettere che le forbici dei commissari per la spending siano come le ali di cera per Icaro. Per restare in tema di miti, qualcuno cita Sisifo e la sua impresa a compiere uno sforzo sovraumano per poi ricominciare daccapo tutte le volte. In questo caso però non ci sono sforzi da compiere: è tutto scritto da anni, ispirato al buon senso. Basterebbe applicarlo. Ma non si può perché questo è il paese delle furbizie, delle leggine tana-libera-tutti e soprattutto dei privilegi che diventano diritti e diritti che diventano favori. Ogni commissario arriva armato di ali di cera pensando che il suo volo possa arrivare a destinazione, che possa superare le nebbie dei palazzi dove tutto si nasconde. Non ce la fece il supercommissario dei miracoli, quel Bondi aggiusta tutto tipo «Sono mister Wolf e risolvo problemi». E poi Giarda. E poi ancora l’uomo del fondo monetario Cottarelli. Ora Perotti, precipitato per essersi avvicinato troppo al fuoco dei mandarini e delle feluche. Franato senza che alcuno nel governo aprisse una qualche rete di protezione: i commissari della spending cucù passano, i burocrati di palazzo restano. Eccome se restano. Morale: niente tagli alle strutture ministeriali. Hai voglia a parlare di sprechi, di spese folli, di controllo della spesa quando poi chi beneficia di questo spendere e spandere alza le barricate. «Prima di tagliare a noi, andate a tagliare dove si spreca di più». E così nessuno scende dalla giostra. Dal più piccolo al più grande c’è sempre qualcuno che spreca di più. Timbrano i cartellini e vanno a fare canottaggio? Embé? Che vuoi fare, li vuoi licenziare? Quarant’anni fa usciva nelle sale Fantozzi: era già tutto chiaro. Da allora, per effetto del moto accelerato uniforme, la spesa improduttiva è aumentata. Le baby pensioni non si possono toccare. I vitalizi men che meno. E potremmo andare oltre nel pieno adagio italico. Già, perché non è solo nel pubblico che i privilegi diventano diritti acquisiti. Nel privato qualche picconata arriva a bersaglio ma ciò che esce dalla porta rientra poi dalla finestra. Chiedetelo ai consumatori: nelle bollette (dalla luce al telefono) la furbizia è sempre in agguato. E che dire delle banche? Non sprecano soldi anche loro? Non fregano anche loro soldi dei risparmiatori? La filosofia del «freghi tu così frego anch’io» è nella filigrana di una costituzione materialissima. Le banche vanno in rosso? Poi paga pantalone. I professori che vorrebbero eliminare lo spreco dalla cosa pubblica comincino dalle università, fonte di spreco di denaro pubblico. Perotti ci scrisse un libro. Lo dico solo per rimarcare la mia rassegnazione, mica per dare consigli. Non credo alle spending review che io chiamo spending cucù. E soprattutto non credo al mito di queste forbici buone solo a contabilizzare somme da mettere sulla carta. Basterebbe il buon senso. Ci sono enti che sopravvivono nonostante siano gusci vuoti, eppure continuiamo a erogare gettoni e stipendi. Non c’è bisogno di Pico della Mirandola per smettere di pagare. La somma di tante piccole storie di ordinaria burocrazia farebbe un totale. Allora è un problema di volontà, nel senso che non si vuole fare perché non si può fare. Per farla breve, la piantassero di propagandare tagli e forbici al solo scopo di abbellire bilanci previsionali e guadagnare qualche titolo di giornale. Se non vogliamo che altri Icaro si schiantino a terra, voliamo basso. Facciamo piccole cose. Torniamo al buon senso dei nonni. Forse qualche gruzzoletto lo risparmieremmo sul serio.

Ecco perché in Italia la spending review è una missione impossibile. In otto anni sono cambiati 4 esperti incaricati di ridurre la spesa pubblica. Ma alla fine la politica si è sempre messa di traverso perché i tagli sono impopolari o costringono ad aumentare le tasse. Piero Giarda, allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individuò 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo», scrive Paolo Baroni su “La Stampa” l'11/11/2015. Arriva sempre un momento in cui anche il più esperto degli esperti finisce su un binario morto e alla fine lascia. Oppure viene congedato. E’ così negli ultimi 8 anni abbiamo cambiato ben 4 commissari alla spending review. «In questa fase non mi sento molto utile», ha spiegato l’altra sera Roberto Perotti, prof della Bocconi, entrato appena nemmeno sei mesi fa nello staff di Palazzo Chigi ed ultimo in ordine di tempo a gettare la spugna. Il suo «coming out» in tv è servito a mettere la parola fine ad un tira e molla che durava ormai da settimane. Il termine inglese «spending review», ovvero «revisione della spesa» introdotto nel gergo politico italiano nel 2006 da Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca ministro del Tesoro nel governo Prodi, significa analisi delle spese e del funzionamento dei vari apparati allo scopo di migliorare la performance della macchina pubblica con la possibilità, anche, si risparmiare qualcosa. Da noi, invece, è sempre stata interpretata in maniera più brutale: tagli. Il primo tentativo di mettere ordine ai conti risale al 2012 quando il governo Monti, che in fatto di tagli veri mica scherzava (basti pensare cosa è successo alle pensioni), affida ufficialmente il dossier a Piero Giarda. Grande esperto di spesa pubblica, l’allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individua circa 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo» e ipotizza da subito circa 5 miliardi di risparmi. Non si fa in tempo a mettere in pratica il piano che Monti lo sostituisce con Bondi. «Monti aveva bisogno di qualcosa di più concreto da presentare a Bruxelles», raccontano le cronache di quei giorni. E così arriva l’ex commissario Parmalat, il tagliatore forse più famoso d’Italia. Al suoi fianco altri due pezzi da novanta: Giuliano Amato, al quale viene affidato il compito di analizzare i costi della politica, e Francesco Giavazzi, che invece deve cercare di sfrondare i sussidi alle imprese, impresa che si rileva impossibile. Bondi passa ai raggi «X» ministero per ministero, regione per regione, comune per comune, analizza spese e sprechi, e scodella un piano da 4,2 miliardi di risparmi immediati destinati a salire a 10 l’anno seguente. A inizio 2013 però anche Bondi lascia: Monti, che si fidava ciecamente di lui, gli aveva infatti affidato anche il compito di selezionare i profili dei candidati del suo nascente partito e i due incarichi erano diventati oggettivamente incompatibili. Dopo un breve interregno affidato al Ragionerie generale Canzio, ad aprile si insedia il governo Letta che vuol prendere il toro per le corna e per questo richiama da Washington Carlo Cottarelli. Il supertecnico del Fondo monetario, incarico triennale a 250 mila euro l’anno (ovviamente subito oggetto di polemiche), si insedia a ottobre e a inizio 2014 scodella un piano monstre: subito 7 miliardi di risparmi, quindi 18,1 nel 2015 (poi ridotti a 16) e addirittura 33,9 (quindi scesi a 32) nel 2016. Cottarelli vuol chiudere 2 mila partecipate, accorpare i centri di spesa, tagliare sanità, pensioni, province, corpi di polizia, fondi per le imprese e auto blu. Dopo Letta arriva Renzi ed il lavoro di Cottarelli, appena abbozzato nei mesi precedenti, potrebbe finalmente decollare e invece si affloscia. Palazzo Chigi, che nel frattempo ha preso più potere rispetto al Tesoro, per prima cosa cassa i progetti sulle pensioni e stoppa il taglio di 85 mila dipendenti pubblici. E i risparmi? Si continua con la vecchia prassi dei tagli lineari (o semilineari) introdotti da Tremonti. Ma da 16 ci si deve fermare a quota 8,5 miliardi. Naturale che anche Cottarelli getti la spugna mentre dallo staff del premier lo accompagna l’accusa di «scarsa collaborazione». Da allora è passato un anno e siamo da capo. Adesso lascia anche Perotti, subentrato lo scorso marzo nell’ingrato compito in tandem con Yoram Gutgeld, uno degli strateghi della prima ora della Renzonomics. Perotti spinge per intervenire innanzitutto sulla montagna di spese fiscali (detrazioni, sconti e bonus vari) ma Renzi lo ferma perché non vuole aumentare in alcun modo le tasse. E così la spending review 2016 che puntava a al solito obiettivo ambizioso (16 miliardi) frana: prima scende a quota 10 e poi va addirittura sotto i 5. Per far quadrare i conti Renzi preferisce l’aumento del deficit. Profetico un tweet dell’economista Riccardo Puglisi del 19 agosto: «Ma Perotti - commissario alla spending review - mangerà il panettone?». Gutgeld resta, il Prof invece torna alla Bocconi e laconico spiega: «La spending review non è una priorità del governo». O forse, suggerisce qualcuno, questa non è la stagione adatta per vedere all’opera dei liberisti veri come lui e Cottarelli.

Fuga da Renzi: non taglia gli sprechi. Spending review a zero con l'addio di Perotti dopo Cottarelli. Il premier ha rinunciato a ridurre la spesa pubblica, scrive Antonio Signorini Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. Roma Matteo Renzi un primato lo ha già ottenuto. Ha bruciato due dei quattro commissari alla spending review che sono passati per Palazzo Chigi. Il primo, Massimo Cottarelli, di fatto messo alla porta perché aveva un piano di riduzione alla spesa pubblica troppo dettagliato per i suoi gusti. Stava stretto persino a Enrico Letta che lo nominò, figuriamoci al premier in carica. Il secondo, Roberto Perotti, si è fatto da parte da solo. «Non mi sentivo molto utile in questo momento», ha spiegato. Decisione ufficializzata lunedì sera, ma nota almeno dalla fine di settembre. È durato un anno e tre mesi, a fianco di Yoram Gutgeld. Poco più di 400 giorni passati a studiare un aspetto specifico: la riduzione delle tax expenditure. Sono le agevolazioni fiscali che nascondono misure di spesa a favore delle categorie più diverse. Una giungla di 720 detrazioni che valgono 161,3 miliardi, frutto per lo più di micromisure che si sono stratificate negli anni. Il governo Renzi era sicuro di poterle sfoltire con interventi mirati. All'inizio dell'estate i primi ripensamenti. L'asticella dai due miliardi iniziali è calata a 1,5 e poi sotto il miliardo. Alla fine nella legge di Stabilità è scomparso ogni accenno alle tax expenditures. La spiegazione sa più di marketing che di economia. Le spese fiscali nella contabilità pubblica sono agevolazioni a tutti gli effetti e un loro taglio si traduce in un aumento della pressione fiscale. Renzi non voleva aggiungere nulla alla voce maggiori entrate della stabilità 2016. L'economista e professore alla Bocconi ne ha preso atto e, piuttosto che produrre altre carte destinate a restare nei cassetti di Palazzo Chigi, ha preferito tornare agli studi. Gutgeld, economista ed esponente del Pd, resta, ma dovrà mettere la firma su una spending review ridotta di cinque volte rispetto agli obiettivi originari. Dai 20 miliardi all'anno promessi all'insediamento di Renzi, ai 4 miliardi della Stabilità. Tagli lineari. Niente che assomigli alle spending review dei Paesi che l'hanno applicata, dal Canada al Regno unito passando per l'Olanda. Il disegno seguito da Renzi non è molto diverso da quello dei suoi predecessori. Si parte con le migliori intenzioni promettendo miliardi di tagli selettivi, non lineari e si finisce per raggranellare pochi euro proprio grazie ai tagli uguali per tutti, politicamente poco impegnativi. La situazione è più o meno la stessa dal 1986, da quando Pietro Giarda fu incaricato di guidare la prima commissione. Su circa 800 miliardi di spesa pubblica, quelli «aggredibili» sono poco meno di 300. Nessuno ha aggredito nulla, se non, appunto, con tagli lineari. Risparmi che danno sollievo ai conti nell'anno in corso, ma hanno il difetto di trasformarsi in ulteriori costi negli anni successivi. Il governo Monti, pressato dall'Unione europea, nel 2012 nominò Enrico Bondi con l'intenzione di passare a una fase operativa. Ma nemmeno il manager che ha risollevato Parmalat riuscì a convincere politici e amministratori a tagliare. Il decreto sulla spending review del governo Monti diventò una manovra che servì a rinviare di qualche mese un aumento dell'Iva (poi arrivato) e comprendeva persino nuove tasse. Addizionali locali Irpef e il famoso supplemento di aliquota Tasi-Imu dello 0,5 per mille che doveva essere temporaneo ma che il governo Renzi ha reso permanente. Cottarelli, come Bondi, ha prodotto analisi, ma anche un piano dettagliato e ambizioso. Per l'anno in corso prevedeva 18,1 miliardi di risparmi per il prossimo 33,9. Tutto archiviato. L'unico risparmio in arrivo sarebbe quello dei compensi di Cottarelli e Perotti, se non fosse che a Palazzo Chigi si sta per insediare la nuova «unit economica» guidata da Tommaso Nannicini e altri nuovi esperti. Si occuperanno di tutto, come i dipartimenti della Casa Bianca. Ma non di spendig review.

BEATO IL PAESE CHE NON HA BISOGNO DI EROI PER TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA. Perotti è solo l’ultimo “zar” alla spending review a mollare. Ma a Londra e Madrid i governi sforbiciano in prima persona, scrive Renzo Rosati l'11 Novembre 2015 su "Il Foglio". “Siamo un paese in cui si detraggono dalle tasse le finestre e le palestre”: era il giugno 2011 e Giulio Tremonti se la prendeva con una spesa pubblica “che è come andare al bar e dire: da bere per tutti! E poi chi paga?”. Nella giungla di 470 regimi fiscali di favore pari a 150 miliardi l’allora ministro dell’Economia aveva nominato consulente al disboscamento Vieri Ceriani, già dirigente dell’area tributaria della Banca d’Italia. Ceriani produsse un immenso foglio Excel con tutte le voci detraibili e relativo costo, colorate per importanza, e oltre a finestre e palestre c’erano abbonamenti al bus, ospedali, teatri, musei, enti culturali. Le palestre saltarono, le finestre sono ancora lì; soprattutto ci lasciò le penne Tremonti assieme al Cav. Ceriani invece è sempre consigliere del ministero dell’Economia, ma per il rientro dei capitali dalla Svizzera. Esempio unico di tenacia nella lista dei caduti alla spending review, il cui ultimo esempio è Roberto Perotti, professore alla Bocconi, nominato commissario al taglio della spesa pubblica da Matteo Renzi dopo l’addio del più celebre e movimentista dei predecessori, Carlo Cottarelli, funzionario del Fondo monetario internazionale. “Mi sono dimesso, non mi sentivo più molto utile”, ha detto Perotti, e il motivo resta quello dei tempi delle finestre e delle palestre: il mancato taglio di sgravi fiscali che nella versione dell’interessato valevano 1,5 miliardi, e in quella di Renzi quattro, cifra che secondo il premier avrebbe attirato sul governo l’accusa di cancellare la Tasi con una mano per togliere soldi con l’altra. Chiunque abbia ragione, è evidente che non si trattava di brandire l’ascia né sulle agevolazioni salite intanto a 180 miliardi, né su una spesa pubblica che resta pressoché immobile intorno al 51 per cento del pil, 800 miliardi e passa. Terza in percentuale in Europa dopo Francia e Grecia, ben davanti alla Germania, per non parlare della Gran Bretagna. Graduatoria rimasta immutata durante la crisi, mentre la spesa aumentava in termini assoluti, e con lei il debito pubblico italiano, mentre altrove (Francia esclusa) diminuiva, con l’esempio su tutti di Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Olanda. Per questo, in quello che il Foglio del 15 ottobre definiva il “cimitero” dei commissari italiani alla spesa, troviamo una sfilza di lapidi: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Cottarelli. Ora Perotti. Anche una fugace apparizione di Francesco Giavazzi, chiamato da Mario Monti nel 2012. Resta in campo Yoram Gutgeld, che però è anche deputato Pd di osservanza renziana. Salvo eccezioni, tra le quali Cottarelli, quasi tutti hanno lavorato gratis, contribuendo così, se non a tagliare la spesa, a non aumentarla. Cottarelli è anche la loro star: designato da Enrico Letta, rimasto in bilico con Renzi, subito soprannominato “mister Forbici” dai giornalisti fan, ai tagli mancati ha dedicato un libro – “La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare” (Feltrinelli) – un blog, una notevole presenza mediatica. La sua tesi è che siano le burocrazie ministeriali, alte e basse, a fare catenaccio. Giavazzi sostiene infatti che debba essere il capo del governo in prima persona a metterci la faccia. E se ci guardiamo intorno come dargli torto? Lunedì 9 novembre, mentre Perotti si dimetteva, a Londra il cancelliere dello Scacchiere George Osborne annunciava un nuovo taglio di spesa pubblica pari al 30 per cento dei fondi di quattro ministeri (Trasporti, Ambiente, Tesoro, Autonomie locali), e trattative in corso con altri, per azzerare in quattro anni il deficit di bilancio pari a 99 miliardi di euro. Anche in piena campagna per le elezioni dello scorso maggio Osborne non aveva esitato ad annunciare l’aumento della Vat (l’Iva inglese) e dei contributi previdenziali. Si è scontrato con il segretario del Lavoro Iain Duncan Smith, al quale chiede di risparmiare 12 miliardi di sterline. Il premier conservatore David Cameron, all’inizio del primo mandato nel 2010, era andato a Westminster e aveva fatto il giro delle televisioni per annunciare tagli alla Difesa, comprese portaerei e fregate simbolo della ex potenza imperiale, a welfare, immigrazione e trasporti pubblici. I primi ministri irlandesi Brian Cowen e Enda Kenny, succedutisi durante la crisi, hanno ridotto di cinque punti il peso della spesa pubblica, con l’obiettivo di scendere di altri due, cioè dieci sotto l’Italia. E così il premier spagnolo Mariano Rajoy, che ha tagliato la spesa dal 48 al 43 per cento del pil. All’uscita dalla recessione Dublino, Londra e Madrid hanno fatto segnare i maggiori aumenti della ricchezza nazionale e del reddito individuale. Nessuno ha delegato la pratica a zar né a mister Forbici.

Spending review, Renzi proprio non ce la fa. Anche l'ultimo, ennesimo commissario, Roberto Perotti, lascia l'incarico. E ancora una volta ha vinto lui, il Pachiderma. Il Carrozzone, scrive il 10 novembre 2015 Marco Ventura su “Panorama”. Una progressione impressionante. 2012-2013-2014-2015. Un anno dopo l’altro, dall’albero del governo cascano i commissari alla spending review, dimissionari o svaporati dopo essere stati presentati (e dati in pasto alla stampa e alla pubblica opinione) come i deus ex machina del taglio delle spese. O, meglio, degli sprechi, perché nessun presidente del Consiglio ha mai detto di voler tagliare le spese essenziali. Una dopo l’altra, quindi, si spaccano a terra le “teste d’uovo” della revisione di spesa (per dirla in italiano, che non è propriamente la lingua dei parsimoniosi). Nel 2012 Piero Giarda, che era considerato “l’uomo dei conti”, l’unico in grado di sforbiciare il viale del tramonto dei privilegi e delle prebende. Ma che silenziosamente, forse anche più dei successori, si mette da parte. Non per incapacità sua, ma per mancanza di volontà della politica di metter mano a quella cesoia. Nel 2013 Enrico Bondi, che a differenza di Giarda aveva un’immagine di autentico sforbiciatore, anche nel privato. Un uomo duro, determinato e infallibile. Ma niente. Neanche lui porta a termine il lavoro. Gli subentra, portato in palmo di mano dal governo direttamente dal Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. A lui, con Enrico Letta, l’onere e l’onore di realizzare la riforma delle riforme. Saranno tagliati gli sprechi, dunque, finalmente? Grandi aspettative, grandi promesse. Ottimismo, fiducia, persino un pizzico di furore rivoluzionario. E tanta propaganda. Ma l’elefante partorisce un topolino. Anzi, niente. La vulgata vuole che ogni volta i piani siano pronti a essere scodellati e messi in pratica. Pronti a alleggerire il bilancio dello Stato e consentire il taglio delle tasse. Perché la revisione della spesa va di pari passo con quella del fisco: tagli ciò che è in più, il grasso superfluo del baraccone di Stato in tutte le sue ben oliate e consolidate ramificazioni di voracità, immensa pianta carnivora che drena le risorse dai privati al pubblico; e quel che tagli ti consente di aver più risorse per ridare ossigeno all’economia reale. A parole sembra facile. I numeri ci sarebbero. E i premier, uno dopo l’altro, ci credono. O così pare. Peccato che nel 2014 anche Cottarelli cada (dal pero). Le promesse finiscono in un libro che racconta la telenovela dei tagli mancati, di quello che si sarebbe potuto fare. Volendo. È il 2015. Due, stavolta, i taglia-spese, a riprova di una volontà (a parole). Matteo Renzi sostiene i suoi personali “commissari”: il fiore all’occhiello Roberto Perotti, con un curriculum accademico lungo così e largo cotanto. E Yoram Gutgeld, il fido Yoram Gutgeld. Nel frattempo, tutti i capitoli di taglio della spesa sono stati citati e sviscerati, dalla razionalizzazione delle spese sanitarie all’intervento sulle detrazioni (ma solo per certe categorie privilegiate), dallo spegnimento dei lampioni nelle strade alla decurtazione dei vitalizi. Le proteste più eclatanti, non per i numeri della partecipazione ma per la qualità delle teste protestanti, le inscenano i dirigenti del Tesoro (che la spending review dovrebbero scriverla) e i consiglieri parlamentari che dovrebbero approvarla. Stato contro Stato. La tigre dell’alta burocrazia contro la tigre della politica. Matteo Renzi, perfino lui (ovviamente lui?), si arrende e ammette che sulla spending review avrebbe voluto far di più (ma non lo fa), ben sapendo che anche Perotti a questo punto si dimetterà. Resta, unico sopravvissuto, Gutgeld. Ma che ci sia o no, forse non conta. O non sconta. Morale della favola: ha vinto il Pachiderma. Il Carrozzone.  

Spending review, sotto a chi tocca, scrive Roberto Santoro su “L’Occidentale” il 10 Novembre 2015. Dura la vita per commissari e consulenti alla spending review. Se ne va anche il bocconiano Perotti, il quale, dopo ponderati studi sugli sprechi e sulla spesa dello Stato, su cosa, come e dove tagliare, realizza che è meglio tagliare la corda, dimettendosi in diretta televisiva. Perché quelli della spending sono fili ad alta tensione, chi accetta una carica del genere realizza presto quant’è mortale: Giarda che voleva 80 mld di tagli subito e altri 300 sul lungo periodo, le stagioni di Bondi e di Canzio, fino al caso Cottarelli, da funzionario dell’FMI a guru di Palazzo Chigi che prima critica la maggioranza sulle coperture di spesa e poi se ne torna a Washington “per motivi personali”. Del resto non ci riuscì Monti ad aggredire la spesa, che pure non aveva problemi di consenso (almeno finché il Senatore non decise di seguire le sue ambizioni politiche), non ci riesce Renzi, che nella trincea della spending ha ancora al suo fianco l’ex McKinsey Gutgeld, anche se quest’ultimo, eletto nel Pd, risponde a delle logiche più interne alla politica e ai partiti. Le stesse che evidentemente spingono i “tecnici” a fare le valigie. Sia chiaro, non siamo iscritti al partito gufo. Dai tempi di Monti, passando per Letta fino ad arrivare a Renzi, la spesa pubblica è rallentata. Gli spread non sono più motivo di angoscia per la nostra giornata e il ministro Padoan oggi in Europa può rivendicare margini di flessibilità, usando qualche parola di conforto anche per il vero mattonazzo della nostra finanza pubblica, il debito in termini assoluti. Ma detto questo, senza la spending, senza tagli nelle PA dove snidare sprechi e inefficienze, senza uno scatto di reni sulla riforma delle partecipate di Comuni e Regioni, e più in generale una riflessione profonda sulla presenza, ingombrante, dello Stato nella società italiana, per non dire del fallimento del Titolo V, probabilmente continueremo a vedere una sfilata di tecnici, consulenti e commissari che marciano sicuri di sé in passerella e poi se ne vanno o si dimettono sul più bello. Il presidente del consiglio Renzi sa che stiamo parlando di misure impopolari, che non portano consenso prima delle elezioni, per questo nicchia o non affonda come dovrebbe, pensando al suo stile. Puntare alla riduzione delle tasse, in particolare quelle sulla casa, va bene, siamo tutti d'accordo, ma ridurre le tasse senza ridurre la spesa, il rischio di una manovra in espansione, il trovare coperture “a sbalzi” rimandando i pagherò al domani, è la vera ragione della depressione dei suoi consulenti. Forse il Governo farà qualcosa dopo i prossimi e importanti appuntamenti elettorali a livello locale, forse qualcuno dopo Renzi alzerà di nuovo le tasse o sarà Renzi stesso a trovare altre ricette, ma una cosa è certa, i conti devono tornare, a Roma come a Bruxelles. Intanto aspettiamo un nuovo asso nella manica, l’ennesimo curriculum di platino, il tecnico dei tecnici che ci venga a dire secondo lui come si fa ad avere uno Stato più leggero, imprenditore e che funzioni meglio.

Da Giarda a Perotti zero tagli. Perché piangiamo sui tagli? Scrive Lucio Fero su "Blitz Quotidiano" l'11 novembre 2015. Domanda impertinente e insolente: perché l’Italia tutta da anni piange lacrime amare sui tagli alla spesa pubblica? Ma che domanda! Perché da anni la spesa pubblica è sottoposta a tagli che sono amputazioni, perché da anni sacrifici per tutti, se non addirittura “macelleria sociale”. Quindi che razza di domanda che fai, ma dove vivi, non li leggi i giornali, non la senti la televisione? In effetto sono anni che la stampa e la tv piangono anche loro i tagli alla spesa pubblica. Non solo versano lacrime di cordoglio sui tagli, li danno per ovvi, scontati, vissuti. In ogni articolo, titolo, intervista, chiacchiera si parte dal dato di fatto che la spesa pubblica in Italia è stata da anni pesantemente tagliata. Dato di fatto? Freschi di stampa e di televisione sono i dati che tutti riportano, non senza rammarico e ammonizione ai governi. Pietro Giarda nel 2012, commissario alla revisione della spesa pubblica, individua cinque miliardi da tagliare e tagliabili subito. Non se ne fa nulla, non si taglia niente. Enrico Bondi, commissario alla stessa cosa dopo Giarda, individua 14 miliardi da tagliare in due anni. Bondi sparisce, i miliardi da spendere restano. Carlo Cottarelli, commissario numero tre, individua 7 miliardi da tagliare nel 2014, 16 nel 2015…Non verrà tagliato un euro. Ultimo commissario Roberto Perotti propone taglio un paio di miliardi dopo aver calcolato dieci e poi cinque…Niente, Perotti si auto taglia. E non è neanche un taglio di spesa microscopico, Perotti lavorava gratis. La morale politica e sociale è che in Italia non c’è stato e forse non ci sarà mai governo che abbia davvero la forza e la voglia di tagliare la spesa pubblica, anzi quella parte della spesa pubblica che, non essendo pensioni, stipendi, sanità, tagliabile sarebbe eccome. Fanno cento miliardi di euro abbondanti all’anno che dallo Stato scivolano in ruscelli anche minimi sul “territorio”, cioè categorie, gruppi, votanti, elettori, gente. Pessima od ottima notizia che sia, questo è il dato di fatto: non si taglia, non si è mai tagliato. Spesa pubblica zero tagli. Come conferma peraltro la percentuale di spesa pubblica rispetto al Pil sempre saldamente sopra il 50 per cento da anni e anni e anni. E allora la domanda, in primo luogo a giornali e televisioni che almeno l’alfabeto del reale dovrebbero conoscerlo…Come si fa a criticare i mancati tagli di spesa pubblica mentre ogni pagina dà per scontati, ovvi e avvenuti i tagli di spesa pubblica? Come si fa a piangere insieme il danno dei governi che non tagliano e il danno dei tagli sofferti? Come si fa ad avere memoria zero anche delle proprie stesse pagine e parole? Si fa, si fa… E si fa senza troppa fatica, tanto se ne accorge nessuno o quasi. Altrimenti per raccontare, riflettere, riferire, capire la realtà occorrerebbe gran fatica. Vedere, quindi spiegare, quindi sopportare il danno di certa impopolarità. Vedere, spiegare che diminuendo il Pil la spesa pubblica qua e là è diminuita in cifra ma non in percentuale. Vedere, spiegare che i “tagli” sono quasi sempre sulle aspettative di crescita della spesa pubblica e non sulla spesa pubblica “abituale”. Vedere che la superficialità e spregiudicatezza del ceto politica e della sua comunicazione hanno colonizzato il mondo dell’informazione che ormai parla la lingua del colonizzatore. Contribuendo quindi al paradosso di un paese tutto che si sente tutto in credito, tutto “tagliato” mentre nulla o quasi è stato davvero tagliato. Salvo poi corrucciarsi, i giornali e le tv, quando i Commissari alla spending review mollano perché non si taglia un tubo. 

La Boldrini spende 40mila euro in lavanderia: tutti gli sprechi della Camera. Più di un milione di euro per fotocopie e per trasportare lettere per 350 metri. E spuntano anche 90mila euro per assicurarsi del buon trattamento dei migranti nei centri di accoglienza, scrive Giuseppe De Lorenzo il 21 agosto 2015 su "Il Giornale”. La spesa più bizzarra è indubbiamente quella che gli onorevoli deputati (a nostre spese) sosterranno per smacchiarsi i vestiti. Nel bilancio della Camera guidata da Laura Boldrini, approvato il 5 agosto, infatti, è iscritta una voce che parla chiaro: 40.000 euro per il servizio di lavanderia. Una cifra incredibile, immaginando che le giacche e le cravatte (ormai se ne vedono poche) i deputati se le laveranno a casa. Ma non c'è solo questo. La relazione dei Questori e gli annunci della Presidenza parlano di un bilancio ridotto praticamente all'osso. Falso. E' vero che la "spesa prevista per il 2015 si riduce di 50,5 milioni di euro rispetto al 2014 (-4,87%)" e che si attesta sotto il miliardo di euro. Ma parliamo pur sempre di 986,6 milioni di euro. Ed è anche vero che i soldi che lo Stato da qui al 2017 dovrà sborsare sono "solo" 943,16 milioni di euro all'anno, come è corretto dire che nel 2015 saranno restituiti al bilancio dello Stato 34,7 milioni di euro, che dal 2012 i deputati hanno fatto risparmiare allo Stato sono 223 milioni di euro. Ma le voci in cui si annidano sprechi e spese incomprensibili sono ancora eccessive. Troppe e con troppi soldi gettati al vento. Vediamoli, partendo dallo spreco più eclatante. La Camera può vantare il possesso di un meraviglioso palazzo sorto "in epoca paleocristiana nel cuore del Campo Marzio". Un gioiello, e come tale costa parecchio per la manutenzione. Per la precisione 1milione e 140mila euro per il supporto operativo nella sede di Vicolo Valdina. Per cosa vengono spesi? Basta andare a leggere nel bando di gara. L'appalto è di durata triennale e l'azienda vincitrice deve assicurare, tra le altre cose, la "movimentazione, anche tramite carrello, di plichi, faldoni, risme di carta, cancelleria, etc.", poi "l'accoglienza e l'accompagnamento ai piani dei frequentatori della sede" e "'esecuzione di attività di riproduzione fotostatica o fascicolazione di documenti". Insomma, più di un milione di euro per fare fotocopie, trasportare faldoni e recapitare la "corrispondenza e di ulteriori materiali". Per questo particolare compito, il bando precisa che i funzionari dovranno assicurare il "ritiro e la consegna della corrispondenza all'interno del Complesso e tra il Complesso e tutte le altre sedi della Camera dei deputati (...) e il recapito, con idonei mezzi di trasporto, della corrispondenza dei deputati tra il Complesso e le sedi degli altri organi costituzionali e dei ministeri ubicate nel comune di Roma". C'è da chiedersi quali siano gli "idonei mezzi di trasporto", considerando che tra Palazzo Montecitorio e Vicolo Valdina, dove è sito il complesso, ci sono appena 350 metri. Fatti a piedi significano circa 4 minuti (diciamo 5 in caso di pioggia), che diventano 6 se fatti in auto. E considerare che la Camera già spende 1.660.000 euro per "trasporto e facchinaggio". Tra le spese, va detto, ci sono anche quelle per il servizio di guardaroba. Un’altra di quelle voci di spesa della Camera che sembrano eccedere la logicità: nel bilancio sono stati previsti 150.000 euro per tenere a bada cappotti e cappelli dei deputati. Per non parlare poi delle spese di pulizia. Laura Boldrini, evidentemente attenta al pulito, si è assicurata una spesa di 6milioni e 550mila euro per l'igiene. Precisamente: 40.000 andranno alla lavanderia, 6.100.000 all'impresa di pulizie e 410.000 per lo smaltimento dei rifiuti. Altro punto poco chiaro riguarda le capacità poliglottiche degli onorevoli. I corsi di lingua, infatti, sono tutti a carico dei contribuenti: 300.000 euro nel 2015, cui va aggiunto il residuo di quelli ancora non pagati nell'anno passato, che ammontano a 295.113,70 euro. In totale quasi 600mila euro in docenti di inglese e di informatica. La cosa più curiosa, poi, è che evidentemente queste lezioni non danno i frutti sperati. O almeno non fino in fondo. Le tasse degli italiani, infatti, vanno a coprire anche le spese per "traduzioni e interpretariato". Che, sommando tutti i casi in cui vengono citate, si parla di 515mila euro. Andiamo oltre. Ogni anno vanno in fumo circa 35mila euro per sostenere la commissione che indaga (ancora) sulla morte di Aldo Moro e 340.000 euro per finanziare vari ed eventuali "convegni e conferenze". Tralasciando poi i 63 milioni di "rimborso delle spese sostenute dai deputati per l’esercizio del mandato parlamentare" (sul quale spesso ricadono enormi dubbi per il modo in cui vengono utilizzati) ci sono ulteriori 15 milioni e 910mila euro legati a spese non specificate, ma inserite in generiche voci chiamate "altre" o "accessorie". Infine, spuntano anche i 90.000 euro che ogni contribuente contribuirà a versare per permettere ad una commissione speciale di assicurarsi che i profughi abbiano tutto quello che gli occorre nei vari c'entri d'accoglienza sparsi per l'Italia. Una spesa di cui, sinceramente, non si sentiva il bisogno.

Come la Camera dei Deputati boccia se stessa. La Commissione di Montecitorio abolisce i tagli introdotti da Boldrini e Sereni: sì al tetto dei 240 mila euro, ma no alla sforbiciata sugli stipendi dei funzionari. Così, i 60 milioni di risparmi annunciati fino al 2018 rischiano di ridursi a 13 milioni. L'ufficio di presidenza annuncia ricorso. La battaglia tra caste continua, scrive Adriana Botta su “L’Espresso”. La Camera taglia, la Camera boccia i propri stessi tagli. E dopo aver annunciato una sforbiciata per 60 milioni di euro nel quadriennio 2015-2018, rischia seriamente di veder ridotto lo sbandierato dimagrimento a meno di un quarto del totale: 13 milioni di euro. E’ questo l’inedito boomerang che ha colpito i vertici di Montecitorio: dopo la corsa al taglia-taglia gli stipendi del personale, nel quale lo scorso anno sia la presidente Laura Boldrini che la vice Marina Sereni si erano distinte per impegno – spalleggiate anche da Renzi e dal Pd - arrivando a settembre 2014 all’approvazione unilaterale in ufficio di presidenza (contrarie tutte le 25 sigle sindacali) dei tagli modulari a tutti i ruoli del personale, adesso arriva lo stop a sorpresa. A seguito del ricorso dei dipendenti, con una sentenza notificata il 30 luglio, infatti, la commissione giurisdizionale per il personale di Montecitorio – organo interno, per ironia peraltro composto quasi solo da deputati Pd - ha bocciato la legittimità di quei tagli. Dando nei fatti ragione a quanti tra dipendenti e sindacati, nel corso delle trattative, parlavano di una norma "incostituzionale” perché violava il “principio più volte stabilito dalla Consulta circa il divieto di modificabilità della carriera in corso di rapporto di lavoro”, e ledeva sia “i diritti acquisiti” dei dipendenti più anziani, sia “le legittime aspettative” di un “avanzamento retributivo” “ben codificato”. Ma quale è esattamente il punto? Un anno fa, l’ufficio di presidenza di Montecitorio non si limitò ad adottare il tetto massimo di 240 mila euro annui per i funzionari pubblici che il governo aveva appena introdotto. Volle fare di più: per dimostrare risparmiando di “non essere sordi a quel che avviene nel paese” (come disse Boldrini), ma anche per mantenere la differenza monetaria oltreché di status fra le varie categorie lavorative (segretari generali, consiglieri, documentaristi, segretari, commessi, tecnici), per evitare appiattimenti si introdussero i cosiddetti “sotto-tetti”, ossia tagli proporzionali a tutti i livelli dei dipendenti di Palazzo. Una sforbiciata generale, che secondo i calcoli ha toccato circa il 40 per cento del personale, ossia quelli che hanno già superato il ventennio di servizio (lo scatto di stipendio maggiore arriva al ventitreesimo anno di servizio). E’ proprio questa decisione sui sotto-tetti, quella bocciata dalla Commissione giurisdizionale: pur ribadendo l’autonomia della Camera, infatti, la sentenza spiega in sostanza che ci si può ispirare alla legge che prevede il tetto dei 240 mila euro, ma non aggiungere ulteriori limiti per le altre categorie di dipendenti – non previsti da quella legge. Il che, era proprio il punto contestato all’epoca dai sindacati, che si erano detti favorevoli al limite dei 240 mila euro, ma contrari alla complessiva rimodulazione. Non che la sforbiciata sia stata annullata del tutto. Spiega infatti la presidente Boldrini, che la decisione è provvisoria: «Sono saltati i tetti agli stipendi dei dipendenti della Camera? Non è vero. La decisione sarà presto riesaminata». Ovviamente, quella che volendo può chiamarsi una guerra fra caste nel nome dei tagli (politici contro Palazzo) non è finita qui. L’ufficio di presidenza ha infatti già presentato appello contro la sentenza, che quindi resta sospesa fino a settembre, quando si avrà la parola definitiva. In un caso e nell’altro, comunque, si dovrà scegliere tra due paradossi: o un segretario generale (che fino all’anno scorso prendeva 478 mila euro) finirà per guadagnare quanto un consigliere parlamentare a fine carriera (240 mila euro, appunto) e poco più di un documentarista (237 mila euro, sempre a fine carriera), oppure si dovrà escogitare un altro sistema che eviti l’appiattimento senza però risultare illegittimo. Servirà insomma una soluzione complessiva: anche perché al Senato la stessa vicenda ha preso una piega opposta (i sottotetti sono stati giudicati legittimi), e il tutto dovrà essere armonizzato con il cosiddetto ruolo unico dei dipendenti dei due rami del Parlamento. La valanga dei ricorsi, peraltro, non può dirsi ancora finita. Alla prossima.

Camera, commessi a 232 mila euro e barbieri a 143 mila: l’Italia che resiste, scrive Alessandro Camilli su “Blitz Quotidiano”. Duecentoquarantamila euro, tanto può guadagnare al massimo il Presidente della Repubblica e tanto possono guadagnare, al massimo, i dipendenti pubblici, compresi ovviamente   quelli della Camera dei Deputati. Stipendio bloccato grazie al tetto imposto ed introdotto l’anno scorso per la pubblica amministrazione che a Montecitorio aveva portato con sé anche dei limiti intermedi, dei sottotetti continuando la metafora, che si sono però rivelati stretti, troppo, per chi li doveva “subire”. Così stretti che gli interessati hanno presentato ricorso, accolto dalla Camera   stessa, realizzando la meraviglia, il paradosso per cui i commessi possono continuare a sfiorare a fine carriera lo stipendio dell’inquilino del Quirinale toccando i 232 mila euro e i barbieri (7 a Montecitorio) continuare a costare 500mila   euro ogni dodici mesi con il più anziano che vanta uno stipendio da 143mila euro. “L’anno scorso – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – si era stabilito di applicare il tetto dei 240 mila euro per gli stipendi pubblici anche ai dipendenti di Montecitorio, dove le retribuzioni   arrivano anche a superare anche il doppio di quella cifra. Avevano dunque fissato il tetto massimo per i superdirigenti, introducendo limiti di fascia più bassi per le categorie inferiori in modo da   graduare i compensi”. La vicenda nasce nell’ambito del contenimento della spesa pubblica con la decisione del governo, nell’aprile 2014, di introdurre un tetto ai dirigenti della pubblica amministrazione, fissato a   240mila euro. A questa norma si sono in seguito adeguate tutte le istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica, passando poi dal Senato e dalla Camera. In particolare alla Camera   sono stati introdotti dei tetti per i consiglieri parlamentari, che sono i funzionari di più alto livello (che a fine carriera avrebbero potuto raggiungere anche i 358mila euro lordi annui), e poi dei   sottotetti per le altre figure professionali. Il dipendente di più basso livello, l’operatore tecnico o il commesso che a fine carriera raggiungeva i 136mila euro lordi annui, dopo la delibera aveva visto   la cifra scendere a 96mila, per fare un esempio. La logica sottesa all’introduzione dei sottotettiera quella di modulare la retribuzione massima in   modo da evitare che due funzioni diverse, come ad esempio il commesso della Camera ed il Presidente della Repubblica, potessero essere retribuite praticamente allo stesso modo. Logica chiara e, evidentemente, ineccepibile. Almeno dal punto di vista teorico. Eccepibile invece dal punto di vista pratico tanto che gli interessati, come detto, hanno presentato ricorso. E grazie al regolamento della Camera dei Deputati il ricorso dei dipendenti della Camera, e   scusate le inevitabili ripetizioni, è stato presentato alla Camera dove dei parlamentari della Camera che compongono la commissione competente lo hanno accolto stabilendo che la decisione della Camera era sbagliata. Sembra folle, sembra italiano non corretto eppure è così e, ancora una volta, a spiegare l’accaduto è Rizzo facendo ricordo al termine ‘autodichia’ che, nella definizione della Treccani, è “l’esercizio di attività formalmente giurisdizionale da parte della   pubblica amministrazione”. Cioè il principio in base al quale le decisioni di un organo costituzionale come il Parlamento non sono sindacabili dall’esterno. “Davanti alla proposta di applicare tetti diversi – spiega Rizzo -, commessi e documentaristi hanno abbozzato e hanno fatto ricorso all’organo giurisdizionale interno. Si tratta di una   commissione composta da deputati. E ovviamente ha accolto il ricorso presentato dall’avvocato   dei dipendenti riottosi: l’ex deputato Maurizio Paniz. Tutto in famiglia insomma”. Risultato: il risparmio previsto da qui al 2018 per Montecitorio passerà da 60 a 13 milioni di euro. Raramente barba e capelli sono costati tanto. Eppure commessi, documentaristi, barbieri e addetti vari della Camera dei deputati non sono soli. Sono soltanto un segmento della vasta Italia che resiste. Resistono gli autisti Atac nella trincea dell’orario di lavoro effettivo più basso d’Italia e certo d’Europa. Resistono i dipendenti comunali nella trincea del salario accessorio percepito senza lavoro o produttività accessoria, resistono tutti nei bunker conquistati finora, strappati alla lobby a fianco o comunque espugnati demolendo il pubblico denaro. Resistono tutti indifferenti al mondo, all’intero resto del mondo. Solo che non è proprio la stessa cosa resistere ottusamente se si guadagnano 1.500/2.000 euro al mese o se lo stipendio è cinque volte tanto. Non sono soli questi lavoratori della Camera dei deputati a pretendere ciò che non gli spetta, solo è che non si possono guardare tanta è la loro protervia. Come diceva un tale che faceva il filosofo…dopo una certa misura la quantità stessa muta la qualità, dopo un botto di stipendio infatti il corporativismo sindacale muta in indecenza sociale.

Fata Boldrini trasforma i barbieri in parrucchieri. Oltre alla barba anche la piega per le deputate. Il servizio alla Camera parte da domani, scrive Laura Della Pasqua l’8 giugno 2014 su “Il Tempo”. Taglio, messa in piega, colore e permanente, da domani la Camera fornirà anche questi servizi. È da tempo che le parlamentari reclamano i parrucchieri in nome del pari trattamento con i colleghi. Perchè, è stata la lamentela ricorrente, «dobbiamo uscire dal Palazzo per una piega quando i deputati possono farsi in qualsiasi momento barba e capelli?» Così siccome il «problema» era particolarmente sentito e siccome anche in questo, sostiene più di una deputata, si vede la piena attuazione delle «pari opportunità», ecco che il presidente della Camera Laura Boldrini ha cercato di rimediare a questa carenza. Una recente delibera del Collegio dei Questori ha disposto un servizio di parrucchiere da affiancare a quello di barbiere. Non ci saranno assunzioni nè aumento dei costi e tantomeno listini di favore. La segreteria della Boldrini ci tiene a precisare che con questo servizio, la Camera addirittura ci guadagna. Come? I barbieri infatti si sono riconvertiti in parrucchieri. La segreteria del presidente spiega che i sette barbieri operativi a Montecitorio già in parte esercitavano le funzioni di parrucchiere su richiesta di alcune deputate. Capitava infatti che qualcuna avesse bisogno di una piega espressa e invece di uscire dalla Camera, prendere appuntamento con un parrucchiere e mettersi in attesa, chiedesse a un barbiere di improvvisarsi coiffeur. Insomma tra una barba e un’altra, un paio di bigodini non si negavano a nessuna. Il problema era però che questi servizi extra venivano fatti a prezzi da barbiere che, come si sa, sono più bassi di quelli di un parrucchiere. Un conto è fare una sfumatura maschile e un conto è invece tagliare una chioma femminile. Inoltre quelle che fino alla scorsa legislatura, erano richieste sporadiche, eccezionali, ora con la massiccia presenza di donne alla Camera (il 30% degli eletti) è diventata, fanno notare presso la presidenza, quasi una necessità. Così la Boldrini, come spiega la sua segreteria, ha pensato che era arrivato il momento di fare una distinzione tra il servizio di barbiere e quello di parrucchiere introducendo un listino ad hoc per le parlamentari. I prezzi, si tiene a precisare, sono quelli di mercato. E dal momento che la spending review non consente di allargare i cordoni della spesa, i barbieri svolgeranno la doppia funzione. Gli uffici della Camera sostengono che Montecitorio ci andrà addirittura a guadagnare. Ma un interrogativo sorge spontaneo: non è che con l’aumento dell’attività i barbieri-parrucchieri reclameranno un aumento di stipendio? Andando a spulciare le tabelle sulle retribuzioni del sito della Camera, avrebbero poco da lamentarsi anche se il lavoro dovesse raddoppiare. I barbieri rientrano nella categoria degli operatori tecnici al pari dei falegnami, dei baristi, degli elettricisti e dei centralinisti. Appena entrato un barbiere della Camera porta a casa circa 30.351 euro l’anno (quasi 2.600 euro al mese); una cifra che dopo il decimo anno arriva a 50.545 euro, dopo vent’anni lievita a 89.528 euro e dopo quarant’anni di servizio sale a oltre 136 mila euro. Questi scatti di anzianità così rapidi hanno avuto, almeno fino al varo della riforma Fornero, un impatto significativo sulle pensioni. Con il vecchio sistema retributivo, il vitalizio si calcolava tenendo presente le ultime buste paga. Comunque anche a fronte della riforma previdenziale, l’assegno pensionistico rimane di tutto rispetto e molto al di sopra di quello di quanti svolgono la stessa attività fuori dal Palazzo. Il Reparto Barberia, questo il nome ufficiale, fino al 1991 era gratuito e per le senatrici era previsto addirittura un bonus messa in piega. Nel 2007 arriva anche all’ordine del giorno la proposta di eliminare il servizio da barbiere ma viene cassata perché ritenuta «non coerente con le scelte della Camera». Ora si cambia ancora.

La Camera salva i barbieri e li promuove a commessi. L'ufficio di presidenza risolve all'italiana il caso dei coiffeur in esubero: invece di licenziarli vengono inquadrati come assistenti parlamentari. Stipendio finale: 136mila euro all'anno, scrive Paolo Bracalini, Domenica 31/01/2016, su "Il Giornale". I barbieri della Camera, creature mitologiche che, per saper usare forbici e schiuma da barba, arrivano a guadagnare a fine carriera come un dirigente di una multinazionale, 136mila euro l'anno di stipendio. E, a differenza dei barbieri normali che si accollano il rischio di un negozio, se sulle loro poltrone non si siede nessuno per loro non cambia niente: sono assunti a vita dal Parlamento. Ma c'è ancora di più, se i barbieri di Montecitorio si rivelano in eccesso rispetto alle esigenze delle onorevoli chiome, non vengono tagliati ma al contrario, promossi. Miracoli dell'incredibile welfare assicurato ai dipendenti della Camera, difesi da una dozzina di sigle sindacali differenti e pronti a scioperare al minimo segnale di affronto ai diritti acquisiti. Negli ultimi anni il Reparto Barberia ha ridotto gli introiti, 90mila euro circa a fronte di un costo di 500mila euro per il bilancio di Montecitorio, ovvero 400mila euro in perdita. Si calcola che taglino i capelli non più di 23 volte alla settimana, in tutto. Una soluzione andava trovata. Ma l'Ufficio di presidenza della Camera, composto da ventun deputati e guidato da Laura Boldrini, dopo annunci mirabolanti di spending review anche per il Reparto Barberia della Camera (addirittura l'ipotesi di chiuderlo), si è dovuto piegare di fronte ai diritti intoccabili. E che piega. L'estenuante trattativa è finita a tarallucci e vino, con una delibera del massimo organo interno di Montecitorio che tiene aperto l'indispensabile servizio di barberia per gli onorevoli (esteso per pari opportunità, su indicazione della Boldrini, anche alle deputate come servizio di parrucchiere), con la differenza che i barbieri in servizio non saranno più sette, ma quattro. E gli altri tre? Qui sta il colpo di genio. I tre barbieri in esubero da domani diventeranno «assistenti parlamentari». In altre parole verranno promossi, perché l'inquadramento dei barbieri alla Camera è quello di «operatore tecnico», livello più basso rispetto all'«assistente parlamentare», a cui si accede per concorso come per le altre qualifiche. E la funzione dell'assistente parlamentare è così descritta da un documento della Camera: «Gli assistenti parlamentari svolgono attività operative o di coordinamento nei settori della vigilanza, della sicurezza delle sedi, della rappresentanza e dell'assistenza alle attività degli organi parlamentari». Ma che ne sanno i barbieri di vigilanza e assistenza alle attività degli onorevoli, tolte le esigenze collegate ai bulbi piliferi? Non importa. «Non potevamo fare altrimenti, non si possono licenziare - ci racconta un deputato membro dell'Ufficio di presidenza che preferisce restare anonimo - E quindi l'alternativa era tenere tutti i barbieri della Camera e pagarli inutilmente, o spostarne alcuni ad altre mansioni trasformandoli in assistenti parlamentari. Faranno i commessi, mica vanno a fare i consiglieri legislativi!». Tutti salvi e anzi promossi. In barba alla spending review. 

Diabolus in politica. Perché è stato bocciato il tetto massimo di 240 mila euro fissato invece per tutti i funzionari della pubblica amministrazione, scrive Serenus Zeitblom su “Panorama”. Gli stipendi dei politici vi sembrano alti? Cambiereste idea se conosceste gli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato. Fino all’anno scorso, i più alti funzionari di Montecitorio arrivavano a guadagnare quasi 360.000 euro l’anno, vale a dire il triplo dell’indennità che percepisce un deputato. Lo scorso anno, i vertici dei due rami del Parlamento decisero di applicare, congiuntamente, un tetto analogo a quello che il Governo Renzi aveva disposto per il resto della pubblica amministrazione. I funzionari di Palazzo Madama e di Montecitorio non avrebbero percepito più di 240.000 euro l’anno, comunque il doppio dei deputati (ad entrambe le categorie vanno poi aggiunte indennità varie). Vi sembra ancora troppo? Tenete presente che si tratta di funzionari di altissimo livello, il meglio di cui la pubblica amministrazione disponga. Vengono selezionati attraverso concorsi molto severi e – bisogna riconoscerlo – non troppo lottizzati politicamente. Naturalmente, secondo logica, si decise in quel momento di diminuire anche gli stipendi delle altre categorie di dipendenti dei due palazzi, provvedimento certamente logico e necessaria conseguenza dell’altro (si tenga conto che quasi la metà del totale dei dipendenti della Camera – compresi commessi e centralinisti - guadagnava più di un deputato). Ma qui le cose non sono andate lisce. Se nel caso degli alti funzionari si ebbero solo composti mugugni, qui si misero di mezzo i sindacati, e fioccarono i ricorsi. Ricorsi alla Magistratura? Niente affatto: la Camera è un organo costituzionale, e quindi – come per il Senato, il Quirinale, la Corte Costituzionale - vale il principio dell’autodichìa, per effetto del quale è la Camera stessa, attraverso un organo apposito, a giudicare sui ricorsi. Questo organismo si chiama Commissione Giurisdizionale per il personale, ed è composto da 3 deputati, estratti a sorte. In questa legislatura la sorte ha voluto, un po’ curiosamente, che i 3 membri fossero tutti del PD: gli on. Bonifazi (Presidente), Ginefra, Bonavitacola. Nessun problema, si dirà: la delibera che poneva un tetto alle retribuzioni è stata assunta dall’Ufficio di Presidenza della Camera, a stragrande maggioranza PD, in attuazione di un orientamento del Governo Renzi (PD). E invece no: nei giorni scorsi la delibera è stata bocciata, i ricorsi accolti. Lodevole esempio di indipendenza di giudizio di deputati PD che decidono secondo coscienza, o terrore di scontentare i sindacati? Vediamo. La motivazione della sentenza che accoglie i ricorsi ha poco di tecnico. Il tetto alle retribuzioni, secondo i tre deputati del PD “viola il principio di ragionevolezza” e non giova all’amministrazione, perché i dipendenti, privati “delle leve di incentivazione determinate dal consolidato sviluppo stipendiale” potrebbero dar luogo “a comportamenti poco virtuosi e a cali di produttività determinati dall’assenza di competizione”. Fuori dagli orrori del burocratese, significa che i lavoratori della Camera (al Senato un ricorso analogo è stato respinto), secondo i tre del PD, senza l’incentivo di aumenti di stipendio diventerebbero meno produttivi o addirittura “meno virtuosi”. In effetti, c’è da capirli. Si tratta di modesti lavoratori, che devono mantenere la famiglia lavorando duramente per un tozzo di pane: come si può chiedere a una segretaria di essere motivata a lavorare con impegno se guadagna solo 115.000 euro l’anno? (lordi, s’intende). Come si può pretendere che un commesso spenga le luci o distribuisca la posta fra gli uffici con dedizione e impegno sapendo che non prenderà mai più di 99.000 euro l’anno? Per fortuna il PD ha corretto queste storture, questo vero attentato ai diritti dei lavoratori, e si è tornati al regime precedente. Uno stenografo potrà tornare a percepire 256.000 euro l’anno (più del Segretario Generale), un barbiere anziano ed esperto, che “porta in dote il bagaglio professionale acquisito in anni di servizio” come scrivono i tre del PD, sarà premiato per le sue rasature con 160.000 euro l’anno (il 30% in più di un deputato). Poi dicono che il PD non è più un partito di sinistra: un simile esempio di socialismo reale – a spese dei contribuenti - persino Lenin se lo sognava!

"La lista della spesa". La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Si è parlato tanto di spending review, di taglio agli sprechi..ma cosa è stato fatto? E soprattutto, cosa si può davvero tagliare della spesa pubblica? Carlo Cottarelli, classe 1954, laureatosi a Siena e alla celeberrima London School of Economics, ha alle spalle una lunga carriera in Banca d’Italia, Eni e al Fondo Monetario internazionale. E’ salito alla ribalta quando è stato nominato commissario straordinario per la Revisione della Spesa, incarico che ha ricoperto da ottobre 2013 a novembre 2014, proprio con il compito di individuare i tagli da fare per ottimizzare la spesa pubblica. Dalla sua attività sarebbero dovuti scaturire milioni di euro, eppure ancora poco si è mosso. Per spiegare agli italiani che cos’è la spesa pubblica, Cottarelli ha scelto di raccogliere nel libro “La lista della spesa” le sue riflessioni (e la sua diagnosi) in merito a questo grande “mistero italiano”. Ed ecco che ne deriva una lettura acuta del nostro paese, di come spende e di perché si spende, una sorta di guida che illustra dove vanno a finire le tasse che paghiamo, se spendiamo davvero troppo per i servizi pubblici e perché i tagli tanto promessi da tutti i politici tardano ad essere sempre concretizzati. Chi se non lui poteva svelare cosa si può davvero tagliare in Italia? Una lettura acuta per conoscere un po’ meglio il nostro paese.

Carlo Cottarelli ha goduto per qualche tempo di grande attenzione mediatica. È stato nominato commissario straordinario alla spending review, dal suo lavoro dovevano arrivare milioni di euro per le esauste casse dello stato italiano, al termine del suo mandato è stato invitato in tutte le televisioni e intervistato da tutti i giornali. A distanza di mesi, Cottarelli affida a questo libro le sue riflessioni, i suoi ricordi, le sue diagnosi per cercare di spiegare al grande pubblico uno dei grandi misteri dell’Italia: quell’enorme calderone che è la nostra spesa pubblica. Senza tecnicismi ma non tralasciando nulla di importante, Cottarelli ci guida nei meandri del bilancio statale, facendoci scoprire man mano il grande meccanismo che regola la nostra vita di cittadini, un meccanismo di cui abbiamo solo una vaga percezione, al tempo stesso minacciosa e sfocata. Dove vanno a finire tutti i soldi che paghiamo con le tasse? Davvero spendiamo troppo per i servizi pubblici? Perché si finisce sempre a parlare di tagli alle pensioni? Sprecano di più i comuni, le regioni o lo stato centrale? Perché tutti i politici dicono che taglieranno gli sprechi e nessuno lo fa mai? Ma gli altri paesi come fanno? Un libro chiaro e autorevole, per fare le pulci alla macchina statale italiana, al di là dei luoghi comuni e delle polemiche giornalistiche: perché analizzare un bilancio statale può sembrare arido e difficile, ma con la guida giusta può diventare la lettura più acuta, sorprendente e accurata di un paese intero. “Il livello di spesa pubblica appropriato dipende anche da quanto un paese si può permettere. Non a caso, come motto per la revisione della spesa mi è stato suggerito un vecchio adagio cremonese: "Se se pol mia, se fa sensa", ovvero: se non si può, si fa senza.”

Spending review, la verità di Cottarelli in un libro: «Ecco chi remava contro», scrive “Businness People”. Carlo Cottarelli dopo un anno da commissario alla spending review ha gettato la spugna per tornare al Fmi. La verità dell'ex commissario sui mancati tagli alla spesa: lo spreco delle sedi statali in affitto. «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». E' una frase di Francesco Guccini ad aprire l'attesissimo saggio di Carlo Cottarelli, l'ex commissario alla spending review che ha gettato la spugna dopo un anno di guerra ai mulini a vento degli sprechi pubblici. Il libro, edito da Feltrinelli, sarà in vendita da domani 27 maggio (i diritti saranno devoluti all'Unicef). La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare è la summa del lavoro dell'economista e racconta ancheil fallimento della sua missione, incagliatasi contro gli interessi politici.

DIECIMILA SEDI. Nelle anticipazioni del Corriere della Sera, si racconta passo passo l'opposizione, a partire dai cinque gruppi di lavoro su 17 che non hanno mai fornito proposte di tagli, insomma hanno boicottato la spending review. Tutta colpa del «complicato mosaico», come lo definisce Cottarelli. E a ogni tessera corrisponde uno spreco: 5.700 sedi territoriali dei ministeri, 3.900 uffici di enti vigilati. Diecimila sedi statali, senza contare caserme di polizia e carabinieri.

W LE PROVINCE. Tutto ruota ancora sulle province e sui capoluoghi, nonostante la riorganzzazione annunciata e mai intrapresa. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...

FORZE DELL'ORDINE. Altro capitolo spinoso è quello delle forze dell'ordine: sono cinque, per cominciare, ognuno dipendente da un ministero diverso per 21 miliardi di spesa totale vista la duplicazione di amministrazioni, centri acquiisti, forniture, manutenzioni e persino pubblicazioni. E occupano 320 mila persone, con un rapporto fra agenti e abitanti superiore alla media europea e inferiore in assoluto soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. FInisce così che i 34 mila uffici pubblici per l'acquisto di beni e servizi gestiscano 1,2 milioni di procedure, con un costo a bando da 50 mila a 500 mila euro.

ENTI PUBBLICI. Non finisce qui. Capitolo enti pubblici, che sono 198. C'è pure l'Aci, simbolo degli sprechi secondo Cottarelli. I cittadini pagano all'ente 190 milioni all'anno per immatricolazioni e cambi di proprietà, per un servizio che è un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Ma i due archivi sembrano non poter essere uniti.

QUANTO SPAZIO. Il primo passo per risparmiare dovrebbe essere la razionalizzazione degli spazi e la ristrutturazione degli stabili obsoleti: l'operazione nel Regno Unito è costata 7,5 miliardi, ha aiutato l'economia e ha permesso di ridurre gli immobili occupati del 45% dimezzando i costi. «Potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...», dice Cottarelli, «e anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche».

Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Nel suo volume "Lista della Spesa" l'ex commissario alla spending review svela paradossi e enti che si moltiplicano. Un racconto anticipato da Sergio Rizzo sul "Corriere della Sera", scrive Giornalettismo. Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Inefficienze, sprechi, paradossi. Nel suo volume “Lista della Spesa”, pubblicato da Feltrinelli e anticipato sul “Corriere della Sera” da Sergio Rizzo, l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli racconta la sua verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può realmente tagliare. Chiamato dall’ex premier Enrico Letta nel 2013, il cambio a Palazzo Chigi non ha certo giovato al lavoro di Cottarelli e dei gruppi, finito di fatto archiviato. Soltanto un anno dopo è stato pubblicato online il piano dell’ex commissario alla spesa, applicato però soltanto in modo marginale. Da Cottarelli però nessuna polemica, soltanto la convinzione che la “Bestia” sia ancora battibile, che gli sprechi possano essere tagliate. Basta guardare qualche numero. Soltanto le sedi territoriali dei ministeri erano quasi dieci mila alla fine del 2012. Una ogni 6.250 italiani, senza conteggiare le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Scrive Rizzo: «Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione… Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni… Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. Per quanto riguarda gli enti pubblici, Cottarelli nel suo libro precisa di aver trovato un documento della Camera che ne elenca 198, soltanto nazionali: «Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi», si legge. Al contrario, in Italia imitare questo modello sembra ancora un’utopia. Serve volontà politica. Eppure i costi, scrive Cottarelli, «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno…». Senza dimenticare quegli sprechi che potrebbero essere eliminati senza bisogne di “ristrutturazioni”: «Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione…». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno».

Il libro (e il bilancio) di Cottarelli. Diecimila sedi dello Stato. La spesa pubblica che ci soffoca. Inefficienze, enti che si moltiplicano e paradossi nel racconto del commissario alla revisione della spesa, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. «Ma se io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Carlo Cottarelli La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Un viaggio nel ventre della Bestia che succhia le nostre risorse più preziose. La Bestia, è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review, già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. Della determinazione con cui Carlo Cottarelli ha affrontato per un anno e dieci giorni il compito di commissario alla revisione della spesa, dice tutto una strofa della canzone L’Avvelenata di Francesco Guccini: «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Cottarelli in libreria da domani, pubblicato da Feltrinelli. Un libro, La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare, semplicemente sorprendente. Non ha sassolini da togliersi, l’ex commissario. Anche se un altro, dopo la freddezza con cui l’attuale governo ha accolto la fine della sua esperienza, l’avrebbe fatto eccome. Non lui. Leggere il libro è come fare un viaggio nel ventre della «Bestia» che succhia le nostre risorse più preziose, ma condotti da una guida esperta che ne ha già esplorato le viscere. Così bene da sfatare anche le convinzioni più pessimistiche. La «Bestia», è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario internazionale chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Prima sorpresa...Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. A cominciare dai fondamentali. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, e ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. C’entra forse la caduta del governo Letta, che probabilmente ha segnato anche il destino di Cottarelli. Forse. Ma di sicuro c’entra anche la reazione della pubblica amministrazione. E di quello che l’ex commissario chiama benevolmente il suo «complicato mosaico». Cottarelli racconta di averne scoperto le dimensioni grazie a una stima della Funzione pubblica. Da brivido. Sapete quante erano alla fine del 2012 le sole sedi territoriali dei ministeri? Circa 5.700. Numero al quale si devono però aggiungere 3.900 uffici di enti vigilati dai ministeri. Per un totale di 9.600. Senza però che in quelle quasi 10 mila sedi del solo Stato centrale, per capirci una ogni 6.250 italiani, siano comprese le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni...Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. E poi gli enti pubblici. La «migliore ricognizione» che Cottarelli dice di aver trovato è un documento della Camera che ne elenca 198, ma solo per quelli nazionali. Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi. Noi, niente affatto. Gli edifici sono vecchi, gli spazi si sprecano. Eppure i costi «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...». Vero è, insiste l’ex commissario, che «anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche». Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione...». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno». Per la cronaca, i diritti del libro di Cottarelli saranno devoluti all’Unicef.

Spese pazze nei tribunali: il governo li "commissaria". Ci sono sedi che spendono cinque volte più di altre. Adesso la gestione passerà dai Comuni allo Stato. Milano ironizza: "Aspetteremo l'idraulico da Roma...", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Far funzionare la giustizia a Bologna costa quasi il doppio che a Firenze. Tenere aperto il tribunale di Sassari costa il triplo che mantenere quello di Trento. La corte d'appello di Messina va avanti con metà degli euro che servono a quella prospiciente di Reggio Calabria, e con un quinto del denaro che inghiotte ogni anno, cento chilometri più in giù, il distretto giudiziario di Catania. Com'è possibile? Mistero, anche se si può stare certi che ognuno dei tribunali spendaccioni avrà pronta una sua spiegazione. Ma il dato di fatto è che nelle tabelle diramate ieri dal ministero della Giustizia emerge un affresco surreale delle spese che ogni anno mantengono in vita l'apparato giudiziario: le spese correnti, quelle per il riscaldamento, i telefoni, la vigilanza privata agli ingressi. Un buco senza fine cui solo di recente il ministero ha deciso di prendere in mano il controllo. Finora (con l'eccezione di Roma e Napoli, già gestite direttamente dal ministero della Giustizia) i palazzi di giustizia vengono mantenuti dai Comuni, che poi si rivalgono sulle casse di via Arenula. E il documento diramato dallo staff del ministro Andrea Orlando rende conto di come sono stati distribuiti i 58 milioni di euro che il governo ha versato ai Comuni per rimborsare una prima tranche, il 70 per cento, delle spese sostenute nell'arco del 2013. La distribuzione riguarda sia i capoluoghi più grossi, che sono sedi di Corti d'appello (e qui il più costoso è Milano, con i suoi 4,7 milioni), sia i Comuni dove c'è solo un tribunale o un giudice di pace, nonchè quelli che ospitavano sedi giudiziarie soppresse recentemente da Renzi nella spending review : ed è un piccolo viaggio nella giustizia di paese, dove si apprende che a Silandro, in Alto Adige, c'era una sede staccata che riusciva a stare aperta con 512 euro l'anno, meno di due euro al giorno; o che la vita quotidiana della giustizia a Foligno costava, chissà perché, 37 volte più che nella vicina Città di Castello. Insomma, un marasma dove accade che il più costoso d'Italia sia il tribunale di Agrigento, e che il suo funzionamento costi il quintuplo di quello di Varese, che ha il doppio di abitanti. È per mettere sotto controllo questo andazzo che il ministero ha deciso di accentrare dal prossimo settembre la gestione delle spese di funzionamento dei palazzi di giustizia. La decisione di Orlando ha sollevato le ire di molte toghe: a Milano si sono addirittura riuniti in assemblea per protesta, «adesso se si rompe un tubo dovremo aspettare l'idraulico da Roma». Ma è un dato oggettivo che le spese per la giustizia erano quasi ovunque fuori da ogni controllo, anche perché la Corte dei Conti, molto e giustamente solerte nel fare le pulci alle spese dei politici, quando si tratta di affari che riguardano altri magistrati è assai più lenta. Tanto per restare a Milano, le denunce sullo sperpero di fondi Expo avvenuto in tribunale sono rimaste senza conseguenze, e lo stesso è accaduto all'esposto della Procura generale sulla folle cifra investita per costruire una nuova aula bunker davanti al carcere di Opera, incompiuta dopo oltre sedici anni.

Cottarelli boccia la Consulta: si sono aumentati le pensioni. L'ex commissario racconta i risparmi mancati dei governi di Letta e Renzi. E bacchetta la Corte costituzionale: l'intero organo costa 60 milioni l'anno, scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. La spesa pubblica resiste. Compressa da interessi sul debito e dalle pensioni. Ridotta negli ultimi anni, ma con grande parsimonia, senza incidere sulle voci principali (a partire dal personale) o con inutili tagli lineari. La macchina della pubblica amministrazione, insomma, non cambia. Quella centrale si espande su migliaia di sedi, quella locale resiste e anche gli organi costituzionali, dopo qualche limatura ai bilanci, restano lontani dagli standard internazionali. Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review nominato dall'ex premier Enrico Letta e uscito di scena con l'esecutivo Renzi, ha dedicato alla sua esperienza un libro (La Lista della spesa, Feltrinelli). Toni molto soft. Soprattutto con gli organi costituzionali. Ma la sostanza resta quella di un Paese che conserva gelosamente le sue anomalie. Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale, Csm, Consiglio di stato, Corte dei conti e Cnel nel 2013 costavano circa 2 miliardi e 700 milioni. Negli ultimi due anni la spesa è «rimasta sostanzialmente invariata». Camera (che ha operato i risparmi più consistenti) e Senato costano circa un miliardo. Per House of Commons e House of Lords i cittadini del regno Unito spendono 675 milioni di euro, il Parlamento tedesco costa 670 milioni, sotto quello italiano anche considerando le pensioni. In Francia 900 milioni. Il confronto è difficile anche per l'opacità delle onorevoli buste paga. La Commissione Giovannini, ricorda Cottarelli, era stata incaricata di confrontare in modo rigoroso gli stipendi dei parlamentari in Europa, ma gettò la spugna. L'ex commissario ci prova comunque e rileva come, a fronte di un'indennità dei parlamentari italiani di 10mila euro, quella francese è di 7mila, 8.000 quella dei tedeschi e di 6.500 euro quella dei britannici. Al netto delle tasse restiamo sopra gli standard europei del 30%. Abbiamo più parlamentari degli altri paesi europei. I costi del personale del Parlamento rappresentano la metà delle spese del bilancio. «La retribuzione media lorda dei dipendenti della Camera è di circa 188mila euro», contro i 106mila di quelli di Bankitalia. Cottarelli fa un accenno anche ai vitalizi e sembra dubitare della riforma che ha introdotto il sistema di calcolo contributivo anche per i deputati. Qualche riga anche alla Corte costituzionale, finita sotto i riflettori per la sentenza che ha salvato la rivalutazione delle pensioni. Costa 60 milioni. I costi di funzionamento sono stati tagliati, ma la Consulta ha fatto registrare anche un aumento della spesa, per pagare le proprie pensioni. In generale, Cottarelli dà conto di un'amministrazione bizantina. Il conto delle pubbliche amministrazioni è di 10.200, solo i Comuni sono 8.100. I ministeri, fanno aumentare il conto degli uffici pubblici di altre 10mila unità. A fine 2012, conta Cottarelli, «erano circa 5.700, cui si devono aggiungere quasi 3.900 sedi di enti vigilati dai ministeri, per un totale di oltre 9.600 sedi». Ogni ministero ha come minimo 100 uffici provinciali che spesso si moltiplicano per ogni funzione. Ad esempio il ministero dell'Economia conta «103 commissioni tributarie provinciali, 102 comandi provinciali della Guardia di finanza, 97 uffici provinciali dell'Agenzia delle entrate e 93 ragionerie territoriali dello stato». Una complessità che si traduce anche in un costo esorbitante per gli affitti degli uffici pubblici. Circa due miliardi all'anno.

Le meteore del 1994 si tengono stretti i vitalizi. È stato l'anno della svolta che ha seppellito la prima Repubblica ma anche quello degli esordienti in politica, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Dal 1994 nulla è stato più come prima. Forse perché, come il 1992, è esistito veramente e non è stato partorito da un'idea di Stefano Accorsi. Altro che fiction, ci sono testimonianze nell'elenco dei vitalizi della Camera che dimostrano come quel Big Bang elettorale abbia inciso sui destini del nostro Paese, ma anche come la politica non fosse pronta a un grande cambiamento. Le resistenze alla novità hanno in qualche modo prevalso, ieri come oggi, e l'impreparazione di molti, insieme all'opportunismo di alcuni, ha fatto il resto. Più che della «gioiosa macchina da guerra» dei Progressisti di Achille Occhetto, sbaragliata da Silvio Berlusconi, val la pena di partire da un segno premonitore nelle circoscrizioni fiorentine. Il Pds presenta un trentottenne consigliere comunale, il segretario fiorentino Leonardo Domenici (-51mila euro il suo sbilancio previdenziale), destinato a diventare cinque anni dopo sindaco del capoluogo. Gli fa idealmente posto un deputato ex dc (Ppi e sinistra non sono ancora alleati): l'ex sottosegretario all'Istruzione Giuseppe Matulli (-600mila euro). Se ne torna nel Mugello a fare il sindaco del suo Paese, poi diverrà il vice di Domenici. Proprio in quegli anni diventa lo «sponsor» politico di uno studente universitario e caposcout, coinvolgendolo di lì a poco nei comitati per Prodi e nello staff di un altro diccino di sinistra, Lapo Pistelli. Sì, Matteo Renzi nasce dalle «porte girevoli» di Montecitorio nel 1994. Certo, agli occhi della grande stampa in quel periodo desta maggiore attenzione il pattuglione di homines novi portati in Parlamento da Silvio Berlusconi e da Umberto Bossi. E, in effetti, rispetto al grigiore del passato la musica cambia. C'è il professor Giuliano Urbani (-238mila euro), ideatore del progetto di coalizione alternativo alla sinistra. Un'idea presentata a Gianni Agnelli e rifiutata dall'Avvocato, restio a scomporre assetti precostituiti. Il Cavaliere ci crede e, assieme al gruppo che aveva creduto nel suo sogno imprenditoriale, realizza un altro sogno: dare una forma alla maggioranza del Paese. La politica, però, è altra cosa dall'economia: la determinazione non basta. Anche perché collaboratori come Vittorio Dotti (-317mila) inciampano nel desiderio di visibilità della propria partner. Altri, come il capogruppo alla Camera Raffaele Della Valle (-345mila) e come il giornalista Umberto Cecchi (-347mila euro) non sono effettivamente preparati al clima incandescente, ma più propensi alle antiche mediazioni. La Forza Italia delle origini è come un elemento radioattivo: è pesante (alle Europee di quell'anno superò il 30%) ma è instabile. Un po' perché alcuni deputati sono più inclini al vecchio lavoro manageriale e presto vi fanno ritorno come Paolo Vigevano (-113mila euro) e Sandro Trevisanato (-117mila euro). Un po' perché l'ambizione di altri li porta verso altri lidi. È il caso della casiniana Ombretta Fumagalli Carulli (-638mila euro) e di Mariella Cavanna Scirea che nella legislatura successiva entreranno addirittura nella maggioranza di centrosinistra. La crisi del primo governo Berlusconi si originò dal colpo di testa di Umberto Bossi e dall'ingerenza del presidente della Repubblica Scalfaro. Anche la Lega, però, non era pronta. Quella fu l'ultima legislatura di Franco Rocchetta (-343mila euro), il fondatore della Liga Veneta incorso negli strali del Senatur. La svolta «dalemiana» di Bossi non piacque a coloro che nel centrodestra unito credevano veramente a quel tempo, come Giuseppe Dallara (-425mila euro), Enrico Hullweck (-149mila euro) e il senatore Renato Ellero (-235mila). Quest'ultimo, oltre un quindicennio dopo, tornerà agli onori delle cronache come avvocato del presunto acquirente della casa di Montecarlo nella quale viveva il cognato di Gianfranco Fini. La sinistra del 1994, invece, non è molto diversa da quella che si conosce oggi anche se tutti hanno indossato i vestiti nuovi del renzismo. Ci sono pretori d'assalto come Nicola Magrone (-324mila euro), un Michele Emiliano ante litteram, e giornalisti embedded come il socialista Vittorio Emiliani (-428mila euro) che poi sarà ricompensato con un posto nel cda Rai. Rifondazione porta con sé un giovane cossuttiano torinese: Marco Rizzo (-136mila euro). Comunista e operaista un po' fuori tempo massimo.

Metamorfosi Carroccio: Roma non è più ladrona, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Sembra passato un secolo, ma solo 35 anni fa, agli inizi degli anni '80 il fondatore e capo carismatico della Lega Nord, Umberto Bossi, approcciava la politica dal lato della poesia, dell'estetica con questi mirabili versi «Aj varan nagott sti dü fioeu, von di nostar e un teron » (Sono dei perdigiorno questi due ragazzi, uno dei nostri e un terrone). E che dire della Dieta degli autonomisti settentrionali al castello di Pomerio, fase embrionale del Parlamento padano? La Lega fino a poco tempo fa, soprattutto nell'immaginario collettivo, aveva un connotato razzista e antimeridionale. «Roma ladrona, la Lega non perdona!» era lo slogan preferito del Senatur. Osservare la folla di Piazza del Popolo in estasi per Matteo Salvini ieri potrebbe sembrare un profondo rivolgimento rispetto a quelli che erano i principi fondanti dello stesso movimento leghista che ancor oggi porta il «Nord» nel nome, pur avendo rinunciato alla dicitura «Padania» in nome del più coinvolgente «No Euro». Ma all'attuale leader del Carroccio occorre riconoscere di aver portato a fecondazione i caratteri già iscritti nel Dna del partito. L'attaccamento al territorio originario sempre minacciato nella sua «diversità» resta anche se non si sentono più certe affermazioni. «Eh sì, ho una nonna romana. Per me è come avere un'unghia incarnita. Mi dà fastidio», diceva Corinto Marchini, capo delle Camicie Verdi. «Non amo i meridionali perché sono europeo», gli faceva eco l'ideologo del Carroccio, Gianfranco Miglio. Tant'è che in uno dei più fortunati manifesti elettorali della Lega il settentrione era rappresentato come una gallina che inviava le proprie uova d'oro a Roma e a tutto il Sud, veri sfruttatori dell'operosità lombardo-veneta-piemontese. Erano i tempi pionieristici, quelli della Lega che sbraitava contro la «colonizzazione meridionale del Nord» invocando la secessione. Come nel settembre 1992: «Da Milano potrebbe partire una marcia su Roma per chiedere la secessione del Nord», tuonò il Senatur. In mezzo a quello che potremmo definire anche il folklore leghista c'erano i primi velleitari tentativi di varcare i confini della Padania per rendere il Carroccio un partito presente su tutto il territorio nazionale o, quantomeno, un movimento federativo delle istanze autonomiste in tutta la Penisola. Si spiega così il tour meridionale di Umberto Bossi nelle principali città del Sud all'inizio degli anni '90. Diffidenza, insulti e un primo scontro con quello che sarebbe diventato un suo alleato, il missino Gianni Alemanno andò fino a Catania per contestarlo senza sapere che di lì a dieci anni se lo sarebbe ritrovato al fianco nell'esecutivo Berlusconi. Si spiegano così pure gli abboccamenti con la Lega Sud Ausonia di Gianfranco Vestuto nel 1996, un flop elettorale clamoroso così come il tandem con l'Mpa di Raffaele Lombardo alle elezioni politiche del 2006. L'antimeridionalismo? Solo un modo per farsi pubblicità. In mezzo a tutto questo un preciso disegno politico: esportare il brand oltreconfine. Un progetto affidato al deputato ligure Giacomo Chiappori nel 2008: la creazione di un Parlamento del Sud da affiancare a quello del Nord (vecchio arnese della fase secessionista 1995-1999) e uno spin off del marchio di via Bellerio, «Alleanza Federalista». Un colpo al cerchio della crescita elettorale e uno alla botte del protoleghismo. Tipo l'infelice battuta bossiana «Spqr, sono porci questi romani» con tanto di magnata di bucatini all'amatriciana per far pace con Alemanno e Polverini a favor di telecamera. Salvini ha fatto tesoro di tutte queste esperienze. E cerca di replicarle senza esagerazioni. In fondo, essere sicuri a casa propria, avere una buona pensione, dire di no a questa Ue sono concetti che vanno bene da Milano fino a Canicattì.

L'ULTIMA RAPINA COMUNISTA A DANNO DEGLI ITALIANI.

Lo Stato paga i debiti dei Ds. Arriva l'ultima rapina comunista. Lo Stato è stato obbligato a coprire 107 milioni di passivi del quotidiano L'Unità. Tocca ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali dei Ds: lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici del partito. Ma non è finita: da saldare mancano altri 18 milioni di euro, scrive Sergio Rame su "Il Giornale" Lunedì 09/11/2015. Lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici dei Ds. Come denuncia Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, è toccato ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali del partito. Da saldare alla Sga, società nata dieci anni fa per recuperare i crediti dal crac del Banco di Napoli, mancano altri 18 milioni di euro. I 107 milioni di euro pubblici sono stati parcheggiati nelle casse delle banche creditrici dei Ds con "riserva". Sul malloppo pende ancora il giudizio di appello. Una legge del 1998 estende la garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. "Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità - denuncia Rizzo sul Corriere della Sera - tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi". E, nonostante il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti abbia abbattuto gran parte dei 450 milioni di euro di debiti, adesso gli italiani si trovano a dover mettere mano al portafogli. Nonostante fosse stata approvata pure una legge che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura (come avvenne nel 2008, quando i Ds partorirono il Pd), sul groppone dello Stato sono rimasti appunto 125 milioni di euro. Il Pd non ha raccolto l'eredità economica dei Ds e della Margherita, che per tre anni hanno continuato a intascare i fondi statali. "La separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali - denuncia Rizzo - ovvero, soggetti giuridici autonomi". Non avendo più immobili da pignorare, le banche hanno chiesto allo Stato di sborsare i 125 milioni di euro. "Il debitore è morto - diceva Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, ai microfoni di Report - se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto 'guarda, signor Stato, che devi pagare tu…'". Ovvero i contribuenti.

I debiti dei Ds saldati dallo Stato. Una legge obbliga a coprire 107 milioni per i bilanci in rosso della vecchia «Unità», scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” il 9 novembre 2015. La la legge è legge. Così tocca ai contribuenti ripianare i debiti dei Democratici di sinistra: 107 milioni di euro, versati dallo Stato nei giorni scorsi. Mentre già infuriavano le polemiche per i tagli della legge di Stabilità alle Regioni, quel gruzzolo finiva dunque nelle casse delle banche creditrici. E non è nemmeno tutto. Mancherebbero altri 18 milioni dovuti alla Sga, società nata dieci anni fa con la funzione di recuperare la montagna di crediti dal crac del Banco di Napoli che ha ritenuto di non rivendicare quella cifra. Va detto che quei 107 milioni pubblici si trovano ora parcheggiati nei forzieri delle banche creditrici dei Ds con «riserva». Significa che pende ancora il giudizio di appello, ma le speranze che quei denari tornino indietro sono al lumicino. Il finale era scritto da tempo. Il Corriere Report di Milena Gabanelli avevano già raccontato come il rischio che si è materializzato fosse concretissimo. E tutto grazie a una leggina del 1998 che stabiliva l’estensione della garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità. I Democratici di sinistra avevano generosamente deciso di accollarsi la drammatica esposizione bancaria del giornale, che stava imboccando il tunnel di una crisi durissima. Tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi. Il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, il quale non ha mai rinnegato quella mossa assai discutibile, ce la mise comunque tutta per abbattere la montagna di debiti che sfiorava i 450 milioni di euro. Anche con l’aiuto di altre ancor più discutibili leggine approvate dal parlamento intero con rarissime eccezioni, che fecero lievitare come panna montata i rimborsi elettorali: l’ultima, quel capolavoro partorito all’inizio del 2006 che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura, come avvenne nel 2008. L’anno in cui si consumò l’ultimo atto dei Ds, con la nascita del Pd: partito che non raccolse l’eredità economica dei due soggetti fondatori, la Margherita e i Democratici di sinistra, i quali pur defunti continuarono comunque a incamerare per tre anni cospicui fondi statali. Non solo. L’astuta separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali. Ovvero, soggetti giuridici autonomi. Su questo punto la polemica con il segretario democratico Walter Veltroni raggiunse il calor bianco. Ma le sue dimissioni, rassegnate all’inizio del 2009, segnarono la fine di qualunque resistenza interna. E siamo arrivati a oggi, quando le banche creditrici, non avendo più neppure un mattone da pignorare, hanno preteso di escutere la garanzia dello Stato sui debiti residui: 125 milioni. Il giudice non ha potuto che dar loro ragione e lo Stato ha dovuto adesso sborsare 107 milioni. Va detto che non è la prima volta che succede una cosa del genere. Alla fine del 2003 avevamo già pagato i debiti dell’ex Avanti!, il quotidiano del Psi craxiano. Sia pure per una cifra più modesta: 9 milioni e mezzo. Ma allora non fu possibile ascoltare la versione del tesoriere socialista. Vale quindi la pena di riportare le dichiarazioni di Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, intervistato a maggio di quest’anno da Emanuele Bellano di Report: «Il debitore è morto. Se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto “guarda, signor Stato, che devi pagare tu…”». Gli chiede allora il giornalista, dopo aver ricordato la storia della legge del 1998: «È stata una mossa calcolata e strategica quello che poi è successo dopo?» E lui risponde: «Quindi che vuol dire? Che sono stato bravo! Una società mi avrebbe dato tanti soldi per fare questo lavoro…» Verissimo. Almeno quelli ce li siamo risparmiati. Ma è una ben magra consolazione.

Ecco l'Italia della polizia fai-da-te. Si moltiplicano in tutta la Penisola associazioni di guardie ambientali. Che sembrano veri agenti e come tali si comportano. Spesso abusando di un potere che non hanno. Ecco quante e dove sono, scrive Michele Sasso il 15 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Vestono divise verdi con mostrine e stemmi tricolori. Indossano anfibi e cinturone. Si muovono su auto con tanto di lampeggiante e staccano multe per inquinamento o caccia impropria. È il Far West delle guardie ambientali: polizie parallele che cercano di accaparrarsi fondi pubblici, possibilità di guadagno e lottizzazioni politiche. Spingendosi ben oltre i compiti di “associazioni”, vengono scambiati per uomini della forestale, senza però nessuna preparazione. «C’è una confusione di simboli e mezzi che rende queste guardie troppo simili ai nostri agenti», denuncia Stefano Cazora del Corpo forestale dello Stato: «Riceviamo segnalazioni di abusi e plagi ogni giorno, Chi copia il nostro logo e chi mette il naso in indagini sensibili. Tenere tutte le onlus sotto controllo è impossibile». In Italia sono spuntati “sceriffi verdi” con surreali comandi di zona o nuclei guidati da auto-nominati commissari che si esaltano per la divisa ma ignorano tutti i rischi dell’improvvisazione. Il pasticcio delle polizie fai-da-te nasce insieme al ministero dell’Ambiente. Siamo nel 1986 quando si “allarga” la vigilanza anche ad associazioni che proteggono la fauna e il paesaggio. Nel 2004 viene attribuito alle guardie zoofile ed ittiche la qualifica di agente di polizia giudiziaria. Tutte le altre sentinelle sono pubblici ufficiali che indossano una divisa dopo un corso di poche ore. Uniformi autorizzate dalla Prefettura che “gira” le pratiche di verifica al ministero dell’Interno, della Giustizia e dell’Agricoltura e all’Istituto geografico militare che archivia tutti i simboli in circolazione. Una verifica più formale che sostanziale: per legge non possono esserci somiglianze con gli altri corpi ma in pratica ecco che spuntato le giubbe e giacche verdi, i rangers d’Italia, le guardie ecozoofile e quelle rurali ausiliari. Così organizzazioni spregiudicate prendono via via il posto di volontari che si dedicano alla natura senza fini di lucro. E improbabili 007 vanno a caccia di discariche abusive e controllano persino il traffico sulle strade. «L’uso della paletta e del lampeggiante è consentito solo a chi ha compiti di polizia», conferma Gianni Calesini, docente di legislazione di Pubblica Sicurezza: «Invece questi pseudo-corpi si azzardano a fare perquisizioni illegali sulle auto. Chi viene fermato, però lo ignora. E subisce». Tra Napoli e Caserta, dove i roghi avvelenano l’aria, proliferano sigle reclutate dai Comuni. Ufficialmente volontari, sono rimborsati sulla base di convenzioni. Tutto nasce dal bando della Regione Campania del 2013: il patto per risanare la Terra dei Fuochi stanzia 7 milioni di euro per gli enti locali che presentano progetti per contrastare i traffici illegali. Rispondono 51 Municipi, che hanno la possibilità di “girare” fino ad un milione di euro a 20 onlus incaricate della sorveglianza. Nel paesone di Nola piovono 400mila euro. Il sindaco azzurro Geremia Bianciardi non perde tempo e stipula un accordo con Fare Ambiente per 35 corsisti: «Useranno il pugno di ferro e avranno poteri di polizia giudiziaria». Garantito per un anno di convenzione, un rimborso spese di 20mila euro. Il pm Paolo Mancuso ipotizza, però, che quelle guardie non avrebbero potuto essere ingaggiate. Legate a Laboratorio Verde, una onlus associata a Fare Ambiente che, a differenza di quest’ultima, non avrebbe il riconoscimento ministeriale. La divisa sarebbe illegale, perché identica a quella che indossa la Guardia di Finanza. Nell’inchiesta finisce anche il sindaco Bianciardi, indagato per abuso d’ufficio e falso, che respinge le accuse. Nel paese accanto, Marigliano, si sono inventati una formula più fantasiosa: rimborso spese pari alla metà delle multe riscosse grazie ai verbali. In questo affare spunta anche “La Salamandra”, sigla legata al movimento dei fascisti del terzo millennio di Casa Pound. Ben radicati, hanno fatto servizio d’ordine a Pompei durante la visita di papa Francesco lo scorso marzo. Anche loro non hanno il riconoscimento del ministero dell’Ambiente né l’ok del prefetto. «Ce ne siamo accorti dopo aver firmato e infatti non siamo mai usciti. Siamo un gruppo di protezione civile e non siamo neofascisti, con noi c’è anche chi non milita in Casa Pound», spiega la vicepresidente Maria Rosaria Nappa. Girano per l’intera penisola alla caccia di bracconieri e se serve tirano fuori il distintivo dal nome altisonante: associazione europea operatori di polizia (Aeop). Sono però disoccupati o millantatori come nel caso di Genova, dove un socio è stato fermato a bordo di una utilitaria trasformata in gazzella con la scritta gialla “Polizia”. Nulla hanno a che vedere con le forze dell’ordine, se non quella sigla allusiva. Tra gli associati possono vantare qualche nome di peso. Ma dall’altra parte della barricata. Come Ernesto Bardellino, ex sindaco di San Cipriano d’Aversa, fratello del più noto Antonio, a capo del cartello dei Casalesi fino al 1988, anno della sua morte. Radicato a Formia da quasi trent’anni, ha coltivato l’hobby della divisa mentre per la polizia è un «esponente del clan, sorvegliato speciale ed indagato per altri reati». Quando la scorsa estate la Digos ha perquisito la sua casa ha trovato decine di tesserini e documenti targati Aeop. Per Bardellino e altri tre indagati con precedenti penali è scattata una informazione di garanzia per l’ipotesi di false attestazioni di pubblico ufficiale e usurpazione di titolo. Alessandro Cetti, il capo dell’Aeop, ha spiegato che gli era stata presentata una «autocertificazione senza precedenti penali». Lui insomma non sapeva chi fosse quel volontario di Formia. Versione smentita dall’ex sindaco: «Con Cetti vi è una conoscenza risalente nel tempo, collaborazioni di carattere sociale e viaggi per motivi di lavoro». Tra gli impegni “sociali” i volontari hanno partecipato alla beatificazione di Carol Wojtyla in piazza San Pietro a Roma. Era aprile 2014 e garantirono la sicurezza a migliaia di pellegrini. Tra loro c’era anche Ernesto Bardellino. Se a Roma il governo Renzi sta cercando di accorpare il Corpo forestale ai Carabinieri, in Sardegna potrebbe succedere l’esatto opposto. Una proposta di legge firmata da Pd e Sel vorrebbe creare una forza di polizia isolana, quella dei barracelli. Eredità della vecchia polizia rurale ai tempi del Regno, nata per controllare i fondi agricoli e contrastare il furto di animali. Oggi questo esercito di 5.300 uomini è una lobby potente e gli stessi sindaci decidono spesso di usarli come polizia municipale. Il rapporto con la giunta del democratico Francesco Pigliaru non è sempre felice. I fondi ad hoc sono stati tagliati di 500mila euro con l’ultimo bilancio approvato a dicembre, scendendo a 5,6 milioni. Il parlamentino sardo ondeggia tra lo stop al loro potere e il definitivo sdoganamento in corpo di polizia. Sull’isola i barracelli non si limitano agli accertamenti, partecipando fianco a fianco alle forze dell’ordine. Si occupano soprattutto di antincendio, ma sono autorizzati a portare un fucile calibro 12 quando pattugliano i boschi. Armi in grado di uccidere animali di grossa taglia che hanno causato anche qualche problema. A Montresta, nell’Oristanese, la scorsa estate tre componenti sono stati espulsi dopo aver ucciso un leprotto proprio con il fucile in dotazione. Non è solo una questione meridionale. In Toscana il Corpo boschivo ittico ambientale prometteva posti di lavoro a tempo indeterminato, a patto di seguire un corso di tre mesi. A rispondere all’annuncio un anno fa tanti disoccupati, ma anche geologi e veterinari. È finita invece con un’accusa di truffa per l’auto-nominato comandante Simone Badalamenti, che si era fatto consegnare quattromila cinquecento euro da 83 persone. Un inganno replicabile all’infinito organizzato a Grosseto, Massa Carrara, Livorno e Lucca con la stessa promessa: uno stipendio da mille euro. Grazie alla sua intraprendenza Badalamenti è partito nel 2012 con l’obiettivo di creare una rete di pattugliamento in tutta la regione. E assoldare più di cinquecento persone per un battaglione e «divisioni operative»: antincendio, pronto intervento, agenti a cavallo e perfino un servizio di intelligence e investigazione. Un corpo che esisteva solo sulla carta ma che sognava in grande. Hanno collaborato Alfredo Faieta, Fabrizio Geremicca e Andrea Palladino

Il disastro delle ferrovie minori: tangenti e malagestione affossano le società pubbliche. Dalla Puglia fino alla Basilicata e la Lombardia un giro vorticoso di strane assunzioni, consulenze allegre, truffe e spese folli affossano le linee regionali. Perdendo milioni di euro all’anno e migliaia di pendolari, scrive Michele Sasso il 9 marzo 2016 su "L'Espresso". Piccolo non è bello con le ferrovie locali. Appalti, tangenti, distrazione di fondi pubblici e malagestione affossano le società che gestiscono i binari. Mentre vengono dismesse ogni anno stazioni e linee minori e le autolinee scalzano le carrozze nel trasporto pubblico locale, gli esempi in mano a Ministero e Regioni non invogliano ad investire milioni e puntare con decisione sul ferro per decongestionare le strade. A cavallo tra Potenza e Bari le ferrovie Appulo Lucane sono finite al centro di uno scandalo di assunzioni e consulenze, sempre in Puglia quelle del Sud Est nonostante 311 milioni di debiti vengono tenute in vita dal Governo e in Lombardia l’ex capo di Trenord ha sperperato 430 mila euro in rimborsi, bollette di cellulari, pay tv e persino scommesse sportive. Mentre c’è un Italia che viaggia ad alta velocità arrivando a Milano da Roma in meno di tre ore, quello che resta di vecchie linee arranca tra scartamento ridotto, tempi di percorrenza del secolo scorso e littorine alimentate a diesel. Marco Ponti, professore di Economia al Politecnico di Milano ed ex consulente per i trasporti della Banca Mondiale, non usa mezzi termini: «Queste società sono un incubo, una follia gestionale: nessuno dice che il problema principale che ci sono troppi pochi viaggiatori. La domanda è debole perché le ferrovie hanno bisogno di tantissima gente, ma invece di viaggiare con 80 treni al giorno si accontentano di 20 per tenerle in vita. Ma è antieconomico. C’è poi il paradosso lombardo dove i passeggeri ci sono ma la società Trenord, controllata dalla Regione Lombardia e da Trenitalia, approfitta del monopolio e ottiene pure il prolungamento della concessione. Il contrario esatto del libero mercato». Le ferrovie Appulo Lucane (Fal) a cavallo tra la Basilicata e la Puglia gestiscono 183 chilometri di linee, hanno 562 dipendenti e servono sedici comuni lungo le tratte che partono da Bari e arrivano a Potenza e Matera, quest’ultima capitale europea della Cultura per il 2019, con una stazione di Trenitalia che aspetta da anni di essere aperta. Le tratte locali sono un’eredità delle Ferrovie Calabro-Lucane che nei primi del Novecento trasportavano merci e persone snodandosi sul territorio della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria. Oggi è di proprietà del Ministero delle Infrastrutture con treni ancora a diesel e binari a scartamento ridotto. La società attuale – Fal srl - secondo i parlamentari del Movimento Cinque stelle, si è trasformata in un "poltronificio" e un pasticcio di consulenze. «È un piccolo feudo locale con rapporti di amicizia tra vertici dell'azienda con il mondo politico, in particolare con l'ex ministro Raffaele Fitto e con altri parlamentari lucani e pugliesi, soprattutto di area di centrodestra» attacca la deputata grillina Mirella Liuzzi che aggiunge:«La Puglia e la Basilicata ci mettono circa 100 milioni di euro all’anno ma invece di modernizzare una linea ferma al secolo scorso hanno cucito su misura contratti a tempo indeterminato per ex dipendenti del partito o assistenti di alcuni parlamentari di Forza Italia». Tutto nel campo dei berlusconiani, a partire dal presidente delle Fal Matteo Colamussi che al momento della nomina (nel 2008) era presidente del consiglio comunale di Rutigliano (Bari) e vicesegretario provinciale degli azzurri. Per la nomina del nuovo cda il sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, il lucano Guido Viceconte, inserisce tra i cinque componenti anche il cugino Felice. C'è poi l'incarico fiduciario per la ristrutturazione della sede barese affidato alla moglie del deputato azzurro Nuccio Altieri. Scelta che il patron Colamussi ha difeso: «Questo tipo di incarichi si chiamano fiduciari non a caso. Bisogna scegliere gente di cui ci si fida. E io ho grande stima professionale della moglie del mio amico Nuccio Altieri. Ma questo non significa che io abbia fatto qualcosa che non dovevo e che fosse contro la legge». Tutto il dossier Fal è finito in Procura per verificare anche un’altra storia, quella delle assunzioni di parenti stretti di sindacalisti, scoperta e raccontata per prima dal Quotidiano Italiano di Bari. Sempre in Puglia, sono le ferrovie del Sud Est a fagocitare milioni di euro di fondi pubblici. Tra un tourbillon di truffe per acquistare vecchie carrozze e consulenze allegre. Con un bilancio 2014 in rosso per 311 milioni e la metà dei costi di produzione -146 milioni- sborsata per pagare lo stipendio a 1300 dipendenti. Tra questi anche dirigenti che incassano fino a 220mila euro all’anno. I guai maggiori, però, vengono a galla con l’inchiesta di Firenze che svela il sistema di potere di Ercole Incalza, il potente burocrate arrestato un anno fa con l’accusa di corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione. Dalla Toscana una pista arriva fino in Puglia dove l’ipotesi che le consulenze delle Ferrovie del Sud Est si trasformassero, almeno in parte, in tangenti destinate propio al potente factotum del Ministero delle Infrastutture e al suo collaboratore Sandro Pacella. Agli arresti sono finiti Salvatore Adorisio e Angelantonio Pica, presidente e amministratore delegato della Green Field System, uno studio di progettazione specializzato in trasporti che tra il 2006 e il 2014 ha ottenuto consulenze dall’azienda pugliese per 2,4 milioni. Sarebbe questo «il canale» secondo i magistrati fiorentini, «tramite il quale grosse somme di denaro sono transitate dalle Ferrovie del Sud Est» verso Incalza e Pacella, che avrebbero intascato circa 700mila euro. Non è però l’unico scandalo che prende di mira il malaffare made in Puglia. Il 1 dicembre scorso la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone e per la società Ferrovie Sud Est nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte truffe. Tra gli altri, rischia il processo anche l’ex amministratore unico Luigi Fiorillo. Al centro delle indagini l’acquisto di 27 vagoni nuovi dalla società polacca Pesa, pagandoli 93 milioni di euro grazie ad un finanziamento regionale. Secondo la Procura sarebbero stati inclusi nel costo 12 milioni di euro di provvigioni sulle vendite pagati da Pesa alla società Varsa. Ma il "capolavoro" di spreco riguarda la seconda vicenda: nel 2006 l’azienda ha comprato in Germania 25 carrozze usate a 37.500 euro l’una per poi rivenderle a 280mila euro ciascuna alla Varsa. Che le ha ristrutturate e spedite sulle linee pugliesi per 900mila euro l’una. Dopo queste spese milionari arriva un’amara constatazione finale: le caratteristiche tecniche di molte carrozze non sono adeguate alle linee delle Sud Est, così dal 2009 i mezzi sono rimasti fermi. Nonostante questa serie di affari sporchi svelati dalla Magistratura c’è stato un’ultima chance di riportarla a galla. Lo scorso gennaio il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ha nominato una squadra di commissari per scrivere un piano industriale per il risanamento e la riduzione dei costi di funzionamento. Perché con la legge di stabilità di fine anno sono arrivati 70 milioni di euro per «garantire la continuità aziendale e ripristinarne l'equilibrio economico e finanziario». Non è solo una questione meridionale. Carte di credito, alberghi, l’uso di auto con carburanti e telepass, arredi ed elettronica, bollette di telefoni cellulari, pay tv e persino scommesse sportive: è l’elenco delle spese allegre che sono costate la poltrona di presidente della società Ferrovie Nord Milano a Norberto Achille. Un utilizzo a fini personali (soprattutto da parte dei due figli) di benefit aziendali legati alla sua carica al vertice della società per azioni che fattura 300 milioni l’anno con 4.000 dipendenti e che in Lombardia fa viaggiare ogni giorno 700 mila persone. Il presidente delle ferrovie lombarde Norberto Achille, secondo la procura di Milano, non riusciva a dire no alle richieste dei familiari. Coprendo multe e spese con i soldi dell'azienda. Alla faccia dei pendolari. Mentre il rampollo passava dalle feste agli affari immobiliari. E a un ruolo pubblico. Achille, presidente e legale rappresentante della holding partecipata da Regione Lombardia e Ferrovie dello Stato, è stato prima interdetto per 6 mesi dall’incarico e poi è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per la distrazione di circa 430mila euro di fondi pubblici. Una storia di sperperi e lussi con al centro il figlio di Achille, il 35enne Marco. Una vita segnata dall’amore per gli orologi di lusso, le gite in motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti numerose società, fra cui - come raccontato da l'Espresso - una Ltd registrata a Londra in cui è coinvolto anche il padre. Per il rampollo del manager pubblico che passava dalle feste al business immobiliare nel curriculum c’è anche un incarico pubblico: siede nel collegio dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro.

Che fortuna essere il figlio del capo delle Nord. La vita nel lusso la paga il papi coi rimborsi. Il presidente delle ferrovie lombarde Norberto Achille, secondo la procura di Milano, non riusciva a dire no alle richieste dei familiari. Coprendo multe e spese con i soldi dell'azienda. Alla faccia dei pendolari. Mentre il rampollo passava dalle feste agli affari immobiliari. E a un ruolo pubblico, scrive Francesca Sironi il 19 maggio 2015 su "L'Espresso". Marco Achille, in una fotografia pubblicata da lui su Instagram il 19 maggio nel pomeriggio «Papà, sono contento di ciò che sono diventato. E un po' è anche merito tuo, per cui grazie per ogni singolo momento». Firmato «Tuo figlio Marco». Il messaggio è di Marco Achille, figlio trentacinquenne di Norberto Achille, il presidente di Ferrovie Nord indagato della Procura di Milano con l'accusa di peculato. Al manager, che aveva annunciato le sue dimissioni, sono contestate maxi spesea favore dei familiari: 124mila euro solo di conti telefonici, guida privata dell'auto blu, carte di credito usate per pagare vestiti, mobili, alberghi e cene. Perfino le scommesse sportive. Non solo: nella lista ci sono anche 124mila euro di multe accumulate da uno dei figli alla guida delle Bmw aziendali. E pagate attingendo alle casse di Ferrovie Nord, alla faccia dei pendolari lombardi. Tutto questo denaro, secondo l'accusa del Pm Giovanni Polizzi, sarebbe servito a garantire la vita bella del figlio, un giovane che ama gli orologi di lusso, le gite in motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti numerose società, fra cui – come può rivelare l'Espresso - una Ltd registrata a Londra in cui è coinvolto anche il padre. Un uomo a cui l'esuberanza dei rampolli è costata cara: «Le intercettazioni sembrano ricondurre le disinvolte prassi di spesa soprattutto ai comportamenti dei figli e alla mancata forza del padre di porvi argine», scrive infatti Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera. «Il manager», spiega il suo avvocato Gianluca Maris, «aveva iniziato a restituire il denaro: era stato lui stesso a chiedere il rapporto che aveva evidenziato i conti fuori controllo, concordando con l'azienda i rimborsi delle spese ingiustificate». Mannaggia ai lussi, insomma. Ed eccoli i figli, Marco e Filippo. In Rete è più riservato il secondo, più estroverso il primo, sorridente dal torso scolpito fra autoritratti in barca, selfie-con-scultura-del-Duce, pranzi al “Bistrot” di Forte dei Marmi (frequentato anche da Belen), pose muscolari in stile Baywatch e party alla moda. C'è anche lo scatto orgoglioso del polso con indosso un orologio da 54mila euro: un Royal Oak Audemars Piguet tempestato di brillanti. Tra i televisori al plasma, i pavimenti di marmo, la casa nuova su due piani in centro e lo champagne, sui social network di Marco compare a sorpresa anche l'immagine frugale di Papa Francesco, per la Benedizione Apostolica “impartita di cuore” da Sua Santità al papà Norberto Achille il 13 dicembre 2013. E pubblicata dal figlio poco dopo. Prima il piacere, poi il business. Achille padre infatti ha gestito fino all'aprile scorso la “Palladium 2013 Limited”, una società di Londra che era stata amministrata anche dal figlio (uscito di scena nel 2014) insieme a uno dei fondatori dello studio di commercialisti di Milano dove lavora. La società londinese, pur avendo un capitale minimo, possiede il 50 per cento di una holding che a sua volta controlla un'immobiliare di Bratislava dal capitale milionario, la “Retail Slovakia”, specializzata nella compravendita di appartamenti e uffici. Anche a Milano, Marco Achille, oltre al suo impiego come commercialista, ha a che fare con dimore e palazzi. È infatti titolare e amministratore unico dell'immobiliare Techimm srl (ora Techfin), che possiede beni in via della Chiusa, nel pieno centro di Milano, alle spalle della Basilica di San Lorenzo. È poi socio di un'altra immobiliare e consigliere di una terza, oltre che fondatore di una palestra di Boxe, intestatario del 25 per cento di un'azienda che si occupa di commercio all'ingrosso per articoli medicali e di una “New Parking company” inattiva. Nonostante tutto questo, e nonostante due appartamenti di proprietà, uno a Basiglio (il comune con i redditi pro capite più alti d'Italia, da quando Silvio Berlusconi inaugurò Milano3) e uno nel capoluogo, nell'ultima indicazione pubblica dichiarava un reddito imponibile di 28mila euro.  L'informazione arriva dalla sua “scheda per la trasparenza” pubblicata sul sito web del Comune di Milano. Già, perché il figlio del manager ed ex assessore di Forza Italia Norberto Achille ha anche un incarico pubblico: siede nel collegio dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro. È stato nominato il primo marzo del 2012 e lì resterà fino all'aprile del 2016, percependo un gettone di 41 euro a presenza e un fisso di 5mila euro. Un bel record per un giovane di 35 anni.

Grandi Opere, i nomi del sistema Ercole Incalza. Lo scandalo costato il posto al ministro Lupi coinvolge molti potenti: l'ex sottosegretario di D’Alema, l’ingegnere del metrò milanese. E tanti figli di boiardi, da Trane a Monorchio. Ecco chi viene citato negli atti dell’inchiesta, scrive Gianfranco Turano il 20 marzo 2015 su "L'Espresso". Nelle carte dell’inchiesta fiorentina sugli appalti del Mit appaiono molti nomi di poca notorietà e grande potere. Ecco i più influenti.

GIULIO BURCHI. Ingegnere modenese di 55 anni, indagato, è stato presidente e amministratore delegato della Metropolitana milanese con Gabriele Albertini sindaco e Maurizio Lupi assessore all’urbanistica. Nel 2004 ha guidato Italferr, società di ingegneria del gruppo Fs sotto la gestione di Elio Catania. Dal 2001, ha presieduto l’autostrada Parma-La Spezia (gruppo Gavio) dopo l’uscita di Bruno Tabacci. Nel settore autostradale è considerato l’uomo di fiducia di Intesa che lo ha nominato in Autostrade lombarde, nella Brebemi e, ad aprile del 2013, nella Serenissima (Brescia-Padova).

ANTONIO BARGONE. Sottosegretario ai lavori pubblici con Massimo D’Alema premier, 67 anni, l’ingegnere brindisino è tornato all’attività privata per assumere la guida della Sat, società che gestisce l’autostrada Livorno-Civitavecchia sotto il controllo di Atlantia-Autostrade. Prima dell’inchiesta fiorentina, dove Bargone è fra gli indagati, il suo nome era circolato come uno dei candidati alla successione di Pietro Ciucci all’Anas.

FABRIZIO AVERARDI RIPARI. Indagato, romano di 57 anni, è direttore generale di Anas international enterprise, creata per incrementare i ricavi da attività private della spa di Stato. Fra gli obiettivi della società c’è la realizzazione dell’autostrada libica Eas Ejdyer-Emssad. Averardi è imprenditore in proprio con Integra e Tensacciai. L’ordinanza cita anche Massimo Averardi, 68 anni, dirigente Anas in pensione, non indagato, amministratore del consorzio Ferconsult negli anni Novanta insieme a Stefano Perotti.

ALFREDO PERI. Ex sindaco di Collecchio (Parma) ed assessore regionale ai trasporti dal 2000 al 2010, Peri è indagato per avere promesso di affidare la direzione lavori della Cispadana a Stefano Perotti, arrestato con Ercole Incalza, Francesco Cavallo e Sandro Pacella. Peri ha conosciuto Incalza quando il dirigente del Mit amministrava Metro Parma, incaricata di realizzare una metropolitana che non si è mai costruita con uno spreco di decine di milioni di euro in progettazioni finanziate dal Cipe.

FIGLI DI QUALCUNO. L’ordinanza della procura di Firenze mette in fila vari personaggi dal cognome illustre. Fra gli indagati, ci sono il milanese Giovanni Li Calzi, figlio dell’architetto ed assessore comunale all’edilizia del Pci Epifanio, morto due anni fa. Li Calzi era stato al centro di altre inchieste di Mani Pulite e ne era uscito grazie alla prescrizione. Pasquale Trane, indagato, è figlio di Rocco, uno degli esponenti della cosiddetta sinistra ferroviaria del Psi, opposta alla segreteria di Bettino Craxi. Trane senior è morto all’improvviso nell’agosto 2012 durante il Meeting di Rimini. Citati dai giudici ma non indagati, sono Giandomenico Monorchio e Giovanni Paolo Gaspari. Il primo, figlio dell’ex ragioniere dello Stato Andrea, ha una società di ingegneria (Sintel engineering). Il secondo, dirigente delle Fs e nipote dell’ex ministro democristiano Remo Gaspari, definisce Incalza “dominus totale” del sistema grandi appalti.

Anche Stefano Perotti è figlio d’arte. Suo padre Massimo è stato direttore generale dell’Anas di nomina socialista nei primi anni Ottanta e fu incarcerato nel 1985 per lo scandalo Icomec, una sorta di prova generale di Tangentopoli.

Accompagnatori, ciechi e falsi invalidi: cinque miliardi di welfare clientelare. Gli assegni di invalidità pagati in Calabria sono, in proporzione agli abitanti, almeno il doppio di quelli erogati in Emilia Romagna: l’allarme del commissario alla spending review trova conferma nei dati appena pubblicati dall’Inps, scrive Sergio Rizzo su "Il Corriere della Sera" del 30 marzo 2016. L’inascoltato ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli l’aveva scritto nel suo rapporto. Una «distribuzione territoriale» delle pensioni di invalidità, squilibrata al punto che gli assegni pagati in Calabria sono in proporzione agli abitanti almeno il doppio di quelli erogati in Emilia-Romagna, «suggerisce abusi». Ma forse non ci voleva nemmeno un giudizio così autorevole per rendersene conto. Sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata men che superficiale ai numeri noti da anni. L’Inps ci ha detto ieri che in Italia si pagano 2 milioni 980.799 «prestazioni» agli invalidi civili. Dove per «prestazioni» si intendono pensioni e indennità di accompagnamento oltre agli assegni per ciechi e sordomuti. Ebbene, un milione 335.093 di questi trattamenti di invalidità, pari al 44,8 per cento del totale, riguardano il Sud, dove risiede il 34,4 per cento della popolazione. Nelle Regioni meridionali il rapporto è dunque di un assegno ogni 15,6 abitanti, contro uno ogni 23,5 nel resto del Paese. Mentre se le pensioni di invalidità fossero in proporzione identica rispetto al Centro Nord, il loro numero non dovrebbe superare 890 mila. Quindi ce ne sarebbero 445 mila di troppo: un terzo. Tutti abusi? Sicuramente no. Sappiamo che nel Mezzogiorno le condizioni di vita e di lavoro sono in molti casi ben diverse che nelle altre Regioni. E questo potrebbe forse spiegare alcune differenze. Ma non certi abissi che alimentano il sospetto. In Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ci sono 45 pensioni definite «assistenziali» per ogni mille abitanti. In Campania, invece, sono 84. In Puglia 85, in Sicilia 91, in Sardegna 92 e in Calabria addirittura 97. Il fatto è che al Sud le pensioni di invalidità non hanno mai smesso di rappresentare una forma di sussidio. In una intervista rilasciata alla Stampa nel 2003 lo ammise candidamente uno dei leader meridionali più attrezzati nella raccolta del consenso. «Per un lungo periodo, indubbiamente, alla Cassa integrazione degli operai al Nord corrispondeva al Sud come ammortizzatore sociale la pensione di invalidità che serviva a moderare e mitigare la scarsa presenza dello Stato al Sud. Una forma di equilibrio», arrivò a dire Clemente Mastella. Che per anni, imperterrito, aveva continuato a difendere contro tutto e tutti quel curioso equilibrismo. Anche dal cospetto dei rigurgiti rigoristi dell’Inps: «Il Sud è una polveriera, può esplodere da un momento all’altro. Il clima è preinsurrezionale. Stanno togliendo le pensioni di invalidità in modo indiscriminato». Lamenti del tutto inutili, se è vero che a dispetto dei giri di vite più volte annunciati la spesa per le pensioni di invalidità ha continuato a galoppare. Il rapporto annuale 2014 dell’istituto di previdenza ora guidato da Tito Boeri informa che fra il 2004 e il 2016 l’esborso per quei trattamenti è letteralmente esploso, passando da 8,5 a 15,4 miliardi, con un aumento dell’81,1 per cento. Mentre il loro numero è cresciuto di almeno il 50 per cento, da un milione 980 mila ai quasi tre milioni che abbiamo citato. Questo grazie soprattutto alla progressione delle indennità di accompagnamento, le quali contrariamente alle pensioni non vengono erogate in rapporto al reddito. E se il tasso di crescita ha rallentato negli ultimi anni è una ben magra consolazione al confronto della situazione ereditata dagli anni d’oro. Quelli, per capirci, in cui quella forma di «equilibrio» veniva usata dai politici come leva clientelare. Talvolta anche con risvolti di carattere personalistico. Tre anni fa Amalia De Simone ha raccontato sul Corriere.it che fra i parenti stretti di 30 consiglieri di uno dei dieci municipi di Napoli si potevano contare 60 pensioni di invalidità. Per non parlare dell’epidemia di cecità che tradizionalmente colpisce la Sicilia: Regione che pur contando un dodicesimo circa della popolazione italiana ha un settimo di tutti i non vedenti italiani. Ma che non sia stato fatto nulla, soprattutto in questi ultimi anni, non si può certamente dire. Le indagini giudiziarie hanno portato alla luce tanti di quegli abusi ai quali faceva riferimento Cottarelli. Basta dire che nel 2014 e nella sola Campania, 18.846 controlli hanno fatto scoprire 5.543 irregolarità, con la revoca di altrettante pensioni: quasi il 30 per cento. Sarebbe però poco onesto negare che sopravvivano difficoltà pratiche per combattere e stroncare questo fenomeno. E in cima, inutile negarlo, ci sono anche alcune resistenze della politica. Due anni fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, appena insediato, aveva promesso un taglio «drastico» alle false pensioni di invalidità. Secondo i dati dell’Inps, fra il gennaio 2015 e il gennaio 2016 il numero dei trattamenti di quel genere è aumentato di 94.997 unità.

Fare industria con i soldi di tutti. Esce il saggio «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» (Marsilio). Teoria, prassi e sperperi dello Stato imprenditore in un’analisi critica di Franco Debenedetti, scrive Antonio Polito il 30 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Anche nelle maggiori ristrettezze, i denari del pubblico si trovano sempre, per impiegarli a sproposito». Alessandro Manzoni conosceva così bene il nostro carattere nazionale (tendiamo facilmente a dimenticare che il denaro pubblico è nostro), da meritarsi la citazione d’apertura nel nuovo libro di Franco Debenedetti, vera e propria biografia di un’idea (anzi, di «un’insana idea», come è definita nel sottotitolo). L’idea è quella della «politica industriale», e cioè di una «politica in cui l’attività industriale è svolta più o meno direttamente dal potere pubblico», che ha percorso la storia d’Italia da Giolitti a Renzi, e che ancora oggi resta popolare sia nel senso comune di molti italiani sia nella prassi di tanti politici. La convinzione insomma che tocchi allo Stato Scegliere i vincitori, salvare i perdenti della competizione economica (come nel titolo del volume in libreria da oggi, m per Marsilio). Ma un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Lo sapeva bene Giorgio Gaber, che aggiungeva: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione». E in effetti l’idea è di sinistra, ma in Italia l’hanno mangiata altri, e ci hanno davvero costruito su una rivoluzione. Prima Mussolini, che diede vita all’Iri credendola temporanea per rispondere alla Grande Crisi del 1929. E poi, nello snodo cruciale del dopoguerra, quando si trattò di decidere se sciogliere l’Iri o confermarla, toccò alla Dc appropriarsi dell’idea fin dal Codice di Camaldoli del 1943, che si ispirava insieme alla dottrina sociale della Chiesa e al New Deal rooseveltiano. Mentre la sinistra del tempo, il Pci, fu almeno all’inizio contraria: ostile a una programmazione di stampo sovietico, ma anche a un riformismo socialdemocratico, «non trovava altra soluzione che una ricaduta totale nel liberismo, nel lasciar fare», come ha notato Vittorio Foa. «In quegli anni si affermò», scrive Debenedetti, «la convinzione tutta ideologica che l’attività diretta dello Stato in economia possa rimediare ai mali — disoccupazione, arretratezze, iniquità — e portare il bene — crescita, protezione, innovazione — che, se può, deve, e se deve, che ottenerlo sia un diritto». La politica si comportò insomma come il gran cancelliere di Milano nei Promessi Sposi: «Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto, che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla». La prassi della politica industriale, almeno nella senescenza della Prima Repubblica, più che una politica per l’industria produsse industrie per la politica (ci fu un tempo in cui l’Iri era della Dc, l’Eni del Psi e l’Efim del Psdi). Ma l’idea ha avuto una sua grandezza e megalomania, anche in campi lontani dall’industria. Pensate per esempio alla cultura. «Ancora oggi non c’è praticamente discussione nella quale il modello Bbc non venga evocato come platonica idea di servizio pubblico». Oppure pensate alla giustizia. «Non mi vengono in mente», scrive l’autore, e devo convenire che non vengono in mente neanche a me, «casi in cui l’intervento della magistratura non vada nella direzione di aumentare il controllo da parte dello Stato e di restringere la libertà dei cittadini come imprenditori e consumatori. E non ne ricordo nessuno in cui l’intervento vada invece nella direzione di eliminare ostacoli all’iniziativa economica privata... L’articolo 41 della Costituzione è specchio di questo pregiudizio: dichiara l’iniziativa economica “‘libera’ ma fintantoché “non in contrasto con l’utilità sociale”». D’altra parte, oltre che la biografia di un’idea questo libro è anche una autobiografia. Perché la politica industriale e l’autore hanno la stessa età (l’Iri e Debenedetti sono nati entrambi nel 1933); perché l’autore ha un lungo passato di dirigente d’industria che ha militato in entrambe «le metà del cielo», come lui chiama l’industria pubblica e quella privata, e dunque ha osservato da vicino le conseguenze negative che la politica industriale ha avuto anche sull’impresa privata (rivelate per esempio dalle inchieste di Tangentopoli); e anche perché l’autore ha un fratello, Carlo De Benedetti, che in molte delle vicende narrate nel libro si è mosso da protagonista, vincendo o perdendo, e dunque il racconto di Franco va letto con un grano di sale perché inevitabilmente, e spesso dichiaratamente, partigiano. La fine della politica industriale è stata segnata dall’accordo Andreatta-Van Miert del 1993 che diede il via alla grande stagione di privatizzazioni, ma dura ancora lo strascico di polemiche che si è lasciata alle spalle. Per esempio da parte di chi la rimpiange come un’occasione ormai perduta di avere grandi industrie e campioni nazionali. Debenedetti risponde con puntiglio alla teoria dei «fallimenti di mercato», ripercorrendo le travagliate vicende di Olivetti e Telecom. E contrattacca ciò che resta oggi, al tempo di Renzi, del dirigismo: «Il posto dell’ideologia è stato preso da una sorta di pragmatismo, e proprio perché nessuno sembra potergli attribuire propositi sistemici di politica industriale, Renzi si ritiene libero di fare interventi che però ne hanno gli stessi presupposti e conseguenze». Residuati bellici di una guerra ormai finita, come il caso Ilva, il piano «banda larga», le ottomila aziende municipali, le regolamentazioni inutili per tentare di fermare lasharing economy. In definitiva, l’immarcescibile e pericolosa voglia di chiunque entri nella stanza dei bottoni, di schiacciare qualche bottone.

PARLIAMO DELLE BABY PENSIONI.  

Baby pensioni: che cosa sono? Tutte persone che sono uscite dal mondo produttivo in base a finestre aperte dalla legge, oggi diventano una sorta di profittatori, gente colpevole di campare troppo a lungo e sulle spalle del sempre più esiguo e spremuto contingente di lavoratori in attività, scrive Stefano Filippi il 4 aprile 2016 su “Il Giornale”. L'Inps ha fatto sapere che in Italia oltre 474mila pensioni sono state liquidate prima del 1980: i relativi titolari, dunque, vivono di rendita da 36 anni e per di più dopo aver lavorato sicuramente meno. I dati sono presi dalle tabelle sugli assegni di vecchiaia e di anzianità e ai superstiti del settore privato (cioè la reversibilità): sono perciò escluse le pensioni di invalidità previdenziale e civile, quelle sociali al minimo e i trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Di conseguenza non sono conteggiati neppure i cosiddetti «baby pensionati», cioè le impiegate del pubblico impiego sposate con figli che fino al 1992 potevano congedarsi con un'anzianità di 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi. L'età media da cui le pensioni hanno iniziato a decorrere è molto inferiore all'attuale: quasi 56 anni per gli assegni di vecchiaia e poco più di 41 per quelle ai superstiti. Nel 2015 le pensioni di anzianità liquidate sono state 238.400 con un'età di decorrenza di 62 anni e mezzo. Nel settore privato supera gli 800mila il numero di pensionati in quiescenza da oltre 30 anni (decorrenza antecedente il 1986) cui si aggiungono altri 527mila assegni di reversibilità. L'effetto mediatico di questi numeri è evidente: sono troppi. Anche perché si tratta di pensioni «pesanti», calcolate con il metodo retributivo basato sugli ultimi stipendi e non sull'ammontare dei contributi effettivamente versati.

Che cosa sono le baby pensioni? Risponde Flavia Amabile il 28 ottobre 2011 su "La Stampa". In questi giorni se ne è parlato molto. Il termine baby pensioni però indica solo quelle godute da lavoratori del settore pubblico che hanno smesso di lavorare a meno di 50 anni di età. Furono introdotte nel 1973 dal governo Rumor e cancellate quasi 20 anni dopo, nel 1992 da Dini.

Chi ne aveva diritto?

Chi aveva 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi se si trattava di donne sposata con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali.

In quanti ne godono?

Sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità concesse in questi anni secondo l’ultimo rapporto della Confartigianato. In media i baby pensionati ricevono un assegno di circa 1500 euro lordi al mese. Cifre di tutto rispetto, se si considera che mediamente incassano la pensione per più di 30 anni, avendo versato pochi contributi. Incassano minimo tre volte rispetto a quanto hanno versato.

Chi sono i baby-pensionati?

Il 78,6% - quasi 8 su 10 - sono dipendenti pubblici. Di questi più della metà (il 56,5%) sono donne. Il restante 21,4% sono persone che godono di regimi speciali. Sono soprattutto persone che vivono al Nord, e non a caso la Lega punta i piedi contro ogni intervento in materia. Il 62,5% è concentrato al Nord. Al primo posto c’è la Lombardia con 110.497 baby pensioni e una spesa di 1,7 miliardi e un record assoluto di 2 baby-pensionati su 10. Al secondo posto c’è il Veneto con 56.785 assegni, il 10,7% del totale. Al terzo e quarto posto Emilia Romagna e Piemonte, rispettivamente con 52.626 e 48.414 assegni, il 9% del totale.

Quanto costano?

Cifre abnormi, se si considerano gli effetti sull’economia di quest’anomalia previdenziale. Costano allo Stato circa 163,5 miliardi, una «tassa» di 6630 euro a carico di ogni lavoratore, sostiene Confartigianato, se si calcola la maggiore spesa che le casse pubbliche sopportano rispetto ai pensionati ordinari. I baby pensionati infatti ricevono un trattamento pensionistico più lungo di 15,7 anni rispetto ad un pensionato medio. Se si calcola la maggior spesa pubblica cumulata per ognuno degli anni di pensione eccedenti alla media, si arriva a 148,6 miliardi di euro. A questa somma bisogna aggiungere la minore contribuzione, pari a 138.582 euro per ogni baby pensionato del settore privato. Sono circa 100 mila e vuol dire 14,8 miliardi di mancate entrate previdenziali. Se invece si vogliono considerare solo le rendite erogate, siamo a una spesa di 9,45 miliardi: 7,43 miliardi per quelle incassate dai lavoratori del pubblico impiego, 2,02 miliardi per i lavoratori sottoposti a regimi speciali. E’ una cifra considerevole, se si tiene presente che nel 2010 la spesa pensionistica, secondo la Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso per i baby-pensionati.

Quanto hanno lavorato?

Forse sarebbe preferibile rovesciare la domanda e chiedere quanto restano in pensione per avere un quadro più chiaro di quello che accade. In media il 48% della vita, ovvero più di 40 anni, se si considera una durata media della vita di 85,1 anni. Ma ci sono 16.953 fortunatissimi baby pensionati che si sono ritirati a 35 anni e che restano in pensione quasi 54 anni, ovvero il 63,4% della vita, molto più della metà della loro esistenza. Da non disprezzare anche la condizione di coloro che sono andati in pensione tra i 35 e i 39 anni: restano in pensione 47 anni, il 55,8% della loro vita.

Esistono baby pensionati famosi?

Sì e sono anche molti e spesso politicamente scomodi. Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, andato in pensione da magistrato a 44 anni (oggi ne ha 60), e che incassa 2.644 euro lordi al mese. La moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone, sposata con il leader della rivolta contro Roma Ladrona, è andata in pensione come insegnante a 39 anni. Su di lei si è scatenata l’ultima lite alla Camera. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che è andato in pensione a 42 anni. E persino Adriano Celentano non si è tirato indietro: è in pensione dal 1988 a 50 anni. A livelli diversi, anche come rendite percepite, l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. Quando compì 48 anni decise di lasciare la Banca d’Italia, di cui era arrivato a ricoprire il ruolo di vicedirettore generale. Un ottimo incarico che si è riflesso sulla pensione: 15 mila euro al mese per 24 anni di lavoro senza che questo impedisca di continuare a ottenere incarichi e stipendi mensili. Un percorso simile quello di Rainer Masera, andato in pensione a 44 anni, dopo una carriera in Banca d’Italia per diventare presidente dell’Imi, l’Istituto Mobiliare Italiano. Da allora lo Stato gli versa 18mila euro al mese.

La Casta dei baby-pensionati Costa 9 miliardi l'anno. Sono oltre mezzo milione gli ex lavoratori che percepiscono vitalizi per i quali non hanno pagato i necessari contributi, scrive Antonio Castro su “Libero Quotidiano" del 25 ottobre 2011. Trenta, quaranta, anche cinquant’anni di vita da pensionato. Paradossi di un Paese, l’Italia, che oggi deve tirare la cinghia. Ma che negli anni Settanta era molto, molto generosa. Mentre si discute se ritoccare per l’ennesima volta l’età pensionabile (ieri la richiesta è e stata reiterata dai giovani imprenditori di Confindustria nel tradizionale meeting autunnale di Capri), di quanti hanno la fortuna di avere un impiego, spulciare i dati dei 535.752 baby pensionati fa salire la pressione e incoraggia una riflessione. Oggi il nostro sistema previdenziale deve sostenere un esborso notevole (9,45 miliardi l’anno) per retribuire un esercito di oltre mezzo milione di (ex) giovani pensionati. E non si tratta di poca cosa, considerando che nel 2010 la spesa pensionistica complessiva, secondo i dati della Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso vero signori e signore che negli anni successivi al 1973 (decreto 1092 varato dal governo Rumor) riuscirono ad andare in pensione con una manciata di anni di lavoro. All’epoca bastavano alle impiegate pubbliche con figli appena 14 anni, sei mesi e un giorno per andare in pensione. E indifferentemente dal sesso tutti i dipendenti statali potevano ambire alla pensione dopo 19 anni, sei mesi e un giorno. Un po’ più sacrificati i dipendenti degli enti locali che potevano ritirarsi con 25 anni di contributi. Vista con gli occhi di oggi - e con la prospettiva di dover lavorare fino ai 70 anni come in Germania - un Eldorado previdenziale. Se a questo regalino previdenziale sommiamo poi l’allungamento dell’aspettativa di vita degli italiani (arrivata a 79,1 anni per gli uomini e 84,3 anni per le signore), ne viene fuori un salasso che rischia di protrarsi per altri 20/30 anni. Già durante la turbolente estate della manovra correttiva si parlò di mettere mano a quest’anomalia tutta italiana. Le tabelle del Tesoro (sulle quali si basa l’elaborazione realizzata per Libero dal Centro Studi Sintesi), sui signori baby pensionati vennero velocemente messe via quando Umberto Bossi oppose categorico il niet della Lega, alleato di peso e indispensabile per la tenuta della maggioranza. E non solo perché la signora Bossi, ex insegnante, è una delle baby pensionate. Manuela Marrone ha fatto l’insegnante fino a 39 anni, e da qualche decennio incassa un assegno mensile di 766 euro. La verità è che in Lombardia (110.497 baby pensionati), Piemonte (48.414), Veneto (56.785) ed Emilia Romagna (52.626), si concentrano una parte importante dei privilegiati. Una mappa che corrisponde più o meno con il bacino elettorale della Lega Nord. Comprensibile quindi i cavalli di Frisia eretti contro qualsiasi intervento dai lumbard. Ma dalle Alpi alla Sicilia la corsa alla baby è uno sport nazionale. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, un tempo sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che ha pensato bene di andare in pensione a soli 42 anni. O Adriano Celentano (in pensione dal 1988 a soli 50 anni). La Cgil - che di fiuto politico ne ha per i possibili interventi governativi che colpiscono i pensionati - ha già messo le mani avanti e ammonito a guardare altrove. Eppure un contributo di solidarietà del 5% su questi assegni (in media 1.357 euro al mese), peserebbe per poco meno di 60/70 euro. Ma consentirebbe di risparmiare quasi cinquecento milioni l’anno. Barricate leghiste a parte, tra gli indefessi paladini dell’assegno pensionistico giovanile troviamo anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che abbandonata la toga e sceso in politica optò per un prematuro pensionamento dalla magistratura e oggi incassa un assegno mensile di 2.644 euro (lordi) al mese. Non se la passa certo male l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, che quando festeggiò 48 anni pensò bene di mettersi a riposo e si deve barcamenare con una pensioncina di 15mila euro al mese. Ma l’Inps ha a libro paga anche banchieri famosi come Rainer Masera (andato in pensione a 44 anni) che devono “sopravvivere” con 18mila euro al mese. Ma l’elenco dei fortunati pubblicato nel libro di Mario Giordano (Sanguisughe, Mondadori), è molto più lungo. Certo questi sono casi limite. Poi c’è la maestra con la pensioncina da 800 euro scarsi al mese. Peccato che chi ha iniziato a lavorare da 20 anni (e dovrà faticare per altri 20) a stento riuscirà a portare a casa una pensione superiore al 60% dell’ultimo stipendio. I signori baby, invece, incasseranno in vita loro, assegno dopo assegno, il 300% di quanto hanno versato.

Baby pensionati, ecco i conti. Fino all’82 per cento in regalo. A chi si è ritirato a 40 anni con contributi per 17 anni il sistema previdenziale «regala» l’82% dell’assegno, scrive Sergio Rizzo il 9 ottobre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «C’è un pezzo d’oro» dentro quasi ogni pensione italiana: ci credereste? Anche nelle più modeste c’è del metallo prezioso, sotto forma di soldi che ci mettono lo Stato e i lavoratori iscritti alla previdenza sociale per compensare la differenza fra l’entità dell’assegno pensionistico e quello che spetterebbe davvero al pensionato sulla base dei contributi versati. Autore della provocazione aurea è Mario Baldassarri, economista ed ex viceministro dell’Economia con il centrodestra, oggi animatore del centro studi Economia reale. Proprio nel momento in cui il tema delle pensioni è di nuovo al centro del dibattito politico, con il governo che vorrebbe aprire a forme di flessibilità e l’Inps che studia una sforbiciatina ai trattamenti retributivi più elevati, lui si è preso la briga di calcolare proprio quella differenza. E i risultati delle sue proiezioni sono decisamente più sconvolgenti di quanto si possa immaginare. Prendiamo il caso dei tanti baby pensionati. Chi avesse cominciato a riscuotere un assegno di mille euro a quarant’anni di età con 17 anni di contributi versati e altri 45 di aspettativa di vita sarebbe stato omaggiato dallo Stato e dagli altri lavoratori con ben 442.800 euro. E non è nemmeno il caso più estremo. Le cosiddette pensioni «baby» sono state eliminate più di vent’anni fa, ma di situazioni simili a questa ne esistono diverse centinaia di migliaia. Per ogni mille euro di pensione, 820 vengono letteralmente regalate al pensionato che si trova in tali condizioni. E se mille euro al mese per un’aspettativa di vita di 85 anni, pari a quella delle donne italiane (per gli uomini è intorno agli 80) fruttano a chi è uscito dal mondo del lavoro a quarant’anni quasi 450 mila euro, per duemila euro si salirebbe a 885.600 euro, per tremila a un milione 328.400 e così via. All’opposto di questa situazione si collocano coloro per i quali la pensione retributiva, calcolata cioè in rapporto allo stipendio, coincide con l’assegno contributivo, vale a dire misurato esclusivamente sui contributi versati. Un punto di equilibrio che nelle proiezioni di Baldassarri calza addosso a pochissimi: almeno 63 anni di età, almeno 43 anni di contributi versati e altri 22 anni di aspettativa di vita. Senza considerare, ovvio, la reversibilità ad eventuali superstiti. I calcoli attuariali del resto sono spietati: riducendo i requisiti anagrafici o i versamenti, il metodo retributivo regala sempre qualcosa. Con questo sistema un lavoratore che si ritirasse a 57 anni con 37 di contributi avrebbe una pensione superiore del 30% a quella contributiva. Un cinquantacinquenne con 35 anni di versamenti, addirittura del 40%. Il che consente di fare anche il ragionamento inverso, e cioè di valutare quanti soldi si dovrebbero rimettere decidendo di andare prima in pensione, come sembrano prevedere alcune proposte in gestazione, ma senza il regalino del metodo e retributivo. A 60 anni e con ben 40 di contributi, il taglio sarebbe del 16,8 % A 58, del 26,9. A 54, del 43,1. «Ad oggi», dice Baldassarri sottolineando che dalla riforma Dini che ha introdotto il metodo di calcolo contributivo sono passati esattamente vent’anni, «oltre il 90% delle pensioni è basato su retribuzioni percepite e meno del 10 % è calcolato sulla base dei contribuiti versati». Non solo. Esistono studi che dimostrano come ancora nel 2050 il 40% degli assegni previdenziali sarà erogato prevalentemente con il metodo retributivo. E questo dà la misura di quella che Baldassarri chiama «una doppia redistribuzione del reddito socialmente perversa: dai giovani agli anziani e dai poveri ai ricchi». I giovani pagano le pensioni agli attuali pensionati e poi, con il metodo contributivo, avranno assegni da fame. E chi ha avuto uno stipendio alto ha oggi una pensione altrettanto elevata senza aver pagato i contributi: un regalo enorme a chi guadagnava tanto, contro un regalino più piccolo a chi guadagnava meno. 

Il presidente dell’Inps Boeri: «Serve un contributo dalle pensioni più alte». Boeri interpellato sul dato delle 500 mila persone in pensione da oltre 36 anni: «In passato sono state fatte concessioni eccessive. Sarebbe opportuno chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani», scrive Raffaella Polato, su "Il Corriere della Sera" del 3 aprile 2016. «Il testo deve essere pronto entro l’8 aprile». Cioè entro venerdì prossimo. Che non è solo la data fissata per la presentazione del Def, il Documento economico e finanziario cui sta lavorando il ministero dell’Economia e che, poi, il governo invierà anche all’Unione europea con l’obiettivo di ottenere il via libera alla «flessibilità» chiesta da Matteo Renzi. Su quel fronte, lascia intendere Tommaso Nannicini, l’esecutivo è certo che onorerà le scadenze. Soprattutto, è convinto di aver raggiunto «la quadra» rispetto ai paletti posti da Bruxelles. Anche se nel frattempo lo scenario generale non è migliorato. Al contrario: la «crescita ancora fragile», come la definisce lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, si vedrà togliere qualche altro «zero virgola». Nannicini non ne fa cenno, dal palco di quel Festival Città Impresa che, poco dopo, assisterà a un nuovo «caso pensioni», sorta di duello a distanza tra il presidente dell’Inps Tito Boeri e i ministri presenti a Vicenza: il primo a sollecitare un «contributo di solidarietà», i secondi a bocciare seccamente l’uscita. Anche questo, d’altra parte, ha a che fare con la «crescita ancora fragile». Se il sottosegretario non la quantifica è perché occorrerebbero dei numeri nero su bianco. Numeri che sono però in arrivo. Venerdì, appunto, insieme al Def. Confermato che il governo aggiornerà le stime sul Pil 2016 e confermato, sebbene non ufficialmente, che la revisione sarà forzatamente al ribasso. Forse non seguirà l’entità dei tagli già annunciati da tutti i maggiori centri di ricerca (dall’Ocse in poi le ultime previsioni non vanno oltre il +1%). Di sicuro, però, una crescita dell’1,6% - cui Palazzo Chigi puntava - non è più un obiettivo raggiungibile. È inevitabile che sia questo quadro, a fare da sfondo ai dibattiti conclusivi del Festival Città Impresa. Il primo — cui partecipano Nannicini, Boeri, Francesco Giavazzi e il capo economista di Intesa San Paolo Gregorio De Felice — lo apre Giavazzi e l’esordio scelto basta a sintetizzare il «filo» dell’intera giornata. Oggi che sono certamente fattori esterni e tensioni internazionali, a frenare i nostri tentativi di ripresa, non dobbiamo dimenticare con quale peso ancora ci presentiamo alla sfida. Ovvero, ricorda l’economista: «I 30 punti di competitività persi in 15 anni rispetto alla Germania». È Nannicini a definirla «una zavorra strutturale», che solo «riforme strutturali potranno buttare a mare». Ma è qui anche — sul tema riforme — che «a lato palco» scoppia il nuovo caso pensioni. L’Inps ha appena diffuso un dato che fotografa oggettivamente l’allegro passato per cui oggi paghiamo il conto: quasi mezzo milione di italiani dev’essere stato a suo tempo un baby-pensionato, se è vero che il relativo assegno lo riceve da più di 36 anni. Su questo Boeri riflette e conclude: «Credo sarebbe opportuno chiedere a chi riceve importi elevati un contributo di solidarietà, per facilitare i giovani e la flessibilità in uscita». «Non è all’esame, né tecnico né politico», replica tranchant Nannicini. Seguito a ruota dal titolare del Lavoro, Giuliano Poletti: «Il contributo c’è già. È a scadenza e dovrà essere valutato, ma non è il caso di alimentare dannose incertezze».

Inps, mezzo milione in pensione da oltre 36 anni. Boeri: "Serve contributo da importi elevati". I dati solo sul settore privato non comprendono i baby pensionati del pubblico impiego, usciti dal lavoro prima del '92 con almeno 14 anni di contributi. Baretta "Legge Fornero va difesa" ma bisogna "agire sulla flessibilità in uscita". Così "è impraticabile", scrive il 3 aprile 2016 la Repubblica". In Italia ci sono oltre 474 mila pensioni liquidate prima del 1980, che quindi ricevono la pensione da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Un dato subito commentato dal presidente dell'Inps, Tito Boeri: "Siccome son state fatte delle concessioni eccessive in passato e queste concessioni eccessive oggi pesano sulle spalle dei contribuenti - dice a margine del convegno Città Impresa - credo che sarebbe opportuno andare per importi elevati a chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani e anche per rendere più facile a livello europeo questa uscita flessibile". Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, esclude però nuovi prelievi: "Il contributo di solidarietà oggi sulle pensioni alte c'è già, è a scadenza, dovrà essere valutato se confermarlo in quella maniera o diversamente, ma non credo che ci sia nulla allo studio. Vedremo cosa fare sulla flessibilità". A Boeri era stato chiesto nel dettaglio se la presenza di una così vasta platea di pensionati di lunga data, non sia il caso anche di andare a rivedere i diritti acquisiti, anche per rendere più sostenibile il sistema pensionistico. "Abbiamo formulato delle proposte molto articolate, che guardano all'età, alla decorrenza della prima pensione - risponde Boeri -. Perché quando si guarda anche agli importi pensionistici bisognerebbe sempre guardare da quanto tempo vengono percepiti questi importi. Possono essere anche importi limitati ma se uno li ha percepiti da quando aveva meno di 40 anni, chiaramente cumulandosi nel tempo vengono a stabilire un trasferimento di ricchezza pensionistica considerevole". Per le pensioni di vecchiaia l'età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l'età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne spostate con figli. L'Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico. Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800 mila persone mentre altri 527 mila assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent'anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L'età media alla decorrenza era molto inferiore all'attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall'essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l'età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l'età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l'età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un'età media alla decorrenza di 73,89 anni. Per quanto riguarda gli importi, dopo le polemiche sull'alto numero di pensionati sotto i 750 euro al mese, quasi 6 su 10, il presidente dell'Inps Boeri invita a "guardare al dato medio per pensionato, e non alla pensione media", perché "la situazione è meno grave di quel che si possa pensare". "C'è stata una informazione errata, bisogna guardare al dato medio per pensionato, non alla pensione media - spiega -. In Italia sono molti i pensionati che percepiscono più di un trattamento, questo non vuol dire che le pensioni non siano basse in Italia, ma la situazione è meno grave di quel che si possa pensare prendendo il dato per pensione singola".

PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

Checco Zalone, La prima Repubblica è la colonna sonora di Quo Vado? Scrive Giulio Pasqui lunedì 21 dicembre 2015. Checco Zalone non solo ci ha aiutati a film sbanca-botteghino, ci ha abituati anche a colonne sonore, scritte e cantate dallo stesso, degne di nota. E Quo Vado?, il nuovo film prodotto da TaoDue e distribuito da Medusa, poteva farne a meno? Ovviamente no. Domenica 20 settembre, in occasione dell'ospitata a Che tempo che fa, il comico barese ha presentato La prima Repubblica. "E' una canzone che ho scritto per Adriano Celentano - ha detto, scherzando - è il mio mito di sempre. Ma c'è un problema: lui non lo sa. Ha un ritornello orecchiabile...". E in effetti alcuni passaggi del brano/colonna sonora ricordano tanto lo stile del Molleggiato eFatti mandare dalla mamma. La Prima Repubblica viene definito come "un brano apocrifo che racconta con nostalgia quello che era il modo di vivere in Italia negli anni ‘80. Lo stile di vita di un paese che durante la Prima Repubblica viveva spensierato, godendo di un modo di fare diffuso in tutta la penisola. E’ un coro di persone felici che cantano allegramente la bellezza di quei momenti passati, non potendo scordare le consuete modalità che per un ventennio hanno caratterizzato l’Italia, diventando così il DNA del nostro Paese. Perché tutto cambia, ma in realtà nulla cambia veramente".

Checco Zalone, La prima Repubblica, Lyrics

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei quarantenni pensionati 

che danzavano sui prati 

dopo dieci anni volati all'aeronautica 

e gli uscieri paraplegici saltavano 

e i bidelli sordo-muti cantavano 

e per un raffreddore gli davano 

quattro mesi alle terme di Abano 

con un'unghia incarnita 

eri un invalido tutta la vita

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei cosmetici mutuabili 

le verande condonabili 

i castelli medioevali ad equo canone 

di un concorso per allievo maresciallo 

sei mila posti a Mazzara del Vallo 

ed i debiti (pubblici) s'ammucchiavano

come i conigli 

tanto poi 

eran cazzi dei nostri figli

Ma adesso vogliono tagliarci il Senato 

senza capire che ci ammazzano il mercato 

senza Senato non c'è più nessun reato 

senza reato non lavora l'avvocato 

il transessuale disperato 

mi perdi tutto il fatturato 

ed al suo posto c'è un Paese inginocchiato

Ma il Presidente è toscano 

ell'è un gran burlone 

ha detto “eh, scherzavo” 

piuttosto che il Senato 

mi taglio un coglione

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

era bella assai 

la prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu che ne sai 

Ma davvero Quo Vado di Checcho Zalone racconta l'Italia di oggi? Il 1° gennaio arriva l'attesissimo nuovo film di Checco Zalone, "Quo vado?", atteso dai fan ma anche dagli esercenti dal momento che il suo ultimo film ha incassato la cifra record di 51 milioni di euro. Il nuovo film racconta la storia di Checco, un ragazzo che ha realizzato tutti i sogni della sua vita: vivere con i suoi genitori evitando così una costosa indipendenza, rimanere eternamente fidanzato senza mai affrontare le responsabilità, un lavoro sicuro ed è riuscito a ottenere un posto fisso nell’ufficio provinciale caccia e pesca. Un giorno però tutto cambia: uìil governo vara la riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province, Checco viene trasferito al Polo Sud. Il regista e attore barese ha scelto però di non fare promozione tradizionale e al posto del trailer sta diffondendo sulla sua pagina Facebook dei piccoli spot ironici autopromozionali. Il film comico spiega il Paese meglio degli studiosi secondo alcuni osservatori. Abbiamo chiesto a uno di loro, Ilvo Diamanti, che ne pensa, scrive Ilvo Diamanti il 15 gennaio 2016 su "L'Espresso". Ho assistito con attenzione “professionale” alla proiezione di “Quo vado?”, il film di Checco Zalone, diretto da Gennaro Nunziante. Naturalmente, io non sono un critico cinematografico. E neppure un esperto. Lo ero, di più, da giovane, quando seguivo e, a volte, conducevo i cineforum, nella provincia veneta. Ma, poi, il lavoro e i viaggi (per lavoro: insegno in sedi universitarie diverse, lontane da dove risiedo) hanno preso il sopravvento. E ho ripiegato sui dvd e sugli streaming. Che ti seguono nei viaggi e in ogni trasferta. Anche se i film vanno guardati nelle sale cinematografiche. Al buio, in silenzio. Così, da qualche anno, anzi, da molti anni, al cinema ci vado saltuariamente. Spinto da mia moglie. Perlopiù, a vedere film diretti o interpretati da amici. Io, peraltro, ho perfino partecipato all’ultimo film di Carlo Mazzacurati. Amico carissimo (e in-dimenticato). “La sedia della felicità”. Dove, per venti secondi, ho recitato la parte di… me stesso. L’esperto che analizza la società (del Nordest). Così, ho accettato di vedere e commentare il film di Zalone con l’occhio dell’analista sociale. E politico. Come di fronte a un ritratto dell’italiano medio, dei suoi miti, dei suoi desideri, dei suoi valori. D’altronde, com’è noto, è già avvenuto in passato. La commedia all’italiana: ha raccontato l’Italia della ricostruzione e del miracolo. Con realismo e ironia. Ma ciò è avvenuto anche in tempi recenti. Basti pensare a Paolo Villaggio e al suo personaggio più noto: Fantozzi rag. Ugo. Io stesso, nell’ambito del mio corso di Comunicazione Politica, all’Università di Urbino, ho organizzato un seminario intitolato: “Politica e spettacolo”. Anzi, “Politica è spettacolo”. Dove ho invitato, fra gli altri, Antonio Albanese. Inventore e attore di alcune straordinarie maschere del nostro tempo. Delineate, oltre che interpretate, con la cura del sociologo. O dell’antropologo. Penso a Ivo Perego, idealtipo del piccolo imprenditore della provincia lombardo-veneta. O, per altro e diverso “verso”, a Cetto La Qualunque. Maschera esemplare del politico-politicante del Sud (ma non solo), buffo e un po’ buffone. Al proposito, Albanese rivelò ai miei studenti, che «nessuna parola e nessuna frase è mia. Ho raccolto registrazioni in occasione di diverse elezioni locali. Nel Sud. La sceneggiatura è loro. Dei Cettilaqualunque presenti sul nostro territorio». E che dire di Neri Marcorè (anch’egli invitato ai miei corsi). Autore di “imitazioni” di successo, imitate dagli stessi imitati. Come Maurizio Gasparri. Ma lo stesso discorso, oggi, vale per Maurizio Crozza. Come dimenticare l’indimenticabile maschera di Bersani? Più efficace dell’originale, purtroppo per l’interessato. Mi accorgo, ora, che il tentativo di spiegare il motivo per cui un in-esperto di cinema, come me, venga invitato a commentare un film, per quanto “eccezionale”, per numero di spettatori e volume di incassi, mi ha portato lontano. Tanto lontano, che ora rischio di perdermi. D’altronde, Francesco Anfossi, su “Famiglia Cristiana”, ha scritto che «Zalone e il regista Nunziante spiegano l’Italia meglio di Ilvo Diamanti o Giuseppe De Rita». Naturalmente, De Rita non ne ha bisogno, ma io ci tengo a imparare dai maestri. Tanto più se realizzano analisi di successo, come “Quo Vado?”. Così ho guardato il film cercando di capire quanto l’Italia di Nunziante e Zalone coincida con le mie rappresentazioni. E interpretazioni. Premetto che mi sono divertito. Ho riso molto. E ho provato a riflettere. Su quanto sia realistica e attuale «l’Italia malinconica e meschina di Checco Zalone», come la definisce Goffredo Fofi su “Internazionale”. L’Italia fondata sul “posto fisso”. («Cosa vuoi fare da grande»? Chiede il maestro al giovane Checco. E lui, prontamente: «Il “posto fisso”»). L’Italia che, mira, anzitutto, al pubblico impiego, nei servizi dello Stato. Checco Zalone, impiegato alla Provincia (chiusa per legge), disposto a girare per il mondo, fino in Norvegia, fino ai ghiacci del Polo Nord, pur di non rinunciare al “posto fisso”. Come gli ripete e gli “raccomanda” il suo amico e protettore politico, interpretato da Lino Banfi. L’Italia fondata sulla mamma e sulla famiglia. Ebbene, la prima impressione è che questa raffigurazione è, forse, puntuale, ma caricaturale. Ancora: valida soprattutto per alcuni settori sociali e territoriali (gli adulti, il Mezzogiorno). E, comunque, datata. Perché l’Italia dei giovani, è “precaria”. Non si ferma in un “posto fisso”. I giovani, appena possono, se ne vanno dalla famiglia. Si trasferiscono altrove. In Europa, nel mondo. Non per imposizione. Nessuno li caccia. In un Paese di figli unici, figurarsi... Partono per scelta e necessità. Perché 7 italiani - e 8 giovani - su 10 ritengono che, per fare carriera, per trovare un impiego adeguato alle loro aspirazioni, i giovani debbano andarsene. All’estero. Tuttavia, a guardare i sondaggi realizzati da Demos, che utilizzo regolarmente per le mie ricerche, l’Italia di Nunziante e Zalone pare meno manierista e fantastica di quel che si potrebbe pensare. Proviamo a scorrere alcuni dati. Fra le caratteristiche che orientano la scelta del lavoro, secondo gli italiani (aprile 2015), la più importante è (appunto…) «che sia sicuro, senza rischio di perderlo e rimanere disoccupati». La prima, per il 39% degli intervistati. La seconda, per un altro 22%. Se sommiamo i due principali requisiti del lavoro, dunque, oltre il 60% degli italiani attribuisce effettivamente al “posto fisso” un ruolo importante. Anche se tra i giovanissimi (15-24 anni) conta di più la “soddisfazione”. Potendo scegliere un’occupazione per sé o i propri figli, inoltre, il 29% preferirebbe «un lavoro alle dipendenze di un ente pubblico». (La quota sale a circa il 32% nel Sud.) Anche in questo caso, si tratta della scelta più apprezzata. Seguita dal «posto in una grande impresa» (22%). E dal lavoro in proprio o da libero professionista (18%, in entrambi i casi). Di nuovo, però, la gerarchia delle preferenze cambia fra i giovanissimi. Attirati soprattutto dalla libera professione. Infine la famiglia. Secondo il 36% degli italiani, è ancora il soggetto che tutela maggiormente i lavoratori. Più dello stesso sindacato, indicato dal 16% del campione. D’altronde, «cosa distingue maggiormente gli italiani dagli altri popoli»? Naturalmente la famiglia (28%). Poi, «l’arte di arrangiarsi» (17%). Anche perché, agli italiani, è possibile “arrangiarsi”, soprattutto grazie alla famiglia. È interessante osservare che il ruolo della famiglia è riconosciuto anche dai giovani. E dai giovanissimi. In misura maggiore della media. Il profilo che emerge da questi dati, dunque, rende il “ritratto dell’italiano medio” secondo Zalone meno caricaturale del previsto. L’Italia appare ancora ispirata dal mito del lavoro fisso, nei settori pubblici, statali. Attaccata alla famiglia. Soprattutto se facciamo riferimento alle generazioni adulte e, ovviamente, anziane. A maggior ragione (ma non solo) del Sud. Questo modello, però, si adatta molto meno ai più giovani. Abituati alla flessibilità, alla precarietà. Al nomadismo. Per motivi di studio e lavoro. Ma, ormai, anche per passione. Eppure anch’essi possono sperimentare la condizione di “professionisti dell’incertezza” perché alle spalle hanno una famiglia. Un genitore o (meglio) due con lo stipendio fisso. Impiegati, magari, nel settore pubblico. Un nonno o una nonna con la pensione. Con una casa di proprietà. L’Italia di Zalone riflette, dunque, i valori e i riferimenti economici e sociali che hanno accompagnato la nostra società, nel dopoguerra. Oggi erosi dall’incertezza e dalla crisi. Ma ben piantati nella nostra storia. E ancora resistenti. Appigli necessari per vivere e sopravvivere. A chi resta - i più anziani. E a chi se ne va - i più giovani. I quali sanno, comunque, di poter tornare. A casa. Dove c’è sempre qualcuno ad attendere.

"Vinsi un miliardo di lire 35 anni fa al Totocalcio, ma non mi hanno mai pagato. Ora voglio 10 milioni di euro". Parla Martino Scialpi il miliardario mancato: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione...", scrive Giuseppe Caporale il 3 marzo 2016. Ora che i suoi “nemici” di una vita sono finiti nel registro degli indagati, ora che un pezzo di Stato (presidenti e dirigenti del Coni, cancellieri e giudici di diversi tribunali e avvocati) è dentro una inchiesta giudiziaria che promette di mettere la parola fine alla sua assurda vicenda, Martino Scialpi tira finalmente un sospiro. “Sono 30 anni che lotto, dottore... non so se lei può comprendere la mia amarezza. La mia rabbia”. Non si è mai trasformato in un assegno circolare il 13 al Totocalcio fatto nel 1981 da questo commerciante di Martina Franca (Taranto). Di quel miliardo di lire vinto sulla carta, non ha mai ottenuto nemmeno un centesimo. Ed ora che sono trascorsi tre decenni e si ragiona ormai da un bel pò in euro, lui spera di incassare parecchi soldi in più: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Guardi, non sono pochi. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione... Non mi crede? Ho dovuto sostenere 33 cause. Perfino quando un tribunale di Roma ha chiesto al Coni di trovare una conciliazione con il sottoscritto, questi signori si sono negati. E ora per tutti i loro tentativi maldestri di non pagarmi sono finiti nei guai con la giustizia penale....” Il Coni sostiene che la matrice del tagliando non sia mai arrivata all’archivio corazzato del Totocalcio, ma la schedina, dopo una serie infinita di traversie giudiziarie, nel 1987 fu dichiarata autentica. Scialpi denuncia invece una serie di “anomalie e discrasie” che avrebbero “influenzato” la decisione del tribunale civile di Roma che, il 25 novembre del 2014, ha accolto l’istanza presentata dal Coni di sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo sul quale si fonda il pignoramento presso la Bnl, conto terzi, della somma di 3,9 milioni di euro nella disponibilità del Coni: “Come è possibile - dice ancora Scialpi - che questa somma sia ancora bloccata grazie, tra l’altro alla presentazione di documenti falsi, quando è ormai acclarato che quei soldi me li devono dare. Quanto vogliamo ancora andare avanti con questa farsa”. Nella denuncia si rammenta che il 14 febbraio del 2012 un giudice civile ordinò al Coni di pagare nei confronti di Scialpi la somma di oltre 2 milioni e 300mila euro, ma l’efficacia esecutiva del titolo fu sospesa (dopo l’opposizione dello stesso Coni) dal giudice Massimiliana Battagliese il 2 agosto 2013. Il provvedimento però non fu “mai notificato” allo scommettitore, al suo legale e all’avvocato domiciliatario a Roma. Secondo i denuncianti il Coni avrebbe presentato documenti falsi per attestare l’avvenuta notifica dello stesso provvedimento alle controparti e condizionare la sentenza del giudice. Il Coni però ribatte e fa presente che “pretese economiche del sig. Scialpi sono già state respinte con sentenze del Tribunale di Roma del 1983 e della Corte d’appello di Roma del 1985, passata in giudicato. Avverso tale ultima pronuncia il sig. Scialpi ha proposto ben tre domande di revocazione, tutte respinte dalla Corte d’appello di Roma, con sentenze confermate dalla Corte di Cassazione (da ultimo nel gennaio 2012). L’unico provvedimento, a carattere provvisorio (si trattava di un’ingiunzione di pagamento), che ha condannato il Coni, adottato dal Tribunale di Roma il 9 febbraio 2012, è stato revocato dallo stesso Tribunale pochi giorni dopo, con ordinanza del 14 marzo 2012. Pertanto, il sig. Scialpi non ha diritto di pretendere alcunché dal Coni”. Ora però è intervenuta la procura di Potenza: sono 36 gli indagati per abuso d'ufficio legati all'infinita vicenda giudiziaria della mancata corresponsione della vincita. Tra gli indagati vi sono i vari presidenti del Coni che si sono succeduti in oltre 30 anni di cause, 11 magistrati dei tribunali di Taranto, Bari e Roma, ufficiali della Guardia Finanza, un dirigente dell'Azienda Monopoli di Stato e alcuni avvocati del foro di Roma, di Taranto e dell'Avvocatura dello Stato. L’inchiesta penale è approdata a Potenza perché la sede giudiziaria competente ad indagare su vicende che riguardano magistrati in servizio presso il distretto della Corte di appello di Lecce, al quale Taranto appartiene.

Corruzione, Italia bocciata. Nella Ue fa peggio solo la Bulgaria. La pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con "gravi problemi". Rispetto al 2014 siamo migliorati di un punto, ma non basta per la sufficienza. Ecco come funziona l'indicatore, che misura reputazione e competitività, riconosciuto a livello mondiale, scrive Gianluca De Feo il 27 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Come è lontano l'Occidente. Certo, l'Italia dell'onestà nell'ultimo anno ha fatto qualche passo in avanti. Ma la distanza dai paesi “normali” è ancora abissale. E la pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con “gravi problemi di corruzione”. Il voto è migliorato rispetto al 2014: un punto in più, arrivando a 44. Che però non basta per la sufficienza, fissata a quota cinquanta. Il risultato ci fa salire nella classifica mondiale, superando altri otto stati fino alla sessantunesima posizione. Ma l'Europa resta un miraggio: solo la Bulgaria è considerata peggio di noi, tutti gli altri ci guardano dall'alto in basso. E sullo stesso scalino ci ritroviamo in compagnia di Lesotho, Senegal, Montenegro e sud Africa. Insomma, siamo messi decisamente male. La questione non è secondaria. Ormai l'indice di Transparency è diventato un indicatore riconosciuto a livello internazionale, con un peso nella valutazione di un paese e della sua competitività. La bocciatura incide nella capacità di attrarre investimenti, perché una nazione corrotta non dà garanzie nei contratti, non offre correttezza nelle gare di appalti. E non è un caso se oggi i capitali che entrano sul mercato italiano arrivano soprattutto da nazioni che sono addirittura considerate peggio di noi in quanto a moralità, come la Cina (posizione 83), la Russia (posizione 119) o il Kazakhistan (posizione 123). Qualche dubbio può nascere se andiamo a vedere alcune petrolpotenze arabe, tutte posizionate più in alto di noi: il Qatar (posizione 22), Emirati (23), Arabia Saudita (48), il Kuwait (55). Possibile che anche gli sceicchi siano più rigorosi di noi? Il cuore della questione però è la natura di questo indicatore di moralità: non misura la corruzione, la quantità di tangenti o il numero di arresti per bustarelle, ma un valore immateriale come la percezione della corruzione. È un termometro della nostra reputazione, del modo in cui veniamo visti. Così gli arbitri della nostra immagine di legalità diventano una serie di istituti privati, che pongono domande a esperti qualificati e poi elaborano i sondaggi fino a distillare una loro classifica. Gli specialisti di Transparency a loro volta fondono le singole hit fino a stilare la graduatoria finale, con “metodologie perfezionate nel corso degli ultimi venti anni”. Nella giuria c'è per esempio la Fondazione Bertelsmann, con il suo indice di governance sostenibile, che valuta più elementi: se esiste “un meccanismo di integrità legale, politico e pubblico che efficacemente previene gli abusi dei funzionari pubblici”; “fino a che punto chi viola le leggi viene perseguito e condannato”; “quali sono i risultati del governo nel contrastare la corruzione”. E qui è difficile che l'Italia non venga stroncata, tra processi lenti, sentenze inefficaci o vanificate dalla prescrizione, condannati che riescono a farsi eleggere governatori di regioni chiave. C'è poi l'analisi dei rischi formulata dall'Intelligence Unit del centro ricerche del settimanale britannico Economist, focalizzata sulla gestione dei fondi pubblici, sull'indipendenza dei funzionari che si occupano di appalti ed enti, sull' “esistenza di una tradizione nel pagare mazzette per vincere i contratti e ottenere favori”. Un parametro quest'ultimo che automaticamente ci mette in cattiva luce, perché la nostra storia ha le mani poco pulite la questione morale è uno slogan che non si è mai trasformato in battaglia, neppure tra gli eredi di Enrico Berlinguer. Un report simile viene stilato dal gruppo di informazione economica Ihs che stima l'incidenza della corruzione nelle attività delle compagnie private mentre la business school svizzera Imd misura la competitività di un paese “attraverso 333 criteri”. Ci sono poi le analisi della Political Risk Services statunitense che stabiliscono i rischi politici, economici e finanziari prendendo in esame pure le mazzette. Quindi il World Economic Forum, con l'attenzione all'abuso di fondi pubblici, alle bustarelle per evadere le tasse, per vincere gli appalti e per comprare le sentenze dei tribunali. Più mirato lo screening del World Justice Project che cerca di capire la ricerca di profitti da parte di governi, magistrati, polizie, militari e parlamentari. Insomma, un gran calderone di centri studi – tutti privati, tutti con buona reputazione accademica - da cui poi Transparency distilla le sue pagelle. All'Italia quest'anno è stato dato quello che i professori spesso chiamano “un voto di incoraggiamento”. L'alchimia statistica degli arbitri internazionali sembra catturare il riflesso di alcuni cambiamenti, legati al pieno funzionamento dell'Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone e alle norme sulla trasparenza nella pubblica amministrazione, ma per scalzare la pessima fama bisogna fare molto di più. Perché all'estero arriva più spesso l'eco degli scandali, dalle retate di Mafia Capitale a quelle di Expo, che non l'efficacia delle indagini che li hanno svelati. Ma soprattutto perché è inutile cercare alibi negli arcani che muovono la graduatoria: nel nostro paese la corruzione c'è, ovunque, le gare d'appalto sono lente e oscure, le figure che gestiscono gli enti statali e locali spesso hanno più meriti politici e interessi di cordata che non professionalità. E questa è una tassa occulta che tutti paghiamo, un freno allo sviluppo che mette in discussione il nostro benessere presente e futuro. «Per compiere un salto di qualità importante occorre un ruolo più forte della società civile che deve acquisire la consapevolezza che un sistema dove è grande la corruzione non crea ricchezza e alimenta profonde distorsioni del mercato», dichiara il presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello. Gli scandinavi, gli stessi che a Bruxelles ci fanno di nuovo le pulci sul debito statale, possono vantare un pedigree di rigore irraggiungibile: la Danimarca è la prima della classe, con 91 punti su cento, mentre Finlandia e Svezia la tallonano con 90 e 89. Ma persino la Grecia della grande crisi, forse per merito della Troika teutonica, si mostra dinamica e ci distanzia di tre posizioni. La Spagna a quota 58 è lontanissima, Polonia e Portogallo hanno venti punti più di noi. Ma anche ungheresi, sloveni, croati, romeni sono visti come più integerrimi. Nella Ue, ci è dietro soltanto la Bulgaria.  «Come dimostra la cronaca, la strada è ancora molto lunga e in salita, ma con la perseveranza i risultati si possono raggiungere», commenta Virginio Carnevali, presidente di Transparency Italia: «In questi giorni la Camera ha approvato le norme sul whistleblowing, le pubbliche amministrazioni stanno diventando via via più aperte e trasparenti, una proposta di regolamentazione delle attività di lobbying è arrivata a Montecitorio». Insomma, la rotta è questa ma bisogna proseguire fino a trasformare le buone intenzioni in riforme concrete. E – parafrasando una frase attribuita ad Alcide De Gasperi – aggrapparci all'Europa per non scivolare nell'Africa.

Truffe degli statali tra sanità e appalti. In 10 mesi un buco da 4 miliardi. Appalti truccati, assenteismo e consulenze inutili: i dipendenti pubblici infedeli finiscono nel dossier della Guardia di Finanza per il 2015, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 31 gennaio 2016. Ormai si sfiorano i quattro miliardi di euro, cifra record di «buco» nei conti dello Stato. È la voragine creata dall’attività illecita di circa 7.000 dipendenti pubblici infedeli. Funzionari corrotti oppure impiegati che non hanno rispettato la legge nello svolgimento delle proprie mansioni e dunque hanno compiuto illeciti che vanno dalle omissioni agli abusi. Ci sono le truffe nel settore sanitario, i mancati controlli nell’erogazione di pensioni, indennità ed esenzioni, le procedure truccate per la concessione degli appalti. Ci sono gli appalti gonfiati e i medici assenteisti, le consulenze inutili e i doppi incarichi tra i casi più eclatanti scoperti dagli investigatori della Guardia di finanza. Sono gli ultimi dati relativi alle verifiche compiute nel 2015 a raccontare l’Italia dell’illegalità e degli sprechi che provoca danni alla collettività. Mostrando un andamento che inquieta: in soli quattro mesi, da giugno a ottobre dello scorso anno, la cifra contestata è salita di oltre 500 milioni di euro. Vuol dire oltre 100 milioni ogni trenta giorni a dimostrazione che molto ancora c’è da fare — soprattutto negli uffici pubblici più periferici — per stroncare il malaffare. Basti pensare che sono ben 3.590 le persone denunciate per aver compiuto reati nel settore delle gare pubbliche.

A Modena è stato denunciato un medico che — pur risultando in servizio — rimaneva in ospedale appena un paio d’ore. Da almeno cinque anni «la regolare presenza veniva garantita solo una volta a settimana» e per cercare di giustificarsi «ha portato i tabulati del marcatempo di un’altra struttura ospedaliera dove svolgeva attività libero professionale intramoenia». Gli sono già stati sequestrati 40 mila euro, ma i controlli sono tuttora in corso. A Imperia i dottori del dipartimento di Medicina legale «certificavano la morte delle persone pur non avendo effettuato alcuna analisi perché erano altrove». Sono decine i documenti falsi trovati nel corso delle perquisizioni.

La truffa scoperta a Milano nel giugno scorso era ben più articolata e ha provocato un danno immenso. In una struttura sanitaria convenzionata con il servizio nazionale «sono stati eseguiti oltre 4.000 interventi chirurgici in violazione delle norme di accreditamento relative alla presenza minima di operatori e anestetisti, nonché di impiego di medici specializzandi». L’azienda ha comunque «autocertificato il mantenimento dei requisiti richiesti per l’accesso al rimborso della prestazione sanitaria offerta, ottenendo indebiti rimborsi per oltre 28 milioni di euro». A Brindisi si è scoperto che la prescrizione di 15.541 farmaci per l’ipertensione era stata compiuta in maniera illecita. Sono 482 i medici denunciati per un danno alla Asl pari a 194 milioni di euro.

Quello dei benefit percepiti grazie a certificazioni false è ormai un vero e proprio affare che coinvolge migliaia di persone in grado di contare sui dipendenti pubblici amici o parenti. A Potenza si è scoperto che molti anziani prendevano l’assegno sociale previsto per i residenti, pur avendo deciso di trasferirsi all’estero, grazie agli impiegati che avevano contraffatto i documenti. Soldi rubati: 259 milioni di euro. Addirittura 500 milioni di euro sono stati sottratti alle casse dell’Inps a Viterbo dove venivano «modificati i moduli per il riscatto della laurea o la ricongiunzione di periodi contributivi per ottenere indebitamente un notevole “sconto” sull’effettiva somma da versare all’Istituto previdenziale, per il riconoscimento di ulteriori periodi contributivi utili ai fini pensionistici». A Potenza un dipendente del Comune svolgeva attività privata negli orari in cui avrebbe dovuto essere in servizio. Faceva il geometra. Compensi rubati: 70 mila euro. A Milano un dirigente della Regione truccava gli appalti e in cambio riceveva favori personali. L’ultimo, la ristrutturazione da favola del suo appartamento. Valore accertato: 150 mila euro.

Auto dei vigili senza assicurazione: Striscia la Notizia arriva a Capaccio. L'inviato del tg satirico di Canale 5 è tornato in provincia di Salerno per chiarire il caso scoppiato sulla mancata copertura assicurativa di diversi veicoli in dotazione alla locale amministrazione, scrive il 29 gennaio 2016 "Salerno Today". Dopo il blitz di qualche settimana fa al Comune di Agropoli, l’inviato di Striscia la Notizia Luca Abete è tornato in provincia di Salerno. Questa volta si è recato nella città di Capaccio per occuparsi del caso scoppiato su alcune volanti dei vigili urbani e dello scuolabus, che verrebbero utilizzate nonostante prive di copertura assicurativa. Il tg satirico di Canale 5, spulciando il “portale dell’automobilista” del Dipartimento Trasporti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha scoperto infatti che, digitando il numero delle targhe delle auto in dotazione alla polizia municipale capaccese, queste ultime risultavano essere senza assicurazione. Il comandante dei vigili urbani e una funzionaria dell’amministrazione, intervistati da Abete, hanno confermato davanti alle telecamere, invece, che tutte le macchine dell’amministrazione "sono in regola". Sul posto sono giunti anche i carabinieri, che dopo un vertice con i dirigenti comunali, hanno spiegato al simpatico giornalista di Canale 5, che si sarebbe verificato un ritardo di comunicazione del rinnovo delle polizze tra la sede centrale dell’Agenzia assicurativa e l’Ania (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici). Dopo un po’ di tempo Abete è tornato a controllare le targhe sul “portale dell’automobilista” e tutte le auto improvvisamente sono risultate assicurate.

Vigili in giro con l’assicurazione scaduta. Nel deposito dei Monti Tiburtini 9 auto su 14 hanno il contrassegno non valido dal 31 ottobre, scrive Silvia Mancinelli il 17 novembre 2014 su “Il Tempo”. Ma se i vigili fanno le multe, a loro – in giro con l’assicurazione scaduta – la contravvenzione chi la fa? La domanda sorge spontanea, senza un velo di sarcasmo, laddove le auto della Polizia Locale di Roma Capitale circolano senza copertura assicurativa. Nel caso specifico dell’autoparco di via dei Monti Tiburtini, ad esempio, nove macchine su quattordici – parliamo di quelle in leasing e utilizzate dagli agenti dei Gruppi Tiburtino e Sapienza – espongono l’assicurazione scaduta il 31 ottobre 2014, oltre i quindici giorni di tolleranza. «Mentre alcune pattuglie erano chiamate a controllare il rispetto del blocco del traffico, le stesse erano in violazione di legge – conferma Stefano Giannini, sindacalista Sulpl -. Per una violazione del genere qualsiasi cittadino sarebbe stato multato. A noi le contravvenzioni dal terminale non spariscono di certo. Tra l’altro una situazione identica è riscontrabile anche nei Gruppi Aurelio, Appio e I Trevi. Solo ad Ostia i vigili possono stare tranquilli: a loro le assicurazioni scadono nel 2015. Alcuni colleghi già domani si stanno rifiutando di uscire in macchina, e d’altronde chi gliele paga le sanzioni da 41 euro?». «Questa incredibile vicenda segna un’ulteriore drammatica accelerazione dello sfacelo amministrativo che sta vivendo Roma – commenta Sveva Belviso, leader di Altra Destra e consigliere capitolino -. La macchina comunale è completamente impazzita, non funziona più nulla, la città è totalmente allo sbando e senza guida. E sarebbe ignobile prendersela con la polizia municipale, cui va anzi la nostra solidarietà essendo i vigili senza copertura assicurativa. L'unica responsabilità è di tipo politico e di un sindaco inetto che sta distruggendo ogni tessuto civico e amministrativo della città. Ormai siamo a livelli di pericolosità sociale, e se il Pd non caccia Marino si assumerà una responsabilità morale enorme. I romani non li perdoneranno mai». «Non vogliamo essere multati al posto del sindaco Marino – ribadisce Giannini, Sulpl - . Lui può non pagarle alcune contravvenzioni, noi non ce lo possiamo permettere». Ma le assicurazioni scadute non sono certo l’unico problema con il quale devono convivere gli agenti della Polizia Locale. Senza un vestiario adatto, spesso in servizio con giubbotti gialli in mancanza di altro. Costretti a fotografare gli incidenti con i propri cellulari, succede agli uomini del Gruppo Intervento Traffico, in attesa di una nuova macchinetta digitale, e in giro con mezzi di servizio non idonei al trasporto degli arrestati o troppo piccoli, con i furgoni per i rilievi degli incidenti stradali fermi per manutenzione. Senza visite mediche che attestino la loro idoneità al servizio in strada, impossibilitati ad usare mascherine che li proteggano dallo smog, «ma soprattutto insufficienti, considerata la cronica carenza di personale, a coprire le esigenze di una Capitale europea – aggiunge Giannini -. Per noi Roma, se non è in grado di essere Capitale, può chiudere i servizi come un Comune qualsiasi alle 20 del venerdì. Sfidiamo il Sindaco su questo tema: basta straordinari e servizi notturni per la Polizia Locale. Ci pensasse lo Stato».

“E il tagliando dell’assicurazione?”. Le auto dei vigili ne fanno a meno. Il comandante Donati: “Una dimenticanza, mica siamo a Napoli. Ora provvederemo ad esporli”, scrive Vincenzo Chiumarulo il 7 febbraio 2013 su “La Repubblica”. Che ogni auto sul suolo pubblico debba tenere bene in vista il contrassegno dell'assicurazione, ce lo confermano due vigili urbani in piazza Umberto, appena usciti da un'auto di servizio: una Punto blu col parabrezza talmente pulito, che gli agenti devono aver pensato fosse un peccato rovinarlo con il porta assicurazione. Ma questa non è l'unica vettura dei vigili col parabrezza spoglio in giro per la città. Davanti alla Prefettura ci sono tre auto e un furgoncino della polizia municipale, ma del contrassegno dell'assicurazione non c'è nessuna traccia. Perfino fuori dal comando della polizia municipale, al quartiere Japigia, seduto nella sua auto senza contrassegno, se ne sta un agente incurante di violare lo stesso codice della strada che è tenuto a far rispettare ai cittadini. Se un comune mortale dimenticasse di esporre il contrassegno dell'assicurazione, infatti, si beccherebbe una multa che, secondo l'articolo 181 del Codice della strada, oscilla tra i 24 e i 94 euro. E poiché la legge è uguale per tutti, almeno sulla carta, come mai la polizia municipale di Bari non usa esporre l'assicurazione? "E' stata una nostra mancanza", spiega il comandante dei vigili urbani, Stefano Donati che assicura: "Dopo la vostra segnalazione, stiamo provvedendo a far esporre i contrassegni in tutti i mezzi": un parco auto di un centinaio di autovetture. Le nostre, aggiunge, "sono auto come tutte le altre e quindi anche noi abbiamo l'obbligo di esporre l'assicurazione". Fino a ieri, però, "la prassi era un'altra e il contrassegno lo tenevamo nel libretto e, all'occorrenza, lo tiravamo fuori". Un'usanza di cui sono convinti anche gli agenti in servizio ai quali chiediamo spiegazioni sul contrassegno fantasma: "Non siamo obbligati a esporlo", dicono contraddicendo il loro stesso comandante: "Tanto si sa che le auto pubbliche sono assicurate". Eppure Donati tiene a precisare che "non siamo mica a Napoli, dove non c'erano i soldi per assicurare le auto: la nostra è stata una dimenticanza ma ora è tutto a posto". Non proprio tutto, però, dal momento che mentre parliamo con lui ci sfreccia davanti un'altra auto senza tagliandino. "Non è possibile", tuona il co-mandante che ci invita "a controllare anche le auto delle altre forze dell'ordine, della Prefettura e del Comune di Bari", per verificare che la "prassi di non esporre il contrassegno" è diffusa "tra le auto pubbliche". Seguiamo il consiglio e troviamo subito un'auto della polizia di Stato, in via Piccinni, in effetti senza il tagliando sul parabrezza. Mentre altre tre vetture, due del Comune e una della Prefettura, in piazza Libertà, espongono il contrassegno in bella vista. Proseguendo la passeggiata a caccia di tagliandi, incrociamo anche il sindaco di Bari, Michele Emiliano, al quale chiediamo spiegazioni: "Probabilmente -  dice  -  la polizia municipale non ha l'obbligo di esporre il contrassegno ma garantisco che le auto sono assicurate, altrimenti la responsabilità ricadrebbe sui dirigenti del Comune, i quali, stia sicuro, preferirebbero non far uscire le auto piuttosto che mandarle in giro senza assicurazione". Non "avevo idea di questo problema fino a oggi, ma credo si tratti di una mancanza grave della polizia municipale", rileva il direttore generale del Comune, Vito Leccese, promettendo che "darà disposizioni affinché siano immediatamente esposti i contrassegni dell'assicurazione in tutte le vetture dei vigili urbani".

Quei burocrati che salvano se stessi, scrive Sergio Rizzo il 28 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera". In nessun Paese al mondo le burocrazie si suicidano. Fra tutte le leggi fondamentali che regolano l’esistenza della pubblica amministrazione, ecco la più importante. Dunque per impedire che una riforma abbia successo c’è un metodo infallibile: affidarne l’applicazione agli stessi burocrati. Viene deciso che la pubblica amministrazione si deve avvalere per i rapporti con i cittadini della posta elettronica certificata? Ecco che salta fuori qualche misteriosa disposizione interna per cui la richiesta agli uffici si può certamente fare per mail, ma la domanda è ritenuta valida solo se presentata di persona o tramite raccomandata con ricevuta di ritorno. Si introduce lo sportello unico per le imprese, che dovrebbero poter svolgere tutte le pratiche per via telematica con un risparmio enorme di tempo e denaro? Ecco allora che qualche Regione alza un muro a difesa della propria piattaforma informatica, ovviamente diversa da quella della Regione accanto: con il risultato di complicare ancora di più le cose. Vale per le burocrazie locali, come per le amministrazioni centrali. Vale per aprire un’attività, dismettere un’utenza, ottenere una cartella clinica, chiedere un permesso di costruzione, regolare i conti con il fisco... E la politica, qui, ha enormi responsabilità. Non perché siano i politici a scrivere regolamenti e circolari che stabiliscono come si devono compilare i moduli o le procedure per smaltire una tettoia di eternit. Ma perché la politica delega decisioni frutto della volontà popolare, come le leggi approvate dal Parlamento, agli stessi che dovrebbero subirle. Il caso del regolamento edilizio unico per tutti i Comuni italiani è una micidiale cartina tornasole. Finalmente il governo prende atto che è impossibile far funzionare come in tutti i Paesi civili un sistema per cui ognuno degli 8.003 municipi italiani amministra questa materia con norme differenti l’uno dall’altro, sovente contraddittorie. Si arriva all’assurdo che neppure le circoscrizioni di uno stesso Comune capoluogo applicano le stesse regole. Non sono diverse soltanto le altezze dei parapetti o le cubature minime delle stanze, ma le definizioni stesse: in un Comune con «superficie utile» si indica una determinata cosa, mentre nel Comune confinante lo stesso termine indica una cosa diversa. Per non parlare di certe follie di cui è disseminato lo sterminato panorama di articoli, commi e lettere, conseguenza quasi sempre di qualche solerzia amministrativa la cui logica è però raramente ritracciabile nelle pieghe del buon senso. Un caso? L’articolo 31 del regolamento edilizio del Comune di Fiumicino afferma che «è permessa la costruzione di cortili secondari o mezzi cortili allo scopo di dare luce e aria a scale, latrine, stanze da bagno, corridoi e a una sola stanza abitabile per ogni appartamento, nel limite massimo di quattro stanze, per ciascun piano, sempreché l’alloggio, di cui fanno parte, consti di non meno di tre stanze oltre l’ingresso e gli accessori». Tutto questo, però, «fatta eccezione per le case di tipo popolare». Il che starebbe a significare che il cortile, a parte la maniacale descrizione dei limiti (perché al massimo quattro stanze per piano, e perché l’alloggio deve averne almeno tre?) è una cosa da ricchi. Insomma un guazzabuglio infernale, al quale si ritiene di mettere conclusione imponendo, come in Germania, regole uniche valide su tutto il territorio nazionale. Regole semplici e facilmente attuabili. L’intenzione è lodevole. Si commette però il solito errore: siccome la questione è molto complicata e oltre alle leggi nazionali ci sono di mezzo centinaia di norme locali per decine di migliaia di disposizioni, il compito di mettere a punto il testo viene assegnato a un pool di funzionari competenti. Ma sono gli stessi che hanno le chiavi del labirinto, i custodi dei segreti delle burocrazie regionali e comunali, il cui potere e la cui funzione verrebbero meno se il regolamento unico vedesse effettivamente la luce, fosse semplice e facilmente applicabile in tutti i Comuni italiani. Cominciano allora le eccezioni, i distinguo, i cavilli. Ognuno butta in faccia all’altro un dpr, una legge regionale, un ingorgo urbanistico, una specifica costruttiva, un divieto lessicale, un ostacolo strutturale, un compendio normativo, una deroga altimetrica... E dopo un anno tutto è ancora fermo. La burocrazia ha raggiunto il suo obiettivo. Il resto degli italiani, che però sono la stragrande maggioranza, purtroppo no. Che serva di lezione, ma sia l’ultima. Lo diciamo ai politici: le riforme non possono esaurirsi, come quasi sempre accade, in un annuncio roboante che all’atto pratico si sgonfia miseramente. Se vogliono davvero cambiare le cose, si rimbocchino le maniche assumendosi l’onere di compiere le scelte. Perché di scelte politiche si tratta. Se poi la materia, come in questo caso, appare troppo complicata, si facciano pure aiutare dagli esperti, ma indipendenti: ce ne sono dappertutto, bravissimi e con le idee chiare. Basta guardarsi intorno, le nostre università abbondano di intelligenze pronte all’uso. Di sicuro non si può pretendere che a semplificare sia chi è pagato per complicare, e complicando assicura la sopravvivenza al proprio ruolo. Perché allora è assicurato anche il fallimento. 

Il licenziamento del professore perché fece pipì in un cespuglio. Padre di tre figli, insegnava filosofia a Bergamo. L’episodio risale a 11 anni fa, scrive Gian Antonio Stella il 3 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. La scure della giustizia, che troppe volte aveva graziato bancarottieri, ladri, trafficanti di droga e truffatori, s’è finalmente abbattuta. Implacabile. E ha mozzato la testa a un professore padre di tre figli che undici anni fa, alle due di notte, in un borgo di poche anime, aveva fatto pipì in un cespuglio. Licenziato in tronco. Vi chiederete: è uno scherzo? Magari! Il protagonista di questa storia (meglio: la vittima di questa giustizia ottusamente ingiusta) si chiama Stefano Rho ed è nato 43 anni fa a Lacor, in Uganda, dove il padre e la madre facevano i medici volontari per quella straordinaria organizzazione che è il Cuamm-Medici con l’Africa. Anzi, loro stessi avevano messo su un piccolo ospedale dopo essersi sposati e aver chiesto agli amici, nella «lista nozze», il dono di «22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio...». Rientrato con i genitori in Italia, a Bergamo, Stefano si è laureato in Filosofia alla Cattolica e si è messo in coda, di concorso in concorso, di supplenza in supplenza, per avere un posto da insegnante. Problemi? Zero. Lo dichiara lo stesso «Certificato penale del Casellario giudiziale» dove è scritto chiaramente: «Si attesta che nella Banca dati del Casellario giudiziale risulta nulla». Torniamo a scriverlo: «nulla». Undici anni fa però, qualcosa successe. Un episodio così marginale, in realtà, che quasi tutti ce lo saremmo dimenticati. O ne avremmo riso con gli amici: «Pensate che una notte...». È la sera di Ferragosto 2005. Il paesello di Averara, un pugno di case con 182 abitanti in una valle laterale della Val Brembana, ha organizzato per i concittadini e la gente dei dintorni una sagra paesana con un ospite d’onore, un cabarettista di Zelig. Pienone. Al punto che molti giovani, tra cui Stefano e il suo amico Daniele, non riescono a entrare. Gironzolano nei dintorni, e finalmente, sul tardi, un attimo prima che lo stand chiuda, riescono a bere una birra. Poi, come tutti i ragazzi del pianeta, si fermano un po’ a chiacchierare e tirano tardi. Alle due di notte, mentre gli ultimissimi nottambuli risalgono sulle loro auto per andarsene, «gli scappa». Si guardano intorno. La festa ha chiuso. Il paese, salvo un lampione qua e là, è immerso nel buio. Non c’è un bar aperto a pagarlo oro. Men che meno dove stanno, al limite della contrada. Che fare? Stefano e Daniele fanno pipì su un cespuglio. In quell’istante passa una pattuglia di carabinieri. «Ci hanno visto, chiesto i documenti, fatto una ramanzina bonaria rimproverandoci perché secondo loro c’era un lampione che un po’ di luce la faceva e ciao». Un anno dopo i due si ritrovano imputati, davanti al giudice di pace di Zogno, «perché in un piazzale illuminato adiacente alla pubblica via compivano atti contrari alla pubblica decenza orinando nei pressi di un cespuglio». Duecento euro di multa: «Non abbiamo neanche fatto ricorso e neppure preso un avvocato di fiducia. Ci sembrava una cosa morta lì». Il 2 settembre 2013 il professor Rho, da quattordici anni precario come insegnante di filosofia in varie scuole superiori della bergamasca, firma per il Ministero un’autodichiarazione dove spunta la voce in cui dice «di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi scritti del Casellario giudiziario ai sensi della vigente normativa». Tra mesi dopo, il dirigente scolastico gli comunica che da un controllo è risultato che lui, il professor Rho, risulta «destinatario di un decreto penale passato in giudicato». E lo invita a presentarsi a fine gennaio del 2014 per spiegarsi. Avute le spiegazioni, il dirigente riconosce che «appaiono plausibili le motivazioni addotte a propria discolpa» e che «se anche il prof. Rho avesse correttamente dichiarato le condanne avute le stesse non avrebbero inciso sui requisiti di accesso al pubblico impiego». Per capirci: a dichiarare il falso, perfino se fosse stato in malafede, non ci avrebbe guadagnato nulla. Anzi. Quindi, «tenuto conto del principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni in rapporto alla gravità delle mancanze», decide di dare al malcapitato il minimo del minimo: la censura. Buon senso. Ma la legge italiana, che riesce a sbattere in galera un trentacinquesimo dei «colletti bianchi» incarcerati in Germania e arriva a scarcerare sicari mafiosi perché ha scordato una scadenza dei termini e non ce la fa quasi mai a processare i bancarottieri prima che cada tutto in prescrizione, decide che no, Stefano Rho non può cavarsela così. E la Corte dei conti, del tutto indifferente al tipo di condanna, che non prevede neppure l’iscrizione nella fedina penale (rimasta infatti candida) né un «motivo ostativo» all’assunzione nei ranghi statali, ricorda alle autorità scolastiche che Rho va licenziato. E così finisce. Il dirigente scolastico di Bergamo, Patrizia Graziani, prende atto della intimazione dei giudici contabili e dichiara la decadenza «senza preavviso» dell’insegnante, la perdita delle anzianità accumulate negli ultimi anni insegnando con continuità negli istituti bergamaschi «Natta» e «Giovanni Falcone», la cancellazione del «reo» da tutte le graduatorie provinciali eccetera eccetera... Il tutto in un Paese dove, per fare un solo esempio fra tanti, i dipendenti pubblici furbetti (agenti di custodia, bidelli, maestri...) che grazie alle clientele politiche riuscirono a farsi piazzare nel Cda dell’area sviluppo industriale di Agrigento (così da avere il trasferimento vicino a casa) sono stati assolti nonostante avessero firmato di loro pugno di avere la laurea (falso) ed «esperienza almeno quinquennale scientifica ovvero di tipo professionale o dirigenziale» o addirittura la «qualifica di magistrato in quiescenza». Assolti! Il che impone una domanda: la legge italiana è davvero uguale per tutti o dipende dal giudice che capita? Non manca, in coda a questo pasticciaccio brutto, il dettaglio paradossale: il professor Rho, che come dicevamo ha una moglie e tre figli da mantenere ed è stato buttato fuori con così feroce solerzia l’11 gennaio da un pezzo dello Stato, era stato definitivamente assunto da un altro pezzo di Stato il 24 novembre. Della serie: coerenze...

Assenteismo alla Asl, in servizio i 36 condannati a Brindisi: un oculista è stato promosso. Non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, scrive il 25 gennaio 2016 "La Repubblica" e "La Gazzetta del Mezzogiorno". Le immagini delle microcamere nascoste furono proiettate nell'aula di giustizia in cui è iniziato due anni fa e si è concluso la scorsa estate il processo di primo grado per assenteismo: si scorgevano le addette alle pulizie che strisciavano i badge altrui nella macchinetta marcatempo, all'ingresso di una delle sedi della Asl di Brindisi. Ma anche medici, infermieri, tecnici, fisioterapisti che dopo aver timbrato il cartellino si recavano a casa, a fare la spesa al discount, ad accompagnare i bambini a scuola. Per quei fatti 36 dipendenti pubblici sono stati condannati in primo grado, nel giugno scorso, a pene comprese tra sei mesi e tre anni: le accuse formulate dal pm Milto Stefano De Nozza sono a vario titolo truffa in danno dello Stato e violazione del decreto Brunetta. Inizialmente erano 48 gli imputati. Sono tutti ancora in servizio presso la stessa azienda sanitaria. Anche coloro i quali sono stati ritenuti assenteisti. Uno di essi, un oculista, ha ottenuto perfino una progressione di carriera. Uno scatto in avanti previsto dal contratto nazionale del lavoro: atto dovuto che non è stato possibile evitare, a quanto si è appreso dalla direzione generale Asl, proprio perché per i lavoratori in questione non c'è stato alcun provvedimento punitivo. I procedimenti disciplinari avviati nel 2010, quando nell'ambito della stessa inchiesta furono eseguite 26 ordinanze di custodia cautelare dai carabinieri dei Nas di Taranto, furono già allora congelati in attesa di un verdetto definitivo che è però ancora lontano dall'essere emesso. Ci sono però le motivazioni della sentenza di primo grado depositate a settembre, in cui il giudice monocratico Giuseppe Biondi ha fatto una disamina puntuale di ogni singola posizione. Le difese hanno già impugnato la decisione del tribunale e attendono che venga fissato l'appello. Viene attribuito dal giudice un rilievo di maggiore gravità ai medici coinvolti, a uno dei quali, un odontoiatra, è toccata la pena massima inflitta: tre anni di reclusione. In quanto dirigenti avrebbero dovuto controllare, a quanto è riportato, il rispetto delle regole da parte dei sottoposti. E avrebbero dovuto dare l'esempio. Tutti, poi, sottraendo ore che avrebbero dovuto essere di esclusiva proprietà del datore di lavoro, avrebbero provocato all'Azienda sanitaria locale, quindi a una pubblica amministrazione, un danno patrimoniale. Oltre che un danno di immagine dovuto - si legge - al fatto che avrebbero agito sempre "alla luce del sole". Per altro il fatto che non fosse emersa durante il dibattimento la prova di conseguenze dirette nella qualità del servizio, non avrebbe avuto alcun valore riguardo le contestazioni per cui si è proceduto: la truffa e le irregolarità nell'utilizzo del cartellino marcatempo. Nel frattempo nulla è cambiato in quel di via Dalmazia e più in generale presso l'Azienda sanitaria di Brindisi. "I procedimenti disciplinari - ha spiegato il direttore generale Giuseppe Pasqualone - sono stati riaperti". Ma non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, che prevede una linea durissima, ancor di più rispetto al passato, per i cosiddetti furbetti del cartellino.

Palermo, inquinamento: tre anni di processo inutile. "Il pm ha sbagliato imputati". Le motivazioni dell'assoluzione per gli ex governatori Cuffaro e Lombardo. Il presidente del tribunale: “Alla sbarra dovevano andare i dirigenti, non i politici”, scrive Alessandra Ziniti il 26 gennaio 2016 “La Repubblica”. Per anni in tutto il territorio siciliano c’è stato un superamento sistematico dei limiti di inquinamento ambientale e per anni c’è stata "una evidente e macroscopica negligenza dell’apparato regionale e dell’Arpa, dando prova di palese negligenza a danno di tutti i cittadini siciliani". Ma il processo che vedeva alla sbarra gli ex governatori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo e gli ex assessori al Territorio e Ambiente Cascio, Interlandi, Sorbello e Di Mauro è finito in un nulla di fatto perché la procura ha sbagliato imputati e imputazioni. Sono durissime le motivazioni della sentenza con le quali il presidente della quarta sezione del tribunale Vittorio Alcamo ha motivato l’assoluzione di tutti gli imputati. "Tenuto conto della delicatezza della materia e della serietà delle possibili conseguenze a carico della salute collettiva, avrebbero meritato un ben più centrato procedimento a carico dei soggetti realmente responsabili", scrive Alcamo. Rifiuto di atti d’ufficio era il reato che la procura aveva contestato ai politici per "essersi indebitamente rifiutati di predisporre e far approvare" i piani per combattere l’inquinamento ambientale. I pm avevano invece chiesto l’archiviazione per i dirigenti e i funzionari amministrativi. Ma — sottolineano i giudici — erano proprio loro i soggetti competenti ad istruire e predisporre i piani mentre ai presidenti della Regione e agli assessori la legge assegna il compito di "esercitare le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e definire gli obiettivi ed i programmi da attuare". Nel corso del processo, i giudici si sono ben presto resi conto di ritrovarsi davanti come testimoni quelli che avrebbero dovuto essere gli imputati (cioè i dirigenti e i tecnici) e come imputati i politici che avrebbero dovuto essere testimoni. O ai quali, in alternativa, avrebbe dovuto essere contestata un’altra condotta: "L’unico potere-dovere previsto in capo agli assessori ed al Presidente della Regione — scrivono i giudici — è quello, residuale ed eccezionale, di fissazione di un termine perentorio nell’eventualità

di gravi inerzie da parte dei dirigenti ed, in caso di ulteriori inerzie, di nomina di un commissario ad acta". Contestazione che la procura ha provato a rivolgere loro ormai in prossimità della sentenza, quando — contestualmente — il gip ha rigettato la richiesta di archiviazione nei confronti dei dirigenti sollecitata dalla procura. Ora il reinvio degli atti ai pm è sostanzialmente vano perché i fatti contestati sono già andati in prescrizione.

Il record dei voltagabbana ai tempi di Renzi. Dall'inizio della legislatura 234 parlamentari hanno cambiato casacca: l'inchiesta di copertina di Panorama in edicola dal 18 febbraio, scrive il 17 febbraio 2016 "Panorama". Dal 2013 ben 234 parlamentari hanno cambiato casacca e tradito il mandato dei cittadini, lasciando il gruppo parlamentare di appartenenza. E non solo una volta: alcuni di questi senatori e deputati si sono infatti riposizionati più volte con il risultato che i cambi di casacca totali risultano essere 329. Un record mondiale. È questo il risultato di un’indagine condotta da Panorama e pubblicata sul numero in edicola da giovedì 18 febbraio. Il caso è particolarmente accentuato a Palazzo Madama, dove il 30 per cento dei senatori ha cambiato casacca, alcuni anche cinque o sei volte. Il 43,6 per cento dei transfughi ha scelto di allearsi con il Partito democratico e i loro voti sono spesso fondamentali per il governo Renzi. Sono nati anche nuovi gruppi parlamentari. Sempre a Palazzo Madama, su 10 gruppi, soltanto 4 hanno partecipato alle elezioni con proprie liste. Il recordman di questa legislatura è il senatore Luigi Compagna con sei passaggi da una sigla all’altra.

Il M5S e Grillo: uno, nessuno, centomila. Da Rodotà a Farage. Dal Mein Kampf fino all'ultima capriola sulle unioni civili. La schizofrenia a 5 stelle riflette la personalità del suo leader, scrive il 17 febbraio 2016, Paolo Papi su "Panorama". Grillo, quale? Quello che candidò, non appena i suoi misero piede in parlamento, l'esimio e laicissimo professore Rodotà al Colle? O quello che, dopo aver assicurato che i suoi senatori avrebbero votato la legge sulle unioni civili purché non venisse stralciata dalla stepchild adoption, ha compiuto una stupefacente piroetta sul blog, garantendo assoluta libertà di voto ai suoi parlamentari? Grillo, chi? Quello che tuonava contro lo scandalo dell'esenzione dell'Ici per le proprietà immobiliari della Chiesa e giunse persino a proporre nel 2012 una radicale revisione dei Patti lateranensi? Oppure il Grillo trasformista che giunse nel 2009, ben prima che si insinuasse l'idea di fondare un movimento nazionale, acandidare Tarcisio Bertone al soglio di Pietro? Grillo, quale? Quello che nel 2005, ai tempi del governo Berlusconi, difendeva con le unghie l'articolo 67 sull'assenza del vincolo di mandato in Costituzione o quello che, nel 2015, sostiene che solo il vincolo di mandato può salvare la democrazia italiana? Dicono che i movimenti carismatici riflettano vizi e virtù della personalità dei loro leader-fondatori. Nel caso del M5S, un partito che fino a qualche giorno fa aveva fatto di una laicità con venature anticlericali una delle sue tante bandiere politiche, questa apparente schizofrenia - giustificabile a teatro per un'artista, ma assai meno in Parlamento - trova la sua plastica rappresentazione in una serie di vignette che stanno facendo il giro dei social network. Come questa. Il M5s, quale? Quello che, per bocca di uno dei suoi volti più noti, Alessandro Di Battista, giunse a sostenere, all'indomani dell'esecuzione del reporter James Foley, che la "violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dal giornalista Usa è figlia della violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dai detenuti nel carcere di Abu Ghraib"? È lo stesso Di Battista che sulla crisi dei profughi, anziché sostenere per coerenza logica che le grandi ondate migratorie dai Paesi mediorientali sono figlie (anche) delle scelte occidentali, è giunto a sostenere sempre su Facebook, come avrebbe detto il Gianfranco Fini ai tempi del Msi, che "i fratelli africani devono stare a casa loro, e per farli stare a casa loro devono avere risorse e sviluppo a casa loro"?  E ancora, Grillo, quale? Quello stesso Grillo che dieci anni orsono scriveva un post con un'intera citazione del Mein Kampf di Adolf Hitler, definendolo una "voce del passato per capire il nostro presente"? Quello che si è alleato in Europa con gli ultranazionalisti xenofobi di Nick Farage, dopo aver candidato Rodotà al Colle? È lo stesso leader del MoVimento che ha fatto arrampicare i suoi sul tetto di Montecitorio in nome del rispetto della Costituzione repubblicana e antifascista? Qualcosa forse non torna. Non solo nel M5S, ma in tutta la politica italiana. Ma le capriole grilline fanno pensare a Pirandello: uno, nessuno, centomila. Un partito dalle mille identità, riflesso della personalità bifronte del suo leader, straordinario Zelig, ma solo sul palcoscenico.

SCANDALO ENI TOTAL. La Procura di Potenza indaga per disastro ambientale. Il riferimento è al «risparmio dei costi - scrive il gip nell’ordinanza - del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli» con «rifiuti speciali pericolosi» che venivano «dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 3 aprile 2016. Interrogatori, agenda da riempire e un ricorso da depositare: la settimana che comincia domani sarà per i pm di Potenza impegnati nell’indagine sul petrolio - che ha risvolti politici non meno delicati di quelli giudiziari - molto importante proprio per il futuro dell’inchiesta stessa, che ha portato giovedì scorso sei persone agli arresti domiciliari con due ordinanze del gip e all’iscrizione di 60 persone nel registro degli indagati. Gli interrogatori di garanzia e l’agenda dei pubblici ministeri sono collegati: prima cominceranno quelli degli arrestati, ma l’attenzione generale è già concentrata sull'interrogatorio dell’ex ministra Federica Guidi - che si è dimessa il giorno stesso degli arresti - e della ministra Maria Elena Boschi, citata dalla sua collega quando era prossimo l'inserimento nella legge di stabilità di un emendamento necessario a far procedere i lavori a Corleto Perticara (Potenza), dove la Total sta costruendo il secondo centro oli lucano per sfruttare 50 mila barili di petrolio all’anno dal 2017. All’emendamento era molto interessato l’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli, compagno della Guidi, che, infatti, appena la compagna gli confermò che sarebbe stato inserito, telefonò al dirigente di una società petrolifera. Guidi e Boschi saranno sentite a Roma: nei prossimi giorni sarà fissata la data, mentre riguardo al premier Renzi, che in tv ha dichiarato «l'emendamento è mio, se vogliono i pm mi ascoltino», in ambienti vicini alla procura si apprende che i pubblici ministeri di Potenza «non pensavano» di sentirlo. Attesa, da domani, anche per il ricorso dei pm contro la decisione del gip, Michela Tiziana Petrocelli, che ha rigettato la richiesta di arresto per Gemelli. Dalle parole dei sei arrestati - l’ex sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino (Pd), e cinque dipendenti dell’Eni (sospesi dalla compagnia) - i pm si aspettano elementi utili per portare avanti altri accertamenti e approfondimenti. Vicino è finita ai domiciliari nell’ambito del filone di inchiesta che riguarda la costruzione del centro oli di Corleto; gli altri cinque in relazione all’accusa di traffico illecito dei rifiuti prodotti nel centro oli dell’Eni di Viggiano (Potenza), dove da giovedì è sospesa la produzione di 75 mila barili al giorno di petrolio (con centinaia di operai e tecnici in ansia per il lavoro e migliaia di abitanti della zona e ambientalisti soddisfatti). La compagnia ha preso una posizione netta: gli accertamenti che ha fatto condurre da esperti nazionali e internazionali parlano di «qualità dell’ambiente ottima» e di operazioni di smaltimento rispettose delle leggi. I pm aspettano altre analisi dei Carabinieri del Nucleo operativo ecologico: diranno loro se l’ombra dell’accusa di disastro ambientale potrà concretizzarsi. Infine, il filone per il momento meno chiaro dal punto di vista delle notizie trapelate e su cui il riserbo degli investigatori è più stretto: lo scenario è il porto di Augusta, punto di riferimento di diverse compagnie petrolifere. Fra gli indagati vi sono Gemelli e il capo di stato di maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi: da mesi i pm di Potenza, Laura Triassi e Francesco Basentini, indagano per associazione per delinquere e traffico di influenze sullo stesso Gemelli, su De Giorgi, su Nicola Colicchi, considerato un "lobbista», e su un consulente del Ministero dello Sviluppo economico, Valter Pastena. E’ la parte dell’inchiesta che potrebbe riservare rilevanti sorprese.

Il «comitato d’affari» e i politici: così venivano favorite le aziende. Le conversazioni tra Colicchi e Gemelli. E il ministro si preoccupa per due assunzioni. Il compagno della Guidi «si mostra attento agli emendamenti del settore energetico», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Un vero e proprio comitato d’affari che si muoveva dietro le quinte di governo e Parlamento per garantire gli interessi delle aziende petrolifere, prima fra tutte la Total. Su questo si concentrano le indagini della magistratura di Potenza, come viene ben ricostruito nelle carte processuali su quanto accaduto per il progetto «Tempa Rossa». Rivelando come l’emendamento che ha costretto il ministro Federica Guidi alle dimissioni — visto che ne parlava come un «favore» fatto al compagno Gianluca Gemelli — non fosse l’unico che gli imprenditori volevano far approvare. I giorni chiave per gli affari messi in piedi dallo stesso Gemelli sono quelli di metà dicembre 2014, quando il provvedimento viene inserito nella legge di Stabilità. Il 12 parla con Nicola Colicchi, consulente della Camera di Commercio di Roma, indagato in uno dei filoni dell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata al traffico d’influenza e all’abuso d’ufficio. Gli chiede delucidazioni su un emendamento presentato dal parlamentare di Ala, il braccio destro di Denis Verdini Ignazio Abrignani. Si preoccupa che possa danneggiare i suoi «soci». Colicchi lo rassicura. Annotano gli investigatori della squadra mobile che trascrivono le intercettazioni: «Non è una cosa di sistema... capito? Cioè, cioè alle imprese, allora per capirci, alle imprese serie quelle grosse, di avere il finanziamento con la garanzia non gliene frega niente, perché quelli... chi fa, chi fa sto lavoro qua, i soldi non può non averli, capito?». Sottolinea il giudice: «La conversazione rileva più che altro per il semplice fatto che Gemelli si mostra particolarmente attento a degli emendamenti che interessano comunque il settore energetico. E la circostanza che il Colicchi abbia rassicurato Gemelli che l’emendamento in questione (presentato da Abrignani) non interessasse i “grossi”, lascia presumere che l’intento di quest’ultimo fosse proprio quello di sincerarsi che non si trattasse dello stesso emendamento di cui aveva pur avuto modo di discutere con Cobianchi Giuseppe della Total, lo stesso emendamento che sarebbe dovuto essere ripresentato al Senato in sede di approvazione della legge di stabilità, o in ogni caso di qualsiasi altro e ulteriore emendamento che sarebbe tornato utile ai “grossi”, vale a dire alle grosse realtà imprenditoriali». Per questo, dopo aver interrogato gli arrestati, gli inquirenti convocheranno anche i componenti della «rete» che si muoveva per indirizzare i provvedimenti. Dovranno chiarire la propria posizione, alcuni come Walter Pastena, dirigente della Ragioneria di Stato, dovranno difendersi dall’accusa di associazione per delinquere. Tra le «contropartite» pretese da alcuni amministratori locali — prima fra tutte Rosaria Vicino, il sindaco di Corleto Perticara finita agli arresti proprio per aver pilotato le autorizzazioni sul progetto — ci sono le assunzioni di parenti e amici. Lo stesso Gemelli cede alla richiesta del primo cittadino. Lo rivela lui stesso in una conversazione con la compagna, l’allora ministro Guidi, quando si preoccupano per aver saputo che è stata aperta un’inchiesta. È il 23 gennaio 2015. Annotano gli investigatori: «Guidi chiedeva se lui avesse già preso della gente locale (anche in questo caso si ritiene che il riferimento fosse fatto alle assunzioni di personale da parte della società ITS da inviare nei cantieri della Total a Corleto Perticara). Gemelli rispondeva di sì, di aver preso due persone, che non erano neanche del posto, ma di Comuni limitrofi e precisava che si era trattato peraltro di curricula da lui inviati e poi scelti dal cliente (Tecnimont). La Guidi gli chiedeva se fossero dei contratti personali. Gemelli rispondeva di sì, che si trattava di persone assunte da lui direttamente, che il rapporto era tenuto con il singolo professionista segnalato dal cliente».

Il fastidio di Renzi con i pm per la convocazione di Boschi. Lo sfogo con i collaboratori: Abbiano il coraggio di chiamarmi, così ci divertiamo un po’, scrive Maria Teresa Meli su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Davanti alle telecamere, con Lucia Annunziata che lo incalza con abilità e tenacia, Matteo Renzi non si lascia sfuggire i suoi più reconditi pensieri sulla vicenda giudiziaria che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi. Dice di non credere ai complotti e alla giustizia a orologeria. Ma ha un’aria di sfida che non passa inosservata quando invita i giudici a chiedergli di ascoltarlo. Non solo su quella storia, ma anche su «tutto il resto: la Salerno-Reggio Calabria, la Napoli-Bari, la Variante di Valico». Ed è proprio da quel «tutto il resto» che traspare il tono della sfida nei confronti dei pm della Procura di Potenza. I quali, non a caso, più tardi fanno filtrare che non è nelle loro intenzioni ascoltare il premier. Renzi è con i collaboratori quando arriva quella replica e sorride: «Perché non vogliono interrogarmi? Ho detto che quell’emendamento era mio, abbiano il coraggio di chiamarmi, dopo quello che ho detto, così ci divertiamo un po’. Visto che vogliono sentire la Boschi proprio per quell’emendamento, perché non me? Forse avrebbero bisogno di una lezione su come funziona il Parlamento... È allucinante voler ascoltare Maria Elena...». I collaboratori che gli stanno di fronte annuiscono. Non capiscono il motivo per cui i pm della Procura di Potenza abbiano deciso di tirare in ballo la Boschi. Ma il premier ha un’idea del perché. E la illustra ai fedelissimi. È un convincimento andato maturando dopo che è scoppiato il «caso Guidi» e che non formulerebbe mai ad alta voce di fronte ai giornalisti. È l’unica spiegazione che è riuscito a darsi: «La verità è che c’è un disegno organico dietro tutto ciò. L’obiettivo è quello di far raggiungere il quorum al referendum sulle trivelle nella speranza di darmi un colpo». Il presidente del Consiglio non contesta l’inchiesta: «Non spetta a me mettere bocca su un’indagine». Ma è la decisione dei magistrati di coinvolgere la ministra che rappresenta in modo più significativo la novità dell’esecutivo Renzi che lo ha lasciato perplesso. Come lo ha sconcertato anche il fatto che dopo aver pubblicamente detto che l’emendamento era opera sua, ora i pm non chiedano di ascoltare pure lui. Della sua «performance» in tv è contento: «Pensavano che mi presentassi tutto intimorito e piagnucolante e invece no. Ho voluto dare un messaggio molto duro». Questa volta il presidente del Consiglio si riferisce ai grillini, ai leghisti e a tutti quelli che hanno «utilizzato questa vicenda per fare un polverone pazzesco». Renzi ce l’ha in particolar modo con i Cinque Stelle. Ma per loro ha già pronta la controffensiva: «Domani (oggi per chi legge, ndr) Bonifazi sarà a Milano per chiedere il risarcimento danni a Grillo e David Ermini sarà a Massa Carrara per querelare Di Maio, che ha avuto la faccia tosta di dire che prendiamo i soldi dai petrolieri. A lui il Pd chiederà di rinunciare all’immunità. Del resto, loro sono sempre pronti a dire che bisogna rinunciarci...». Non una delle parole che vengono pronunciate al chiuso di una stanza, davanti a persone di assoluta fiducia del premier, è stata proferita in televisione. Ma dall’Annunziata Renzi si è lasciato sfuggire qualche indizio sul suo stato d’animo. Quando ha detto di sperare che l’indagine sia «una cosa seria». E ha fatto l’esempio del senatore Salvatore Margiotta, accusato e condannato, sempre a Potenza, per la costruzione del Centro Oil della Total e poi assolto dalla Cassazione. Non è escluso che oggi, in direzione, citi di nuovo questo esempio. Senza fare nessun attacco ai magistrati, però.

L’ammiraglio De Giorgi indagato per una fornitura. La sindaca: ho solo aiutato. Parte il ricorso per l’arresto di Gemelli. Trucchi per celare i veleni, scrive Virginia Piccolillo su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. «Ma quando vengono i magistrati a sentire Rosaria Vicino?». A Corleto Perticara, da una settimana passata dalla tranquillità di paesino da 2.500 anime a centro delle cronache giudiziarie, si accomuna la ex sindaco ai domiciliari che deve subire l’interrogatorio di garanzia al ministro delle Riforme che, per cortesia istituzionale, riceverà la visita dei magistrati a Roma. Lei no. Dovrà uscire dalla villa videosorvegliata e fare i 60 chilometri di tornanti che portano a Potenza. La sua difesa la ripetono in molti: «Ha solo aiutato i ragazzi a trovare un posto di lavoro». Altrettanti però replicano: «Solo quelli che voleva lei. Ad altri, magari più preparati, ha impedito che gli venisse dato». E ripetono quella intercettazione in cui Rosaria Vicino, all’offerta di un posto per un geologo, rilancia con un suo protetto: «È geometra. Ma è sveglio». Oggi a Corleto ci sarà anche una manifestazione dei Cinquestelle ed è atteso Di Maio. Ma i riflettori sono tutti puntati sulla Procura di Potenza. Sarà una settimana di interrogatori per l’indagine sul petrolio lucano, ma non ci sarà quello del premier Matteo Renzi. Che i magistrati «non pensavano» proprio di ascoltare. Da ambienti investigativi filtra che questo non è un «processo all’emendamento allo sblocca Italia», all’origine dei guai dell’ex ministra Guidi. Lei lo aveva annunciato in anteprima al suo compagno Gianluca Gemelli, in un’intercettazione nella quale diceva di averne parlato anche con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Informazione poi spesa da Gemelli per ottenere, secondo la Procura, utilità. Su quella frase verrà ascoltata, come atto dovuto, la Boschi, già nei prossimi giorni assieme alla Guidi. E, a microfoni spenti, si raccomanda di non confondere le ricostruzioni giornalistiche con le carte dell’inchiesta. Né sul filone politico, né su quello della «lobby» che agiva in vista del business del «dopo emendamento». In questo ambito è stato indagato per abuso d’ufficio il capo di Stato maggiore della difesa, Giuseppe De Giorgi per una vicenda legata a forniture. Per Gemelli, molto attivo a facilitare affari, oggi stesso potrebbe essere presentata la richiesta di appello conto la mancata autorizzazione all’arresto. Intanto c’è da ascoltare anche i cinque arrestati dell’indagine sui veleni spacciati per acqua sporca, nel centro Oli di Viggiano. È una tranche delicatissima che, dopo i risultati dell’indagine epidemiologica, potrebbe portare all’incriminazione per disastro ambientale. Per ora a testimoniare i trucchi compiuti per trasformare i codici dei rifiuti tossici e reiniettarli così nel pozzo di smaltimento delle acque reflue oppure degli «incidenti» ripetuti per il malfunzionamento dell’impianto con lavoratori finiti intossicati al pronto soccorso ci sono le parole degli stessi funzionari Eni intercettati. Anche se la compagnia parla di «qualità dell’aria ottima» e certificata.

Guidi, due incontri con i petrolieri. Poi i "favori" a Gemelli. I verbali. Il compagno della ministra avrebbe ottenuto commesse pure a Augusta. E in cambio l'ammiraglio De Giorgi puntava allo sblocco dei fondi per le nuove navi militari, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati il 04 aprile 2016 su " La Repubblica". Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi. Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell'ex ministro che va ben oltre l'ingenuità di una chiamata di troppo. In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della "lobby petrolifera", promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio "cortesie" destinate a favorire gli affari del compagno. Il mafioso. Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare "fornitore di servizi ingegneristici" per la compagnia del petrolio, per il futuro. Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell'23 ottobre 2014. Al telefono ci sono Franco Broggi - capo ufficio appalti della Tecnimont l'azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata - e Gemelli. Quest'ultimo ha appena chiesto di poter "fare tutto ciò che riguarda l'ingegneria per eventuali lavori successivi". Broggi risponde in maniera netta: "Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c'è quell'incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu... Tutto si fa nella vita". Gemelli ringrazia: "Tu sei un mafioso siciliano!". "Da una telefonata successiva - scrive il gip - si capisce come l'incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont". Insomma, l'accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro. La coppia Gemelli-Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l'emendamento) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore "spingendo" le ditte di Gemelli. Mimì e Cocò. Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. "Senti - chiede Broggi - sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?". "No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante", risponde Gemelli svelando che "questo tizio", l'uomo di Tecnimont, aveva rinviato l'appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo. "I due dell'Ave Maria si sono visti", esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po' infastidito perché la cosa è "adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l'istituzione che dice 'prendi una società italiana'; però c'è modo e modo". "La Guidi li stanerà". L'altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest'ultimo è l'interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l'inserimento dell'emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stabilità. L'incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: "Nathalie le ha rappresentato le difficoltà con le Regioni Basilicata e Puglia". "E il ministro - scrive il gip - ha detto che avrebbe convocato le Regioni (...) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati". In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta "assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto"". "L'incontro è andato bene", riferirà in un'altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica "a me ha detto che è andato tutto bene", la risposta. Lo sblocco dei fondi navali. Sull'asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal "programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa". Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi. L'ipotesi dell'accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi - presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis - fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa. "Venne da me Colicchi - racconta Pastena - e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi". Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi - che transitavano presso il Mise della Guidi - per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena. Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell'intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno "Schema di decreto ministeriale concernente le modalità di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale" (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il "parere preliminare delle Commissioni". Parere che la Guidi definisce "urgente", auspicando che l'iter si concluda "al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa". Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà fatto un contratto come consulente del Mise.

Estrazioni del petrolio, la ministra Guidi pilotava il governo per aiutare il fidanzato. La responsabile dello Sviluppo economico e l'imprenditore Gemelli parlano anche di accordo con la ministra Boschi Ecco le intercettazioni agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". «E poi dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, se è d'accordo anche “Mariaelena” (il ministro Boschi ndr), quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte...! Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempra Rossa, dall'altra parte si muove tutto»: così parlava la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidial telefono con il suo compagno, Gianluca Gemelli, a proposito dell'emendamento che il governo stava per inserire nella Legge di Stabilità relativo ai lavori per il centro oli della Total in contrada “Tempa rossa”, a Corleto Perticara (Potenza), nei quali Gemelli stesso aveva interesse essendo alla guida di due società del settore petrolifero. L'imprenditore chiedeva alla sua compagna-ministro se la cosa riguardasse pure «i propri amici della Total, clienti di Tecnimont» e la Guidi rispondeva: «Eh certo, capito? Certo, te l'ho detto per quello!». Gemelli a questo punto, dopo aver parlato con la ministra Guidi chiama al telefono Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total e gli svela la notizia della volontà del governo di inserire nella legge di Stabilità, in discussione all'epoca in Senato, l'emendamento che avrebbe sbloccato “tempra rossa”, tirando in ballo anche la ministra Boschi: «La chiamo per darle una buona notizia, si ricorda che tempo fa c'è stato casino, che avevano ritirato un emendamento, per cui c'erano problemi su Tempra rossa, pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato, ragion per cui, se passa... e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni... è tutto sbloccato». Le intercettazioni sono agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere. Guidi, che non è indagata nell'inchiesta, informa spesso il compagno, per il quale il gip di Potenza ha rigettato la richiesta di arresto, sui provvedimenti del governo per quanto riguarda le estrazioni petrolifere. Per questi affari Gemelli è indagato per aver sfruttato l'interesse della sua compagna-ministro e di aver fatto affari per oltre due milioni e mezzo di euro. Secondo il giudice per le indagini preliminari, che commenta queste intercettazioni sull'emendamento ritirato, precisa che: «non essendo stato possibile farlo “passare" nel testo del decreto "Sblocca Italia" il Governo (per iniziativa del ministro Guidi con l'intesa del ministro Boschi (“è d'accordo anche Mariaelena”), lo aveva sostanzialmente riproposto nel testo del disegno della legge di Stabilità (“Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità”), finendo con l'essere, unitamente alla legge di Stabilità, approvato a fine dicembre 2014. Il nuovo tentativo di inserimento, infatti, aveva esito positivo». La ministra Guidi si interessa del lato economico e finanziario del suo compagno Gemelli, al quale chiede come è messo “economicamente” e perché “è sempre sofferente in banca”. Guidi però insiste, vuole capire meglio e l'imprenditore spiega che ha “troppi mutui” da pagare. A questo punto la Guidi suggerisce: «Eh, per quello dico che dovresti riuscire a prendere altri lavori Gianluca...!»; Gemelli rispondeva "eh lo so gioia, non è che mi sono fermato, l'hai visto...».

Quella clamorosa intercettazione della Guidi. Le opposizioni: «Ora si deve dimettere». La ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi rassicura il compagno, interessato ai lavori, sul destino di un impianto di estrazione di Total in Basilicata: verrà approvato un emendamento alla legge di Stabilità. «È d’accordo anche Maria Elena», dice riferendosi a Boschi. Le opposizioni gridano al conflitto di interessi: «Si dimetta. E al referendum votiamo Sì», scrive Luca Sappino il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Non è nuova alle polemiche sul conflitto d’interessi, Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi. Appena nominata, il 22 febbraio 2014, in molti notarono la scarsa opportunità della scelta del presidente del consiglio di mandare negli uffici di via Molise proprio la vicepresidente di Confindustria, figlia di Guidalberto Guidi, anch’egli a lungo vicepresidente di Confindustria e presidente della Ducati Energia, azienda di famiglia. Federica Guidi lasciò ogni incarico formale, ovviamente, e si difese dicendo di non esser socia ma solo dipendente delle varie aziende: «Sto battendo ogni record», si vantò, «il governo ha appena ottenuto la fiducia e contro di me sta già arrivando la prima mozione di sfiducia individuale». Mozione però mai calendarizzata. È però adesso un’intercettazione di una telefonata avuta con il compagno Gianluca Gemelli, a riaprire il dibattito. Gemelli, interessato ai subappalti per le sue aziende, stava infatti seguendo con attenzione il destino dell’impianto Total di Tempa Rossa, giacimento petrolifero nell'alta valle del Sauro, nel cuore della Basilicata, e viene chiamato dal ministro per ricevere rassicurazioni. Nella telefonata, negli atti di un'inchiesta in cui è indagato anche lo stesso Gemelli, per "traffico di influenze illecite" perché avrebbe "sfruttato la relazione di convivenza che aveva col Ministro allo Sviluppo Economico”, Guidi rassicura il compagno sul destino di un emendamento alla legge di stabilità che risolverà ogni problema. Nello scambio il ministro dice così: «Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se... è d'accordo anche Mariaelena la... quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte. Alle quattro di notte... Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa... ehm... dall'altra parte si muove tutto!». A quel punto, Gemelli può chiamare subito il rappresentante della Total con cui era in contatto e farsi valere con l’informazione ricevuta dal contatto privilegiato: «La chiamo per darle una buona notizia. ehm.. Si ricorda che tempo fa c'è stato casino. Che avevano ritirato un emendamento… ragion per cui c'erano di nuovo problemi su Tempa ross ... pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato...ragion per cui…se passa...e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni...(...) se passa quest'emendamento... che pare... siano d'accordo tutti… perché la boschi ha accettato di inserirlo... (...) è tutto sbloccato! (ride, ndr)...volevo che lo sapesse in anticipo! (...) e quindi questa è una notizia...». Immancabili sono a questo le reazioni politiche. Il Movimento 5 stelle, con una dichiarazione congiunta dei capogruppo di Camera e Senato, Michele Dell’Orco e Nunzia Catalfo, chiede le dimissioni di entrambi i ministri citati, di Guidi e però anche di Boschi. Più su Guidi si concentra invece Sinistra Italiana che annuncia una mozione di sfiducia, sperando che questa volta venga discussa. Tutti però girano la notizia sul prossimo referendum sulle trivelle: «La miglior risposta a queste indecenze», dicono i 5 stelle, «oltre alle dimissioni di Guidi e Boschi è andare tutti a votare domenica 17 aprile e votare sì contro le trivellazioni marine». Sconcertata si definisce anche Forza Italia, almeno per bocca di Alessandro Cattaneo, già sindaco di Pavia: «Se ciò che stiamo leggendo in queste ore fosse vero, è chiaro a tutti che siamo di fronte ad un caso sul quale il Governo non può non fare chiarezza». «Sempre garantisti», dice ovviamente Cattaneo, «ma di fronte a certe parole e fatti non si può che restare sorpresi ed agire di conseguenza. Le intercettazioni sul Ministro Guidi sono sconcertanti».

Caso Guidi, quella notte in cui l'emendamento uscì dalla legge (e poi rientrò). Presentato il 17 ottobre del 2014, scatenò le proteste dei Cinque Stelle e di Sel. E venne precipitosamente ritirato. Mentre il Pd diceva di non saperne niente. Il grillino Cioffi: “Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?” Ecco la storia della modifica che ha portato alle dimissioni della ministra, scrive Susanna Turco l'1 aprile 2016 su "L'Espresso". Presentato dal governo in una notte d’ottobre 2014, poi precipitosamente ritirato ("… quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte", dice la Guidi nelle intercettazioni), dopo le proteste dei Cinque stelle e Sel, durante la discussione in commissione Ambiente sul cosiddetto Sblocca Italia. Presentato poi di nuovo, in dicembre, e approvato nel maxiemendamento alla Legge di stabilità: anche qui tra le proteste dei Cinque stelle. La storia dell’emendamento che è all’origine delle dimissioni della ministra Guidi, quello che dava il via libera al progetto di estrazione di petrolio Tempa Rossa, sul quale il compagno della titolare allo Sviluppo economico aveva forti interessi, è nei resoconti di quella notte in commissione ambiente. E, poi, nell’intervento in Aula al Senato, quando il grillino Andrea Cioffi domanda: "Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?". Tutto comincia all’ora di cena del 17 ottobre. E’ un venerdì, e il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci, "avverte che il rappresentante del Governo ha testé presentato l’emendamento 37.52 del Governo". Dopo l’annuncio, Realacci dice subito che i sub-emendamenti andranno presentati entro le 22.  Poi fa slittare il termine alle 23. Sia il deputato di Sel Filiberto Zaratti, che la deputata grillina Claudia Mannino, dicono infatti che ci vuole tempo "per valutarne attentamente il contenuto". Poco dopo, avendo letto l’emendamento, è la grillina Mirella Liuzzi ad aprire il fuoco: "L’emendamento 37.52 del Governo rappresenta una vergogna sotto il profilo del rispetto della tutela ambientale, tanto più essendo stato presentato da un Governo che si dichiara di centrosinistra", dice. La Mannino protesta: il testo "introduce poteri di intervento inconciliabili con lo stato di diritto". Zaratti (di Sel) ci mette un altro carico: "L’emendamento autorizza procedure di esproprio in ambiti di particolare rilevanza ambientale, non è degno del Parlamento di uno Stato civile". Ecco la protesta grillina in commissione Ambiente contro l'emendamento pro-Tampa Rossa che, nella notte dell'ottobre 2014, ha portato alla precipitosa marcia indietro del governo. Le urla, gli interventi concitati. “E' una assoluta vergogna, una cosa pericolosissima, e la fate qui in commissione, alle dieci di sera. Neanche Berlusconi era arrivato a tanto”, dice Liuzzi. E Mannino: “In un paese civile questo emendamento è irricevibile”. Mentre il Pd Borghi, placido chiarisce: “Il mio gruppo non era a conoscenza della presentazione di questo emendamento”. Alla fine il Cinque stelle De Rosa invita il presidente della commissione Realacci a “rivalutare l'ammissibilità dell'emendamento”. Cosa che, dopo essersi consultato col governo, Realacci farà. Dichiarandolo inammissibile. Interessante, a questo punto, la puntualizzazione del Pd Enrico Borghi: fa presente come "il gruppo del Partito democratico non era stato preventivamente messo a conoscenza della presentazione da parte del Governo dell’emendamento 37.52. Chiede pertanto che su di esso possa essere aggiornata la discussione ad un successivo momento". A questo punto, Realacci sospende la seduta. Chi c’era, racconta che subito dopo in commissione arriva anche Claudio De Vincenti, allora viceministro allo Sviluppo Economico, e che nell’ora e mezza di pausa dei lavori, c’è un lungo conciliabolo tra lui e Realacci. Un deputato Cinque Stelle dice di aver notato la cosa perché "è strano che un viceministro venga in commissione di notte", e ricorda che "De Vincenti si portò via Realacci per parlarci: era evidentemente alterato, molto arrabbiato. Come se sapesse benissimo cosa stava succedendo a quell'emendamento: altro che disinteressarsene". La seduta riprende alle 21.35. E il presidente Realacci cambia improvvisamente orientamento. Dichiara infatti "inammissibile" l’emendamento, per "estraneità di materia": in sostanza, dice, perché nell’articolo 37 l’estensione delle "procedure autorizzative derogatorie" era prevista per "aumentare la sicurezza delle forniture di gas" e quindi non c’entra con "le opere relative al trasporto e allo stoccaggio di idrocarburi". La Liuzzi però protesta: dice che Realacci non è stato "corretto", perché avrebbe dovuto valutare l’ammissibilità dell’emendamento, prima di dare un termine per la presentazione dei subemendamenti. "A questo punto l’emendamento dovrebbe essere discusso e votato", conclude la Liuzzi. Realacci replica di aver agito così "in considerazione dell’ora tarda e della necessità di lasciare tempi adeguati ai gruppi per la presentazione dei subemendamenti". A quel punto è il grillino De Rosa ad "avanzare il dubbio" che si sia fatto così "nella speranza che nessun deputato si accorgesse della portata dell’emendamento 37.52 e si opponesse alla sua votazione". Realacci ribadisce le sue ragioni e la discussione passa oltre. Poi, però, l’emendamento si riesce a "rimetterlo dentro" (sempre parole della Guidi) nella legge di Stabilità. E il 18 dicembre il senatore grillino Cioffi in Aula lo definisce un "emendamento con nome e cognome". "Ma cosa c'è dentro questa finanziaria? Tante cose. Ci sono alcuni emendamenti presentati dal Governo che hanno nome e cognome. Ce n'è uno che si chiama «Total». Se volete, possiamo usare «Total» sia come nome che come cognome: «Total Total». (Applausi dal Gruppo M5S). Quando voi inserite nella legge che rendiamo opere strategiche anche i tubi che servono per portare il petrolio di Tempa Rossa (che è una concessione data alla Total), nonché le infrastrutture che verranno realizzate nel porto di Taranto, stiamo facendo un regalo alla Total. Ci verrebbe allora da chiedere: ma la Total ha soffiato nell'orecchio di qualcuno, che è il Governo, e gli scrive un emendamento? La Total per caso - lo pongo come ipotesi, signora Presidente, mi consenta; sa, «mi consenta» si porta - ha agevolato il percorso per presentare un emendamento a suo favore? La Total ha contribuito economicamente - in maniera trasparente, perché non si possa mai pensare che lo faccia in maniera non trasparente, nel qual caso sarebbe un reato e i reati li accerta la magistratura, ed è il caso che li inizi ad accertare, magari su questa cosa - la Total, dicevo, ha dato dei contributi al Governo che gli fa un regalo?"

Guidi, le guerre nel Pd della Basilicata. Indagini, una talpa aveva avvisato il compagno. Le intercettazioni dimostrano nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio. Scontri fra Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute e il governatore della Regione Marcello Pittella, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Dietro all'estrazione petrolifera emergono in Basilicata guerre intestine al Partito democratico. Le intercettazioni dell'inchiesta di Potenza hanno permesso di registrare nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio (il comprensorio dei comuni di Corleto Perticara, Guardia Perticara, Gorgoglione, Gallicchio ed Armento) coinvolto direttamente o indirettamente nell'attività di estrazione petrolifera, «da fare campo di conquista anche attraverso vere e proprie guerre intestine tra le vari anime dello stesso Partito», scrive il gip. Da un lato vi è la figura di Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute, punto di riferimento politico dell'ex sindaco del Pd di Corleto Perticara, Rosaria Vicino, arrestata oggi dai carabinieri, e dall'altra parte il governatore della Regione Basilicata, Marcello Pittella, il quale con la sua azione politica «avrebbe cercato di mettere le “bandierine” (per richiamare il termine utilizzato da Vicino nelle intercettazioni) sui territori da “conquistare”». Gli investigatori hanno documentato come spesso Vicino ha utilizzato l'auto dei vigili urbani del paese per fare la spesa, e poi ancora per raggiungere il cantiere, e i vari imprenditori interessati all'esecuzione dei lavori legati al Centro Oli di Tempa Rossa «al solo fine di segnalare agli stessi le persone da assumere». Vicino poteva contare su un notevole consenso elettorale ottenuto «da ricondursi anche ai posti di lavoro che la stessa riesce a far ottenere attraverso le pressioni esercitate nei confronti delle imprese impegnate nella costruzione del Centro Oli di Tempa Rossa, che si vedono costrette (in alcuni casi colluse) nell'assumere persone segnalate dal primo cittadino, in cambio del rilascio delle necessarie autorizzazioni comunali o in cambio di una più celere trattazione delle pratiche annesse (permessi di costruire), ovvero in cambio di vantaggi economici anche solo promessi derivanti da concessioni, delibere». In questo modo Vicino avrebbe ottenuto non solo «il controllo dell'elettorato attivo in vista delle prossime elezioni amministrative locali», ma anche «l'impegno del sottosegretario De Filippo a far assumere il figlio all'Eni». Più volte nelle intercettazioni De Filippo ha rassicurato la Vicino di un suo intervento «presso una non meglio specificata Azienda con sede in Roma (seppure mai menzionata espressamente, la stessa è facilmente individuabile nell'Eni spa)», scrive il giudice. Il compagno della ministra Guidi, l'imprenditore Gemelli indagato in questa inchiesta a Potenza, durante alcune intercettazioni si soffermava sul ruolo politico di Pittella, e sui contatti "forti" che suo fratello, l'europarlamentare Gianni Pittella, aveva con il premier Matteo Renzi: «ma lui tramite il fratello che è al parlamento europeo ha dei contatti fortissimi con Renzi e quindi riesce a bloccare cose che altri non ci arriverebbero, ma comunque... ! Speriamo che funzioni questo Sblocca Italia». Un cenno ai due fratelli Pittella, Gemelli lo avrebbe fatto, a distanza di qualche tempo, anche insieme alla propria compagna, il ministro Federica Guidi, quando avevano appreso da una talpa la notizia delle indagini in corso da parte della procura di Potenza che potevano in qualche modo interessare pure Gemelli proprio in relazione ai lavori che aveva ottenuto in Basilicata.

“Potenza, ecco come funziona il sistema degli affari petroliferi”. Il pm Woodcock fu il primo ad avviare le inchieste sul “Totalgate”. La maledizione in Basilicata è: tante indagini, poche condanne, scrive Guido Ruotolo il 4 aprile 2016 su "La Stampa". L’ultimo caso sulle estrazioni petrolifere, che ha visto indagato anche il compagno della ministra Guidi, incrocia la “maledizione di Potenza”, dove si sono fatte tante indagini ma si celebrano pochi processi. Sono tornate telecamere e microfoni. E il bivacco di giornalisti da oggi affollerà di nuovo il palazzo di giustizia. Come ai vecchi tempi di Henry John Woodcock, il pm anglonapoletano famoso per le sue retate «eccellenti», dal fotografo di gossip Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele (di) Savoia. Proprio lui, Woodcock, con tre diverse inchieste (2001,2004,2008) accese i riflettori su quelli che negli atti giudiziari venivano definiti «gli affari petroliferi». Impressionante il sistema di corruzione già scoperto quindici anni fa dal pm che poi traslocò alla Procura di Napoli. Va subito detto che la maledizione di Potenza è che si fanno le indagini ma non si celebrano i processi. I dibattimenti delle prime due inchieste sugli «affari petroliferi» infatti sono stati sospesi con la sopraggiunta prescrizione. Per la terza, il “Totalgate”, è iniziato il processo di primo grado. Finora sono cambiati per tre volte i collegi giudicanti per cui il dibattimento è stato azzerato per due volte. Anzi ha rischiato di dover ripartire da zero un’altra volta per gli stretti rapporti - pare di natura sentimentale - intrecciati dai due giudici a latere. Comunque prima dell’estate anche “Totalgate” è destinato alla prescrizione. Dunque nel 2008 il gip di Potenza ha accolto le richieste di arresto anche dell’amministratore delegato di «Total Italia», Lionel Lehva. E la stessa “Total” fu affidata in gestione commissariale a Piero Sagona, storico consulente della Banca d’Italia. Quasi un anno senza illeciti e violazioni del Codice penale, dall’aprile 2009 al febbraio 2010. Poi, a leggere le cronache giudiziarie di questi giorni, si è tornati, per dirla con il gip di Potenza, «a pratiche antiche e accettate». Per Woodcock, gli affidamenti degli appalti da parte del colosso petrolifero francese erano «pilotati e predefiniti negli esiti dai protagonisti del “comitato d’affari” costituito, appunto, dal manageament di “Total Italia”, da imprenditori, da pubblici ufficiali, politici e faccendieri, “istituzionalmente” deputati a mediare un numero indeterminato di transazioni illecite». Rileggendo gli atti delle tre inchieste colpiscono alcuni elementi che si ritrovano nelle diverse indagini. Il punto di partenza è riassunto da Woodcock: «La corruzione e la collusione tra potere economico, potere politico e frange deviate di istituzioni dello Stato - persino i Vigili del fuoco, ndr - costituiscono il modus operandi ordinario nel settore degli appalti delle opere pubbliche. Il flusso di denaro pubblico rappresenta l’occasione di corruzione e di arricchimento illecito a favore di imprenditori senza scrupoli, faccendieri e funzionari pubblici corrotti». Ma questo sistema di corruzione ambientale è solo della Basilicata? Colpisce che in ogni inchiesta sono coinvolte politici e funzionari pubblici, un’amministrazione comunale, una impresa locale. Prendiamo appunto l’inchiesta “Totalgate”. Al centro delle indagini del pm Woodcock c’erano tre appalti: due per la fornitura del trattamento e dello smaltimento dei fanghi di perforazione; un appalto per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa. Bene, quelle gare furono truccate. Il 20 dicembre del 007 si precipita a Potenza l’amministratore delegato di Total, Lionel Lehva, per «pianificare la sostituzione delle buste contenenti le offerte»: «Quando si arriva - registrano le cimici degli investigatori - a far vincere Ferrara (l’imprenditore prescelto, ndr), è vinta». Sempre Lehva detta le incombenze da assolvere: «La busta D, dì che la cambino.... Ok?». L’impresa Ferrara, secondo l’intesa con i francesi, «deve sottoscrivere un contratto di cinque anni di fornitura di olii lubrificanti e carburanti per 15 milioni di euro. E Total si impegna a far vincere la gara per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa all’Associazione temporanea di imprese “Ferrara” «sostituendo fraudolentemente le buste contenenti le offerte presentate e depositate alterando i verbali di gara». Colpisce che tra gli attuali indagati di Potenza vi sia anche Roberta Angelini, responsabile Sicurezza e Salute dell’Eni di Viggiano. Colpisce perché fu arrestata per corruzione dal pm Woodcock nella inchiesta «Oro nero» del 2004. Arrestata per corruzione, ma il processo è stato prescritto. E, dunque, per l’Eni dirigente da promuovere. Infatti era una specialista in autorizzazioni e relazioni pubbliche del distretto di Ortona, nel 2004, quando imponeva alle ditte contrattiste l’assunzione di certo personale su indicazione del sindaco di Calvello.  

Tempa Rossa, fino a 7 anni di carcere per i vertici Total. Il processo si riferisce all'inchiesta condotta nel 2008 dall'ex pm Woodcock, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 aprile 2016. Il Tribunale di Potenza ha condannato in tutto nove persone - imputate a vario titolo per corruzione, concussione e turbativa d’asta per l’esproprio dei terreni e i lavori di realizzazione del Centro oli di «Tempa Rossa» - nell’ambito del processo allora chiamato «Totalgate», per pene che complessivamente ammontano a 47 anni e sei mesi di reclusione. In particolare, sono stati condannati l’ex ad di Total Italia Lionel Lehva (tre anni e sei mesi di reclusione) e l’ex manager della Total Jean Paul Juguet (tre anni e sei mesi), due ex dirigenti locali della Total, Roberto Francini e Roberto Pasi (sette anni di reclusione ciascuno), l’imprenditore Francesco Rocco Ferrara (sette anni di reclusione), l’ex sindaco di Gorgoglione (Matera) Ignazio Tornetta (sette anni), l’ingegnere Roberto Giliberti e il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Corleto Perticara (Potenza) Michele Schiavello (cinque anni ciascuno), e l’imprenditore Nicola Rocco Donnoli (due anni e sei mesi). Per Lehva e Juguet è stata disposta l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, mentre per Pasi, Francini, Ferrara, Tornetta, Schiavello e Giliberti l’interdizione è perpetua. Per 18 imputati è stata disposta l’assoluzione. Nel dispositivo il giudice, Aldo Gubitosi, ha inoltre disposto la restituzione al pm degli atti relativi alle posizioni di Total, Sogesa e Impresa Ferrara «per nuove valutazioni». Il pm, Veronica Calcagno, aveva chiesto pene per un totale di circa 90 anni di reclusione. La vicenda si riferisce a un’inchiesta condotta nel 2008 dal pm Henry John Woodcock - ora in servizio a Napoli - sulla realizzazione del Centro oli di "Tempa Rossa», in particolare per le procedure di esproprio dei terreni che avrebbero poi dovuto ospitare la struttura, e la concessione degli appalti per i lavori. Il Comune di Corleto Perticara (Potenza) è stato condannato in solido «quale responsabile civile» al risarcimento dei danni alla parte civile (con Schiavello, Pasi, Francini e Giliberti). «Non posso che esprimere la mia più viva soddisfazione per un verdetto che conferma la bontà dell’impianto accusatorio da me costruito grazie al lavoro di un gruppo affiatato di ragazzi della polizia giudiziaria (la squadra mobile e la polizia municipale di Potenza e i carabinieri del Noe del capitano Ultimo) che hanno collaborato con me». Così il pm Della Dda di Napoli Henry John Woodcock commenta l’esito del processo a Potenza scaturito dall’inchiesta Tempa Rossa, coordinata negli anni scorsi dal magistrato quando era sostituto alla procura del capoluogo lucano.

Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo». Scontro con la minoranza. M5S presenta la mozione di sfiducia, scrive Alessandro Trocino su "Il Corriere della Sera” il 4 aprile 2016. «Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza». Conclude così la sua replica Matteo Renzi, a una direzione del Partito democratico più nervosa del previsto e che, dopo i duri attacchi della minoranza, approva la relazione del segretario con 98 voti favorevoli e 13 contrari. Renzi rivendica lo sblocco del progetto Tempa Rossa, che è costato le dimissioni del ministro Federica Guidi e sul quale c’è un’inchiesta della magistratura: «Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». Parole che arrivano qualche minuto dopo che il ministro Maria Elena Boschi, in un ufficio decentrato di Palazzo Chigi, è stata sentita dai magistrati come persona informata dei fatti. E pochi minuti prima della condanna degli ex vertici della Total per turbativa d’asta e corruzione nella vicenda Tempa Rossa. Renzi difende appassionatamente l’operato del governo: «Noi schiavi delle lobby? Ma le multinazionali oggi creano 1,2 milioni di occupati, il 14% del Pil e il 25 dell’export». Le inchieste: «Noi non siamo come gli altri. Se qualcuno ruba, si proceda e si metta in galera». E rivendica la diversità anche su altro: «Non farò più di due mandati. Fuori di qui ci sono due nemici: populismo e demagogia». Renzi deve subire il duro attacco di Gianni Cuperlo: «Matteo, penso che tu sia profondamente onesto. Ma non ti stai mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo». E ancora: «Sento il peso di stare in questo partito». Il governo dovrà fare fronte anche alla mozione unitaria presentata dal centrodestra e a quella del Movimento 5 Stelle. Che recita: «L’inchiesta petrolio svela l’operato di un articolato e consolidato comitato d’affari».

Inchiesta Petroli in Basilicata, quello che sappiamo. Dai nomi dei personaggi coinvolti fino alle ipotesi di reato: una guida per capire l'indagine che sta facendo tremare il governo Renzi, scrive il 4 aprile 2016 "Panorama".

Quali sono le conseguenze politiche? Dopo che è caduta la testa del ministro Federica Guidi, Maria Elena Boschi, 35 anni, è finita nel mirino delle opposizioni e sarà interrogata dagli inquirenti. Le chiederanno con ogni probabilità se era conoscenza del legame tra il ministro e l’imprenditore indagato e se sapesse della convenienza che questa ne avrebbe ricavato dallo sbloccamento dell’operazione Tempa Rossa della Total. Il ministro Boschi ha non solo per ora negato di sapere chi fosse l'imprenditore siracusano che sollecitava l'introduzione dell'emendamento che avrebbe consentito alla sua azienda di aggiudicarsi alcuni appalti milionari, ma ha difeso la ratio del provvedimento: «Conosco molto bene il provvedimento, atteso dal 1989. Era ed è sacrosanto. Se poi il compagno della Guidi o chiunque altro ha violato la legge è giusto che ne risponda. Noi abbiamo semplicemente fatto la cosa giusta per l’Italia». Sono già state presentate due mozioni di sfiducia al governo: una dei Cinque Stelle e un’altra di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. L’indagine della Procura di Potenza che ha provocato le dimissioni del ministro Guidi, nota come Scandalo Petroli, fotografa un quadro politico inquietante. Un affresco, secondo l'accusa, costruito attorno agli interessi lobbistici e ai perversi intrecci tra la politica e i vertici industriali dell'Eni e della Total, all'interno di un sistema clientelare del quale i soggetti-chiave erano non solo i dirigenti dei colossi petroliferi, ma anche uomini delle amministrazioni locali e del governo centrale che avrebbero dovuto vigilare, nonché ditte appaltatrici che avrebbero goduto di trattamenti di favore. Partita dai carabinieri del NCO che stavano indagando su un traffico di rifiuti tossici prodotti negli stabilimenti petroliferi in Basilicata, l'inchiesta muove da un'ipotesi: che i rifiuti liquidi prodotti dall’attività estrattiva degli impianti petroliferi presenti in Basilicata venissero sistematicamente classificati come non pericolosi e dunque versati nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, al fine di abbattere i costi di smaltimento. Con ovvie ricadute sull'ambiente e sulla qualità della vita della cittadinanza. E con la complicità interessata di uomini della Politica.

Quali sono le ipotesi di reato? L’ipotesi di reato, in generale, è quello di disastro ambientale, una fattispecie specifica introdotta nella nuova legislazione del maggio 2015 che prevede dai 5 ai 15 anni di carcere per chi se ne renda responsabile. Il disastro ambientale viene definito dal codice penale come «l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo». Ma ci sono altre ipotesi di reato, perché attorno al reato principale - il disastro ambientale - si muovevano ditte appaltatrici e pezzi di politica locale e regionale, in un quadro corruttivo e apparentemente privo di controlli adeguati. 

In quali filoni è composta l'inchiesta? Il primo, affidato ai carabinieri del Noe, riguarda l'impianto Eni di Viggiano, operativo in Basilicata, che secondo l'accusa - e con la complicità degli organismi di controllo e della politica nazionale e locale - avrebbe continuato a sversare nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, i suoi rifiuti tossici, sforando anche sistematicamente sui limiti delle emissioni previste per legge. Il secondo filone di indagine, seguito dalla squadra mobile della Polizia di Stato, ha al centro l'iter che ha portato all'autorizzazione del giacimento Tempa Rossa della Total, nell'alta valle del Sauro, sempre in Basilicata, e che secondo i giudici avrebbe dato il via a un sistema oliato di corruzione e tangenti per l'assegnazione degli appalti e dei subappalti in relazione alla costruzione e ai lavori dell'impianto.   Il terzo filone riguarda il porto di Augusta, attorno all'ipotesi di traffico di influenze e traffico illecito di rifiuti, all'interno di una più vasta associazione a delinquere alla quale facevano parte, secondo la procura, il capo di Stato maggiore della marina Giuseppe De Giorgi, il compagno dell'ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, per il quale la procura potrebbe chiedere l'arresto, il capo ufficio bilancio della Difesa e consulente del ministero per lo Sviluppo Economico, Valter Pastena, e il facilitatore-lobbista Nicola Colicchi.

Che cosa ha portato alle dimissioni del ministro Guidi? In una telefonata intercettata il 13 dicembre 2014 il ministro Guidi rassicura il compagno che un emendamento alla Legge di stabilità sbloccherà l’operazione Tempa Rossa, sottolineando anche il voto favorevole di Maria Elena Boschi, cui era interessato lo stesso Gianluca Gemelli, 42 anni, commissario di Confindustria siracusana e noto imprenditore edile siciliano, nonché compagno del ministro dello Sviluppo.

Perché è coinvolto anche il sindaco di Corleto Perticara? La Procura di Potenza ha dedicato a Rosaria Vicino, Pd, 62 anni, 800 pagine di ordinanza di custodia cautelare e 13 capi di accusa, tra cui corruzione, peculato e voto di scambio. Dalle intercettazioni emergerebbero pressioni per far assumere il figlio all’Eni e quali fornitori utilizzare. Ma il sindaco – stando ad alcune telefonate intercettate -  si sarebbe mosso anche per raccomandare altre personaggi e far loro avere gli appalti necessari alla prosecuzione dei lavori dell'impianto Tempa Rossa di Corleto Perticara, la cittadina di cui era sindaco. È coinvolto nell'inchiesta, secondo l'intercettazione, anche il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo che - per i servigi resi - «avrebbe a sua volta ricevuto dall'Eni un hotel a Milano».

Quali possono essere le conseguenze economiche della vicenda? Dopo l'apertura dell'inchiesta, che ha svelato un sistema ben oliato di corruzione e omessi controlli, l'Eni ha deciso di sospendere le estrazioni del petrolio in Basilicata, in particolare in Val D’Agra dove si estraggono 75 mila barili al giorno e dove c'è il giacimento di Viggiano, il più importante d’Europa dopo quelli russi. Anche i dipendenti coinvolti nell’inchiesta sono stati sospesi.

Un dossier anonimo contro l’ammiraglio De Giorgi: “Ecco tutte le spese pazze”. Inchiesta di Potenza, spuntano documenti sul capo di stato maggiore della Marina: «Festini e scambi di interessi con il fidanzato della ministra Guidi», scrive Grazia Longo il 12 aprile 2016 su “La Stampa”. La stagione dei veleni è appena cominciata. Non si sono ancora placate le polemiche per il dossier contro il ministro Graziano Delrio, che ne spunta fuori un altro. Stavolta nel mirino c’è il capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, al centro del filone siciliano dell’inchiesta sulle estrazioni petrolifere in Basilicata. È probabile che di questo dossier si discuta venerdì alla Procura di Roma nell’incontro previsto fra il procuratore Pignatone e il collega di Potenza Luigi Gay quando verrà affrontato anche il dossier che riguarda il ministro. Questa tranche in particolare verrà trasferita a Roma, mentre si stanno ancora valutando eventuali altri passaggi. Contro di lui c’è un dossier anonimo che è stato consegnato alla procura di Potenza, alla presidenza del Consiglio e al ministero della Difesa. Documenti, allegati, che contestano l’operato e le spese folli dell’alto ufficiale della Marina, in pole position, fino a poco prima dello scandalo, per diventare il nuovo capo della Protezione civile. Festini e spese pazze sono denunciate dalla gola profonda che accusa De Giorgi. Si legge ad esempio dei «festini da lui organizzati da comandante a bordo della nave Vittorio Veneto... con tanto di trasferimento a mezzo elicottero, di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da comandante della nave Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati a un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco». Grande amante del lusso, secondo il dossier, l’ammiraglio fece spendere 42 milioni di euro per rifare l’area delle cabine degli ufficiali della nave Bergamini, dopo una visita a Fincantieri. Nell’inchiesta di Potenza - il procuratore Luigi Gay, l’aggiunto Francesco Basentini, la pm Laura Triassi e Elisabetta Pugliese della Dna - l’ammiraglio è accusato di abuso d’ufficio. Il sospetto è che ci sia stato uno scambio di «interessi» tra lui e il fidanzato dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi. L’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli - anche in questo caso indagato per traffico d’influenza illecita, proprio per aver speso la posizione dell’ex ministra - avrebbe avuto il suo tornaconto grazie alla costruzione di un pontile per lo stoccaggio del petrolio. In cambio avrebbe speso la posizione della Guidi per uno stanziamento del ministero delle Finanze. Più in particolare, si trattava di gestire spese per 5,4 miliardi di euro: il progetto del rimodernamento dell’intera flotta italiana, inserito nella cosiddetta legge navale. Nelle pagine del dossier anonimo (che come tale va preso con tutte le cautele), viene rappresentato un capo di stato maggiore che folleggiava a champagne, intimoriva i sottoposti, i quali solo per paura non ne denunciavano l’atteggiamento. Fango e menzogne contro l’ammiraglio? La sua carriera militare è senza macchia. Venerdì mattina, intanto, verrà interrogato in procura a Potenza in merito all’accusa di abuso d’ufficio. Inevitabilmente, anche se non c’entra con le indagini, l’attenzione ricadrà sul dossier e sulla sua immagine in sella al cavallo bianco. La gola profonda sostiene di essere un militare della Marina che preferisce restare anonimo per paura: «Non ho il coraggio di venire allo scoperto perché ho già abbondantemente pagato per non essermi piegato alle richieste del capo di Stato maggiore». De Giorgi, secondo quanto stigmatizzato nel dossier, volle spendere cifre da capogiro per il quadrato e le cabine degli ufficiali. Ben 42 milioni e 986.000 euro che l’ammiraglio «cercò di coprire con un auto investimento da parte di Fincantieri che invece non aveva alcuna intenzione di finanziare neanche parzialmente e quindi si spesero decine di milioni del contribuente». C’è poi un altro importante business nel campo dei mezzi navali per attività di spionaggio e che fa parte del rinnovamento della flotta navale per oltre 5 miliardi all’attenzione della procura di Potenza: «la produzione di unità sottili stealth ad altissima velocità, con scafi e strutture di carbonio trattato con l’applicazione delle nanotecnologie». De Giorgi ci teneva tantissimo, al punto che «propose con una lettera al capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli, chiedendogli l’approvazione a firmare una convenzione con la società As Aeronautical». È quanto riportato in una lettera del 30 novembre 2013, allegata al dossier. La gola profonda denuncia che «l’Aeronautical Service tecnicamente non esiste e non dispone di apparecchiature, né di maestranze all’altezza. Il suo responsabile, ingegner Bordignon, millanta coperture illustri come De Giorgi e Valter Pastena». Proprio quel Pastena, consulente dell’ex ministra Guidi, anche lui indagato a Potenza. Per quanto concerne invece i party con i soldi pubblici, l’anonimo racconta: «Famosi sono stati i festini organizzati dal comandante a bordo della Vittorio Veneto in navigazione, con tanto di trasferimento a mezzo elicottero di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da Comandante della Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati ad un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco appositamente noleggiato. Tutti sapevano e tutti, per paura delle sue vendette, tacevano circa l’uso improprio che l’ammiraglio, una volta diventato capo delle Forze Aeree della Marina, faceva degli elicotteri e soprattutto del velivolo Falcon 20 che in versione Vip lo trasportava continuamente come in un taxi, spesso in allegra compagnia da una parte all’altra dell’Italia, per l’esaudimento di interessi personali ma a spese del contribuente».

AMM.DE GIORGI: CALUNNIE, QUERELO STAMPA Tweet 12 aprile 2016 22.17. "I fatti riportati sui giornali e nei servizi televisivi, attribuiti alla mia persona, sono del tutto infondati e ledono l'onore ed il decoro del sottoscritto. Sentito il mio avvocato, non ho potuto esimermi, per la mia posizione pubblica, dal querelare gli autori". Così in una nota il capo di stato maggiore della Marina, De Giorgi, sul dossier anonimo nei suoi confronti. "La cosa mi amareggia, per il mio ben noto rispetto verso gli organi di stampa e verso la libertà di informazione. Auspico l'individuazione dei calunniatori".

“Coprì le carte sui marò”: ecco le nuove accuse nel dossier su De Giorgi. L’anonimo insinua: tangenti per appalti milionari e feste allegre. La difesa dell’ammiraglio annuncio un contro esposto per individuare la gola profonda: “Solo fantasiose illazioni”. Spregiudicato al punto di «ripulire le carte che avrebbero danneggiato l’ammiraglio Binelli nell’inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone». «Arrogante e dittatore» verso i colleghi che non si piegavano al suo volere, tanto da esasperare un collega fino al suicidio. Malignità e attacchi gratuiti? È impietosa la ricostruzione dello stile disinvolto del capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, fornita dal dossier anon...continua Grazia Longo.

Nuove ombre su De Giorgi: ​"Ha coperto le carte sui marò". La mano dell'Ammiraglio De Giorgi avrebbe ripulito le carte che incastravano il collega Binelli sulla responsabilità che portarono alla consegna dei marò Latorre e Girone alle autorità indiane, scrive Gabriele Bertocchi, Mercoledì 13/04/2016, su "Il Giornale". "Solo fantasiose illazioni" così la difesa De Giorgi cerca di annegare le accuse contro l'ammiraglio. Ma tra i festini, le allegre signorine e gli elicotteri usati a suo piacimento viene a galla anche un retroscena che coinvolge i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Nel dossier anonimo spedito, tra gli altri, alle procure di Roma e Potenza, il Capo di Stato Maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi viene descritto come un dittatore, arrogante e spregiudicato a tal punto di "ripulire le carte che avrebbero danneggiato l'ammiraglio Binelli nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone". Un retroscena, riportato da La Stampa, che viene fuori dal progetto per i finanziamenti della flotta navale. Una situazione a cui l'ammiraglio dovrà rispondere dopodomani davanti ai pm di Potenza che lo hanno indagato per abuso di ufficio nel filone dell'inchiesta al Porto di Augusta. La gola profonda che ha steso il dossier scrive, a proposito dei finanziamenti, "in Marina è nota come la tangente De Giorgi-Passarella". Quest'ultimo è il dirigente pensionato della Ragioneria dello Stato piazzato al Mise come consulente dell'ex fidanzato di Federica Guidi, Gianluca Gemelli. L'anonimo inoltre rivela che "i toni delle critiche in seno allo stato maggiore della difesa erano talmente alti - Aeronautica ed Esercito avevamo maldigerito ammodernamento della flotta - che l'Ammiraglio Binelli, pur riconoscente nei confronti di De Giorgi per avergli ripulito molte carte che lo avrebbero danneggiato nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei marò Latorre e Girolamo, si affrancò dall'impresa suggerendo a De Giorgi di evitare di andare oltre". Nonostante le dettagliate accuse la Marina bolla i "fatti contenuti nel dossier come inesistenti".

Scoppia il caso sulle caprette di De Giorgi. "Noi, zimbelli della Nato". Le caprette tosaerba all'Arsenale militare di Venezia. Animali che brucano per risparmiare sui giardinieri. Svelata un'altra stravaganza del militare ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina. E i colleghi francesi, inglesi e spagnoli emettono sarcastici belati se si trovano in missione con un marinaio italiano, scrive Fabio Tonacci il 13 aprile 2016 su “La Repubblica”. "I marinai fanno “beee...”. Grazie alle caprette tibetane di Giuseppe De Giorgi, i nostri militari della Marina sono diventati lo zimbello della Nato. Perché l'idea di sostituire i giardinieri di alcune basi con delle capre, magari ha pure una sua ragione ecologista. E magari fa risparmiare qualche spicciolo sulla manutenzione dei prati. Ma il punto è che da un anno a questa parte, i colleghi francesi, inglesi e spagnoli sfottono senza pietà, emettendo dei dolorosi e sarcastici belati appena si trovano in missione con un marinaio italiano. Ora, questa storia delle caprette inserite nell'organico dell'Arsenale militare di Venezia (tre capre alpine), nella stazione aeromobili di Marina di Grottaglie e in una base a Cagliari (una trentina in tutto, di specie tibetana), rientra nel ventaglio delle stravaganze a cui De Giorgi ha abituato i suoi sottoposti, ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina nel dicembre 2012. E paragonata alle accuse che gli vengono ora rivolte dai pubblici ministeri di Potenza (abuso di ufficio e traffico di influenze per il porto di Augusta) e da un esposto anonimo su presunte commesse milionarie poco chiare della Marina, qui siamo nel campo del colore. Ma fino a un certo punto. Perché le povere caprette sono diventate un problema serio. Sporcano, ovviamente. Hanno bisogno delle cure dei veterinari, ovviamente. E non rispettano le consegne del codice militare, ovviamente, per cui una di queste è rimasta incinta, altre vagano nelle basi in cerca di cibo. Costringendo i marinai a fare i pastori. Era stato il Fatto Quotidiano, ad ottobre scorso, a raccontare la loro presenza nelle caserme. Tutto era nato da una battuta, che battuta non era, pronunciata da De Giorgi durante alcune visite ufficiali alle basi. A chi gli faceva notare l'erba alta causata dalla mancanza di fondi per pagare i giardinieri, il capo di Stato Maggiore rispose: “Metteteci delle capre, che sono anche ecologiche”. Così un sottoufficiale dell'arsenale di Venezia preposto alla salute, con 22 anni di servizio alle spalle, racconta a Repubblica quello che successe dopo la visita di De Giorgi: “Ci siamo visti recapitare tre caprette nell'agosto scorso, forse donate da qualche allevatore veneto. C'erano una decina di marinai nell'Arsenale in quel momento, e alcuni di loro si sono dovuti occupare della gestione degli animali. Oltretutto, erano state vaccinate? Erano capi registrati all'ufficio sanitario? E c'era un ordine di servizio per cui ci dovevamo mettere a spalare il letame? Cosa fare nel caso di decesso, visto che ci potrebbero essere rischi di brucellosi? Nessuno mi dava risposte, e allora mi sono permesso di scrivere al mio superiore osservando che le capre starebbero molto meglio in libertà sulle Dolomiti. Risultato? Tre giorni di rigore e procedimento disciplinare. Ora sono in attesa di trasferimento”. Le caprette di De Giorgi sono intoccabili, come le vacche in India. “L'ultima volta che sono andato all'Arsenale per alcune pratiche amministrative – dice il sottoufficiale – ne ho viste due, diverse rispetto alle prime che abbiamo avuto”.

Nell'imbarazzo generale, la questione è arrivata anche in Parlamento, grazie all'interrogazione rivolta al ministero della Difesa dall'onorevole di Sel Donatella Duranti. E' questa è la risposta del sottosegretario Domenico Rossi: “E' vero, in alcune basi sono presenti capre di tipo alpino o misto tibetano oggetto di donazione, nonché alcuni daini prelevati dalla tenuta di San Rossore. In virtù delle loro abitudini alimentari, esse si nutrono di erba contribuendo in tal modo a tenere sotto controllo la crescita della vegetazione, anche in funzione antincendio. Sono ospitati in ampie, dedicate e circoscritte aree verdi all’interno delle quali sono garantite adeguate coperture e ricoveri per preservarli dalle intemperie, dalle piogge e dai rigori termici. Sono stati regolarmente vaccinati ed è stato richiesto il rilascio del codice di identificazione, come previsto dalla normativa vigente. Possono essere considerati, a buon titolo, delle vere e proprie «mascotte». Adesso basta solo spiegarlo ai marinai francesi. 

MAFIA, PALAZZI E POTERE. Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.

Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avereinfluenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votinoe gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta i retroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.

Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..

Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?

V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…

L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?

V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.

L: Eh certo! (ride)

V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…

L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…

Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.

Questo è il sistema per la nomina dei funzionari pubblici?

BUROCRAZIA. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

Burocrazia, Aforismi e citazioni.

“Burocrazia, ovvero un gigantesco meccanismo azionato da pigmei”. Honoré de Balzac

“Non c’è furia all’inferno che eguagli la rabbia di un burocrate disprezzato”. Milton Friedman

“I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza e il loro orgoglio risiedono nella lealtà verso le regole, non già nella lealtà verso le leggi del cuore umano”. Frich  Fromm

“I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata. . . .”. Franz  Kafka

“Quando il mondo verrà distrutto non sarà ad opera dei pazzi, ma dagli esperti e dai burocrati”. John Le Carré

“Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati”. Herbert  Marcuse

“La burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale è lo spiritualismo dello Stato”. Karl Marx

“La burocrazia tende a diventare una pedantocrazia”. John Stuart  Mill

“Ciò che la gente rifiuta non è la burocrazia come tale, quanto piuttosto l’intrusione di essa in tutte le sfere della vita e delle attività umane”. Ludwig von Mises

“I burocrati sono una malattia. Si suppone che siano necessari, così come si suppone che siano necessarie alla vita certe sostanze chimiche, ma provocano la morte se crescono oltre un certo limite”. Ezra Pound

 “Burocrazia. . . . una difficoltà  per  ogni  soluzione”. Herbert Samuel

“Burocrazia, ovvero l’incapacità addestrata”. Thorstein Veblen

“La burocrazia è tra le strutture sociali più difficili da distruggere”. Max Weber

Burocrati..Dal francese “BUREAUCRATE”, impiegati, funzionari della pubblica amministrazione  che esercitano  le mansioni  con eccesivo  scrupolo . Per estensione, chi è formalista, gretto e rigido, nato soltanto per fare il Burocrate. 〈〈 La vera Casta è rappresentata dagli alti burocrati di Stato, che sopravvivono ai ministri e ai governi mantenendo intatto il loro potere per anni luce…〉〉

5 pareri sui burocrati:

Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile. (Carlo Dossi)

I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza  e il loro orgoglio  risiedono  nella lealtà  verso  le regole, non già  nella  lealtà  verso  le leggi  del cuore umano. (Erich Fromm)

Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati. (Herbert Marcuse)

Non c’è furia all’inferno che uguagli la rabbia di un burocrate disprezzato. (Milton Friedman)

I burocrati sono numerosi come i granelli di sabbia in riva al mare. Con la differenza che la sabbia non prende  lo stipendio. (Ephaim Kishon)

Burocrazia "stalker": la musicista, il barista e il contadino, quelle vite in ostaggio. C'è chi perde il lavoro per una carta bollata e chi deve spostare una maniglia. La semplificazione resta un miraggio, scrive Michele Serra il 20 marzo 2016 su “La Repubblica”. Ognuno ha la sua goccia che fa traboccare il vaso. Per me la goccia è stato il riscatto dell'automobile che avevo preso in leasing: otto (otto!) i documenti richiesti, da spedire per raccomandata, per ribadire che io sono io a chi già mi ha come fedele cliente da cinque anni e di me sa tutto, a cominciare dall'Iban. Per la mia amica musicista la goccia è stata un lavoro saltato in aria perché il Registro provinciale di Qualcosa non aveva mai trasmesso non so quale fondamentale pratica al competente Registro regionale ("Non farmelo spiegare, ti prego: sono esausta"). Per il mio amico barista l'intimazione della Asl di spostare di dieci centimetri (!!) una maniglia non a norma, pena la mancata agibilità del locale. Per il mio amico agricoltore il disperato sforzo di pagare poche ore di lavoro stagionale con i voucher, che dovrebbero essere moneta corrente e sono invece buro-denaro riscuotibile solo dopo code agli sportelli, telefonate ai call center, decifrazione di clausole, scadenze, modifiche di legge...Se c'è una parola che incarna gli inganni della politica (e l'impotenza della politica) questa parola è semplificazione. Una parola-beffa di fronte alla costante lievitazione dei faldoni, delle incombenze, delle compilazioni, degli iter, delle fotocopie, dei solleciti, delle intimazioni, degli ostacoli imprevisti, di quelli prevedibili, dei ritardi, dei rinvii. La supposta transustanziazione elettronica della massa cartacea non ha avuto luogo; e anzi la burocrazia elettronica (avete mai provato a compilare una Fepa, fattura elettronica per la pubblica amministrazione?) spesso si somma a quella tradizionale, è una promessa di liberazione che si rivela un nuovo vincolo, per giunta non facile da padroneggiare ("Per me è come essere obbligato a imparare una lingua straniera a sessant'anni suonati", parola di artigiano obbligato per legge a fornirsi di Pec, posta elettronica certificata). Non so se sia mai stato calcolato quanto costa alla comunità, in termini di ore di lavoro, mattinate perse, giornate scialate alla ricerca di un bandolo, il vero e proprio stalking burocratico al quale siamo sottoposti. Ne sono certo, si tratta di miliardi di euro. E altri miliardi di euro (e migliaia di posti di lavoro) si perdono con la rinuncia di molti aspiranti imprenditori a fronteggiare la montagna orrenda delle adempienze burocratiche: una salita che non ha mai fine, quando credi di essere arrivato in cima la vetta si allontana, conosco chi, pur di farla finita, ha mollato tutto. "Non è solo fatica - mi dice un'amica ex imprenditrice - è proprio umiliazione. È come se qualcuno volesse punirti per avere osato alzare la testa e aprire bottega". "Umiliazione" non è una parola che si usa con leggerezza. Non appartiene alla sfera delle convenienze economiche, del daffare tecnico-amministrativo, della prassi sociale ordinaria. Appartiene alla sensibilità profonda, alla dignità personale, appartiene all'io. Parla di adulti che si sentono trattati come bambini, rimbrottati per una marca da bollo mancante, multati per un abbaino chiuso invece che aperto o viceversa, costretti per qualunque allacciamento o contratto di servizio ad allegare, confermare, dimostrare, comprovare, rispedire, leggere contatori, rileggerli perché i contatori sono pieni di numeri e codici, chissà quali sono quelli giusti... I tagli di personale conducono a un crescente bisogno (delle aziende) di autocertificazione, ma l'autocertificazione è quasi sempre incompleta, da perfezionare e da rispedire. È come se un intero sistema (pubblico, ma anche privato) di vincoli e di accertamenti ricadesse sull'unico soggetto che non è in grado di sottrarsi: il cittadino, il cliente, che si ritrova a essere esattore di se stesso, certificatore dei consumi, lettore di contatori, dichiaratore di redditi, ascoltatore di musichette di attesa, per giunta continuamente sottoposto a un rischio di errore che ricade sempre e solo su di lui. Gli esami non finiscono mai. L'esempio macroscopico e arcinoto è l'impossibilità di presentare la dichiarazione dei redditi senza l'ausilio di un professionista, augurandosi che almeno lui sappia orientarsi nella foresta delle leggi (e successive modifiche). Molte delle quali "da interpretare", sperando che l'interpretazione non sia contestata innescando un nuovo diluvio di raccomandate, ingiunzioni, ricorsi, un nuovo fronte burocratico che si aggiunge ai cento già aperti. Ma ci sono poi decine di micro-esempi, di minute incombenze, di reiterate richieste che compongono una specie di fitta nube perennemente sospesa sulle nostre giornate. Lo stalking burocratico è fatto soprattutto di questa sensazione: che nessuna pratica sia mai veramente chiusa, che il dover certificare ci accompagnerà alla morte e anche oltre. Ricevo ancora oggi una bolletta intestata a mio padre, che è morto nel 2002. Ho pregato di correggere il nome del destinatario, che è stato così aggiornato: Franco Serra, presso Michele Serra. Mi tiene compagnia. Non è per l'esborso di denaro (anche se quello, specie se non si hanno le spalle forti, conta eccome). È soprattutto per il tempo. Il tempo della vita (della nostra vita) che ci urge, ci appartiene, e invece viene sequestrato da code, telefonate, consultazioni, ricerche su internet, compilazioni, richieste di accesso. E i pin, e le password, un mazzo di chiavi virtuali che si ingrossa giorno dopo giorno. Tempo rubato al lavoro e dunque alla produzione di reddito e di idee. Oppure all'ozio, al riposo, al far niente, che sono anch'essi un diritto della persona libera. E non sembri, la liberazione del tempo dalla prigionia burocratica, solamente una rivendicazione "filosofica". Ha anche profonda rilevanza economica. C'è un "nero" di puro malaffare, di sottrazione alla comunità di quanto le è dovuto. Ma c'è un "nero" di pura semplificazione (semplificazione dal basso, visto che dall'alto non ce n'è traccia), che discende dall'enorme difficoltà di stare dentro la regola. Se pagare a qualcuno poche ore di lavoro "in chiaro" comporta non solamente pratiche e contropratiche, ma addirittura l'obbligo di frequentare un corso sulla sicurezza (indipendentemente dal fatto che il lavoratore sia in cima a un'impalcatura, in fondo a un pozzo oppure seduto in ufficio davanti al suo computer), la tentazione di allungargli tre o quattrocento euro brevi manu è inevitabile. Molta economia sommersa (chissà in quale percentuale: ma non piccola) non discende dalla disonestà, ma dall'esasperazione per i troppi ostacoli lungo il cammino che conduce all'onestà. Se l'onestà diventa un campo minato, c'è chi decide di tenersene alla larga. Quanti onesti potenziali sarebbero recuperabili alla causa, in presenza di un vero processo di semplificazione delle leggi e della burocrazia? Per buttarla in politica: sappiamo tutti che le regole devono esserci, e spesso le regole sono seccature. Ma se le regole sono poche e chiare ci si adegua, e chi non si adegua è un fuorilegge e basta. Se invece le regole sono milioni, e incerte, e per essere rispettate chiedono di essere decifrate, risolte come un rebus, affrontate come un esercito nemico, e mettersi in regola diventa un traguardo continuamente spostato in avanti, allora il gioco cambia. E anche a un legalitario/statalista come me a volte capita, di notte, quando non riesco a prendere sonno perché temo di avere compilato male un modulo, o di essere in mora con un ente di bonifica, di guardare con occhi sognanti quei documentari sulle famiglie pazzoidi che fuggono in Alaska, nel profondo delle foreste, là dove non esiste catasto e non esiste anagrafe. Costruiscono una capanna di tronchi e vivono di pesca e di caccia, spariti al mondo e restituiti al mondo.

Regolamento edilizio, una Babele. Più facile scrivere la Costituzione. Nulla di fatto dopo 21 mesi, per approvare la Carta ne bastarono 18. I ritardi nell’elaborazione del testo, previsto dalla legge Sblocca Italia sulla semplificazione, che dovrebbe unificare le norme in uso in ciascuno degli 8 mila Comuni italiani, scrive Sergio Rizzo il 26 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Dice tutto, a proposito della deriva imboccata dalla burocrazia made in Italy, un paragone. In 18 mesi, settant’anni fa, abbiamo fatto la Costituzione; in 21, oggi, non siamo in grado di scrivere nemmeno un regolamento edilizio uguale per tutti i Comuni italiani. Altri tempi, certo. Ma anche altra classe dirigente. La Carta costituzionale fu scritta dall’Assemblea costituente, che con tempi contingentati e una volontà di ferro riuscì a superare barriere ideologiche apparentemente insormontabili. La redazione del regolamento edilizio unico, previsto dalla legge Sblocca Italia, è invece affidata a un pool di burocrati tanto eterogenei quanto litigiosi, e siamo adesso appena all’elenco delle cosiddette «definizioni uniformi». Per capirci: si sono messi finalmente d’accordo sulle parole, convenendo che il «sottotetto» è «lo spazio compreso tra l’intradosso della copertura dell’edificio e l’estradosso del solaio del piano sottostante». Oppure che un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» si identifica con il termine «veranda». E non è stata una passeggiata. Sul concetto di superficie, per esempio, la Regione Lombardia ha piantato una grana tale che alla fine di definizioni ne sono venute fuori ben sei: superficie lorda, totale, complessiva, utile, calpestabile e accessoria. Dove, per avere un’idea dell’imbuto in cui i burocrati incaricati di semplificare si sono infilati, la differenza fra «totale» e «complessiva», parole che a prima vista sembrerebbero indicare la stessa cosa, è che la seconda è la somma della superficie «utile» (differente da quella «calpestabile», ovvio) più il 60 per cento di quella «accessoria». Il regolamento edilizio unico comunale, previsto dalla cosiddetta legge Sblocca Italia approvata dal Parlamento l’11 novembre 2014, potrebbe rappresentare un’autentica rivoluzione mettendo fine una volta per tutte al dedalo incredibile di norme locali in un Paese dove ognuno degli oltre ottomila Comuni ha proprie regole per stabilire come si tirano sui muri, quanto può essere grande una stanza da letto o un cortile, come si deve calcolare la grandezza di un ambiente. Con prescrizioni surreali. A Lamezia le porcilaie non possono essere costruite a meno di 30 metri dalle abitazioni. A Catanzaro è obbligatorio depositare le tinte in cantiere prima della verniciatura per consentire la verifica della rispondenza al progetto. A Bologna tollerano un’eccedenza costruttiva del 2 per cento rispetto al progetto; a Pescara del 3 per cento: a Lucca quattro centimetri per lunghezze da otto centimetri a due metri; a Firenze 10 centimetri rispetto alla scala 1:100. A Fiumicino è possibile fare i cortili solo nei condomini non popolari. Mentre a Piacenza è tassativo prevedere uno spazio di 30 metri quadrati per i giochi dei bambini ogni nove alloggi... Ventuno mesi, dicevamo, ci sono voluti solo per stabilire come chiamare le cose. Ora si è arrivati all’intesa sulle definizioni, che fa «auspicare» alla ministra della Semplificazione e della Pubblica amministrazione Marianna Madia «che lo schema tipo» del regolamento edilizio «si concluda rapidamente». Auguri. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, come dimostra il caso surreale delle sei definizioni di superficie, è d’obbligo incrociare le dita. Non sfugge affatto la complessità della questione. Né che non si può evitare, in casi come questi, di ascoltare tutte le campane. Il problema però è di fondo: ogni volta che si vuole fare una riforma si commette sempre il medesimo errore. Quello di farla fare ai burocrati. Perché affidare a loro il compito di riformare se stessi è come chiedere al tacchino di organizzare il pranzo di Natale. Ogni semplificazione vera toglie inevitabilmente a una burocrazia congegnata come la nostra (malissimo) un pezzetto di potere: il rischio è dunque che le semplificazioni non procedano o che dietro una semplificazione si nasconda in realtà una nuova complicazione. Tanto più vero, questo, se la riforma riguarda temi sui quali si intrecciano competenze di più burocrazie. In questo caso specifico le burocrazie statali, regionali e comunali. Un delirio di interessi contrapposti ben rappresentati nel pool incaricato di sciogliere i nodi del regolamento edilizio unico. Il bello è che tutto questo meccanismo infernale rientra nell’agenda governativa battezzata, pensate un po’, «Italia Semplice». Gli ottimisti che l’hanno congegnato hanno scritto nel sito ufficiale che doveva essere tutto finito «entro novembre 2015».

La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili 21 mag 2014 di Paolo Bracalini (Autore). C'è il ristoratore multato per aver servito troppi spaghetti. Ci sono le 118 procedure da compilare per legge se si vuole aprire un'attività da estetista. C'è la famigerata "tassa sull'ombra", dovuta allo Stato per l'ombra che le tende dei negozi proiettano sul suolo pubblico, e la dichiarazione "peli di foca" per chi esporta un prodotto. C'è Equitalia con il suo "aggio", l'interesse praticato sulle temibili cartelle esattoriali, e le sue vittime. E poi l'Agenzia delle entrate con i premi per chi tartassa di più (spesso a torto). Ogni anno la burocrazia italiana costa 31 miliardi di euro: due punti di Pil persi in scartoffie e pratiche inutili. Si può dire che tutto manchi all'Italia, tranne le regole. Al contrario, i proverbiali lacci e lacciuoli, il groviglio di leggi - statali, regionali, provinciali, comunali - è così intricato che la giungla normativa italiana non ha paragoni in Europa e contribuisce all'indebolimento dei diritti dei "sudditi". I "mandarini", invece, comandano nell'ombra, con un potere enorme: nei ministeri, nella Ragioneria di Stato, nelle segrete stanze del Tesoro e del Quirinale, ma anche nei Tar che paralizzano il Paese. Paolo Bracalini ci guida nel mastodontico intreccio della burocrazia italiana con un'inchiesta che è anche un pugno allo stomaco: storie vere, testimonianze, documenti, cifre e resoconti di una follia tutta nostrana... Prefazione di Edward N. Luttwak.

Libri, la Repubblica dei Mandarini: lo Stato non siamo noi, scrive Giacomo Zucco il 3 giugno 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. “Lo Stato siamo noi? No, sono loro!”. Queste sono le prime parole che ho potuto leggere aprendo il nuovo libro di Paolo Bracalini, “La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell’Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili”. E per un teapartysta è come un invito a nozze. Da quattro anni, ormai, andiamo ripetendo che lo Stato è altro da noi, perché se fossimo davvero noi, citando un amico, allora di certo ci tratteremmo meglio (pensateci: se noi fossimo lo Stato non ci ammazzeremmo a colpi di tasse, non ci complicheremmo la vita con tutta questa burocrazia, non faremmo di tutto per far fallire le nostre aziende, non ci metteremmo Equitalia alle calcagna)! Se a ciò aggiungiamo che nella prefazione il professor Luttwak cita direttamente i nostri cugini americani, riconoscendo i meriti delle loro battaglie, ecco che questo libro-inchiesta si va a posizionare automaticamente nella biblioteca degli attivisti del movimento. Scrive Luttwak (forse con un piccolo eccesso di ottimismo verso l’attuale situazione politica ed economica americana) che “il movimento dei Tea Party ha giocato un ruolo fondamentale in Usa permettendo di raggiungere un livello di crescita, superiore a quello italiano del 250%, con relativo crollo della disoccupazione, semplicemente tagliando la spesa pubblica. Democratici e repubblicani hanno fatto proprie le idee del Tea Party: se si licenziano 100 dipendenti pubblici e si tagliano le tasse, con il risparmio la disoccupazione non aumenta di 100, ma diminuisce di 300”. E conclude: “Il libro di Bracalini non è mera protesta. Offre l’unica soluzione possibile: tagliare lo Stato”. Ad ufficializzare questa vicinanza tra il libro e le idee del movimento, Tea Party Italia a partire dal 20 giugno inizierà un tour di presentazione del libro in diverse città della penisola (similmente a quanto già fatto con il precedente best seller di Bracalini: “Partiti S.p.a.”), in compagnia dell’autore e di Nicolò Petrali, un giovane e bravo giornalista che ha collaborato alla stesura dell’opera. Non vorrei comunque si pensasse che “La repubblica dei mandarini” sia una lettura consigliabile solo per chi ha delle idee simili alle nostre. Anzi, oserei dire che è proprio il contrario. Un antistatalista convinto, infatti, può solo “divertirsi” a vedere come, pagina dopo pagina e di capitolo in capitolo, le sue idee di partenza vengono confermate. Può scoprire nuovi dettagli e curiosità con un sorriso amaro stampato sul volto, crogiolandosi comunque in quello che è il suo habitat naturale. Al contrario, proprio gli statalisti (ovvero coloro che costituiscono purtroppo la gran parte della società italiana) potrebbero ricavare il miglior beneficio dall’approccio a questo libro. Perché per una volta ascolterebbero una musica diversa dal solito e una voce fuori dal coro. Il mio “consiglio alla lettura” si rivolge allora soprattutto a questi ultimi: se davvero siete così superstiziosi da credere che “lo Stato siamo noi”, che “se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero meno”, che “se l’Italia è in difficoltà è colpa dell’evasione fiscale”, affrettatevi a leggerlo: potreste scoprire qualcosa.

BENVENUTI NELLA REPUBBLICA DEI MANDARINI - NEL NOSTRO PAESE LA VERA CASTA E' RAPPRESENTATA DAI BUROCRATI. E' PER QUESTO CHE E' ARDUO SE NON IMPOSSIBILE CAMBIARE VERAMENTE LE COSE IN ITALIA. Come racconta Bracalini, Bassanini, presidente della Cdp, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione verso le imprese private. Ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto…Testo tratto dal libro di Paolo Bracalini, giornalista del Giornale, "La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili" (Marsilio, 198 pagine, 14 euro), in libreria da pochi giorni. Da "il Foglio". Ispettorato generale del bilancio della Ragioneria dello Stato. Mai sentito nominare? Probabilmente no. Eppure è l'ufficio che governa la spesa pubblica italiana, un enorme centro di potere al riparo da sguardi indiscreti, nella penombra in cui ama stare la grande burocrazia italiana, quel "mandarinato" pubblico che è il vero governo occulto del paese.  "Ho fatto quattro volte il ministro e qualsiasi cosa tu possa scrivere per denunciare quanto contano queste persone sarà sempre una parte infinitesimale della realtà. Lo stato sono loro e la Repubblica è appesa alle loro decisioni", racconta Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture, parlando dei superburocrati che decidono tutto nei ministeri. "Nel 2001 nominai capo di gabinetto ai Lavori pubblici un professore, Paolo Togni, e la Corte dei conti rifiutò di registrarlo perché, dissero, non aveva i titoli. Chiesi allora che titoli servissero. Muta risposta. Ma nel silenzio fecero pressioni su Palazzo Chigi per far nominare uno dei loro: un magistrato contabile o uno del Consiglio di Stato o uno del Tar". Ci volle un mese perché Togni fosse messo nelle condizioni di ricoprire l'incarico. Ma non sempre si vince il braccio di ferro con la burocrazia ministeriale, più spesso sono loro a trionfare. "Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia", spiega l'economista Francesco Giavazzi. "Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l'interesse a mantenerlo". Giavazzi ha imputato alla scelta di mantenere al loro posto, "quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri", il vero motivo dell'insuccesso di Mario Monti nel taglio alla spesa pubblica. Ma il professore ricorda come questo problema sia una costante per i ministri. Anche quelli più lontani dall'apparato burocratico pubblico finiscono inevitabilmente per sbatterci la testa. Successe a Giancarlo Pagliarini, primo ministro delle Finanze della Lega Nord, nel 1994. Un marziano a Roma, un fiscalista del Nord che mai aveva avuto a che fare con quel mondo. Al suo primo giorno di lavoro Pagliarini si trovò di fronte un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile: "Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno". Inutile dire chi, tra la Ragioneria e Pagliarini, ha vinto la battaglia. L'ex ministro del Bilancio leghista ricorda perfettamente l'enorme potere di interdizione della burocrazia ministeriale. "Prendiamo come esempio la legge più importante che approva il governo", spiega Pagliarini, "e cioè la legge finanziaria. Negli ultimi anni la legge finanziaria è sempre passata con il maxiemendamento. Bene, il Parlamento lo approva di fatto senza averlo letto. Ma non l'ha letto perché non è scritto. Sì, ci sono dei punti generali, ma poi sono i burocrati che lo scrivono due o tre mesi dopo l'approvazione. E quindi come si fa a sapere come lo scrivono? In sostanza il testo che tu approvi, magari come ministro, quindi anche con delle responsabilità importanti, non lo leggi nemmeno perché non c'è, non esiste ancora". E a proposito delle sorprese che i burocrati possono riservare nell'implementare una legge, ecco che Pagliarini ci porta un esempio davvero sconcertante. "Quando si parla di burocrazia amo raccontare la storia dei Giochi del Mediterraneo di Bari. Ecco come è andata: il giorno prima del Consiglio dei ministri va in scena il preconsiglio dei ministri. Al preconsiglio ci vanno i vari capi di gabinetto che discutono e poi tornano dal ministro e gli riferiscono i risultati dell'incontro. Quindi vengono da me e mi dicono che ci sarebbero queste venti leggi da approvare e che mi consigliano di farlo poiché ci sono dei problemi da approfondire l'indomani. Il problema principale è che la destra vorrebbe 5 miliardi di lire per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari. Al che mi dicono che è inutile far casino per 5 miliardi, anche perché, se il ministro si dovesse impuntare su ogni singola voce di spesa, non se la caverebbe più e che quindi sarebbe consigliato concederglieli. Il giorno dopo la prassi vuole che si approvino le voci non problematiche, si leggano solo i titoli e si approvino. C'è una cartellina con i documenti, ma di solito non si guarda mai. Bene, io quel giorno per curiosità la guardo e cosa scopro? Una cosa incredibile! Mi avevano detto 5 miliardi, ma qualcuno di notte aveva aggiunto uno zero ed erano diventati 50! E la frase non era più... "per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari", ma... "per consentire l'inizio dei Giochi del Mediterraneo di Bari". Io di queste cose ho le fotocopie a casa. Così funziona la burocrazia. E i giochi di Bari, dovete moltiplicarli per mille. Qualcuno negli uffici, a livello amministrativo cambia le carte in tavola! Loro sono consapevoli che nemmeno il Padre Eterno riuscirebbe a leggere sempre tutta la documentazione e se ne approfittano. Sanno che il linguaggio burocratico lo capiscono solo loro e che il politico è sostanzialmente obbligato ad approvare anche per via di pressioni esterne. Perché, per esempio, a me dicevano che bisognava approvare entro una certa scadenza sennò scattava l'esercizio provvisorio". Un po' più ottimista è invece Adriano Teso, sottosegretario del ministero del Lavoro e della previdenza sociale nel 1994. Uno che, con il ruolo che aveva, di magagne burocratiche ne ha viste parecchie. "Hai il potere di cambiare tutto", ha spiegato Teso, "se porti in Parlamento politici di una certa pasta. Ci vuole etica e capacità. Certo che se parti con politici con etica e capacità discutibili, il risultato è scarso. Pensate che io avevo addirittura portato nel mio gabinetto una mia persona per controllare i testi di legge perché capita che i tuoi dirigenti ti preparino delle leggi diverse rispetto a quelle che tu dicevi che dovevano essere fatte. E vi assicuro che sono degli artisti in questo, con il loro linguaggio criptico (come da decreto, rinviato al, la legge del... ecc.). E se un giorno ti impunti e dici di non voler firmare più niente e che vuoi vedere le carte, ti arrivano carrelli di roba alti un metro e mezzo per leggi anche di una pagina. Secondo me", prosegue, "esistono due aspetti di questa burocrazia deleteria. Uno che parte dal legislativo, perché hai un'infinità di leggi che poi, per gestirle e implementarle, ti portano per forza a un eccesso di burocrazia. Non per niente nel nostro paese c'è un eccesso legislativo. Abbiamo un impianto legislativo senza paragoni nel mondo. Poi c'è la parte organizzativa della burocrazia e quello è un processo interno dei burocrati. In più c'è anche un discorso di buona fede. Perché spesso la burocrazia non è allineata con gli obiettivi della legge, ma con obiettivi propri". A detta di Sabino Cassese, invece, il sabotaggio burocratico è una prassi. "Ricordo che Andreotti si portò come capo di gabinetto a Palazzo Chigi l'ex ragioniere generale Milazzo, e non c'è dubbio che Milazzo avesse un potere enorme", racconta Cassese intervistato da Andrea Cangini sul "Quotidiano Nazionale". "Persino Stammati, ministro del Tesoro ed ex ragioniere a sua volta, faticava a farsi ascoltare. Il fenomeno del sabotaggio burocratico è stato ampiamente studiato, accade quando le burocrazie si sostituiscono al potere politico e decidono cosa fare e quando farlo. Ricordo il caso di un noto capo di gabinetto contrario a certi cambiamenti nell'amministrazione previsti da una legge appena varata. Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge. L'Italia è caratterizzata dal fatto che i governi o durano poco, o hanno una scarsa coesione e una modesta capacità di leadership, o entrambe le cose contemporaneamente. Tutto ciò, unito all'incultura e all'inesperienza di certi ministri, fa sì che si formino sacche di amministrazione che vanno in direzione diversa da quella voluta dalla politica". La precarietà dei ministri, in confronto all'eternità dei burocrati, rende questi ultimi spesso molto più potenti dei politici, trattati con sufficienza dai mandarini di Stato che sanno di essere più forti. L'oscurità e la complessità delle leggi, invece, è fatta apposta per perpetuare il potere della casta burocratica. "I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili", dice a Cangini un ex ministro che vuole restare anonimo. Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti, la cassaforte finanziaria del paese, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione italiana verso le imprese private, ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto. La soluzione era una semplice cartolarizzazione: i debiti, garantiti dallo Stato, vengono trasferiti dalle imprese alle banche, che liquidano immediatamente le imprese immettendo così miliardi nell'economia. Poi lo Stato garantisce, attraverso la Cassa depositi e prestiti, che le banche vengano rimborsate dalla Pa, con un piano di rientro distribuito in un arco di più anni. "Le banche italiane avrebbero comprato volentieri i 90 miliardi di euro di debiti garantiti dallo Stato", racconta Bassanini, intervistato da Alan Friedman. "Sarebbe stata un'operazione virtuosa che immetteva in un colpo solo 60-70 miliardi nell'economia italiana e dava benzina all'economia, senza incidere sul deficit neanche dello zero per cento". Le imprese verrebbero pagate subito (dalle banche), lo Stato potrebbe ripagare i debiti nel tempo, mentre le banche avrebbero la convenienza di poter compensare i propri crediti con le imprese. Tutti contenti, dunque. La Spagna lo ha fatto e ha funzionato, nel Parlamento italiano, poi, c'era la maggioranza pronta a votare il piano Bassanini. E allora, come mai non si è fatto? "C'è stata una forte resistenza burocratica... In questo caso specifico la tesi (dei vertici del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato) era che l'Europa non ce lo avrebbe permesso. La burocrazia italiana, tanto più quando è preparata e forte, spesso usa l'Europa come pretesto per non fare le cose che non vuole si facciano. Ci sono diverse cose che servirebbero alla crescita del paese e che trovano resistenze non politiche ma burocratiche". La vera casta sono i burocrati. Per questo è arduo, se non impossibile, cambiare veramente, in Italia. Prova ne sia il documento di "passaggio di consegne" affidato dal ministro dell'Economia uscente, Fabrizio Saccomanni, a quello entrante, Pier Carlo Padoan. Ventisei fogli A3, meticolosamente annotati, che illustrano la bellezza di 465 fra decreti e regolamenti previsti dalle riforme dei governi Letta e Monti, ancora da attuare, alcuni fermi da due anni. Su quel macigno di leggi immobili i funzionari dei ministeri spesso specificano: "L'attuazione (del decreto per una piattaforma elettronica per i debiti Pa, ndr) presenta oggettive difficoltà attuative". "Per un altro decreto", scrive Fabrizio Forquet sul "Sole 24 Ore", "l'annotazione a uso interno è la fotografia dello stallo burocratico: "Sollecitata Rgs da Ulf, ufficio legislativo Finanze (nota 1418 del 10 febbraio). Il Dipto Finanze concorda con l'Ag. Entrate riguardo all'opportunità di abrogare la disposizione. Anche Rgs è d'accordo. Evidenziate dagli Uffici (Ag. Entrate, Dipto Finanze, Rgs) difficoltà applicative all'adozione del decreto. Opportuna abrogazione della disposizione"". Il responso, riportato nella colonna a fianco, è inesorabile: "Non attuabile". Il sigillo dell'alta burocrazia gattopardesca italiana: riscrivere tutto, perché nulla cambi. Chi comanda nei ministeri Ci racconta un ex ministro della Giustizia di lungo corso che preferisce restare anonimo: "La legge Bassanini che ha riformato la pubblica amministrazione divide nettamente la classe politica da quella amministrativa. Il ministro può soltanto dare gli indirizzi di natura generale e politica, tutto il resto lo fa l'amministrazione del suo ministero, al punto che ormai gli atti che firma il ministro sono quasi soltanto di natura formale, mentre quelli attuativi sono in mano all'amministrazione. Faccio un esempio. Un ministro non firmerà mai una gara d'appalto o un affidamento, queste pratiche competono tutte all'amministrazione. La conseguenza è che quando sei lì, ti trovi dentro un macchinone immenso, quello del tuo dicastero, e qui c'è già il primo problema. Lei pensi che al ministero della Giustizia avevo sotto di me 120 mila dipendenti, il ministro dell'Istruzione ne ha un milione... Con queste dimensioni significa che il ministero è diviso in una serie di dipartimenti che gestiscono realtà enormi, con molti capitoli di spesa e con i funzionari che fanno passare i soldi da una parte all'altra senza che il ministro possa controllare nulla. Come la storia degli esodati della Fornero. E' chiaro che le hanno dato delle cifre sbagliate i suoi funzionari... Un ministero è un macchinone gigantesco, il ministro non sa tutto, anzi spesso sa poco. Pensi che a me avevano messo una centrale di ascolto al ministero senza dirmi nulla. I funzionari tendono a ragionar così: tu fai il ministro, ma le cose importanti le decidiamo noi, i capi dipartimento. Una figura strapotente al ministero della Giustizia è il capo del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Gestisce un budget di 5 miliardi di euro su 7 totali del ministero, 50 mila poliziotti della penitenziaria. Immagini il potere che ha. Poi molto dipende anche dalla personalità dei vari ministri. Con un ministro debole i burocrati hanno uno spazio di intervento enorme... Naturalmente se sei esperto della materia puoi in qualche modo capire cosa sta succedendo nel tuo ministero. Bisogna stare molto attenti alle cifre che ti vengono date dall'apparato". Caso tipico è al ministero delle Infrastrutture. "Il nostro problema", ha spiegato al Fatto Quotidiano Alessandro Fusacchia, ex consigliere per la diplomazia economica alla Farnesina, "è fondamentalmente l'incertezza giuridica. Abbiamo migliaia di leggi e leggine che insistono sullo stesso argomento, per esempio il lavoro, e nessuno sa esattamente quali siano le regole. In questo modo nessuno si assume dei rischi e tutto diventa lentissimo". In questo caos acquista potere la casta dei giuristi di Stato, dei capi di gabinetto e degli uffici legislativi. "Stiamo parlando di circa 50 persone che controllano l'essenziale ", ha detto Fusacchia. la ragioneria (di Stato) ha sempre ragione Ma non ci sono soltanto i grandi boiardi dei ministeri: capi di gabinetto, capi di dipartimenti, esperti legislativi, consiglieri. Ci sono anche organismi terzi, composti da tecnici o da magistrati, che contano moltissimo sull'attuazione (e soprattutto sulla non attuazione) di riforme, leggi e decisioni politiche. Uno di questi è il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica. "I ministeri di spesa passano tutti dal Cipe. Le spese per l'edilizia scolastica, le infrastrutture, i fondi per l'industria, la banda larga, passa tutto da lì. E' composto dai ministri, ma anche dalla Ragioneria generale dello Stato che ha un enorme potere di veto. Se non vedono che dal punto di vista finanziario è tutto a posto, non ti danno il benestare. Se non c'è la famosa bollinatura, la bollinatura della Ragioneria, non passa niente. Allora non è più soltanto una questione tecnica, ma anche politica, perché se si decide che un'opera non va bene, non si farà mai. E capita spessissimo". Le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria a ogni provvedimento di spesa, "vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella "visione" politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte "politiche" diverse", racconta un ex ministro diessino che vuole restare anonimo. L'ha sperimentato sulla propria pelle l'ex senatore Mario Baldassarri, che da presidente della commissione finanze provò a metter mano a quella parte di spesa pubblica, per acquisto beni e servizi (40 miliardi l'anno), che fa capo alle grandi burocrazie ministeriali. L'emendamento non piaceva al capo del legislativo dell'economia e alla Ragioneria generale dello Stato, che non gli diede la "bollinatura". Lui andò avanti, finché alcuni compagni di partito gli dissero di aver ricevuto una telefonataccia da un importante direttore generale di ministero che consigliava di ritirare quell'emendamento. Baldassarri si infuriò, minacciò di chiamare l'autorità costituita e di denunciare il ragioniere generale dello Stato per "palesi falsi e giudizi politici". Ma alla fine tutto fu insabbiato.

Dio perdona, la burocrazia no. Le pratiche burocratiche richiedono 269 ore all'anno per impresa, con un costo complessivo di 31 miliardi. I costruttori attendono 231 giorni per un permesso edilizio. A Milano servono 23 autorizzazioni diverse per organizzare un evento. Viaggio nel girone infernale italico..., scrive Matteo Borghi su “L’Intraprendente”. Hyman Rickover, il pioniere della propulsione atomica navale, diceva che “se proprio devi peccare pecca contro Dio, non contro la burocrazia. Dio perdona, la burocrazia no”. Ed in effetti, a vedere alcuni casi, pare che il nostro ammiraglio non avesse torto. Emblematica è quella storia, che abbiamo raccontato tempo fa, di un signore che – per non aver versato un centesimo – si è visto recapitare una multa cinquemila volte più alta. La burocrazia non ammette ignoranza, sbadataggine, errore umano ma pretende inflessibile a ogni logica di buonsenso, il rispetto formale di passaggi che in molti casi sono quasi impossibili da attuare. Giusto per fare un esempio fino a pochi mesi fa ci volevano ben 23 autorizzazioni per creare un evento culturale a Milano. Che non vuol dire 23 fogli ma 23 (ven-ti-tré) procedure burocratiche autonome: una molte tanto ingente che lo stesso Comune ha ammesso che, qualche volta, qualcuno saltava qualche passaggio. Ed è drammatico pensare come le code burocratiche si allunghino sempre di più. Ancora più alto e dannoso è il costo della burocrazia per le imprese. Secondo il Centro Studi Impresa Lavoro le pratiche burocratiche richiedono 269 ore l’anno con un costo medio ad impresa di 7.559 euro. Secondo un calcolo della Cgia di Mestre alle imprese la burocrazia costa ogni anno 31 miliardi di euro, che portano la pressione fiscale complessiva a 248,8 miliardi. Insomma si tratta di un vero e proprio peso insostenibile, destinato a schiacciare sotto di sé qualsiasi ipotesi di ripresa. “Se teniamo conto – si chiedeva il compianto Giuseppe Bortolussi – che il carico fiscale sugli utili di una impresa italiana ha raggiunto il 68,6%, contro una media presente in Germania del 48,2%, c’è da chiedersi come facciano i nostri imprenditori a reggere ancora il confronto. Per questo bisogna dire basta ad un fisco opprimente e ad una burocrazia ottusa. Lavorare in queste condizioni costringe gli imprenditori italiani a trasformarsi quotidianamente in piccoli eroi: questo non deve più accadere”. Ne sanno qualcosa i numerosi costruttori che devono attendere, di media, 231 giorni (con un costo che può arrivare fino a 64 mila e 700 euro) per un permesso edilizio: in Germania bastano 97 giorni, 99 a Londra, 182 a Madrid dove però il costo medio per avere il via libera a costruire è di appena 12 mila euro, ovvero ben meno di un quinto dell’Italia. E ne sa ancora di più il patron di Esselunga Bernardo Caprotti che ha dovuto attendere dal 1971 al 2014 per costruire un supermercato in un terreno di sua proprietà a Firenze. Per 43 anni politici e burocrati si sono infatti opposti a qualsiasi ipotesi di costruzione del suo polo commerciale, accampando scuse che secondo alcuni nascondevano – in realtà – un sostegno indiretto all’avversaria Coop. Sì perché se c’è una caratteristica della burocrazia è l’asimmetria: pretende molto dagli noi, ma troppo poco da se stessa. Ci considera, più che come cittadini, come sudditi.

IL LEVIATANO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E BUROCRAZIA. IL BILANCIO DEVE ESSERE EQUILIBRATO, IL TESORO RIPIANATO, IL DEBITO PUBBLICO RIDOTTO, L’ARROGANZA DELLA BUROCRAZIA MODERATA E CONTROLLATA, E L’ASSISTENZA ALLE NAZIONI ESTERE TAGLIATA, PER FAR SÌ CHE ROMA NON VADA IN BANCAROTTA. CICERONE

Quanto sono ancora attuali le parole di Cicerone? Si continua ancora oggi a parlare di semplificazioni e ammodernamenti della burocrazia in Italia ed, anche se qualche passo avanti è stato fatto, è evidente che ancora molto ci sia da fare. Il problema è che per saper organizzare in modo efficace il “da farsi” e per assumere i giusti provvedimenti è in primo luogo necessario conoscere a fondo i meccanismi e la dinamica con la quale vengono elaborati ed emanati gli atti amministrativi che fanno capo ai tanti adempimenti burocratici. In pratica per incidere concretamente sulla macchina burocratica è fondamentale capire come funziona cosa che non mi risulta sia poi così diffusa. Si mettono così in moto processi di modifica di questo o quello spezzone di attività, ma se non si ha una vera visione d’insieme si rischia di aggiungere alle carenze già esistenti ulteriori danni. E non basta sbandierare il termine “digitalizzazione” per riuscire a smuovere apparati ormai vecchi e superati, modi di lavorare anacronistici, approcci ai problemi farraginosi e complicati, alla fine può anche succedere che riusciamo a digitalizzare tutta una branca di attività, ma poi siamo costretti a conservare negli uffici e negli archivi pubblici moli sempre crescenti di materiale cartaceo, perché le regole che sottostanno al processo di digitalizzazione che abbiamo creato sono talmente complicate ed incomprensibili che i nostri interlocutori non ci capiscono nulla, sbagliano, si perdono ed allora meglio far consegnare loro ancora tanta e tanta carta. Inoltre manca la connessione tra archivi e sistemi informativi che il più delle volte non sono in grado di dialogare tra di loro perché ciascun Ente ha scelto in autonomia senza considerare l’interconnessione dei sistemi, e si è venuta a determinare così una sorta di moderna babele telematica. Quante volte si assiste allo sbandieramento da parte del politico di turno del provvedimento risolutivo per la semplificazione amministrativa? Che fine fanno poi queste iniziative? Restano per lo più semplicemente lettera morta perché manca il decreto attuativo, manca la circolare interpretativa, una qualche sentenza ne inficia l’efficacia: il tutto si perde nelle nebbie di qualche Ministero preposto alla cosiddetta semplificazione …

MARX HA CONFUSO UNA DITTATURA DELLA GIUSTIZIA CON LA DITTATURA DEI BUROCRATI. HERBERT MARCUSE

Come scriveva Marcuse analizzando la filosofia di Marx si corre il rischio di creare una vera e propria “dittatura dei burocrati”, una dittatura ancor più pervasiva e invadente, ma soprattutto insidiosa perché nascondendosi dietro a moduli farraginosi e carta bollata in triplice copia costringe comunque l’individuo a sottostare alla sua potenza egemone. La “dittatura dei burocrati” risulterebbe così la dittatura più compiuta, si trasforma uno strumento amministrativo che dovrebbe servire alla parificazione degli individui di fronte allo Stato in uno strumento costrittivo dove i ceppi e le catene sono fatti di autorizzazioni, protocolli e commi. Per riuscire a modificare davvero le cose come si è già detto si richiederebbe innanzitutto una conoscenza approfondita di ciò che si intende modificare, ma la “macchina” della Pubblica Amministrazione è in realtà un moloch che pochissimi conoscono a fondo, ed inoltre è qualcosa che nel tempo si è talmente resa complicata da sortire l’effetto di “bloccare” e “paralizzare” a volte perfino chi ci lavora all’interno e che magari per primo avverte la necessità di un cambiamento davvero radicale. Così questo mastodonte in Italia incombe sulle nostre vite, per rendercele ogni giorno più difficili con qualche cavillo, o con qualche nuova regola, stare dietro a tutto, e questo secondo quanto affermano persone molto preparate in campo giuridico, diventa un’impresa che non ha mai termine e quel che è peggio che non consente neanche brevi momenti di pausa, una tregua per prendere come si dice almeno un po’ di fiato. Lo Stato Leviatano di Hobbes è tra noi, ci sovrasta ogni giorno, ci costringe forzosamente in fila, ci cataloga, si nutre del nostro tempo. La complessità del Leviatano lo rende intangibile all’azione del singolo cittadino che si trova ad essere in balia della “macchina” burocratica. Quante volte abbiamo la sensazione di essere assolutamente impotenti? C’è da chiedersi se tutta questa complessità è veramente indispensabile per garantire la legalità e la legittimità delle azioni, o è un modo per garantirsi una sorta di potere sui cittadini e quel che è peggio per favorire chi, e purtroppo le cronache di questi giorni ce ne hanno parlato a lungo, intende nascondere propri personali obiettivi e raggiungere finalità che vadano a proprio vantaggio e non certo della cittadinanza? Orwell in 1984 ci ha mostrato come Il Partito con la sua macchina statale persegua questa seconda finalità, siamo davvero sicuri di non vivere in una realtà del genere? Forse il Grande Fratello si è concretizzato non sottoforma di persona, ma di macchina statale impersonale? C’è quindi ancora molto da fare, la strada da percorrere è purtroppo ancora molto lunga, ma c’è poi davvero la volontà di cambiare le cose da parte di chi lo può fare? E l’apparato burocratico da parte sua è effettivamente disponibile a consentire questo cambiamento e a parteciparvi o, a sua volta, funge da freno per rallentare il tutto? Il problema è che la burocrazia è sempre più autoreferenziale in quanto lavora in prevalenza solo per giustificare se stessa. Ad esempio la P.A. non dovrebbe chiedere ai cittadini degli adempimenti che già potrebbe benissimo gestire in base alle informazioni di cui è già a conoscenza. Un caso emblematico è rappresentato in questi giorni da IMU e TASI, per le quali si chiedono calcoli complicati e compilazione di moduli quando i dati per i versamenti sono già in possesso dell’Agenzia delle Entrate. Mi chiedo perché se già altri paesi europei riescono a funzionare benissimo nel campo della Pubblica Amministrazione e potrebbero fornirci, in base alla strada da loro tracciata, degli spunti utilissimi, non si riesca neppure a cogliere questi stimoli e tutto in Italia debba essere sempre così ripetitivo e pesante. La Pubblica Amministrazione dovrebbe essere uno dei settori maggiormente gratificanti per quanti vi lavorano, perché nulla può essere più appagante dello svolgere un’attività sapendo che quello che si fa sarà utile, inciderà positivamente e migliorerà la vita dei cittadini. Invece in Italia pare essere una delle attività più frustranti per quanti vi operano ed anche una delle attività che “ingrigiscono” e fanno perdere entusiasmo ai lavoratori. Allora evidentemente c’è per forza molto da cambiare, e non basteranno riforme limitate ad alcuni spezzoni per riuscire a modificare in meglio il tutto. Deve radicalmente cambiare poi l’approccio che l’apparato pubblico ha con il cittadino, perché in un ufficio pubblico è davvero difficile non sentirsi a disagio, questo ancora di più se si è anziani, disabili, o se si è in possesso di pochi strumenti derivanti dall’istruzione scolastica. Il linguaggio usato da quanti vi lavorano è spesso poco semplice e comprensibile, se si chiedono delle spiegazioni la disponibilità a darla è molto scarsa e se comunque le spiegazioni vengono date lo si fa purtroppo spesso con atteggiamento di superiorità e fastidio nei confronti dell’interlocutore che si è macchiato della colpa di non aver capito. Per non parlare della quantità di moduli, prospetti, caselle ecc. che si è costretti a compilare per ottenere qualcosa che ci spetta ed a cui avremmo diritto di avere molto più semplicemente accesso. Non voglio che questo mio intervento venga letto però come un susseguirsi di lamentele, penso solo che se riusciamo a comprendere dove si enucleano le criticità forse, se sul serio vi sarà da parte di chi ci governerà la volontà di rimuoverle, potremo fare un passo avanti per superarle. Sarà basilare in questo chiedere un contributo da parte di quanti lavorano all’interno della Pubblica Amministrazione, ascoltarli, sentire da loro cosa li fa lavorare così con difficoltà, cosa li potrebbe motivare, perché, e questo sarà bene ribadirlo, in questo settore ci sono moltissime persone che pur con tante difficoltà lavorano bene, con competenza e professionalità, ed avendo ben presente quanto sia importante uno svolgimento pronto, puntuale, efficace, scrupoloso del lavoro per l’intera comunità. Certo la campagna denigratoria sul dipendente pubblico praticata da molti non ha aiutato a risolvere i problemi, semmai li ha ulteriormente complicati, sono questi problemi estremamente delicati, da affrontare con lucidità, lungimiranza, equità, ampiezza di vedute, dopo essersi spogliati di pregiudizi e luoghi comuni, e solo una buona dose di equilibrio potrà consentirci di fornire ai cittadini dei servizi rispondenti alle loro necessità. È legittimo immaginare una burocrazia al servizio del cittadino o siamo destinati a restare rinchiusi in questa prigione senza sbarre fatta di moduli e carta bollata?

OGNI RIVOLUZIONE EVAPORA, LASCIANDO DIETRO SOLO LA MELMA DI UNA NUOVA BUROCRAZIA. FRANZ KAFKA

Hanno ragione George Orwell e Franz Kafka quando ci mettono in guardia dalla possibilità di uscire dalle costrizioni derivanti della burocrazia al punto che qualsiasi rivoluzione comporterebbe solo la restaurazione sotto altre spoglie diverse del medesimo sistema? Matteo Montagner su “La Chiave di Sophia”.

Burocrazia, ecco l'arma letale della dittatura, scrive di Rino Cammilleri su “La Nuoiva Bussola Quotidiana”. Al tiranno dà fastidio la nobiltà, perché è da questo ceto intermedio tra il potere e il popolo che potrebbe venire l’insidia. Già nel Giappone cosidetto feudale (che col feudalesimo occidentale, però, ha niente da spartire) l’imperatore obbligava i nobili a risiedere sei mesi l’anno nella capitale, e a lasciarci i familiari sempre. In Europa, l’assolutismo regio finì col fare lo stesso e trasformò i nobili in cortigiani nullafacenti. «Lo Stato sono io». La frase del Re Sole è apocrifa, ma rende bene l’idea. Il centralismo però richiede burocrazia, parola non a caso di origine francese (bureau=ufficio) rimbalzata in tutte le lingue, dall’americana Fbi (Federal Bureau of Investigation) al russo Politburo. I giacobini insomma trovarono il lavoro già fatto dall’assolutismo regio, e bastò loro impadronirsi della sola testa per prendere tutto il corpo. Il centralismo facilita e, dunque, incoraggia, i golpe. Come quello bolscevico, che la Rivoluzione la fece, semmai, dopo. Il comunismo sovietico è crollato, sì, ma il giro mentale è rimasto. E oggi l’intero Occidente si divide tra quelli che vogliono sempre più Stato e quelli che non ne possono più. I primi, ovviamente, di Stato campano, perciò comandano. Gianluca Barbera sul Giornale dell’8 settembre ha ben sintetizzato il giacobinismo che nel Terzo Millennio ancor ci opprime: «Statalismo, assistenzialismo, proliferazione burocratica, clientelismo, fiscalità oppressiva, inamovibilità del pubblico impiego, onnipresenza dei sindacati, populismo, politicizzazione della giustizia, appiattimento sociale e professionale, vittimismo cronico, buonismo autolesionistico, cultura dell’odio e dell’invidia sociali». Metteteci anche nani&ballerine per la difesa propagandistica e c’è tutto. Ora, che il sistema sia irredimibile (hai voglia di “riforme”!) è testimoniato dal fatto di Roma, dove detto sistema cerca di correggere se stesso con una pezza non molto diversa dal buco. Cioè, con un ennesimo funzionario. Il prefetto Gabrielli, mandato a vedere come si possa rimediare alla situazione della Capitale, situazione che è un mix di corruzione e inefficienza, ha relazionato al suo superiore, il ministro dell’interno Alfano. Nella relazione, tra l’altro, si segnalano i burocrati, tra dirigenti e funzionari, da rimuovere con una certa urgenza. Ora la patata bollente passa alla politica, e perciò aspettiamoci qualche giro di poltrone (non di più). Ma il punto è che, anche volendo agire con logica e pugno di ferro (cioè, chi ha sbagliato paghi, chi non ha vigilato se ne vada, chi non ha saputo fare il suo mestiere si tolga dai piedi), l’eventuale licenziato fa subito ricorso al giudice del lavoro e questo in nove casi su dieci lo reintegra. Non solo. A volere agire come una normale azienda, la quale, quando i profitti crollano, si sbarazza del manager inadeguato, si rischia anche di più. Per restare nell’esempio romano, è lo stesso assessore ai Trasporti a far osservare che l’Atac, l’azienda di trasporto, semplicemente non ha i soldi per mandare a casa quelli che senza soldi l’hanno ridotta: dovrebbe pagare loro la buonuscita come da contratto, e sarebbero centinaia di migliaia di euro. Che l’Atac non ha. Sono le leggi sul lavoro, bellezza. Quelle italiane, almeno. Chi ha provato, non tanto a riformarle, ma solo a studiare una loro possibile modifica è finito sparato. Roma? Situazione disperata, ma non seria (titolo di un film del 1965 con Alec Guinness). Restando in loco, viene in mente l’antico aneddoto della vecchietta che, unica nella folla, augurava lunga vita a Nerone. Al quale la folla, invece, augurava morte e maledizione. Eh, era vecchia e di imperatori ne aveva visti tanti. E, ogni volta, il successivo si era rivelato peggiore del precedente. Morale: se il problema è intrinseco al sistema, cambiare le facce serve a poco. 

Tante leggi e poco cervello. La dittatura dei burocrati. Il caos dei balzelli sugli immobili è solo l’ultimo esempio. I ministri sono ostaggio di funzionari inamovibili che ci complicano la vita per ragioni di potere, scrive di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” il 10 gennaio 2014. Enrico Zanetti è un politico di primo pelo. Nel senso che fino a otto mesi fa non sedeva in Parlamento ma nel suo studio di commercialista a Venezia. Poi, non si sa perché, gli è venuta l’idea malsana di candidarsi alle elezioni politiche e dunque eccolo catapultato tra i banchi di Montecitorio con la maglietta di Scelta Civica, il partito non partito (nel senso che non è mai nato) di Mario Monti. Alla Camera dei deputati Zanetti riveste un compito di un certo prestigio: essendo un fiscalista l’hanno infatti nominato vicepresidente della Commissione finanze, quella che discute i provvedimenti sul fisco prima che vadano in aula. A Zanetti ho provato a chiedere come si esce del pasticcio Imu, Iuc, Tasi e Tari di cui ci occupiamo anche oggi in prima pagina. La risposta è stata la seguente: «Con le ultime elezioni abbiamo cambiato il 65 per cento dei parlamentari, ma se non cambiamo il 65 per cento dei dirigenti del ministero delle Finanze temo che non faremo molti passi avanti».  Può sembrare una battuta, ma non lo è.  Perché se è vero che Saccomanni come ministro dell’Economia è un disastro, è altrettanto certo che la catastrofe non è tutta farina del suo sacco: per riuscire a complicare così bene la vita degli italiani, qualcuno all’interno del suo dicastero deve avergli dato una mano. Essendo del mestiere, Zanetti alza il velo su una realtà che in pochi conoscono e cioè che i ministri vanno e vengono e i governi pure, ma i funzionari restano e sono quelli a decidere del nostro destino. Prendete il caso del prelievo forzoso sugli stipendi degli insegnanti: la Carrozza ha negato di essere a conoscenza della cosa, mentre Saccomanni si è limitato a dire che si trattava di un fatto tecnico. Dalle frasi si capiva che né l’uno né l’altro avevano la minima idea di come si fosse arrivati al taglio in busta paga, che evidentemente era opera delle retrovie ministeriali. Si può discutere sul ruolo di due tizi che non sanno neppure che cosa accade in casa loro e magari anche convenire sulla necessità di fare a meno di entrambi risparmiando i loro stipendi, ciò non toglie che fra i dirigenti dell’Istruzione e delle Finanze c’è chi usa le forbici senza collegare il cervello e soprattutto senza valutare che sta affettando la vita delle persone. Insomma, fino a che non apriamo il capitolo della burocrazia di questo Paese e non capiamo che dietro un ministro c’è un funzionario che è spesso peggio del suo capo non riusciremo a modificare nulla. Le chiavi del sistema non le ha in mano il politico ma le possiede chi sta lì da una vita e sa che ci starà anche dopo che il ministro se ne sarà andato. Sono loro che scrivono le leggi e suggeriscono le misure da adottare. E poi, fatta la legge, è il dirigente che predispone le norme attuative. E sempre alla struttura tecnica tocca il compito di predisporre le circolari interpretative. Eh già, perché noi siamo l’unico Paese dove per cambiare qualcosa non basta che il governo faccia un decreto e il Parlamento lo approvi. Né è sufficiente che Camera e Senato presentino un disegno di legge e successivamente lo votino. No, da noi serve la norma attuativa della legge, altrimenti - com’è successo per gran parte delle riforme varate da Mario Monti - è come se non esistesse. E poi, quando ci sono la legge e le norme attuative, urge la circolare interpretativa, perché la legge è così vaga, lacunosa e malfatta che un dirigente deve dire come la si interpreta. Di fatto il legislatore non è il politico, ma il burocrate.  È lui che detiene il potere. E più le norme sono scritte male e dunque da interpretare, più la discrezionalità del dirigente è ampia. Grazie a questo sistema abbiamo le leggi più incomprensibili del mondo. E sempre per via di tutto ciò abbiamo una legislazione ridondante, che nessuna semplificazione è riuscita a sfoltire.  E più si complica la vita dei cittadini con tasse, timbri, adempimenti, pasticci vari, più la corruzione e l’evasione avanzano, perché dove c’è discrezionalità c’è anche la possibilità di fare i furbi e di farla franca. Insomma, l’Imu, la Tasi, la Iuc, la Tari e tutte le altre tremende trappole disseminate sul nostro percorso, non nascono a caso ma servono al sistema per autoalimentarsi e per rendersi indispensabile e inestricabile. In altri Paesi l’evasione la corruzione non ci sono o ci sono di meno perché le leggi sono chiare e non consentono scappatoie. Pagare le tasse è semplice: il Comune a nome dello Stato ti manda a casa un bollettino e tu non devi fare altro che portarlo in banca e autorizzare il pagamento. La dichiarazione dei redditi è comprensibile a chiunque e per spiegarla non serve rivolgersi al Caf o compulsare testi da 700 pagine, bastano quattro paginette. Se dunque qualcuno vuole davvero ridurre le tasse e cambiare questo Paese, la prima cosa da fare è cambiare la legislazione fiscale e farne una nuova. Possibilmente non con gli stessi servitori dello Stato che prima hanno servito Padoa Schioppa e Visco, poi Tremonti, quindi Monti e infine Saccomanni. Se un politico va rottamato dopo due mandati, chi lo ha aiutato a fare danni come minimo merita la stessa sorte...

Siamo un popolo oppresso dalla dittatura della burocrazia. Così gli italiani sono oppressi dal dispotismo burocratico, scrive Piero Ostellino Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Che al governo ci sia il centrodestra ovvero il centrosinistra, l'effetto per il cittadino è sempre lo stesso: nuove tasse. Era stato Einaudi ad imporre che per ogni nuova legge ci fosse la copertura finanziaria. Il principio è corretto ma evidentemente qualcosa ne impedisce il buon funzionamento se il processo legislativo, che dovrebbe essere a carico della fiscalità generale a pagarlo è, immancabilmente, il contribuente con una tassazione supplementare... La verità (...)(...) è che lo Stato costa troppo rispetto a ciò che rende, perché pesa su di esso la burocrazia cui deve chiedere assistenza ad ogni proprio atto. Per cui, la soluzione dovrebbe essere una grande riforma della Pubblica amministrazione che elimini la presenza eccessiva della burocrazia dall'attività legislativa, che dovrebbe cadere sotto la fiscalità generale, e dalla vita del cittadino. Lo aveva capito Berlusconi, che si era ripromesso di ridurre la pressione fiscale, lo ha promesso Renzi senza che nessuno dei due abbia tenuto fede all'impegno preso perché il difetto sta nel manico. Vale a dire nello Stato moderno. Trecento anni fa, l'uomo si è liberato dal dispotismo del monarca assoluto, che decideva a propria discrezione della vita dei propri sudditi. Sulla base del principio democratico «nessuna tassazione senza rappresentanza politica» la sovranità è passata dal monarca al popolo. Ma il risultato è stato lo stesso: in nome del popolo sovrano, il rapporto tra cittadino e potere politico si è trasformato, il cittadino è ritornato suddito come era sotto il sovrano assoluto; la fiscalità è lo strumento con il quale il potere politico esercita il proprio dispotismo. In definitiva, solo una grande riforma della Pubblica amministrazione può liberare il cittadino dalla dittatura della burocrazia, che tiene sotto il proprio controllo anche la politica. La volontà generale di Rousseau - che avrebbe dovuto realizzare la massima democrazia - si è tradotta nel suo contrario con il risultato che il cittadino conta ancor meno di quanto contava di fronte al monarca assoluto.

Quando i burocrati sono veri mostri (anche nel fantasy). Da Guerre stellari alla saga di Harry Potter, i cattivi sono armati di scartoffie e codicilli. Proprio come a Bruxelles, scrive Vittorio Macioce su "Il Giornale”. La sera li trovi a Les Aviateurs, in Rue des Soeurs, non lontano dalla cattedrale di Notre Dame, a Strasburgo. Lo stile è anni '50 e loro si ritrovano in quel locale dove davvero le nazionalità sembrano azzerarsi con il sogno di lasciarsi alle spalle carte e regolamenti e affogare le illusioni in pinte di birra, in canzoni vintage e nella speranza di una notte d'amore da cancellare il giorno dopo. Qui, almeno tre volte al mese, si ritrovano parlamentari e apprendisti burocrati, precari di palazzo e lobbisti, segretarie e gli ultimi fantasmi del grande gioco. È Strasburgo ma vale ancora di più per Bruxelles. Qui e lì c'è il cuore e l'anima dell'Europa, il volto del superstato, l'odore profondo di questo impero tecnocratico costruito sulla divinità della moneta unica. Ma per capire davvero di cosa si tratta bisogna, di giorno, passare al numero uno dell'Avenue Robert Schuman e guardare quel palazzo, con la parte superiore che dà l'idea di qualcosa ancora non finito e l'interno che ti sembra di aver visto già da qualche parte. Sì, qualcosa che ha l'odore dell'utopia corrotta, di ideali andati a male. Poi capisci. Il Parlamento europeo con quella gente che cammina veloce, in divise grigie, dove le lingue si mischiano, ma l'ossessione è la stessa, con l'emiciclo enorme che sembra sospeso nello spazio e i traduttori che vomitano parole inutili, è il remake del senato di Star Wars. E a quel punto ti viene voglia di smascherare una volta per sempre il senatore Cos Palpatine. Perché lui sta lì, non ci sono dubbi. Nascosto sotto uno di quei volti, magari con accento tedesco o francese, con il sorriso bonario di chi sembra stare dalla tua parte, quando in realtà tutti sappiamo che quel politico sacerdote dei regolamenti e faccendiere non è altro che il capo dei Sith. È Darth Sidious. È il lato oscuro della forza. Allora ti sembra quasi di sentire quella frase che segna la fine di ogni libertà: «Nell'intento di garantire la sicurezza e una durevole stabilità, la Repubblica verrà riorganizzata, trasformandosi nel primo Impero Galattico! Per una società più salda e più sicura!». È così che si chiude la Vendetta dei Sith. È così che si arriva al Ritorno dello Jedi e alla sconfitta della «Morte nera». Per recuperare un grammo di speranza è necessario, però, ritornare a Les Aviateurs. E capire che quel luogo stretto e lungo, con un bancone che occupa mezzo locale e dove i burocrati mostrano il loro vero volto, è in realtà la Cantina di Chalmun, conosciuta anche semplicemente come Cantina di Mos Eisley, popolare taverna di Tatooine. È nel «quartiere vecchio» e qui affari di tutti i tipi vengono condotti nell'ombra. È qui che Luke Skywalker e Obi-Wan Kenobi ingaggiarono il contrabbandiere Han Solo e il suo compagno Chewbacca per essere trasportati ad Alderaan. Solo qui questo può avvenire, nel bar della notte, quando i burocrati si riscoprono umani e l'Europa assomiglia a quello che avrebbe dovuto essere, un lungo viaggio senza frontiere sui binari dell'Interrail. È qui allora il senso di quello che fantascienza, fantasy e romanzi distopici ci hanno tramandato. È metterci in guardia da tutto questo, da questa Europa, dalle cattedrali di scartoffie, dal potere senza controlli, dalla stabilità dettata dagli indici finanziari, dalle tasse come forma di razionalizzazione dell'impresa, dove non si premia il coraggio di rischiare, ma l'adesione ai parametri burocratici, dove ogni cosa deve essere regolamentata e codificata, dove la realtà è solo una ragnatela di misure e procedimenti standard, dall'esercito dei cloni dove l'umano è ridotto a media statistica. È qui allora che si realizzano tutte le paure dell'Occidente. E come diceva Yoda è la paura il miglior alleato della parte oscura. Perché è chiaro che noi stiamo accettando questa Europa solo per paura di fare i conti con l'incertezza. Tutti gli imperi in fondo servono a questo: ci tolgono la libertà con la promessa di cancellare le nostre paure. È tranquillizzarci sul fatto che Dio non gioca a dadi. Pensateci. Pensate alla saga della Rowling. Chi è il vero nemico di Harry Potter? La risposta immediata è Voldemort, colui che non si può nominare. Ma Voldemort ingabbia i suoi nemici sfruttando gli ostacoli che, in modo consapevole o ad insaputa, produce la burocrazia. È il ministero della magia il primo avversario di Harry. Non lo riconosce, non riesce a catalogarlo, lo vive come un outsider, un incosciente, un piantagrane, uno da fermare con leggi e regolamenti e pazienza se in questo modo si apre la strada al potere rassicurante, stabile, di Voldemort. Nel Trono di Spade dove comincia la tragedia degli Stark? È ad Approdo del re, nella capitale del Regno, dove non valgono più le regole del Nord, ma quelle della corte. E il pericolo più insidioso arriva dagli intrighi del tesoriere Ditocorto. È lì, all'incrocio dei Sette Regni, che la partita per il potere si riduce a una scelta binaria, on o off, acceso o spento, uno o zero. Nel gioco dei troni o si vince o si muore. Ed è il gioco che ha sempre fatto la Germania. E l'unica consolazione è che farlo con la moneta (i denari) è meno cruento e drammatico rispetto alle spade. Il guaio è che ci sono molti modi per spargere distruzione e cancellare il futuro. C'è perfino chi lo fa spacciando cattiva poesia. Mai sentito parlare dei Vogon? Certo, proprio loro, quelli di Guida galattica per autostoppisti. La loro poesia è al terzo posto tra quelle peggiori dell'universo e il suo ascolto può provocare gravi danni fisici e mentali. È di fatto uno strumento di tortura. «I Vogon sono una delle razze più sgradevoli della galassia; non sono cattivi ma insensibili burocrati zelanti con un pessimo carattere, sì. Non alzerebbero un dito per salvare la propria nonna dalla vorace bestia Bugblatteral di Traal senza un ordine in triplice copia spedito, ricevuto, verificato, smarrito, ritrovato, soggetto a inchiesta ufficiale, smarrito di nuovo ed infine sepolto nella torba per tre mesi e riciclato come cubetti accendifuoco». Sono tutti impiegati negli uffici della burocrazia galattica, un lavoro che permette loro di vivere una vita socialmente accettabile pur seminando distruzione nell'universo. Il loro motto? Resistere è inutile.

Burocrazia, dagli obblighi inutili alle troppe leggi: ogni anno sprecati 70 miliardi di euro. A Milano 393 alloggi popolari non possono essere assegnati perché misurano meno di 28,8 metri quadrati: è solo uno degli esempi dell’ottusità delle norme, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 16 novembre 2015. Quale intelligenza umana avrà mai stabilito che la superficie minima calpestabile per un alloggio dev’essere di 28,80 metri quadrati? Non giapponese, di sicuro: a Tokyo la dimensione media dei monolocali non supera i 16 metri quadrati. Non francese, garantito: almeno a giudicare dalle dimensioni di moltissimi appartamenti parigini. Ma lì è al potere la normalità, a differenza di qui. Infatti l’intelligenza che ha partorito quel calcolo è italiana. Magari proprio milanese visto che quel numeretto è contenuto in un regolamento della Regione Lombardia scritto quasi 12 anni fa. Una manifestazione di sopraffina ottusità burocratica, purtroppo non fine a se stessa. Tanto che sarebbe da chiedersi se l’autore di questo capolavoro (e i politici che l’hanno fatto passare) abbia mai pensato alle conseguenze della sua iniziativa. Le conseguenze sono queste: un alloggio popolare più piccolo di 28,80 metri quadrati calpestabili non può essere assegnato. Sapete quante ce ne sono nel solo Comune di Milano di queste case «sottosoglia»? Trecentonovantatrè. Mentre c’è gente che abita nei giardini e dorme sotto i portici. Gli architetti che stanno lavorando al «rammendo» del quartiere Giambellino e delle periferie ideato da Renzo Piano si scontrano anche con questa piccola follia di centinaia di alloggi inabitabili per decisione del suo stesso proprietario: lo Stato. Che quando ha costruito quel quartiere nel 1939, con tante case di 25 metri quadrati, non era ancora impazzito di burocrazia. Questa malattia scorre potente nelle vene della pubblica amministrazione, senza risparmiare nessuna parte del corpo. Dilaga dappertutto, a dispetto dei proclami di semplificazione, in un Paese nel quale 43.587 leggi regionali si sommano alle 150 mila leggi nazionali, e poi ai decreti attuativi, ai regolamenti, alle delibere, alle circolari emanate da corpi dello stato spesso l’uno contro l’altro. E i cittadini e le imprese nel mezzo. Capita allora, ricorda Federdistribuzione, che una Azienda sanitaria locale ritenga lecito conservare il pesce surgelato in buste di plastica traforate per evitare la formazione di condensa, mentre la Capitaneria di porto consideri la busta traforata alla stregua di un contenitore danneggiato, quindi inadatto agli alimenti. Il bello è che tutto questo non è gratis. Secondo Confindustria le follie burocratiche costano al Paese 70 miliardi l’anno. E come non sono gratis gli appartamenti «sottosoglia» del Giambellino o di Quarto Oggiaro che non possono essere assegnati ai senzatetto (e invece talvolta vengono abusivamente occupati) causa una regola demenziale, così non lo sono nemmeno certi apparenti risparmi per le casse pubbliche. Un caso? Tre anni fa il governo Monti ha tagliato i fondi per le commissioni d’esame che devono dare il patentino a chi fa la manutenzione degli ascensori. Niente commissione, niente esami, niente ascensoristi, e in futuro niente manutenzioni. Con 250 apprendisti che ora, denuncia la Confartigianato, rischiano di perdere il lavoro. Risparmio ottenuto: 20 mila euro. Per non parlare di quando si scivola letteralmente nel tritacarne della burocrazia. Come è capitato al signor Francesco Del Prete, pizzicato da un autovelox della polizia provinciale di Napoli a luglio dello scorso anno (quando già le province erano sulla carta abolite) a transitare a 74 chilometri orari dove c’era il limite dei 60. La multa è di 184 euro e 70, ma se pagata entro cinque giorni si riduce a 134,30. Il Nostro va prontamente alla posta ma paga solo 134,20. Ricordava male? Il verbale era stampato a caratteri microscopici? In quel momento aveva altro per la testa? Fatto sta che un mese dopo gli arriva una richiesta di integrare il pagamento: 50,50 euro. Lui cade dalle nuvole e chiede chiarimenti. Dalla Provincia di Napoli gli replicano che è vero: ha pagato soltanto 10 centesimi in meno. Ma i cinque giorni sono purtroppo passati, e la multa è aumentata a 184,70. Del Prete non abbozza e scrive di nuovo alla Provincia. Spiega di essere chiaramente incorso in un errore materiale e ricorda come la sentenza 9507/14 della Cassazione escluda che per i piccoli errori di pagamento si possa vessare il cittadino con richieste abnormi. Per tutta risposta, ecco tre mesi dopo una nuova cartella: ora l’importo che dovrebbe pagare non è più di 50,50 euro, ma di ben 219,50. La ragione? Ormai sono passati anche i sessanta giorni. E se quei soldi non vengono pagati entro quindici giorni, la pratica passa direttamente a Equitalia, con tutti i rischi del caso. Quanto è costata questa giostra ai contribuenti non è dato sapere. Ma la burocrazia che perseguita così chi per errore ha pagato dieci centesimi meno del dovuto, è la stessa capace di mettere in atto persecuzioni esattamente contrarie. Felicia Logozzo, professoressa al liceo, viene chiamata all’università con contratto a termine come assegnista di ricerca. Subito scrive alla scuola chiedendo l’aspettativa che le viene immediatamente concessa. Peccato però che lo stipendio continui ad esserle accreditato senza che lei riesca a interrompere il flusso del denaro. Di mesi ne passano almeno quattro, poi finalmente il rubinetto si chiude: però solo grazie all’intervento di un conoscente nell’amministrazione. La professoressa Logozzo restituisce i soldi e torna a scuola, ma non ha nemmeno il tempo di dimenticare la disavventura. Ecco, due mesi fa, un nuovo contratto con l’università e una nuova aspettativa, con gli stipendi del liceo che di nuovo continuano imperterriti a correre. Sconcertante la motivazione alfine scoperta: la procedura per l’aspettativa è informatizzata, quella per la retribuzione invece no. Bisogna spedire i faldoni per raccomandata agli uffici competenti che si prendono tutto il tempo necessario. Mesi. E c’è anche la beffa, perché nel frattempo lo stato paga sia la professoressa in aspettativa che chi la sostituisce a scuola. Basterebbe che fosse tutto digitalizzato, come ci promette ogni governo. Sarebbe un gioco da ragazzi... Oppure no? Le assenze per malattia dei professori, per esempio, sarebbero in teoria digitalizzate. Si possono infatti comunicare via mail. Già. Ma prima bisogna scaricare un modulo dal sito, stamparlo, compilarlo, scannerizzarlo e solo a quel punto spedirlo per posta elettronica alla scuola dove si provvederà a stamparlo e protocollarlo. Il tutto dopo che il professore avrà telefonato alla scuola, fra le 7,30 le 7,50, come dispone una recente circolare del ministero. Troppo difficile entrare direttamente nel sito della scuola?

Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?

Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.

I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.

Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.

Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.

Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.

I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.

Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.

Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.

Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.

Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).

Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.

Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.

Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.

LA PAGLIUZZA E LA TRAVE. Scrive Aurelio su Forza Cavallasca il 12 gennaio 2016. Notavo, ma devo dire che me lo aspettavo, che il fatto di Quarto e cioè di quel comune campano in cui un consigliere comunale eletto nelle liste del M5S sembra facesse gli interessi imprenditoriali di un clan camorristico locale tramite pressioni al sindaco del suo stesso movimento che correttamente e onestamente ha respinto al mittente, è diventato un fatto di tale portata nazionale da essere da settimane una delle principali notizie dei mas media televisivi e della carta stampata al pari del tempo dedicato a quanto è successo a Roma per Mafia Capitale. Quello che mi fa specie è che se questi media televisivi dessero lo stesso tempo e spazio a quei fatti legati a procedimenti penali e indagini a carico di esponenti del Centro Sinistra e del Centro Destra a quest’ora queste testate giornalistiche ci avrebbero dovuto intrattenere settimanalmente per ore intere. Fatti molto ben più gravi di coinvolgimento di esponenti locali eletti nei due schieramenti di cui sopra hanno avuto lo spazio, da parte da parte di questi media, di durata non più che giornaliera. Due considerazioni sono dovute: La prima è il manifesto asservimento del giornalismo italiano al potere di turno dove pesi e misure sono molto discrezionali se non finalizzato a compiacere o sostenere le forze politiche che hanno portato il Paese nelle condizioni in cui si trova. La seconda è che il M5S non può pensare che in certe regioni la selezione dei candidati da eleggere si possa basare esclusivamente sulla decisione degli iscritti alla rete in quanto ci si può aspettare, considerata la partecipazione numerica a queste organizzazioni criminali, che infiltrazioni di persone legate ad ambienti poco trasparenti è molto forte. Per non esporre il fianco a queste strumentalizzazioni questo sistema va ripensato o perlomeno le cautele sulla selezione in certe regioni non sono mai troppe. Per finire noto che chi sta maggiormente speculando e strumentalizzando questo fatto che sostanzialmente si può limitare a episodi di indebita pressione falliti è il P.D. con tutto quello che è emerso sul suo conto in questi anni dagli scandali corruttivi del Mose di Venezia all’Expo di Milano da Mafia Capitale agli scandali sui rimborsi delle spese ai consiglieri regionali ai gettoni di presenza nei comuni per commissioni inesistenti. ecc. ecc…. Come non mai in questo caso credo che valga questo detto evangelico: “…Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?……. Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello…”

Trave e pagliuzza, vecchia tattica, scrive Mauro Arcobaleno sabato 16 gennaio 2016.

Loro. In sei anni subiscono un tentativo di infiltrazione mafiosa o poco più. L'ultimo in un comune che gestiscono ma che è stato sciolto gia' varie volte per mafia, in passato. Lo respingono. Quando viene fuori che il sindaco, pur avendolo respinto e pur essendo stato eletto indipendentemente dai presunti voti sporchi, non ha detto tutta la verità, in soli 7 giorni decidono di espellerla. Sono favorevoli ad andare a nuove elezioni. Sono favorevoli a pubblicare tutte le intercettazioni del caso. Pubblicano addirittura gli screenshot degli scambi di chat tra il sindaco e i dirigenti del movimento.

Gli altri. Non buttano fuori nemmeno i condannati, che continuano gestire la cosa pubblica, figurati gli indagati o i chiaccherati. Hanno decine di comuni sciolti per mafia. Hanno Roma Capitale e ci hanno messo un anno prima di agire. Gliene arrestano o indagano uno o quasi al giorno. Le condanne fioccano. Si oppongono alla diffusione delle intercettazioni (Napolitano le ha fatte bruciare). Ma, con la gentile collaborazione del 90% dei media, da giorni stanno spargendo merda su loro e ingigantendo un caso piccolo e insignificante se paragonato al marciume che li affossa, e che in questo modo cercano di nascondere. Vecchia tattica: esaltare la pagliuzza del tuo avversario di modo che non si pensi più alla trave che hai nell'occhio dell'etica.

Io non dico nulla. Ma piuttosto che non votare (sbagliato), se si vuole provare a cambiare, non puoi votare sempre gli stessi o i presunti nuovi che avanzano e che sono uguali o peggio di quelli che volevavo sostituire e rottamare: ti hanno detto mille bugie e si comportano peggio dei precedenti, non esiste differenza tra loro. Devi votare facce nuove, che hanno regole nuove e che, pur facendo errori da inesperienza (anche loro sono uomini ahimé), le applicano con coerenza. Poi se ti fregheranno pure loro, ok: ma avrai poco da rimproverati. Nell'altro caso avrai da rimproverarti eccome: se ti arriva merda te la sei voluta.

Brenta (Varese), arrestati sindaco Pd ed ex capo dei vigili. Ai domiciliari Gianpietro Ballardin e l’ex comandante della polizia locale, Ettore Bezzolato, con l'accusa di falso commesso da pubblico ufficiale, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 13/01/2016, su "Il Giornale". È stato arrestato dalla Guardia di Finanza Gianpietro Ballardin, sindaco Pd di Brenta (Varese) e presidente del Consorzio dei Comuni del Medio Verbano e sindaco di Brenta. Con lui ai domiciliari è finito anche l’ex comandante della polizia locale Ettore Bezzolato. I due sono accusati di falso commesso da pubblico ufficiale, con il secondo che avrebbe anceh rubato denaro ricevuto in custodia per ragioni di servizio e il sindaco accusato anche di false dichiarazioni. Secondo le indagini delle Fiamme Gialle, (in primis a indagare sono stati i carabinieri di Luino, che lo scorso agosto avevano già arrestato Bezzolato per peculato), l’ex comandante dei vigili avrebbe sottratto denaro dalle casse del corpo dopo averlo personalmente ritirato presso enti ed associazioni del territorio quale corrispettivo di servizi di sicurezza straordinari per eventi e feste comunali, come previsto dal regolamento. Sempre secondo le indagini, coordinate dal sostituto procuratore di Varese Massimo Politi, il presidente del consorzio e sindaco Ballardin avrebbe dichiarato il falso per alleggerire la posizione di Bezzolato. I due avrebbero inoltre firmato un documento che attestava il versamento di una parte del denaro mancante da parte dell’ex comandante nella cassaforte del comando, che gli inquirenti giudicano fasullo. Immediata la reazione del Movimento 5 Stelle che dopo la vicenda di Quarto non aspettava altro per dare addosso al Partito democratico. Gongola Beppe Grillo: "Un arrestato al giorno toglie il Pd di torno", scrive il guru sul suo blog, "Domani a chi tocca? Sono aperte le scommesse. Gli amministratori locali del Pd - attacca il leader M5S - sono una sciagura per i comuni italiani. Ieri la notizia dell'iscrizione al registro degli indagati del sindaco di Como, oggi arrestano Ballardin. Si dimetterà o amministrerà la città dai domiciliari? Il garantismo deve essere nei confronti dei cittadini: devono avere la garanzia assoluta che chi li governa non è un corrotto e non li deruba".

M5S a Pomezia: appalti sospetti affidati dal sindaco alla coop vicina a Buzzi. Dopo Quarto, ombre a Pomezia. Appalti sospetti affidati dal sindaco Fabio Fucci (M5S) alle coop vicine a Buzzi, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 15/01/2016, su "Il Giornale". Non c'è solo Quarto nell'armadio degli scheletri grillini. Ora a Pomezia, città amministrata dal Movimento 5 Stelle, risuona il (tetro) inno di Mafia Capitale. A collegare il sindaco grillino Fabio Fucci e i nomi famosi per essere finiti nelle carte di Mafia Capitale, è la gestione dei rifiuti del Comune. Non è la prima buccia di banana che pesta il M5S. L'amministrazione grillina di Pomezia era finita sotto i riflettori della cronaca anche per il caso "parentopoli": la compagna del primo cittadino, infatti, era arrivata ad occupare la sedia di assessore. Fucci corse ai ripari, annunciando che la compagna si era già dimessa. Anche se in realtà poi rinviò le dimissioni di qualche mese. Acqua passata. Ma ora l'ombra di Mafia Capitale lambisce i 5 Stelle. Che dopo lo scoppio dello scandalo romano hanno cavalcato in tutti i modi la vicenda, attaccando la destra e la sinistra. I fatti sono questi, raccontati dall'HuffingtonPost, e partono dal giugno del 2013 per arrivare fino al dicembre del 2014, quando lo scandalo di Mafia Capitale è all'apice della forza mediatica. Nel giugno 2013 il sindaco Fucci mette piede al Municipio di Pomezia e poco dopo - dicembre 2013 - avvia un appalto per la getione dei rifiuti. Ad aggiudicarselo è il Consorzio Nazionale Servizi e la sua affiliata "Formula Ambiente". Quest'ultima è una società partecipata (prima al 49%, poi al 29%) dalla Coop 29 giugno, tristemente famosa per essere guidata da quel Salvatore Buzzi simbolo di Mafia Capitale. Ma non solo. Perché i fili del controllo del servizio dei rifiuti a Pomezia si intrecciano anche con Alessandra Garrone, compagna di Buzzi e amministratore delegato della Formula Ambiente. Senza dimenticare che Buzzi sedeva nel consiglio di sorveglianza del Consorzio Nazionale Servizi che si occupava, tramite la partecipata, dei rifiuti di Pomezia. L'appalto, come detto, prende il via nel dicembre 2013 e poi ottiene numerose proroghe. A seguire il dossier è Salvatore Forlenza, dirigente di CNS e poi indagato per turbativa d'asta nel processo di Mafia Capitale. Nel 2013, Mafia Capitale era ancora un miraggio, eppure quando scoppia lo scandalo, il membro del direttorio del M5S, Alessandro Di Battista, accusò Ignazio Marino di aver dato appalti con le proroghe a Buzzi dicendo che "non poteva non sapere". Su questo presentò anche una interrogazione parlamentare, invitando peraltro il governo a diffidare del CNS. Se valeva per Marino, varrà anche per il sindaco di Pomezia? Non sembra. Infatti, l'ultimo bando di gara emesso da Fucci è del 2 settembre 2014 e si chiude l'11 dicembre 2014: in pieno scandalo Mafia Capitale e mentre l'Operazione Mondo di Mezzo aveva già mandato in galera Buzzi e Carminati. Nonostante le manette, il bando del sindaco di Pomezia finisce ugualmente al CNS. “Il sindaco di Pomezia è incorruttibile”, furono le parole di una intercettazione di Buzzi che i Cinque Stelle fecero riecheggiare su tutti i media. Ma le opposizioni credono che l'appalto sia sospetto e abbia irregolarità sia sulla ditta appaltatrice che nelle procedure del Comune. La coop di Buzzi si aggiudicarono infatti gli appalti con un ribasso di gara dello 0,13, che può essere considerato "strano" se si considera che il costo complessivo è di 50 milioni. Le altre due ditte, invece, non raggiunsero nemmeno il punteggio minimo a livello tecnico per poter partecipare al bando. Fu scritto appositamente per far vincere le cooperative dove Buzzi aveva un "peso"? Ancora presto per dirlo. Eppure, il sindaco Fucci aveva già dimostrato un'altra volta di scrivere i bandi di gara con una certa disinvoltura, visto che Raffaele Cantone ne bloccò uno sulle aree verdi perché “limita la concorrenza” tra le imprese in gara. Ma c'è dell'altro. Da quando c’è Fabio Fucci come primo cittadino, sono aumentate le spese legali: nel 2015 Pomezia ha speso oltre un milione e mezzo di euro in spese legali. Parte di queste parcelle sono finite anche all’avvocato Giovanni Pascone - ex magistrato del Tar, dipendente del Comune – poi cancellato dall'albo degli avvocati perché socio occulto di una società di vigilanza e condannato a due anni per via di un contenzioso con il fisco di 20 milioni di euro. Infine, Fucci - scrive l'HuffingtonPost - avrebbe nominato a capo della Multiservizi Fucci, Luca Ciarlini, sotto indagine per frode.

Cari 5 Stelle, ma su Pomezia e Quarto non provate imbarazzo? Si Chiede Tommaso Ederoclite, Ricercatore, Politologo, consulente politico, su l'HuffingtonPost del 16 gennaio 2016. In queste ore è uscita la notizia che Rosa Capuozzo aveva già informato da novembre scorso il direttorio sulla faccenda Quarto, e non è un retroscena giornalistico, no, lo ha detto ai Pm durante un interrogatorio durato 6 ore. Quindi è confermata la notizia che Fico, Di Battista e Di Maio sapessero di quello che stava succedendo a Quarto. Dunque in quel video e nelle continue pubblicazioni delle loro chat si è detto una bugia, e non su un tema come il compenso o l'abuso edilizio mai dichiarato, ma su un tema come la camorra. Deputati che mentono su una questione delicata come la camorra. In queste ore però prende piede una grana che, a parere di chi scrive, è ben più pesante. Il "sistema Pomezia". Innanzitutto qualche appunto su Fabio Fucci il sindaco di Pomezia del MoVimento 5 Stelle.

1) Nominò assessore la moglie, facendola dimettere a "scandalo" avvenuto mesi dopo;

2) Aveva inserito nel suo programma la proposta di differenziare il menù scolastico: uno meno costoso e uno più costoso che includeva di dolce. Scoppiò un casino;

3) Ha (o aveva non si è ancora capito) come dipendente comunale l'avvocato Giovanni Pascone, socio occulto di una società di vigilanza (la Clstv), finita sul lastrico, che deve ancora ai suoi dipendenti migliaia di euro e che ha testimoniato a favore di personaggi di cosche camorristiche e, malgrado lettere e proteste dei sindacati e dei cittadini al sindaco grillino, è ancora lì seduto alla sua scrivania;

4) Ha "sanato" anziché affermare l'irregolarità di alcuni appalti abusivi segnalati dalla Regione Lazio e dal tribunale di Velletri.

Ma la cosa più grave sta prendendo piede in queste ore, e non credo finisca presto. Andiamo con ordine. Il primo cittadino Fabio Fucci del MoVimento 5 Stelle qualche mese fa ha dichiarato: "Con me Buzzi non ci ha neanche provato". Leggendo le notizie di queste ore, mi è venuto da dire "E per forza, ce li avevate già in casa". Infatti, il sindaco di Pomezia aveva affidato al CNS (Consorzio Nazionale Servizi) di Buzzi l'appalto per la gestione rifiuti proprio nei giorni di Mafia Capitale, proprio nei giorni in cui Di Battista sbraitava dagli scranni della Camera sostenendo "come facevate a non aver visto nulla". La cooperativa dove Buzzi aveva un ruolo determinate hanno vinto l'appalto "con un ribasso di gara dello 0,13, anomalo rispetto alla cifra di 50 milioni di appalto. Mentre le altre due ditte che si presentano non raggiungono il punteggio minimo sull'offerta tecnica, secondo la valutazione dalla commissione del Comune". In pratica, nonostante lo scandalo di Mafia Capitale il sindaco si è tenuto e ha rinnovato, con addirittura gara sospetta, la cooperativa di Buzzi al Comune. Il primo cittadino pentastellato si difende sostenendo che è stato tutto fatto con la prefettura, un po' come sostenne la Capuozzo agli inizi della sua catastrofe su Quarto. Sì, perché pare che la strategia sia questa "non importa se tu sia indagato o meno, l'importante è che tu dia la colpa agli altri". Ovviamente il tutto ora è sotto indagine, vedremo sviluppi. Ma quello che preme ora sottolineare è semplice, a parte le minacce di Casaleggio "ve la faremo pagare", e le deludenti risposte date ai cittadini da questo fantomatico direttorio, che a vederli sembrano sempre di più dei ragazzini alle prese con una cosa molto più grande di loro e che non sanno affrontare, possibile che davanti a queste sciagurate gestioni non si faccia un po' di sana autocritica? Possibile che non si prendano le responsabilità e si dica ho sbagliato? E paradossale che coloro che si proclamavano paladini della trasparenza oggi mentano sfacciatamente, e ripetano quella bugia 100, 1000 volte. Chiedo al direttorio, un po' di imbarazzo non lo provate?

La maledizione delle Cinque Stelle. Per il movimento l’incidente del sindaco di Quarto è particolarmente insidioso. Perché dimostra che le regole di Grillo sono da cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso” il 15 gennaio 2016. A ciascuno il suo Ignazio Marino, verrebbe da dire con un sorriso amaro, anche se la testa del sindaco di Roma fu fatta rotolare per una squallida storia di note spese e cene al ristorante, e in quel caso - ma guarda un po’ - i grillini lo difesero riconoscendogli di aver fatto da argine a Mafia Capitale. Invece sul capo di Rosa Capuozzo, unica sindaca a 5Stelle eletta in Campania, prima cittadina di Quarto, comune dell’hinterland napoletano sciolto due volte per infiltrazioni della camorra, pende il ben più pesante sospetto di collusione con la criminalità organizzata (ancora da dimostrare), con appendice di ricattuccio per un abuso edilizio a casa propria, pratica ormai diffusa assai nella politica all’italiana. Alla fine, sindaca espulsa. Dopo aver resistito dicendo, proprio come Marino, di aver respinto le pressioni dei boss. E certo la storia non finisce qui, come con Marino...La maledizione si abbatte anche sul Movimento di Beppe Grillo, nato all’insegna della purezza e della trasparenza in politica, fattosi grande e robusto con la guerra a caste e privilegi e costretto invece a inciampare nel più tradizionale, italico inciucio tra affari, Palazzo e voti di scambio, con condimento di spaccatura tra duri e puri (Di Maio) e moderati (Fico). Da un giorno all’altro, insomma, ecco che Torquemada finisce sotto processo. Tornano alla mente le parole di Pietro Nenni che, in una lontana Repubblica, saggiamente avvertiva: «A giocare a chi è più puro si rischia di trovare uno più puro di te che ti epura…». Stavolta è toccato a Roberto Saviano che, quando la premiata ditta Grillo & Casaleggio tentennava e sembrava voler difendere la sindaca, ne ha chiesto clamorosamente le dimissioni. Amen. Dunque, è arrivata l’ora del redde rationem, che però non si ferma a Quarto e pone al Movimento nuovi problemi. In mezza Italia, per esempio, è sempre più difficile mettersi al riparo dall’invasività delle mafie: su 258 comuni sciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata dal 1991 a oggi, 253 se li contendono Calabria, Sicilia e Campania (prima in classifica). Chi si presenta alle elezioni a sud di Roma e vince, rischia assai. E per affrontare la questione non basta tagliare corto come Grillo: «A Quarto i voti della camorra non sono stati determinanti». Ma come si fa a distinguere tra una scheda e l’altra? E c’è forse, Beppe, una percentuale eticamente accettabile e non determinante di consensi mafiosi? Argomento scivoloso. E poi, un'altra dannazione. Sembra che appena eletti, per una ragione o per l’altra i sindaci finiscano in rotta di collisione con il vertice del movimento. Il catalogo è ricco: Parma, Gela, Ragusa, Livorno, Quarto… È successo anche con molti parlamentari. Forse il problema nasce per l’inevitabile conflitto tra il quartier generale e chi combatte al fronte sporcandosi le mani con il fango della trincea; comunque sembra quasi che la Grillo & Associati sfrutti questi episodi per frenare il dissenso interno e fare pure un po’ di pulizia. Selezione del personale a posteriori. Ma non c’è sempre un agnello da sacrificare. Per un movimento che nei suoi dieci anni di vita ha puntato tutto sulla diversità, un incidente di percorso come quello di Capuozzo & C. è particolarmente fastidioso. Nel tentativo di crescere senza però tradire l’ispirazione originaria, Grillo ha temerariamente pattinato tra Forrest Gump e la Corte costituzionale, tra i vaffa e il Parlamento, tra Di Maio e il partito della rete, tra il suo ologramma e il direttorio convocato negli uffici di Casaleggio. Ha volutamente allevato un non partito, niente strutture né dirigenti, ha platealmente fatto un passo indietro lasciando che i 5Stelle si identificassero con i suoi ragazzi. Ma al primo, grave intoppo ecco che torna a convincersi che senza di lui la nave affonda. Alla fine il padrone del marchio, l’azionista di riferimento che sceglie, indirizza e sanziona è sempre lui. Così non può continuare a lungo e prima o poi il Movimento dovrà decidere se rinunciare a piccole dosi di diversità, darsi regole di democrazia interna e adottare criteri di scelta dei candidati e dei dirigenti più affidabili di un blog o di una rapida consultazione in rete, specie ora che si avvicinano scadenze decisive come il voto di primavera nelle grandi città e poi le elezioni politiche. Roma non è Quarto. E non si può vivere e governare solo nominando ed espellendo. Manco fosse la casa del Grande fratello.

Capuozzo: "Grillo fugge davanti alla mafia". Il sindaco di Quarto attacca: "Inutile avere le mani pulite, se le tieni in tasca", scrive Antonio Angeli il 19 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Ennesimo capitolo del «caso Quarto»: Rosa Capuozzo, il sindaco anticamorra invitato a dimettersi e infine espulso dal MoVimento 5 Stelle, ha sparato parole di fuoco contro il partito che l’ha piantata in asso. Intanto, mentre il Pd fa il tiro al piccione e l’indagine giudiziaria prosegue, si vanno delineando le posizioni di Di Maio e Fico. «È inutile avere le mani pulite se poi le si tiene in tasca - ha scritto la Capuozzo su Facebook - Il M5S ha avuto l’occasione di combattere il malaffare in prima linea con un suo sindaco che lo ha fatto, ma ha preferito scappare a gambe levate, smacchiarsi il vestito, buttando anche il bambino insieme all’acqua sporca». Il primo cittadino di Quarto (Napoli), durissima, ha proseguito: «Non si governano così i Comuni ed i territori difficili, non si abbandonano così migliaia di persone che hanno creduto in noi e nel MoVimento. È una forma di rispetto che Quarto meritava: rimanere e combattere. Invece è stata fatta una scelta politica in una stanza grigia di Milano. Io ho fatto una scelta di principio per i cittadini onesti di Quarto. Ora lavoreremo per il territorio in modo ancora più incisivo con i principi del MoVimento nell’anima. Mi ripeto - ha concluso la Capuozzo - citando Don Milani "è inutile avere le mani pulite e poi tenerle in tasca"». Il sindaco afferma inoltre che Roberto Fico era stato subito informato del suo interrogatorio davanti al pm Henry John Woodcock. Ha ribadito la circostanza davanti allo stesso pm quando è stata ascoltata lo scorso 12 gennaio. A una specifica domanda risponde di aver parlato «immediatamente dopo» al presidente della Commissione Vigilanza della Rai del fatto che era stata sentita come teste in Procura il 24 novembre, e che Fico era al corrente anche «del contenuto» dell’interrogatorio. Dei suoi contrasti con Giovanni De Robbio, l’ex consigliere pentastellato risultato il più votato a Quarto, aggiunge Capuozzo il 14 gennaio, aveva messo a conoscenza Fico «verso la metà di luglio». Secondo Fico allora non c'erano «gli estremi» per azioni disciplinari nei confronti di De Robbio, azioni poi culminate con l’espulsione il 14 dicembre scorso. I due verbali fanno parte degli atti trasmessi alla prefettura di Napoli e alla commissione parlamentare Antimafia, che ascolterà oggi in audizione la Capuozzo. Secca la risposta dei gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato: «Il MoVimento non sapeva del ricatto». Intanto, a Quarto, due consiglieri comunali M5S rassegnano le dimissioni. In tutta la vicenda inzuppa il pane il Pd: «Te lo do io il direttorio - afferma Gennaro Migliore, facendo il verso a Grillo - Anche oggi le parole del sindaco Capuozzo confermano che il direttorio sapeva e sapeva tutto. Fico, che continua a sostenere l’insostenibile, viene per l’ennesima volta smentito. Si arrampicano sugli specchi senza speranza di riuscire a evitare la caduta. Non danno risposte e vogliono far credere che nelle loro innumerevoli conversazioni si parlasse di contrasti politici». «Pensano davvero - aggiunge Migliore - che la Procura antimafia si occupi di beghe interne invece che di reati di criminalità organizzata? Sono pure vigliacchi, scaricano tutto su altri, se ne lavano le mani e non si assumono le loro responsabilità. Invece di coprire i cocchi del paparino Casaleggio, nel M5S si cominci ad ammettere la verità, il direttorio ha completamente fallito».

Il mistero di Rosa Capuozzo nel labirinto della politica. Chi è davvero il primo cittadino di Quarto, che martedì risponde alle domande dell’Antimafia. Una moderna Giuditta, decisa e coraggiosa, o piuttosto colei che ha tardato a denunciare i ricatti? Un rompicapo su cui in molti si sono persi, scrive Marco Demarco il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Eroina civile, vittima dell’inciucio politico, o sughero galleggiante nella palude della provincia opportunista? Chi è davvero Rosa Capuozzo, sindaca ex grillina di Quarto, lo sapremo forse solo martedì, quando lei stessa risponderà alle domande della commissione Antimafia. Lunedì c’è stata la conferma che si tratta di una donna minuta d’aspetto e forte di carattere. Con l’aiuto di don Milani («È inutile avere le mani pulite e tenerle in tasca») e deprecando i moralismi astratti (c’era da combattere la camorra e invece «il M5S è scappato a gambe levate») la sindaca ha infatti risposto a chi l’ha espulsa dal movimento. Ma ancora nulla che possa mettere il punto alla polemica che l’ha vista contrapposta a Grillo e ai membri del direttorio. Rosa Capuozzo resta dunque un mistero. Uno specchio in cui ognuno vede riflesso ciò che vuole. A volte, ha dato l’impressione di essere decisa e coraggiosa come una moderna Giuditta, riuscendo, come nel mito, a ignorare la timorosa élite maschile della città assediata e a decapitare l’assediante, gigantesco Oloferne. Nel caso, la camorra. Ciò è sicuramente successo quando Rosa la «pasionaria» ha lanciato i suoi appelli anti-clan, o quando non si è piegata davanti alle pressioni di Giovanni De Robbio, l’ex consigliere comunale pentastellato espulso prima di essere indagato per voto di scambio e tentata estorsione proprio ai danni della prima cittadina, residente in una casa forse non condonata. Ma altre volte la sindaca ha invece proposto di sé un’immagine del tutto diversa, come quando, per evitare complicazioni, ha tardato a denunciare i ricatti. O quando, intercettata pur non essendo «avvisata» di alcun reato, ha consigliato ai suoi di «non mettere i manifesti» su quanto stava succedendo a Quarto. Rosa Capuozzo è diventata, insomma, un rompicapo assoluto; il labirinto in cui tutti si sono persi. Compreso Roberto Saviano. In terra di camorra, appena eletta, la sindaca era diventata per lui il simbolo mancante di una politica nobile, incondizionata, per la prima volta libera da quel voto di scambio. E invece: «Deve dimettersi», ha poi sentenziato, anticipando Grillo di ventiquattro ore. Ci sono poi tutti gli altri. Quando Grillo difendeva la sindaca, e i vari Fico e Di Maio non si vergognavano di averla sostenuta, i «democrat» ne chiedevano a gran voce le dimissioni, e la renziana Picierno addirittura calava da Bruxelles a Quarto per manifestare indignata nell’aula del Consiglio comunale. Quando Grillo di colpo l’ha scaricata («l’onesta ha un prezzo»), e vai a capire perché, visto che nulla nel frattempo era cambiato, Renzi a sorpresa l’ha invece difesa («Rosa Capuozzo ha resistito alla camorra, non deve dimettersi»). I rispettivi quartieri generali si sono così ritrovati di punto in bianco sbandati e persi come in un 8 settembre. Nessuno, tra i colonnelli e le generalesse, era più al posto giusto. Picierno ha preso l’aereo e se n’è tornata a Bruxelles; Fico e Di Maio, nell’occasione insieme con Di Battista, sono invece finiti su una panca a discolparsi. Tutti con Rosa, tutti contro di lei. Ma mai tutti insieme. Tipico di una politica italiana gravemente malata di tatticismo. È in campo grillino, però, che le contraddizioni bruciano di più. Tra luglio e dicembre i membri napoletani del direttorio pentastellato si sono incontrati con Rosa Capuozzo almeno cinque volte: nella casa posillipina di Fico, in un bar del centro storico di Napoli, a Quarto. L’assedio al Comune era già iniziato, Oloferne già alle porte. Nessuno si era accorto di niente? O Giuditta aveva già deciso di fare tutto da sola? Martedì, forse, ne sapremo di più.

Cinque stelle cadenti: quanti vip mollano Beppe. L'infatuazione politica di molti artisti per Beppe Grillo sembra già passata. Venditti è l'ultimo pentito: "Ho votato Renzi, fa bene a trattare col Cavaliere", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 31/01/2014, su "Il Giornale". Vatti a fidare degli artisti. Finché vai forte ti trovano interessante, ti fanno pure un concerto gratis se glielo chiedi. Ma quando la moda passa, chi li vede più? Dieci anni fa erano tutti veltroniani, poi ulivisti, quindi di nuovo veltroniani quando Veltroni era in sella al Pd. Poi, dopo una lunga pausa d'incertezza, non potendo buttarsi su Berlusconi perché in quegli ambienti non conviene, han provato a farsi piacere Monti (Eros Ramazzotti: «Ha dato dell'Italia un'immagine più forte»). Naufragato anche lui si sono scoperti grillini. Molto più di una simpatia, un'infatuazione, casualmente cresciuta insieme ai voti del M5S, travolgente col 25% alle politiche. Poi però scemata via via, con le polemiche e le gaffe degli eletti M5S, i dissidi interni, le uscite imbarazzanti, e il casino fine a se stesso, il non toccare mai palla lasciando il campo libero al Pd e persino a Berlusconi. Così, un grande sponsor del M5S come Adriano Celentano, che ancora pochi mesi fa vergava lettere dalla sintassi creativa per lanciare Grillo (e, per inciso, anche per difendere il metodo Stamina) e il suo M5S «movimento altamente democratico che ha generato la speranza in un mondo tutt'altro che ostile», si è raffreddato. Grillo non è più tanto rock per il Molleggiato. «Perché per la seconda volta si è rifiutato di fare il Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri - lo bacchetta Celentano sulla rivista San Francesco -. E quindi Renzi si è rivolto a Berlusconi, che pur avendo una condanna rappresenta 8 milioni di italiani, perciò mi fanno ridere gli ipocriti quando dicono che non doveva parlare con Berlusconi». Morale: l'ex grillino Celentano elogia l'accordo sulla legge elettorale, lo stesso «Pregiudicatellum» che per Grillo è fatto apposta per far fuori il M5S, addirittura uno dei motivi per l'impeachment di Napolitano. Ma seri dubbi anche in casa Fo. Il padre Nobel resta sostenitore, ma prende sempre più spesso le distanze. Prima contro il post di Grillo e Casaleggio contro l'abolizione del reato di clandestinità («Ci sono rimasto male, Beppe ha sbagliato») poi sulla gogna quotidiana contro i giornalisti («linguaggio che non accetto»). Il figlio Jacopo invece, se prima dedicava poesie alle grilline e sul blog ci informava di amare Grillo «fisicamente», si è scoperto renziano. «Ho cenato con Renzi. Lui non' è un tipo normale - scrive adesso il Nobel jr -. È il primo segretario Pd che si capisce quello che dice, ed è anche un temerario visto che dice faccio questo in 30 giorni, quest'altro in 60 giorni. E aggiungo che avere un leader progressista che cambia completamente stile potrebbe essere utile. La forma ha la sua importanza. Anche Povia, che aveva elogiato il M5S («Grillo è stato un voto di protesta giusto»), è passato coi forconi (al grido «usciamo dall'euro, l'Ue ci distrugge!»), mentre colpisce il silenzio da mesi di altri (ex?) sponsor vip del Grillo prima maniera, da Mina alla Mannoia dalla Carrà al pianista Allevi. Al cantatuore romano Antonello Venditti un annetto fa piaceva «l'aspetto morale del Movimento Cinque stelle». Quando Grillo citò sul blog una sua vecchia canzone, Bomba non bomba, Venditti ne fu entusiasta. «Mi fa piacere, la mia canzone raccontava l'arrivo della democrazia a Roma. È il cammino di Grillo e di tante persone che sperano che ci sia la democrazia in Italia». Ora sembra che Venditti sia renziano, anzi che lo sia sempre stato. «L'ho votato due anni fa alle primarie, e anche alle ultime - ha detto a RadioDue -. Renzi ha fatto bene a incontrare Berlusconi, ci mancherebbe altro». E le canzoni adesso le dedica a lui, non più Grillo: «Renzi ha un qualcosa di scanzonato, gli dedicherei Lo Studente Passa». Con sottofondo di sviolinate. Con Pippo Baudo, suo mentore televisivo nella stagione dei Sanremo e delle Domeniche in con Grillo mattatore, è finita a schifìo. Il presentatore all'inizio elogiò Grillo, l'unico che «può dare una scossa alla politica», uno che «ha saputo avvicinare i giovani alla politica». Più tardi però gli ha dato del «fascistoide», e Grillo ha reagito pesante: «Baudo ha attaccato il M5S e leccato il culo a Renzi. Quando fui cacciato dalla Rai lui slinguava Craxi... La pippite è una malattia dell'animo». Tra i delusi vip c'è anche Flavio Briatore: «Grillo è stata una grande delusione - disse il manager - ci aveva dato a tutti un po' di speranza. Invece si sono dimostrati come gli altri, forse peggio».

Vittorio Sgarbi ha abbandonato, in silenzio, la diretta di «Domenica Live» (del 17 gennaio 2016). Lo storico e critico d'arte era stato invitato da Barbara D'Urso per commentare le presunte infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, guidato da un sindaco del «Movimento 5 Stelle». «Adesso che è stato depenalizzato l'insulto - spiega Sgarbi - non vale nemmeno più la pena di usarlo. Così, invitato per discutere sul tema, inesistente, delle infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, paese di cui nessuno, fino a ieri, conosceva l'esistenza, e in cui si manifestano, per ciò che riguarda i rapporti tra i cittadini e i politici, gli stessi fenomeni di qualunque altro luogo d'Italia, ho dovuto ascoltare, per circa un'ora, insensatezze sulla presunta diversità dei 5 Stelle, movimento di cui non si conosce un pensiero, un'idea, e che pensa di disporre degli eletti come fossero «cosa loro», come ha giustamente osservato il sindaco di Gela. Non ci sono - argomenta Sgarbi - due posizioni: ce n'è una, ed è quella dettata dalla Costituzione (la presunzione d'innocenza), non certo quella delle intimidazioni dei Saviano e dei Grillo, ben più prepotenti della mafia e della camorra, delle quali occorre dire che, chi ha diritto al voto non può essere suo esponente. Quindi nessun voto camorrista, se non presunto. Quando la magistratura, con una sentenza, lo riterrà tale, il camorrista non potrà votare. Discorso troppo semplice da fare in una trasmissione in cui ognuno parla senza sapere quel che dice. Mentre chi potrebbe dire qualcosa, è costretto a tacere perché ognuno pretende di essere più puro degli altri. I 5 Stelle non esistono se non per indicare la qualità degli alberghi. Così me ne sono andato in silenzio e senza insultare. Anche gli insulti - conclude Sgarbi - occorre meritarseli». L'Ufficio Stampa di Vittorio Sgarbi

Gli affari disonorevoli dei consoli onorari. Tra bella vita e truffe. Un titolo che dovrebbe favorire i rapporti tra Paesi. Ma che in Italia è distribuito con troppa leggerezza. E talvolta premia personaggi senza scrupoli. Ecco le loro storie, scrivono Federico Franchini e Francesca Sironi il 7 settembre 2016. Nell’ufficio non mancano mai targa e attestato, fra un cartiglio con la carica e la cornice all’“exequatur” (l’atto con cui si riconosce la funzione). Sulla scrivania la bandierina, e se ci sono ospiti è pronto l’album di fotografie: scatti di visite alle istituzioni, galà, strette di mano, selfie con i leader locali. “Console onorario della repubblica Centrafricana in Italia” mostra ad esempio su un invito dai bordi dorati Claudio De Giorgi, imprenditore in oro e diamanti che sul suo sito web personale, fra immagini di safari e cortei di notabili a Bangui, si definisce rappresentante d’onore del Paese africano per le province di Milano, Como e Sondrio, anche se dagli elenchi della Farnesina non risulta. Il titolo è incerto ma è sicura la condanna di aprile a sei anni e mezzo di carcere a Trento. Per un business che riguarda proprio quel riconoscimento di prestigio. Ambìto da molti, in Italia. Le capitali del mondo sembrano ansiose di avere i loro consolati onorari a Napoli o Milano, come a Forlì, Barletta o Pavia: in Italia ne sono registrati oggi 602. Un record europeo. Tanto che il cerimoniale della Farnesina commentava preoccupato la «proliferazione» di questi incarichi, «aumentati enormemente negli ultimi tempi» già in un rapporto di due anni fa. I consoli onorari non sono diplomatici di carriera, non timbrano il cartellino in ambasciata, ma ne godono l’ombra di prestigio e ricevono un nulla osta (in gergo “l’exequatur”) dal nostro ministero, che di solito ostentano con vanto. Sono imprenditori o dentisti, avvocati o consulenti, giornalisti o notai, che si fanno indicare quali “consoli” dall’estero per favorire gli scambi fra le comunità; sbrigano pratiche sui visti, danno una mano ai turisti, ai cittadini, promuovono le reti commerciali: «siamo presenze preziose», spiegano. In cambio ricevono il titolo e alcuni privilegi: dall’inviolabilità degli archivi (quindi della corrispondenza), all’immunità “nell’esercizio della funzione”, passando dalla comoda targa Cc del “corpo diplomatico” grazie alla quale possono parcheggiare ovunque in città. L’Italia è diventata insomma laboratorio internazionale dell’under-diplomazia onoraria: l’Angola, per dire, ha un console d’onore a Varese (provincia in cui risiedono in tutto solo 46 suoi emigrati), il Lesotho a Nuoro (nessun residente, sono 13 in “continente”), Panama ha tre sedi, di cui una a Civitavecchia, San Marino ne ha dieci sparse per la penisola. O ancora: a Firenze ci sono 57 consoli onorari in rappresentanza di molte parti del globo, fra cui Capo Verde e le Seychelles. “Come diventare console onorario” è diventata addirittura una ricerca trendy su Google.it. Una mania. A che pro? Il cerimoniale lo accennava in quel rapporto datato: bisogna accertarsi, spiegava, che «a tale carica assurgano sempre cittadini di specchiata onorabilità» affinché «il prestigio della funzione» non affondi e le immunità non vengano «strumentalizzate per finalità illecite». È un timore tutt’altro che infondato. Le cronache sui consoli onorari, oltre che di feste gossippare, ricevimenti paludati e banchetti vistosi, sono dense di ascese - e discese - velocissime dalle tinte legali in chiaroscuro. Basta guardare al sorriso di Claudio de Giorgi sulle foto dei suoi viaggi in Centrafrica. Ci andava fiero, De Giorgi, di quel titolo di console della piccola Repubblica: tale si firmava in calce alle mail o sul suo profilo Skype. Per il consolato aveva aperto anche un apposito “private bureau” vicino a Lugano, nella succursale della sua società di import/export di oro e diamanti, l’Adamasswiss. Per fare affari in Africa, si sa, servono uscieri di fiducia, e alle porte giuste. A De Giorgi non mancavano certo: è l’ex presidente in persona, François Bozizé, a firmare i decreti di concessione per l’Adamasswiss nella Repubblica centrafricana. Ed è sempre Bozizé, noto per avere venduto migliaia di documenti diplomatici a veri o presunti uomini d’affari, facendone quasi un business di Stato, a concedergli il rango di diplomatico che vanta. Quello che però De Giorgi, residente in provincia di Sondrio, ricorda meno volentieri, sono le multe in Svizzera per contrabbando di diamanti. E l’ultima condanna, la più grave: una sentenza a sei anni di carcere per truffa e associazione a delinquere in Italia, arrivata ad aprile. Al centro della vicenda c’è una (presunta) miniera di diamanti che si doveva trovare proprio nella Repubblica centrafricana: miniera su cui aveva convinto 159 piccoli risparmiatori a investire. Le pietre preziose però non esistevano affatto: e le vittime ci hanno rimesso oltre cinque milioni di euro, convinte da quello che sembrava un affare sicuro, viste le relazioni di rango vantate dagli intermediari. Oltre a De Giorgi, a rassicurarli c’era Giacomo Ridi, anche lui presunto console onorario della Repubblica centrafricana e consulente finanziario: era Ridi - poi morto suicida - a convocare liberi professionisti, dipendenti, giovani e pensionati negli hotel di Trento promettendo loro quella “miniera di soldi”, e diamanti. Che si è rivelata una promessa di fumo. La confusione fra diplomazia e business d’altronde affiora spesso nelle anticamere dei consolati d’onore. Eccola riemergere a Busto Arsizio, nel processo che vede imputato in questi mesi Fabrizio Iseni. Leghista di ferro, imprenditore della sanità, amico stretto della famiglia Bossi (fino ad essere soprannominato “il badante del Trota”), Iseni è indagato, fra l’altro, proprio per aver mescolato la sua carica di console onorario della Costa d’Avorio a quella di titolare della “Iseni consulting”, una società che in due anni ha ricevuto due milioni di euro da alcuni imprenditori della provincia di Varese. Alla procura di Busto non sono chiari i riscontri di quelle attività ben remunerate: i contratti hanno testi fotocopia, sostengono, le consulenze mancano d’esiti concreti. Di certo, il carteggio indicherebbe il motivo reale per cui quei soldi sbarcavano sui conti di Iseni: i suoi rapporti con il Paese africano, dove i piccoli industriali padani speravano di sbarcare con successo. Console-consulente: la sua attività “alta” di diplomatico si era sovrapposta insomma a quella commerciale. Un errore in cui cade, restando in terra verde padana, anche l’ex assessore comunale di Bergamo Marcello Moro, indagato per corruzione: stando alle testimonianze, Moro si era fatto pagare dagli imprenditori imputati con lui sia la sede sia la segretaria del consolato onorario del Ghana a Milano, di cui è stato titolare dal 2002 al 2009. Non solo: fra gli ultimi atti depositati a processo ci sono gli esisti delle rogatorie in Svizzera, i conti su cui transitava denaro. Chiamati Diplo1 e Diplo2. La rete capillare dei consoli d’onore in Italia conta altri casi limite fra il glamour e il nero. Come quello di Emanuele Cipriani, per esempio, “l’uomo dei dossier”, l’investigatore privato condannato nel caso Telecom insieme a Fabio Ghioni e Giuliano Tavaroli, ch’era console onorario della Repubblica di Guinea e che secondo i giudici spiava «avvalendosi anche delle immunità» proprie di quel ruolo. C’è Nicola Falconi, l’ex capo dell’Ente Gondola di Venezia accusato di finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta sul Mose, che portava in tasca il titolo di console onorario della Finlandia dal 1996. C’è Giovanni Fagioli, grande armatore emiliano, un giro d’affari da 300 milioni di euro, console onorario della Bulgaria a Parma, indicato per questo nei Panama Papers come “persona politicamente esposta”, beneficiario di una società alle Isole Vergini Britanniche. Ci sono persone comuni: dalla pr di grido che rappresenta la Danimarca a Milano al console dell’Ungheria a Bari che ha aperto il sito “dentistinbudapest.it” per le cure dentali low cost, al console del Nicaragua che aveva la sede in una discoteca a Livorno. E poi in storie come queste non può mancare il contorno delle principesse. Ne furono invitate a iosa per un matrimonio di cui parlarono i quotidiani, nel 2003. Quattro giorni di riti, di sfarzi, di scintillii e gonne lunghe, sgomitate per essere a quelle “nozze dei vip”, quel “matrimonio da favola”, con “molto lusso ma non ostentato” (costruirono apposta un villaggio nella giungla), fra gioiellieri, alta finanza, immobiliaristi e amici. L’unione era d’amore, scrivono le cronache, fra il genovese Fabio Ottonello e una delle figlie del presidente del Congo Brazzavile, Cendrine Sassou-Nguesso, erede di una famiglia che dirige quasi ininterrottamente il Paese dal 1979, tenendo in saldo controllo il business principale di quei confini: il petrolio. Lui, figlio di un uomo che commerciava con il Congo in caffè e cacao, dopo le nozze diventa testa d’affari eterogenei: compra navi, affitta aerei, offre servizi alla produzione petrolifera e gestisce locali e ristoranti a Point-Noire. Il suocero lo nomina console onorario del Congo a Genova. Poi la coppia divorzia. Ma a una Francesca Ottonello resta il consolato. D’onore.

Ecco chi ci rappresenta all'estero. Emigrati di successo, imprenditori. Ma anche affaristi equivoci, scrive il 7 settembre 2016 “L’Espresso”. Ad attirare interessi sotto-diplomatici non sono solo le cariche attribuite dagli stranieri a rappresentanti di prestigio in Italia. C’è anche - viceversa - il piccolo esercito di nostri concittadini che hanno sedi onorarie per il tricolore all’estero. Si tratta di persone che svolgono, anche in questo caso, il loro compito gratis, ad eccezione di alcuni rimborsi che nel 2015 sono costati al ministero degli Affari Esteri 798.396 euro. Roma conta nei Paesi stranieri 541 uffici onorari, di cui 401 operativi e 340 sostenuti in parte economicamente. Ci sono funzionari d’onore nelle terre d’emigrazione storiche di italiani in Sud America oppure nelle nuove “terre dei pensionati” caraibiche. Ci sono uomini d’affari, che favoriscono gli scambi in Africa. O emigrati di successo. Ma ci sono anche personaggi di potere, come Gianfranco Falcioni, petroliere e viceconsole onorario dell’Italia in Nigeria, a cui sarebbe riconducibile, secondo le indagini, il conto svizzero della società offshore “Petro Service” su cui atterrò nel 2011 il miliardo e 92 milioni di euro versati dall’Eni al governo di Abuja. Intervistato dal “Sole 24 Ore”, Falcioni rispose soltanto che quella offshore «non ha mai operato». Gli intrecci complessi fra diplomazia e affari non trasparenti nei consolati africani sono stati raccontati magistralmente in un documentario del 2011 del giornalista danese Mads Brügger, candidato al Sundance. Fintosi uomo d’affari interessato al titolo di console onorario della Liberia, per sfruttare una miniera di diamanti, Brügger incontra diversi “colleghi”, che gli danno consigli importanti, come: «non toccar le donne, il resto è permesso». È uno dei suggerimenti di Gino Pierre Giuliani, ex rappresentante d’onore dell’Italia a Bangui, che, filmato a sua insaputa, aiuta il giornalista nel suo affare opaco. Ora il ruolo è passato a “Stephane Giuliani” che ha mantenuto la sede del consolato allo stesso indirizzo dell’uomo che vantava d’essere «il più antico membro consolare a Bangui» nel docu-film.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e prioprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.

CHI FA LE LEGGI? 

Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?

Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.

I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.

Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.

Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.

Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.

I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.

Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.

Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.

Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.

Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).

Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.

Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.

Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Da che parte sta la ragione?

E Mussolini rimproverò l'ingegner Romeo, scrive Dario Vico su “Il Corriere della Sera”. Nasce l'Archivio della Fondazione Iri, per una storia inedita d'Italia. Il capo del fascismo non voleva che per l'Alfa si usassero strumentazioni costruite all'estero. Una lettera datata 9 giugno 1926 in cui il capo del governo, Benito Mussolini, si rivolge in modo perentorio all' ingegner Nicola Romeo per chiedergli come mai nella sua Alfa tutta la strumentazione di bordo sia straniera. «Pregiatissimo ing. Romeo, ieri tornando da Firenze ho guardato con attenzione gli strumenti della mia Alfa (che va, del resto, molto bene) e ho fatto le seguenti constatazioni: I magneti sono tedeschi (Bosch), l'orologio è svizzero, la tromba (che non funziona) è francese. È così che si aiutano i prodotti nazionali? Non si fanno, dunque, in Italia magneti, orologi e trombe?». Un' altra nota scritta dallo stesso Mussolini il 29 settembre 1934 al ministro delle Finanze Jung in cui, in maniera altrettanto drastica, gli comunica di essere contrario alla vendita agli Agnelli da parte dell'Iri di azioni Edison o Ilva. «È mia convinzione - scrive il Duce - che invece di gonfiare, parrebbe meglio deflazionare il complesso Agnelli, che va dalle auto ai cantieri, dal giornalismo agli alberghi di montagna». La lettera a Romeo e la nota per il ministro Jung sono solo due degli 800 mila dossier che l'Iri ha deciso di mettere a disposizione degli studiosi organizzando un vero Archivio storico. Gli accademici potranno così approfondire i complessi rapporti che si stabilirono tra il regime fascista e l'establishment industriale, quello che il professor Valerio Castronovo definisce «un matrimonio di convenienza» tra un Mussolini non privo di «animosità anticapitalistica, derivantegli anche dalla sua matrice di socialista rivoluzionario» e un milieu finanziario «che cerca di evitare le ingerenze del governo» e finisce per ricoprire un ruolo di fronda. Mussolini non cercò di tagliare le unghie solo alla Fiat che mirava ad acquisire le compagnie telefoniche, «ma anche alla Edison che coltivava lo stesso obiettivo, alle Generali che avevano messo gli occhi sui cantieri navali di Trieste e alla Snia Viscosa che voleva annettersi la Châtillon». La consultazione dell'Archivio Iri sarà cruciale per ricostruire le relazioni tra regime e borghesia capitalistica, ma non solo. Dalle carte dell'istituto di via Veneto gli storici potranno trovare nuova materia prima per analizzare in maniera più compiuta le vicende della ricostruzione postbellica, il piano Marshall, l'ingresso dell'Italia nel Fondo monetario internazionale fino alle politiche del miracolo economico e all' istituzione delle Partecipazioni Statali. Insomma da Mussolini ad Amintore Fanfani ed oltre.

Commemorazione di De Gasperi. 19 agosto 1954 anniversario della morte di Alcide De Gasperi scritta da Francesco Martini. La maggior parte dei lettori di questo giornale sono nati dopo la fine della guerra e non hanno conosciuto De Gasperi. Questi è stato un grande statista di dopo la fine della guerra, una guerra maledetta, una guerra fascista che naturalmente avevamo perso ed eravamo una nazione semidistrutta che aveva bisogno di tutto. Una nazione piena di miseria e disoccupazione, stretta tra due movimenti politici incomunicabili: da un lato il Partito Comunista Italiano che scimmiottava l’Unione Sovietica e voleva instaurare anche da noi il sistema russo; dall’altra gli americani che, vincitori e ricchi, avevano in mano il governo della nazione e manifestavano ad ogni momento la loro avversione per il regime rosso: con una semplice firma avrebbero potuto fare dell’Italia una colonia statunitense e nominare un commissario per amministrarla. In mezzo De Gasperi e la sua immensa capacità di mediare; ma le risorse erano poche. Lui riuscì ad ottenere aiuti alimentari (piano Marshall e piano ERP) e nel gennaio del 1947, recatosi in America, riuscì a strappare un finanziamento di 100 milioni di dollari. Era un democristiano e perciò oggetto di ogni infamia da parte dei comunisti; anche i socialisti parteciparono, ma meno. Qualcuno è ancora portatore di questo odio: chi scrive ne ha avuto una esperienza recentissima: un paio di anni fa proposi al direttore di una rivista alla quale collaboravo di effettuare il 19 agosto una piccola commemorazione di questo statista; ebbene quel direttore, comunista dichiarato, manifestò tutta la sua contrarietà intimandomi di non farlo. E’ da allora ed è per ciò che ho smesso di collaborare a quella rivista ed ho creato questo giornale: così posso scrivere quello che voglio sui vari De Gasperi e su persone come quel direttore. In gioventù anch’io ho combattuto De Gasperi, ma sbagliavo. Questo è stato un uomo equilibrato, capace ed equanime: essendo segretario del partito italiano dei cattolici ed avendo trascorso tutto il periodo della guerra a fare l’archivista in Vaticano, quando nel 1952 venne invitato dal Papa Pio XII ad appoggiare una coalizione tra Democrazia Cristiana, Movimento Sociale Italiano (il partito neofascista) e Partito Nazionale Monarchico (che sosteneva il Savoia) per l’elezione amministrativa del Comune di Roma (“ la sede della cristianità non può essere amministrata dai comunisti….”) ebbene De Gasperi, che aveva sofferto nelle carceri fasciste, disse di no. Disse “proprio a me, un povero cattolico della Valsugana, è toccato dire no al Papa….” Una lunga vita, iniziata 134 anni fa in un paesino della Valsugana allora sotto il dominio austriaco, da un padre che faceva il Maresciallo della gendarmeria imperiale, nel 1881. Amò la sua terra, il Trentino, e giovanissimo venne eletto deputato dei trentini al Parlamento di Vienna. Non partecipò alla prima guerra mondiale perché era già avanti con l’età; combattè Mussolini ed il fascismo e patì le loro galere. Fu di una onestà assoluta e manifestò sempre una gigantesca capacità politica. L’unico motivo di dispiacere: che di uomini così non ce ne siano molti.

"La politica non è forse quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all'interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi. La politica è ben altro, ma per comprenderlo è inutile prodursi in interminabili analisi sociologiche o in lamentazioni, quando è possibile guardare a esempi come quello degasperiano". Lo scrive il segretario generale della Cei, Monsignor Nunzio Galantino nella sua Lectio degasperiana. Galantino ha consegnato il testo non partecipando all'incontro previsto a Pieve Tesino (Trento). "I veri politici - continua il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, prendendo ad esempio la politica di De Gasperi - segnano la storia ed è con la storia che vanno giudicati, perchè solo da quella prospettiva che non è mai comoda, si possono percepire grandezze e miserie dell'umanità". Il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Nunzio Galantino, resta al centro delle polemiche. Per cercare di evitarle decide di non andare a Pieve Tesino, Trento, il 18 agosto 2015 dove doveva tenere una Lectio sull'eredità degasperiana. E rinuncia a intervenire alla commemorazione di De Gasperi. Monsignor Galantino scrive che la politica di De Gasperi "non è quella che siamo stati abituati a vedere oggi, vale a dire un puzzle di ambizioni personali all'interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi", "il popolo da solo sbanda e i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia".

«A guidare la politica, nel senso del governo della cosa pubblica, non sono i grandi progetti per costruire un futuro migliore ma le decisioni del giorno per giorno, spesso condizionate da interessi più particolari che generali». C’era grande attesa per l’intervento al Meeting di Rimini del 21 agosto 2015 del segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, e le parole del monsignore non hanno tradito le attese. "Le scelte pubbliche e individuali" nel nostro tempo "sono guidate per lo più dal perseguimento di interessi e fini immediati e poco meditati, dettati spesso dalla ricerca dell'utile e meno da un progetto consapevole e a lunga scadenza". "Solo apparentemente questo modo di agire è privo di presupposti teoretici e di reali obiettivi. In realtà, presupposti e obiettivi esistono, ma non sono esplicitati; rimangono sotto traccia, quasi non dovessero essere sottoposti a un vaglio attento". Ricorda infatti l'esponente della Conferenza Episcopale italiana: "A ogni azione o orientamento corrisponde sempre un certo valore che si intende perseguire; sempre vi è alla base dell’agire una certa idea di persona, un ideale di essere umano e di società da raggiungere e verso il quale ci si incammina". E ancora, analizzando i cambiamenti antropologici che hanno riguardato il singolo individuo e la famiglia negli ultimi decenni, aggiunge: "Il relativismo vuole promuovere a tal punto la libertà individuale, da non tollerare chi la intenda in altro modo, limitando la libertà altrui al fine di difenderla: autentica contraddizione non razionale".

SPENDING REVIEW? NO, SPENDING CUCU’.

Niente risparmi, Perotti si dimette: la spending review non è una priorità. Il freno al lavoro sugli sgravi fiscali. Le dimissioni dopo quelle di Giarda, Bondi e Cottarelli, scrive Federico Fubini su “Il Corriere della Sera” il 10 novembre 2015. Dopo Piero Giarda nel 2012, Enrico Bondi nel 2013, Carlo Cottarelli nel 2014, è la volta di Roberto Perotti. La spending review non riesce mai a ridurre granché le dimensioni del bilancio pubblico, ma si conferma infallibile nel portare alle dimissioni i tecnici ai quali il governo si rivolge per riuscirci. Perotti, uno degli economisti italiani più riconosciuti all’estero, sabato ha fatto sapere a Matteo Renzi che rinuncia al suo incarico e uscirà dalla squadra di consiglieri di Palazzo Chigi. A suo avviso, il varo della legge di Stabilità e i segnali dati anche in seguito dal governo indicano che la riduzione della spesa pubblica non è una priorità. «In questa fase non mi sentivo molto utile», ha detto ieri a «L’erba dei vicini» di Beppe Severgnini su Rai3. Perotti, 57 anni, dottorato al Massachusetts Institute of Technology, docente prima alla Columbia University di New York e poi alla Bocconi, non dev’essere arrivato alla sua decisione facilmente. L’anno scorso aveva accettato di diventare consigliere di Palazzo Chigi solo a condizione che l’incarico fosse a titolo gratuito. Per evitare malintesi sul proprio ruolo, Perotti aveva anche rinunciato a qualunque forma di rimborso: per oltre un anno si è pagato da sé le trasferte ogni settimana da Lecco, dove vive, e l’affitto di un appartamento a Roma. Il suo obiettivo era realizzare il compito che Renzi aveva assegnato a lui e al commissario per la spending review Yoram Gutgeld: trovare dieci miliardi di tagli per il 2016, poi continuare negli anni successivi. In legge di Stabilità però gli interventi previsti valgono ufficialmente appena 5,8 miliardi (o meno, secondo molti analisti privati), e per metà sembrano di efficacia discutibile perché basati sulla compressione temporanea di alcune spese ministeriali. Negli ultimi nove mesi, Perotti aveva lavorato su alcuni fronti in particolare: la sfoltitura degli sgravi fiscali a categorie particolari, che oggi valgono 181 miliardi in tutto, e i costi di funzionamento dei ministeri e degli uffici dei dirigenti pubblici a livello decentrato. Su quasi tutti questi aspetti la legge di Stabilità registra passi avanti minimi o inesistenti. Nel presentare la legge di Stabilità il 15 ottobre, Renzi ha spiegato che dalla lista della spending review per il 2016 aveva rinunciato a quattro miliardi di tagli alle deduzioni e alle detrazioni (la materia di Perotti) perché l’addio agli sgravi avrebbe comportato un aumento della pressione fiscale e avrebbe colpito anche associazioni della società civile. Dunque il governo, secondo il premier, si è fermato per non colpire la fiducia all’interno del Paese. Non era questa la versione della spending review emersa fino a quel momento dalle indiscrezioni. L’operazione sugli sgravi progettata a Perotti sembrava impostata in modo diverso: il pacchetto degli interventi proposti valeva 1,5 miliardi (non quattro) e riguardava solo i trattamenti di favore per alcune specifiche categorie di imprese, per poter poi ridur re la pressione fiscale in modo più omogeneo su tutte. Difficile capire se Perotti si sia sentito preso di mira dalle parole del premier. O se abbia avuto l’impressione che il governo cercasse di scaricare su di lui la responsabilità di una spending review ancora una volta incompiuta. Sembra però probabile che, dopo il varo della manovra, l’economista abbia cercato un chiarimento con il premier sul futuro del piano di tagli ora che l’esecutivo deve realizzare nella pratica la riforma della pubblica amministrazione. Certo i due devono essersi trovati su posizioni diverse. Non pensa invece alle dimissioni l’altro uomo della spending review: Yoram Gutgeld, deputato del Pd, continuerà a lavorare sulla spesa sanitaria e sugli acquisti dell’amministrazione. Ma anche lui resterà fuori dall’«unità di missione» in preparazione a Palazzo Chigi, composta da una decina di esperti e guidata dall’altro bocconiano Tommaso Nannicini (che sembra destinato a diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio). Si vedrà nei prossimi mesi come funziona il rapporto dell’ultimo «commissario alla spending review» con questo gruppo che, sempre di più, sembra destinato ad accentrare molte leve della politica economica. 

La spending review diventa spending cucù. Un’altra figuraccia del governo: si dimette Perotti, prof della Bocconi chiamato a tagliare la spesa pubblica Dopo Bondi, Giarda e Cottarelli, è il quarto commissario che si deve arrendere alla burocrazia e alla politica. Su "Libero Quotidiano" l'11 Novembre 2015: GIANLUIGI PARAGONE VITTIME DELLA CASTA SCONFITTI DAI BUROCRATI IL MITO DELLE FORBICI. (...) un momento in cui le forbici si possano aprire e chiudere con utile efficacia. I muri di gomma non si possono tagliare, figurarsi squarciare. Ed è strano come la presunzione di questi professori non voglia ammettere che le forbici dei commissari per la spending siano come le ali di cera per Icaro. Per restare in tema di miti, qualcuno cita Sisifo e la sua impresa a compiere uno sforzo sovraumano per poi ricominciare daccapo tutte le volte. In questo caso però non ci sono sforzi da compiere: è tutto scritto da anni, ispirato al buon senso. Basterebbe applicarlo. Ma non si può perché questo è il paese delle furbizie, delle leggine tana-libera-tutti e soprattutto dei privilegi che diventano diritti e diritti che diventano favori. Ogni commissario arriva armato di ali di cera pensando che il suo volo possa arrivare a destinazione, che possa superare le nebbie dei palazzi dove tutto si nasconde. Non ce la fece il supercommissario dei miracoli, quel Bondi aggiusta tutto tipo «Sono mister Wolf e risolvo problemi». E poi Giarda. E poi ancora l’uomo del fondo monetario Cottarelli. Ora Perotti, precipitato per essersi avvicinato troppo al fuoco dei mandarini e delle feluche. Franato senza che alcuno nel governo aprisse una qualche rete di protezione: i commissari della spending cucù passano, i burocrati di palazzo restano. Eccome se restano. Morale: niente tagli alle strutture ministeriali. Hai voglia a parlare di sprechi, di spese folli, di controllo della spesa quando poi chi beneficia di questo spendere e spandere alza le barricate. «Prima di tagliare a noi, andate a tagliare dove si spreca di più». E così nessuno scende dalla giostra. Dal più piccolo al più grande c’è sempre qualcuno che spreca di più. Timbrano i cartellini e vanno a fare canottaggio? Embé? Che vuoi fare, li vuoi licenziare? Quarant’anni fa usciva nelle sale Fantozzi: era già tutto chiaro. Da allora, per effetto del moto accelerato uniforme, la spesa improduttiva è aumentata. Le baby pensioni non si possono toccare. I vitalizi men che meno. E potremmo andare oltre nel pieno adagio italico. Già, perché non è solo nel pubblico che i privilegi diventano diritti acquisiti. Nel privato qualche picconata arriva a bersaglio ma ciò che esce dalla porta rientra poi dalla finestra. Chiedetelo ai consumatori: nelle bollette (dalla luce al telefono) la furbizia è sempre in agguato. E che dire delle banche? Non sprecano soldi anche loro? Non fregano anche loro soldi dei risparmiatori? La filosofia del «freghi tu così frego anch’io» è nella filigrana di una costituzione materialissima. Le banche vanno in rosso? Poi paga pantalone. I professori che vorrebbero eliminare lo spreco dalla cosa pubblica comincino dalle università, fonte di spreco di denaro pubblico. Perotti ci scrisse un libro. Lo dico solo per rimarcare la mia rassegnazione, mica per dare consigli. Non credo alle spending review che io chiamo spending cucù. E soprattutto non credo al mito di queste forbici buone solo a contabilizzare somme da mettere sulla carta. Basterebbe il buon senso. Ci sono enti che sopravvivono nonostante siano gusci vuoti, eppure continuiamo a erogare gettoni e stipendi. Non c’è bisogno di Pico della Mirandola per smettere di pagare. La somma di tante piccole storie di ordinaria burocrazia farebbe un totale. Allora è un problema di volontà, nel senso che non si vuole fare perché non si può fare. Per farla breve, la piantassero di propagandare tagli e forbici al solo scopo di abbellire bilanci previsionali e guadagnare qualche titolo di giornale. Se non vogliamo che altri Icaro si schiantino a terra, voliamo basso. Facciamo piccole cose. Torniamo al buon senso dei nonni. Forse qualche gruzzoletto lo risparmieremmo sul serio.

Ecco perché in Italia la spending review è una missione impossibile. In otto anni sono cambiati 4 esperti incaricati di ridurre la spesa pubblica. Ma alla fine la politica si è sempre messa di traverso perché i tagli sono impopolari o costringono ad aumentare le tasse. Piero Giarda, allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individuò 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo», scrive Paolo Baroni su “La Stampa” l'11/11/2015. Arriva sempre un momento in cui anche il più esperto degli esperti finisce su un binario morto e alla fine lascia. Oppure viene congedato. E’ così negli ultimi 8 anni abbiamo cambiato ben 4 commissari alla spending review. «In questa fase non mi sento molto utile», ha spiegato l’altra sera Roberto Perotti, prof della Bocconi, entrato appena nemmeno sei mesi fa nello staff di Palazzo Chigi ed ultimo in ordine di tempo a gettare la spugna. Il suo «coming out» in tv è servito a mettere la parola fine ad un tira e molla che durava ormai da settimane. Il termine inglese «spending review», ovvero «revisione della spesa» introdotto nel gergo politico italiano nel 2006 da Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca ministro del Tesoro nel governo Prodi, significa analisi delle spese e del funzionamento dei vari apparati allo scopo di migliorare la performance della macchina pubblica con la possibilità, anche, si risparmiare qualcosa. Da noi, invece, è sempre stata interpretata in maniera più brutale: tagli. Il primo tentativo di mettere ordine ai conti risale al 2012 quando il governo Monti, che in fatto di tagli veri mica scherzava (basti pensare cosa è successo alle pensioni), affida ufficialmente il dossier a Piero Giarda. Grande esperto di spesa pubblica, l’allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individua circa 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo» e ipotizza da subito circa 5 miliardi di risparmi. Non si fa in tempo a mettere in pratica il piano che Monti lo sostituisce con Bondi. «Monti aveva bisogno di qualcosa di più concreto da presentare a Bruxelles», raccontano le cronache di quei giorni. E così arriva l’ex commissario Parmalat, il tagliatore forse più famoso d’Italia. Al suoi fianco altri due pezzi da novanta: Giuliano Amato, al quale viene affidato il compito di analizzare i costi della politica, e Francesco Giavazzi, che invece deve cercare di sfrondare i sussidi alle imprese, impresa che si rileva impossibile. Bondi passa ai raggi «X» ministero per ministero, regione per regione, comune per comune, analizza spese e sprechi, e scodella un piano da 4,2 miliardi di risparmi immediati destinati a salire a 10 l’anno seguente. A inizio 2013 però anche Bondi lascia: Monti, che si fidava ciecamente di lui, gli aveva infatti affidato anche il compito di selezionare i profili dei candidati del suo nascente partito e i due incarichi erano diventati oggettivamente incompatibili. Dopo un breve interregno affidato al Ragionerie generale Canzio, ad aprile si insedia il governo Letta che vuol prendere il toro per le corna e per questo richiama da Washington Carlo Cottarelli. Il supertecnico del Fondo monetario, incarico triennale a 250 mila euro l’anno (ovviamente subito oggetto di polemiche), si insedia a ottobre e a inizio 2014 scodella un piano monstre: subito 7 miliardi di risparmi, quindi 18,1 nel 2015 (poi ridotti a 16) e addirittura 33,9 (quindi scesi a 32) nel 2016. Cottarelli vuol chiudere 2 mila partecipate, accorpare i centri di spesa, tagliare sanità, pensioni, province, corpi di polizia, fondi per le imprese e auto blu. Dopo Letta arriva Renzi ed il lavoro di Cottarelli, appena abbozzato nei mesi precedenti, potrebbe finalmente decollare e invece si affloscia. Palazzo Chigi, che nel frattempo ha preso più potere rispetto al Tesoro, per prima cosa cassa i progetti sulle pensioni e stoppa il taglio di 85 mila dipendenti pubblici. E i risparmi? Si continua con la vecchia prassi dei tagli lineari (o semilineari) introdotti da Tremonti. Ma da 16 ci si deve fermare a quota 8,5 miliardi. Naturale che anche Cottarelli getti la spugna mentre dallo staff del premier lo accompagna l’accusa di «scarsa collaborazione». Da allora è passato un anno e siamo da capo. Adesso lascia anche Perotti, subentrato lo scorso marzo nell’ingrato compito in tandem con Yoram Gutgeld, uno degli strateghi della prima ora della Renzonomics. Perotti spinge per intervenire innanzitutto sulla montagna di spese fiscali (detrazioni, sconti e bonus vari) ma Renzi lo ferma perché non vuole aumentare in alcun modo le tasse. E così la spending review 2016 che puntava a al solito obiettivo ambizioso (16 miliardi) frana: prima scende a quota 10 e poi va addirittura sotto i 5. Per far quadrare i conti Renzi preferisce l’aumento del deficit. Profetico un tweet dell’economista Riccardo Puglisi del 19 agosto: «Ma Perotti - commissario alla spending review - mangerà il panettone?». Gutgeld resta, il Prof invece torna alla Bocconi e laconico spiega: «La spending review non è una priorità del governo». O forse, suggerisce qualcuno, questa non è la stagione adatta per vedere all’opera dei liberisti veri come lui e Cottarelli.

Fuga da Renzi: non taglia gli sprechi. Spending review a zero con l'addio di Perotti dopo Cottarelli. Il premier ha rinunciato a ridurre la spesa pubblica, scrive Antonio Signorini Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. Roma Matteo Renzi un primato lo ha già ottenuto. Ha bruciato due dei quattro commissari alla spending review che sono passati per Palazzo Chigi. Il primo, Massimo Cottarelli, di fatto messo alla porta perché aveva un piano di riduzione alla spesa pubblica troppo dettagliato per i suoi gusti. Stava stretto persino a Enrico Letta che lo nominò, figuriamoci al premier in carica. Il secondo, Roberto Perotti, si è fatto da parte da solo. «Non mi sentivo molto utile in questo momento», ha spiegato. Decisione ufficializzata lunedì sera, ma nota almeno dalla fine di settembre. È durato un anno e tre mesi, a fianco di Yoram Gutgeld. Poco più di 400 giorni passati a studiare un aspetto specifico: la riduzione delle tax expenditure. Sono le agevolazioni fiscali che nascondono misure di spesa a favore delle categorie più diverse. Una giungla di 720 detrazioni che valgono 161,3 miliardi, frutto per lo più di micromisure che si sono stratificate negli anni. Il governo Renzi era sicuro di poterle sfoltire con interventi mirati. All'inizio dell'estate i primi ripensamenti. L'asticella dai due miliardi iniziali è calata a 1,5 e poi sotto il miliardo. Alla fine nella legge di Stabilità è scomparso ogni accenno alle tax expenditures. La spiegazione sa più di marketing che di economia. Le spese fiscali nella contabilità pubblica sono agevolazioni a tutti gli effetti e un loro taglio si traduce in un aumento della pressione fiscale. Renzi non voleva aggiungere nulla alla voce maggiori entrate della stabilità 2016. L'economista e professore alla Bocconi ne ha preso atto e, piuttosto che produrre altre carte destinate a restare nei cassetti di Palazzo Chigi, ha preferito tornare agli studi. Gutgeld, economista ed esponente del Pd, resta, ma dovrà mettere la firma su una spending review ridotta di cinque volte rispetto agli obiettivi originari. Dai 20 miliardi all'anno promessi all'insediamento di Renzi, ai 4 miliardi della Stabilità. Tagli lineari. Niente che assomigli alle spending review dei Paesi che l'hanno applicata, dal Canada al Regno unito passando per l'Olanda. Il disegno seguito da Renzi non è molto diverso da quello dei suoi predecessori. Si parte con le migliori intenzioni promettendo miliardi di tagli selettivi, non lineari e si finisce per raggranellare pochi euro proprio grazie ai tagli uguali per tutti, politicamente poco impegnativi. La situazione è più o meno la stessa dal 1986, da quando Pietro Giarda fu incaricato di guidare la prima commissione. Su circa 800 miliardi di spesa pubblica, quelli «aggredibili» sono poco meno di 300. Nessuno ha aggredito nulla, se non, appunto, con tagli lineari. Risparmi che danno sollievo ai conti nell'anno in corso, ma hanno il difetto di trasformarsi in ulteriori costi negli anni successivi. Il governo Monti, pressato dall'Unione europea, nel 2012 nominò Enrico Bondi con l'intenzione di passare a una fase operativa. Ma nemmeno il manager che ha risollevato Parmalat riuscì a convincere politici e amministratori a tagliare. Il decreto sulla spending review del governo Monti diventò una manovra che servì a rinviare di qualche mese un aumento dell'Iva (poi arrivato) e comprendeva persino nuove tasse. Addizionali locali Irpef e il famoso supplemento di aliquota Tasi-Imu dello 0,5 per mille che doveva essere temporaneo ma che il governo Renzi ha reso permanente. Cottarelli, come Bondi, ha prodotto analisi, ma anche un piano dettagliato e ambizioso. Per l'anno in corso prevedeva 18,1 miliardi di risparmi per il prossimo 33,9. Tutto archiviato. L'unico risparmio in arrivo sarebbe quello dei compensi di Cottarelli e Perotti, se non fosse che a Palazzo Chigi si sta per insediare la nuova «unit economica» guidata da Tommaso Nannicini e altri nuovi esperti. Si occuperanno di tutto, come i dipartimenti della Casa Bianca. Ma non di spendig review.

BEATO IL PAESE CHE NON HA BISOGNO DI EROI PER TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA. Perotti è solo l’ultimo “zar” alla spending review a mollare. Ma a Londra e Madrid i governi sforbiciano in prima persona, scrive Renzo Rosati l'11 Novembre 2015 su "Il Foglio". “Siamo un paese in cui si detraggono dalle tasse le finestre e le palestre”: era il giugno 2011 e Giulio Tremonti se la prendeva con una spesa pubblica “che è come andare al bar e dire: da bere per tutti! E poi chi paga?”. Nella giungla di 470 regimi fiscali di favore pari a 150 miliardi l’allora ministro dell’Economia aveva nominato consulente al disboscamento Vieri Ceriani, già dirigente dell’area tributaria della Banca d’Italia. Ceriani produsse un immenso foglio Excel con tutte le voci detraibili e relativo costo, colorate per importanza, e oltre a finestre e palestre c’erano abbonamenti al bus, ospedali, teatri, musei, enti culturali. Le palestre saltarono, le finestre sono ancora lì; soprattutto ci lasciò le penne Tremonti assieme al Cav. Ceriani invece è sempre consigliere del ministero dell’Economia, ma per il rientro dei capitali dalla Svizzera. Esempio unico di tenacia nella lista dei caduti alla spending review, il cui ultimo esempio è Roberto Perotti, professore alla Bocconi, nominato commissario al taglio della spesa pubblica da Matteo Renzi dopo l’addio del più celebre e movimentista dei predecessori, Carlo Cottarelli, funzionario del Fondo monetario internazionale. “Mi sono dimesso, non mi sentivo più molto utile”, ha detto Perotti, e il motivo resta quello dei tempi delle finestre e delle palestre: il mancato taglio di sgravi fiscali che nella versione dell’interessato valevano 1,5 miliardi, e in quella di Renzi quattro, cifra che secondo il premier avrebbe attirato sul governo l’accusa di cancellare la Tasi con una mano per togliere soldi con l’altra. Chiunque abbia ragione, è evidente che non si trattava di brandire l’ascia né sulle agevolazioni salite intanto a 180 miliardi, né su una spesa pubblica che resta pressoché immobile intorno al 51 per cento del pil, 800 miliardi e passa. Terza in percentuale in Europa dopo Francia e Grecia, ben davanti alla Germania, per non parlare della Gran Bretagna. Graduatoria rimasta immutata durante la crisi, mentre la spesa aumentava in termini assoluti, e con lei il debito pubblico italiano, mentre altrove (Francia esclusa) diminuiva, con l’esempio su tutti di Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Olanda. Per questo, in quello che il Foglio del 15 ottobre definiva il “cimitero” dei commissari italiani alla spesa, troviamo una sfilza di lapidi: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Cottarelli. Ora Perotti. Anche una fugace apparizione di Francesco Giavazzi, chiamato da Mario Monti nel 2012. Resta in campo Yoram Gutgeld, che però è anche deputato Pd di osservanza renziana. Salvo eccezioni, tra le quali Cottarelli, quasi tutti hanno lavorato gratis, contribuendo così, se non a tagliare la spesa, a non aumentarla. Cottarelli è anche la loro star: designato da Enrico Letta, rimasto in bilico con Renzi, subito soprannominato “mister Forbici” dai giornalisti fan, ai tagli mancati ha dedicato un libro – “La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare” (Feltrinelli) – un blog, una notevole presenza mediatica. La sua tesi è che siano le burocrazie ministeriali, alte e basse, a fare catenaccio. Giavazzi sostiene infatti che debba essere il capo del governo in prima persona a metterci la faccia. E se ci guardiamo intorno come dargli torto? Lunedì 9 novembre, mentre Perotti si dimetteva, a Londra il cancelliere dello Scacchiere George Osborne annunciava un nuovo taglio di spesa pubblica pari al 30 per cento dei fondi di quattro ministeri (Trasporti, Ambiente, Tesoro, Autonomie locali), e trattative in corso con altri, per azzerare in quattro anni il deficit di bilancio pari a 99 miliardi di euro. Anche in piena campagna per le elezioni dello scorso maggio Osborne non aveva esitato ad annunciare l’aumento della Vat (l’Iva inglese) e dei contributi previdenziali. Si è scontrato con il segretario del Lavoro Iain Duncan Smith, al quale chiede di risparmiare 12 miliardi di sterline. Il premier conservatore David Cameron, all’inizio del primo mandato nel 2010, era andato a Westminster e aveva fatto il giro delle televisioni per annunciare tagli alla Difesa, comprese portaerei e fregate simbolo della ex potenza imperiale, a welfare, immigrazione e trasporti pubblici. I primi ministri irlandesi Brian Cowen e Enda Kenny, succedutisi durante la crisi, hanno ridotto di cinque punti il peso della spesa pubblica, con l’obiettivo di scendere di altri due, cioè dieci sotto l’Italia. E così il premier spagnolo Mariano Rajoy, che ha tagliato la spesa dal 48 al 43 per cento del pil. All’uscita dalla recessione Dublino, Londra e Madrid hanno fatto segnare i maggiori aumenti della ricchezza nazionale e del reddito individuale. Nessuno ha delegato la pratica a zar né a mister Forbici.

Spending review, Renzi proprio non ce la fa. Anche l'ultimo, ennesimo commissario, Roberto Perotti, lascia l'incarico. E ancora una volta ha vinto lui, il Pachiderma. Il Carrozzone, scrive il 10 novembre 2015 Marco Ventura su “Panorama”. Una progressione impressionante. 2012-2013-2014-2015. Un anno dopo l’altro, dall’albero del governo cascano i commissari alla spending review, dimissionari o svaporati dopo essere stati presentati (e dati in pasto alla stampa e alla pubblica opinione) come i deus ex machina del taglio delle spese. O, meglio, degli sprechi, perché nessun presidente del Consiglio ha mai detto di voler tagliare le spese essenziali. Una dopo l’altra, quindi, si spaccano a terra le “teste d’uovo” della revisione di spesa (per dirla in italiano, che non è propriamente la lingua dei parsimoniosi). Nel 2012 Piero Giarda, che era considerato “l’uomo dei conti”, l’unico in grado di sforbiciare il viale del tramonto dei privilegi e delle prebende. Ma che silenziosamente, forse anche più dei successori, si mette da parte. Non per incapacità sua, ma per mancanza di volontà della politica di metter mano a quella cesoia. Nel 2013 Enrico Bondi, che a differenza di Giarda aveva un’immagine di autentico sforbiciatore, anche nel privato. Un uomo duro, determinato e infallibile. Ma niente. Neanche lui porta a termine il lavoro. Gli subentra, portato in palmo di mano dal governo direttamente dal Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. A lui, con Enrico Letta, l’onere e l’onore di realizzare la riforma delle riforme. Saranno tagliati gli sprechi, dunque, finalmente? Grandi aspettative, grandi promesse. Ottimismo, fiducia, persino un pizzico di furore rivoluzionario. E tanta propaganda. Ma l’elefante partorisce un topolino. Anzi, niente. La vulgata vuole che ogni volta i piani siano pronti a essere scodellati e messi in pratica. Pronti a alleggerire il bilancio dello Stato e consentire il taglio delle tasse. Perché la revisione della spesa va di pari passo con quella del fisco: tagli ciò che è in più, il grasso superfluo del baraccone di Stato in tutte le sue ben oliate e consolidate ramificazioni di voracità, immensa pianta carnivora che drena le risorse dai privati al pubblico; e quel che tagli ti consente di aver più risorse per ridare ossigeno all’economia reale. A parole sembra facile. I numeri ci sarebbero. E i premier, uno dopo l’altro, ci credono. O così pare. Peccato che nel 2014 anche Cottarelli cada (dal pero). Le promesse finiscono in un libro che racconta la telenovela dei tagli mancati, di quello che si sarebbe potuto fare. Volendo. È il 2015. Due, stavolta, i taglia-spese, a riprova di una volontà (a parole). Matteo Renzi sostiene i suoi personali “commissari”: il fiore all’occhiello Roberto Perotti, con un curriculum accademico lungo così e largo cotanto. E Yoram Gutgeld, il fido Yoram Gutgeld. Nel frattempo, tutti i capitoli di taglio della spesa sono stati citati e sviscerati, dalla razionalizzazione delle spese sanitarie all’intervento sulle detrazioni (ma solo per certe categorie privilegiate), dallo spegnimento dei lampioni nelle strade alla decurtazione dei vitalizi. Le proteste più eclatanti, non per i numeri della partecipazione ma per la qualità delle teste protestanti, le inscenano i dirigenti del Tesoro (che la spending review dovrebbero scriverla) e i consiglieri parlamentari che dovrebbero approvarla. Stato contro Stato. La tigre dell’alta burocrazia contro la tigre della politica. Matteo Renzi, perfino lui (ovviamente lui?), si arrende e ammette che sulla spending review avrebbe voluto far di più (ma non lo fa), ben sapendo che anche Perotti a questo punto si dimetterà. Resta, unico sopravvissuto, Gutgeld. Ma che ci sia o no, forse non conta. O non sconta. Morale della favola: ha vinto il Pachiderma. Il Carrozzone.  

Spending review, sotto a chi tocca, scrive Roberto Santoro su “L’Occidentale” il 10 Novembre 2015. Dura la vita per commissari e consulenti alla spending review. Se ne va anche il bocconiano Perotti, il quale, dopo ponderati studi sugli sprechi e sulla spesa dello Stato, su cosa, come e dove tagliare, realizza che è meglio tagliare la corda, dimettendosi in diretta televisiva. Perché quelli della spending sono fili ad alta tensione, chi accetta una carica del genere realizza presto quant’è mortale: Giarda che voleva 80 mld di tagli subito e altri 300 sul lungo periodo, le stagioni di Bondi e di Canzio, fino al caso Cottarelli, da funzionario dell’FMI a guru di Palazzo Chigi che prima critica la maggioranza sulle coperture di spesa e poi se ne torna a Washington “per motivi personali”. Del resto non ci riuscì Monti ad aggredire la spesa, che pure non aveva problemi di consenso (almeno finché il Senatore non decise di seguire le sue ambizioni politiche), non ci riesce Renzi, che nella trincea della spending ha ancora al suo fianco l’ex McKinsey Gutgeld, anche se quest’ultimo, eletto nel Pd, risponde a delle logiche più interne alla politica e ai partiti. Le stesse che evidentemente spingono i “tecnici” a fare le valigie. Sia chiaro, non siamo iscritti al partito gufo. Dai tempi di Monti, passando per Letta fino ad arrivare a Renzi, la spesa pubblica è rallentata. Gli spread non sono più motivo di angoscia per la nostra giornata e il ministro Padoan oggi in Europa può rivendicare margini di flessibilità, usando qualche parola di conforto anche per il vero mattonazzo della nostra finanza pubblica, il debito in termini assoluti. Ma detto questo, senza la spending, senza tagli nelle PA dove snidare sprechi e inefficienze, senza uno scatto di reni sulla riforma delle partecipate di Comuni e Regioni, e più in generale una riflessione profonda sulla presenza, ingombrante, dello Stato nella società italiana, per non dire del fallimento del Titolo V, probabilmente continueremo a vedere una sfilata di tecnici, consulenti e commissari che marciano sicuri di sé in passerella e poi se ne vanno o si dimettono sul più bello. Il presidente del consiglio Renzi sa che stiamo parlando di misure impopolari, che non portano consenso prima delle elezioni, per questo nicchia o non affonda come dovrebbe, pensando al suo stile. Puntare alla riduzione delle tasse, in particolare quelle sulla casa, va bene, siamo tutti d'accordo, ma ridurre le tasse senza ridurre la spesa, il rischio di una manovra in espansione, il trovare coperture “a sbalzi” rimandando i pagherò al domani, è la vera ragione della depressione dei suoi consulenti. Forse il Governo farà qualcosa dopo i prossimi e importanti appuntamenti elettorali a livello locale, forse qualcuno dopo Renzi alzerà di nuovo le tasse o sarà Renzi stesso a trovare altre ricette, ma una cosa è certa, i conti devono tornare, a Roma come a Bruxelles. Intanto aspettiamo un nuovo asso nella manica, l’ennesimo curriculum di platino, il tecnico dei tecnici che ci venga a dire secondo lui come si fa ad avere uno Stato più leggero, imprenditore e che funzioni meglio.

Da Giarda a Perotti zero tagli. Perché piangiamo sui tagli? Scrive Lucio Fero su "Blitz Quotidiano" l'11 novembre 2015. Domanda impertinente e insolente: perché l’Italia tutta da anni piange lacrime amare sui tagli alla spesa pubblica? Ma che domanda! Perché da anni la spesa pubblica è sottoposta a tagli che sono amputazioni, perché da anni sacrifici per tutti, se non addirittura “macelleria sociale”. Quindi che razza di domanda che fai, ma dove vivi, non li leggi i giornali, non la senti la televisione? In effetto sono anni che la stampa e la tv piangono anche loro i tagli alla spesa pubblica. Non solo versano lacrime di cordoglio sui tagli, li danno per ovvi, scontati, vissuti. In ogni articolo, titolo, intervista, chiacchiera si parte dal dato di fatto che la spesa pubblica in Italia è stata da anni pesantemente tagliata. Dato di fatto? Freschi di stampa e di televisione sono i dati che tutti riportano, non senza rammarico e ammonizione ai governi. Pietro Giarda nel 2012, commissario alla revisione della spesa pubblica, individua cinque miliardi da tagliare e tagliabili subito. Non se ne fa nulla, non si taglia niente. Enrico Bondi, commissario alla stessa cosa dopo Giarda, individua 14 miliardi da tagliare in due anni. Bondi sparisce, i miliardi da spendere restano. Carlo Cottarelli, commissario numero tre, individua 7 miliardi da tagliare nel 2014, 16 nel 2015…Non verrà tagliato un euro. Ultimo commissario Roberto Perotti propone taglio un paio di miliardi dopo aver calcolato dieci e poi cinque…Niente, Perotti si auto taglia. E non è neanche un taglio di spesa microscopico, Perotti lavorava gratis. La morale politica e sociale è che in Italia non c’è stato e forse non ci sarà mai governo che abbia davvero la forza e la voglia di tagliare la spesa pubblica, anzi quella parte della spesa pubblica che, non essendo pensioni, stipendi, sanità, tagliabile sarebbe eccome. Fanno cento miliardi di euro abbondanti all’anno che dallo Stato scivolano in ruscelli anche minimi sul “territorio”, cioè categorie, gruppi, votanti, elettori, gente. Pessima od ottima notizia che sia, questo è il dato di fatto: non si taglia, non si è mai tagliato. Spesa pubblica zero tagli. Come conferma peraltro la percentuale di spesa pubblica rispetto al Pil sempre saldamente sopra il 50 per cento da anni e anni e anni. E allora la domanda, in primo luogo a giornali e televisioni che almeno l’alfabeto del reale dovrebbero conoscerlo…Come si fa a criticare i mancati tagli di spesa pubblica mentre ogni pagina dà per scontati, ovvi e avvenuti i tagli di spesa pubblica? Come si fa a piangere insieme il danno dei governi che non tagliano e il danno dei tagli sofferti? Come si fa ad avere memoria zero anche delle proprie stesse pagine e parole? Si fa, si fa… E si fa senza troppa fatica, tanto se ne accorge nessuno o quasi. Altrimenti per raccontare, riflettere, riferire, capire la realtà occorrerebbe gran fatica. Vedere, quindi spiegare, quindi sopportare il danno di certa impopolarità. Vedere, spiegare che diminuendo il Pil la spesa pubblica qua e là è diminuita in cifra ma non in percentuale. Vedere, spiegare che i “tagli” sono quasi sempre sulle aspettative di crescita della spesa pubblica e non sulla spesa pubblica “abituale”. Vedere che la superficialità e spregiudicatezza del ceto politica e della sua comunicazione hanno colonizzato il mondo dell’informazione che ormai parla la lingua del colonizzatore. Contribuendo quindi al paradosso di un paese tutto che si sente tutto in credito, tutto “tagliato” mentre nulla o quasi è stato davvero tagliato. Salvo poi corrucciarsi, i giornali e le tv, quando i Commissari alla spending review mollano perché non si taglia un tubo. 

La Boldrini spende 40mila euro in lavanderia: tutti gli sprechi della Camera. Più di un milione di euro per fotocopie e per trasportare lettere per 350 metri. E spuntano anche 90mila euro per assicurarsi del buon trattamento dei migranti nei centri di accoglienza, scrive Giuseppe De Lorenzo il 21 agosto 2015 su "Il Giornale”. La spesa più bizzarra è indubbiamente quella che gli onorevoli deputati (a nostre spese) sosterranno per smacchiarsi i vestiti. Nel bilancio della Camera guidata da Laura Boldrini, approvato il 5 agosto, infatti, è iscritta una voce che parla chiaro: 40.000 euro per il servizio di lavanderia. Una cifra incredibile, immaginando che le giacche e le cravatte (ormai se ne vedono poche) i deputati se le laveranno a casa. Ma non c'è solo questo. La relazione dei Questori e gli annunci della Presidenza parlano di un bilancio ridotto praticamente all'osso. Falso. E' vero che la "spesa prevista per il 2015 si riduce di 50,5 milioni di euro rispetto al 2014 (-4,87%)" e che si attesta sotto il miliardo di euro. Ma parliamo pur sempre di 986,6 milioni di euro. Ed è anche vero che i soldi che lo Stato da qui al 2017 dovrà sborsare sono "solo" 943,16 milioni di euro all'anno, come è corretto dire che nel 2015 saranno restituiti al bilancio dello Stato 34,7 milioni di euro, che dal 2012 i deputati hanno fatto risparmiare allo Stato sono 223 milioni di euro. Ma le voci in cui si annidano sprechi e spese incomprensibili sono ancora eccessive. Troppe e con troppi soldi gettati al vento. Vediamoli, partendo dallo spreco più eclatante. La Camera può vantare il possesso di un meraviglioso palazzo sorto "in epoca paleocristiana nel cuore del Campo Marzio". Un gioiello, e come tale costa parecchio per la manutenzione. Per la precisione 1milione e 140mila euro per il supporto operativo nella sede di Vicolo Valdina. Per cosa vengono spesi? Basta andare a leggere nel bando di gara. L'appalto è di durata triennale e l'azienda vincitrice deve assicurare, tra le altre cose, la "movimentazione, anche tramite carrello, di plichi, faldoni, risme di carta, cancelleria, etc.", poi "l'accoglienza e l'accompagnamento ai piani dei frequentatori della sede" e "'esecuzione di attività di riproduzione fotostatica o fascicolazione di documenti". Insomma, più di un milione di euro per fare fotocopie, trasportare faldoni e recapitare la "corrispondenza e di ulteriori materiali". Per questo particolare compito, il bando precisa che i funzionari dovranno assicurare il "ritiro e la consegna della corrispondenza all'interno del Complesso e tra il Complesso e tutte le altre sedi della Camera dei deputati (...) e il recapito, con idonei mezzi di trasporto, della corrispondenza dei deputati tra il Complesso e le sedi degli altri organi costituzionali e dei ministeri ubicate nel comune di Roma". C'è da chiedersi quali siano gli "idonei mezzi di trasporto", considerando che tra Palazzo Montecitorio e Vicolo Valdina, dove è sito il complesso, ci sono appena 350 metri. Fatti a piedi significano circa 4 minuti (diciamo 5 in caso di pioggia), che diventano 6 se fatti in auto. E considerare che la Camera già spende 1.660.000 euro per "trasporto e facchinaggio". Tra le spese, va detto, ci sono anche quelle per il servizio di guardaroba. Un’altra di quelle voci di spesa della Camera che sembrano eccedere la logicità: nel bilancio sono stati previsti 150.000 euro per tenere a bada cappotti e cappelli dei deputati. Per non parlare poi delle spese di pulizia. Laura Boldrini, evidentemente attenta al pulito, si è assicurata una spesa di 6milioni e 550mila euro per l'igiene. Precisamente: 40.000 andranno alla lavanderia, 6.100.000 all'impresa di pulizie e 410.000 per lo smaltimento dei rifiuti. Altro punto poco chiaro riguarda le capacità poliglottiche degli onorevoli. I corsi di lingua, infatti, sono tutti a carico dei contribuenti: 300.000 euro nel 2015, cui va aggiunto il residuo di quelli ancora non pagati nell'anno passato, che ammontano a 295.113,70 euro. In totale quasi 600mila euro in docenti di inglese e di informatica. La cosa più curiosa, poi, è che evidentemente queste lezioni non danno i frutti sperati. O almeno non fino in fondo. Le tasse degli italiani, infatti, vanno a coprire anche le spese per "traduzioni e interpretariato". Che, sommando tutti i casi in cui vengono citate, si parla di 515mila euro. Andiamo oltre. Ogni anno vanno in fumo circa 35mila euro per sostenere la commissione che indaga (ancora) sulla morte di Aldo Moro e 340.000 euro per finanziare vari ed eventuali "convegni e conferenze". Tralasciando poi i 63 milioni di "rimborso delle spese sostenute dai deputati per l’esercizio del mandato parlamentare" (sul quale spesso ricadono enormi dubbi per il modo in cui vengono utilizzati) ci sono ulteriori 15 milioni e 910mila euro legati a spese non specificate, ma inserite in generiche voci chiamate "altre" o "accessorie". Infine, spuntano anche i 90.000 euro che ogni contribuente contribuirà a versare per permettere ad una commissione speciale di assicurarsi che i profughi abbiano tutto quello che gli occorre nei vari c'entri d'accoglienza sparsi per l'Italia. Una spesa di cui, sinceramente, non si sentiva il bisogno.

Come la Camera dei Deputati boccia se stessa. La Commissione di Montecitorio abolisce i tagli introdotti da Boldrini e Sereni: sì al tetto dei 240 mila euro, ma no alla sforbiciata sugli stipendi dei funzionari. Così, i 60 milioni di risparmi annunciati fino al 2018 rischiano di ridursi a 13 milioni. L'ufficio di presidenza annuncia ricorso. La battaglia tra caste continua, scrive Adriana Botta su “L’Espresso”. La Camera taglia, la Camera boccia i propri stessi tagli. E dopo aver annunciato una sforbiciata per 60 milioni di euro nel quadriennio 2015-2018, rischia seriamente di veder ridotto lo sbandierato dimagrimento a meno di un quarto del totale: 13 milioni di euro. E’ questo l’inedito boomerang che ha colpito i vertici di Montecitorio: dopo la corsa al taglia-taglia gli stipendi del personale, nel quale lo scorso anno sia la presidente Laura Boldrini che la vice Marina Sereni si erano distinte per impegno – spalleggiate anche da Renzi e dal Pd - arrivando a settembre 2014 all’approvazione unilaterale in ufficio di presidenza (contrarie tutte le 25 sigle sindacali) dei tagli modulari a tutti i ruoli del personale, adesso arriva lo stop a sorpresa. A seguito del ricorso dei dipendenti, con una sentenza notificata il 30 luglio, infatti, la commissione giurisdizionale per il personale di Montecitorio – organo interno, per ironia peraltro composto quasi solo da deputati Pd - ha bocciato la legittimità di quei tagli. Dando nei fatti ragione a quanti tra dipendenti e sindacati, nel corso delle trattative, parlavano di una norma "incostituzionale” perché violava il “principio più volte stabilito dalla Consulta circa il divieto di modificabilità della carriera in corso di rapporto di lavoro”, e ledeva sia “i diritti acquisiti” dei dipendenti più anziani, sia “le legittime aspettative” di un “avanzamento retributivo” “ben codificato”. Ma quale è esattamente il punto? Un anno fa, l’ufficio di presidenza di Montecitorio non si limitò ad adottare il tetto massimo di 240 mila euro annui per i funzionari pubblici che il governo aveva appena introdotto. Volle fare di più: per dimostrare risparmiando di “non essere sordi a quel che avviene nel paese” (come disse Boldrini), ma anche per mantenere la differenza monetaria oltreché di status fra le varie categorie lavorative (segretari generali, consiglieri, documentaristi, segretari, commessi, tecnici), per evitare appiattimenti si introdussero i cosiddetti “sotto-tetti”, ossia tagli proporzionali a tutti i livelli dei dipendenti di Palazzo. Una sforbiciata generale, che secondo i calcoli ha toccato circa il 40 per cento del personale, ossia quelli che hanno già superato il ventennio di servizio (lo scatto di stipendio maggiore arriva al ventitreesimo anno di servizio). E’ proprio questa decisione sui sotto-tetti, quella bocciata dalla Commissione giurisdizionale: pur ribadendo l’autonomia della Camera, infatti, la sentenza spiega in sostanza che ci si può ispirare alla legge che prevede il tetto dei 240 mila euro, ma non aggiungere ulteriori limiti per le altre categorie di dipendenti – non previsti da quella legge. Il che, era proprio il punto contestato all’epoca dai sindacati, che si erano detti favorevoli al limite dei 240 mila euro, ma contrari alla complessiva rimodulazione. Non che la sforbiciata sia stata annullata del tutto. Spiega infatti la presidente Boldrini, che la decisione è provvisoria: «Sono saltati i tetti agli stipendi dei dipendenti della Camera? Non è vero. La decisione sarà presto riesaminata». Ovviamente, quella che volendo può chiamarsi una guerra fra caste nel nome dei tagli (politici contro Palazzo) non è finita qui. L’ufficio di presidenza ha infatti già presentato appello contro la sentenza, che quindi resta sospesa fino a settembre, quando si avrà la parola definitiva. In un caso e nell’altro, comunque, si dovrà scegliere tra due paradossi: o un segretario generale (che fino all’anno scorso prendeva 478 mila euro) finirà per guadagnare quanto un consigliere parlamentare a fine carriera (240 mila euro, appunto) e poco più di un documentarista (237 mila euro, sempre a fine carriera), oppure si dovrà escogitare un altro sistema che eviti l’appiattimento senza però risultare illegittimo. Servirà insomma una soluzione complessiva: anche perché al Senato la stessa vicenda ha preso una piega opposta (i sottotetti sono stati giudicati legittimi), e il tutto dovrà essere armonizzato con il cosiddetto ruolo unico dei dipendenti dei due rami del Parlamento. La valanga dei ricorsi, peraltro, non può dirsi ancora finita. Alla prossima.

Camera, commessi a 232 mila euro e barbieri a 143 mila: l’Italia che resiste, scrive Alessandro Camilli su “Blitz Quotidiano”. Duecentoquarantamila euro, tanto può guadagnare al massimo il Presidente della Repubblica e tanto possono guadagnare, al massimo, i dipendenti pubblici, compresi ovviamente   quelli della Camera dei Deputati. Stipendio bloccato grazie al tetto imposto ed introdotto l’anno scorso per la pubblica amministrazione che a Montecitorio aveva portato con sé anche dei limiti intermedi, dei sottotetti continuando la metafora, che si sono però rivelati stretti, troppo, per chi li doveva “subire”. Così stretti che gli interessati hanno presentato ricorso, accolto dalla Camera   stessa, realizzando la meraviglia, il paradosso per cui i commessi possono continuare a sfiorare a fine carriera lo stipendio dell’inquilino del Quirinale toccando i 232 mila euro e i barbieri (7 a Montecitorio) continuare a costare 500mila   euro ogni dodici mesi con il più anziano che vanta uno stipendio da 143mila euro. “L’anno scorso – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – si era stabilito di applicare il tetto dei 240 mila euro per gli stipendi pubblici anche ai dipendenti di Montecitorio, dove le retribuzioni   arrivano anche a superare anche il doppio di quella cifra. Avevano dunque fissato il tetto massimo per i superdirigenti, introducendo limiti di fascia più bassi per le categorie inferiori in modo da   graduare i compensi”. La vicenda nasce nell’ambito del contenimento della spesa pubblica con la decisione del governo, nell’aprile 2014, di introdurre un tetto ai dirigenti della pubblica amministrazione, fissato a   240mila euro. A questa norma si sono in seguito adeguate tutte le istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica, passando poi dal Senato e dalla Camera. In particolare alla Camera   sono stati introdotti dei tetti per i consiglieri parlamentari, che sono i funzionari di più alto livello (che a fine carriera avrebbero potuto raggiungere anche i 358mila euro lordi annui), e poi dei   sottotetti per le altre figure professionali. Il dipendente di più basso livello, l’operatore tecnico o il commesso che a fine carriera raggiungeva i 136mila euro lordi annui, dopo la delibera aveva visto   la cifra scendere a 96mila, per fare un esempio. La logica sottesa all’introduzione dei sottotettiera quella di modulare la retribuzione massima in   modo da evitare che due funzioni diverse, come ad esempio il commesso della Camera ed il Presidente della Repubblica, potessero essere retribuite praticamente allo stesso modo. Logica chiara e, evidentemente, ineccepibile. Almeno dal punto di vista teorico. Eccepibile invece dal punto di vista pratico tanto che gli interessati, come detto, hanno presentato ricorso. E grazie al regolamento della Camera dei Deputati il ricorso dei dipendenti della Camera, e   scusate le inevitabili ripetizioni, è stato presentato alla Camera dove dei parlamentari della Camera che compongono la commissione competente lo hanno accolto stabilendo che la decisione della Camera era sbagliata. Sembra folle, sembra italiano non corretto eppure è così e, ancora una volta, a spiegare l’accaduto è Rizzo facendo ricordo al termine ‘autodichia’ che, nella definizione della Treccani, è “l’esercizio di attività formalmente giurisdizionale da parte della   pubblica amministrazione”. Cioè il principio in base al quale le decisioni di un organo costituzionale come il Parlamento non sono sindacabili dall’esterno. “Davanti alla proposta di applicare tetti diversi – spiega Rizzo -, commessi e documentaristi hanno abbozzato e hanno fatto ricorso all’organo giurisdizionale interno. Si tratta di una   commissione composta da deputati. E ovviamente ha accolto il ricorso presentato dall’avvocato   dei dipendenti riottosi: l’ex deputato Maurizio Paniz. Tutto in famiglia insomma”. Risultato: il risparmio previsto da qui al 2018 per Montecitorio passerà da 60 a 13 milioni di euro. Raramente barba e capelli sono costati tanto. Eppure commessi, documentaristi, barbieri e addetti vari della Camera dei deputati non sono soli. Sono soltanto un segmento della vasta Italia che resiste. Resistono gli autisti Atac nella trincea dell’orario di lavoro effettivo più basso d’Italia e certo d’Europa. Resistono i dipendenti comunali nella trincea del salario accessorio percepito senza lavoro o produttività accessoria, resistono tutti nei bunker conquistati finora, strappati alla lobby a fianco o comunque espugnati demolendo il pubblico denaro. Resistono tutti indifferenti al mondo, all’intero resto del mondo. Solo che non è proprio la stessa cosa resistere ottusamente se si guadagnano 1.500/2.000 euro al mese o se lo stipendio è cinque volte tanto. Non sono soli questi lavoratori della Camera dei deputati a pretendere ciò che non gli spetta, solo è che non si possono guardare tanta è la loro protervia. Come diceva un tale che faceva il filosofo…dopo una certa misura la quantità stessa muta la qualità, dopo un botto di stipendio infatti il corporativismo sindacale muta in indecenza sociale.

Diabolus in politica. Perché è stato bocciato il tetto massimo di 240 mila euro fissato invece per tutti i funzionari della pubblica amministrazione, scrive Serenus Zeitblom su “Panorama”. Gli stipendi dei politici vi sembrano alti? Cambiereste idea se conosceste gli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato. Fino all’anno scorso, i più alti funzionari di Montecitorio arrivavano a guadagnare quasi 360.000 euro l’anno, vale a dire il triplo dell’indennità che percepisce un deputato. Lo scorso anno, i vertici dei due rami del Parlamento decisero di applicare, congiuntamente, un tetto analogo a quello che il Governo Renzi aveva disposto per il resto della pubblica amministrazione. I funzionari di Palazzo Madama e di Montecitorio non avrebbero percepito più di 240.000 euro l’anno, comunque il doppio dei deputati (ad entrambe le categorie vanno poi aggiunte indennità varie). Vi sembra ancora troppo? Tenete presente che si tratta di funzionari di altissimo livello, il meglio di cui la pubblica amministrazione disponga. Vengono selezionati attraverso concorsi molto severi e – bisogna riconoscerlo – non troppo lottizzati politicamente. Naturalmente, secondo logica, si decise in quel momento di diminuire anche gli stipendi delle altre categorie di dipendenti dei due palazzi, provvedimento certamente logico e necessaria conseguenza dell’altro (si tenga conto che quasi la metà del totale dei dipendenti della Camera – compresi commessi e centralinisti - guadagnava più di un deputato). Ma qui le cose non sono andate lisce. Se nel caso degli alti funzionari si ebbero solo composti mugugni, qui si misero di mezzo i sindacati, e fioccarono i ricorsi. Ricorsi alla Magistratura? Niente affatto: la Camera è un organo costituzionale, e quindi – come per il Senato, il Quirinale, la Corte Costituzionale - vale il principio dell’autodichìa, per effetto del quale è la Camera stessa, attraverso un organo apposito, a giudicare sui ricorsi. Questo organismo si chiama Commissione Giurisdizionale per il personale, ed è composto da 3 deputati, estratti a sorte. In questa legislatura la sorte ha voluto, un po’ curiosamente, che i 3 membri fossero tutti del PD: gli on. Bonifazi (Presidente), Ginefra, Bonavitacola. Nessun problema, si dirà: la delibera che poneva un tetto alle retribuzioni è stata assunta dall’Ufficio di Presidenza della Camera, a stragrande maggioranza PD, in attuazione di un orientamento del Governo Renzi (PD). E invece no: nei giorni scorsi la delibera è stata bocciata, i ricorsi accolti. Lodevole esempio di indipendenza di giudizio di deputati PD che decidono secondo coscienza, o terrore di scontentare i sindacati? Vediamo. La motivazione della sentenza che accoglie i ricorsi ha poco di tecnico. Il tetto alle retribuzioni, secondo i tre deputati del PD “viola il principio di ragionevolezza” e non giova all’amministrazione, perché i dipendenti, privati “delle leve di incentivazione determinate dal consolidato sviluppo stipendiale” potrebbero dar luogo “a comportamenti poco virtuosi e a cali di produttività determinati dall’assenza di competizione”. Fuori dagli orrori del burocratese, significa che i lavoratori della Camera (al Senato un ricorso analogo è stato respinto), secondo i tre del PD, senza l’incentivo di aumenti di stipendio diventerebbero meno produttivi o addirittura “meno virtuosi”. In effetti, c’è da capirli. Si tratta di modesti lavoratori, che devono mantenere la famiglia lavorando duramente per un tozzo di pane: come si può chiedere a una segretaria di essere motivata a lavorare con impegno se guadagna solo 115.000 euro l’anno? (lordi, s’intende). Come si può pretendere che un commesso spenga le luci o distribuisca la posta fra gli uffici con dedizione e impegno sapendo che non prenderà mai più di 99.000 euro l’anno? Per fortuna il PD ha corretto queste storture, questo vero attentato ai diritti dei lavoratori, e si è tornati al regime precedente. Uno stenografo potrà tornare a percepire 256.000 euro l’anno (più del Segretario Generale), un barbiere anziano ed esperto, che “porta in dote il bagaglio professionale acquisito in anni di servizio” come scrivono i tre del PD, sarà premiato per le sue rasature con 160.000 euro l’anno (il 30% in più di un deputato). Poi dicono che il PD non è più un partito di sinistra: un simile esempio di socialismo reale – a spese dei contribuenti - persino Lenin se lo sognava!

"La lista della spesa". La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Si è parlato tanto di spending review, di taglio agli sprechi.. ma cosa è stato fatto? E soprattutto, cosa si può davvero tagliare della spesa pubblica? Carlo Cottarelli, classe 1954, laureatosi a Siena e alla celeberrima London School of Economics, ha alle spalle una lunga carriera in Banca d’Italia, Eni e al Fondo Monetario internazionale. E’ salito alla ribalta quando è stato nominato commissario straordinario per la Revisione della Spesa, incarico che ha ricoperto da ottobre 2013 a novembre 2014, proprio con il compito di individuare i tagli da fare per ottimizzare la spesa pubblica. Dalla sua attività sarebbero dovuti scaturire milioni di euro, eppure ancora poco si è mosso. Per spiegare agli italiani che cos’è la spesa pubblica, Cottarelli ha scelto di raccogliere nel libro “La lista della spesa” le sue riflessioni (e la sua diagnosi) in merito a questo grande “mistero italiano”. Ed ecco che ne deriva una lettura acuta del nostro paese, di come spende e di perché si spende, una sorta di guida che illustra dove vanno a finire le tasse che paghiamo, se spendiamo davvero troppo per i servizi pubblici e perché i tagli tanto promessi da tutti i politici tardano ad essere sempre concretizzati. Chi se non lui poteva svelare cosa si può davvero tagliare in Italia? Una lettura acuta per conoscere un po’ meglio il nostro paese.

Carlo Cottarelli ha goduto per qualche tempo di grande attenzione mediatica. È stato nominato commissario straordinario alla spending review, dal suo lavoro dovevano arrivare milioni di euro per le esauste casse dello stato italiano, al termine del suo mandato è stato invitato in tutte le televisioni e intervistato da tutti i giornali. A distanza di mesi, Cottarelli affida a questo libro le sue riflessioni, i suoi ricordi, le sue diagnosi per cercare di spiegare al grande pubblico uno dei grandi misteri dell’Italia: quell’enorme calderone che è la nostra spesa pubblica. Senza tecnicismi ma non tralasciando nulla di importante, Cottarelli ci guida nei meandri del bilancio statale, facendoci scoprire man mano il grande meccanismo che regola la nostra vita di cittadini, un meccanismo di cui abbiamo solo una vaga percezione, al tempo stesso minacciosa e sfocata. Dove vanno a finire tutti i soldi che paghiamo con le tasse? Davvero spendiamo troppo per i servizi pubblici? Perché si finisce sempre a parlare di tagli alle pensioni? Sprecano di più i comuni, le regioni o lo stato centrale? Perché tutti i politici dicono che taglieranno gli sprechi e nessuno lo fa mai? Ma gli altri paesi come fanno? Un libro chiaro e autorevole, per fare le pulci alla macchina statale italiana, al di là dei luoghi comuni e delle polemiche giornalistiche: perché analizzare un bilancio statale può sembrare arido e difficile, ma con la guida giusta può diventare la lettura più acuta, sorprendente e accurata di un paese intero. “Il livello di spesa pubblica appropriato dipende anche da quanto un paese si può permettere. Non a caso, come motto per la revisione della spesa mi è stato suggerito un vecchio adagio cremonese: "Se se pol mia, se fa sensa", ovvero: se non si può, si fa senza.”

Spending review, la verità di Cottarelli in un libro: «Ecco chi remava contro», scrive “Businness People”. Carlo Cottarelli dopo un anno da commissario alla spending review ha gettato la spugna per tornare al Fmi. La verità dell'ex commissario sui mancati tagli alla spesa: lo spreco delle sedi statali in affitto. «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». E' una frase di Francesco Guccini ad aprire l'attesissimo saggio di Carlo Cottarelli, l'ex commissario alla spending review che ha gettato la spugna dopo un anno di guerra ai mulini a vento degli sprechi pubblici. Il libro, edito da Feltrinelli, sarà in vendita da domani 27 maggio (i diritti saranno devoluti all'Unicef). La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare è la summa del lavoro dell'economista e racconta ancheil fallimento della sua missione, incagliatasi contro gli interessi politici.

DIECIMILA SEDI. Nelle anticipazioni del Corriere della Sera, si racconta passo passo l'opposizione, a partire dai cinque gruppi di lavoro su 17 che non hanno mai fornito proposte di tagli, insomma hanno boicottato la spending review. Tutta colpa del «complicato mosaico», come lo definisce Cottarelli. E a ogni tessera corrisponde uno spreco: 5.700 sedi territoriali dei ministeri, 3.900 uffici di enti vigilati. Diecimila sedi statali, senza contare caserme di polizia e carabinieri.

W LE PROVINCE. Tutto ruota ancora sulle province e sui capoluoghi, nonostante la riorganzzazione annunciata e mai intrapresa. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...

FORZE DELL'ORDINE. Altro capitolo spinoso è quello delle forze dell'ordine: sono cinque, per cominciare, ognuno dipendente da un ministero diverso per 21 miliardi di spesa totale vista la duplicazione di amministrazioni, centri acquiisti, forniture, manutenzioni e persino pubblicazioni. E occupano 320 mila persone, con un rapporto fra agenti e abitanti superiore alla media europea e inferiore in assoluto soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. FInisce così che i 34 mila uffici pubblici per l'acquisto di beni e servizi gestiscano 1,2 milioni di procedure, con un costo a bando da 50 mila a 500 mila euro.

ENTI PUBBLICI. Non finisce qui. Capitolo enti pubblici, che sono 198. C'è pure l'Aci, simbolo degli sprechi secondo Cottarelli. I cittadini pagano all'ente 190 milioni all'anno per immatricolazioni e cambi di proprietà, per un servizio che è un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Ma i due archivi sembrano non poter essere uniti.

QUANTO SPAZIO. Il primo passo per risparmiare dovrebbe essere la razionalizzazione degli spazi e la ristrutturazione degli stabili obsoleti: l'operazione nel Regno Unito è costata 7,5 miliardi, ha aiutato l'economia e ha permesso di ridurre gli immobili occupati del 45% dimezzando i costi. «Potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...», dice Cottarelli, «e anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche».

Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Nel suo volume "Lista della Spesa" l'ex commissario alla spending review svela paradossi e enti che si moltiplicano. Un racconto anticipato da Sergio Rizzo sul "Corriere della Sera", scrive Giornalettismo. Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Inefficienze, sprechi, paradossi. Nel suo volume “Lista della Spesa“, pubblicato da Feltrinelli e anticipato sul “Corriere della Sera” da Sergio Rizzo, l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli racconta la sua verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può realmente tagliare. Chiamato dall’ex premier Enrico Letta nel 2013, il cambio a Palazzo Chigi non ha certo giovato al lavoro di Cottarelli e dei gruppi, finito di fatto archiviato. Soltanto un anno dopo è stato pubblicato online il piano dell’ex commissario alla spesa, applicato però soltanto in modo marginale. Da Cottarelli però nessuna polemica, soltanto la convinzione che la “Bestia” sia ancora battibile, che gli sprechi possano essere tagliate. Basta guardare qualche numero. Soltanto le sedi territoriali dei ministeri erano quasi dieci mila alla fine del 2012. Una ogni 6.250 italiani, senza conteggiare le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Scrive Rizzo: «Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione… Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni… Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. Per quanto riguarda gli enti pubblici, Cottarelli nel suo libro precisa di aver trovato un documento della Camera che ne elenca 198, soltanto nazionali: «Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi», si legge. Al contrario, in Italia imitare questo modello sembra ancora un’utopia. Serve volontà politica. Eppure i costi, scrive Cottarelli, «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno…». Senza dimenticare quegli sprechi che potrebbero essere eliminati senza bisogne di “ristrutturazioni”: «Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione…». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno».

Il libro (e il bilancio) di Cottarelli. Diecimila sedi dello Stato. La spesa pubblica che ci soffoca. Inefficienze, enti che si moltiplicano e paradossi nel racconto del commissario alla revisione della spesa, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. «Ma se io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Carlo Cottarelli La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare . Un viaggio nel ventre della Bestia che succhia le nostre risorse più preziose. La Bestia, è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review, già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. Della determinazione con cui Carlo Cottarelli ha affrontato per un anno e dieci giorni il compito di commissario alla revisione della spesa, dice tutto una strofa della canzone L’Avvelenata di Francesco Guccini: «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Cottarelli in libreria da domani, pubblicato da Feltrinelli. Un libro, La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare, semplicemente sorprendente. Non ha sassolini da togliersi, l’ex commissario. Anche se un altro, dopo la freddezza con cui l’attuale governo ha accolto la fine della sua esperienza, l’avrebbe fatto eccome. Non lui. Leggere il libro è come fare un viaggio nel ventre della «Bestia» che succhia le nostre risorse più preziose, ma condotti da una guida esperta che ne ha già esplorato le viscere. Così bene da sfatare anche le convinzioni più pessimistiche. La «Bestia», è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario internazionale chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Prima sorpresa...Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. A cominciare dai fondamentali. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, e ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. C’entra forse la caduta del governo Letta, che probabilmente ha segnato anche il destino di Cottarelli. Forse. Ma di sicuro c’entra anche la reazione della pubblica amministrazione. E di quello che l’ex commissario chiama benevolmente il suo «complicato mosaico». Cottarelli racconta di averne scoperto le dimensioni grazie a una stima della Funzione pubblica. Da brivido. Sapete quante erano alla fine del 2012 le sole sedi territoriali dei ministeri? Circa 5.700. Numero al quale si devono però aggiungere 3.900 uffici di enti vigilati dai ministeri. Per un totale di 9.600. Senza però che in quelle quasi 10 mila sedi del solo Stato centrale, per capirci una ogni 6.250 italiani, siano comprese le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni...Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. E poi gli enti pubblici. La «migliore ricognizione» che Cottarelli dice di aver trovato è un documento della Camera che ne elenca 198, ma solo per quelli nazionali. Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi. Noi, niente affatto. Gli edifici sono vecchi, gli spazi si sprecano. Eppure i costi «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...». Vero è, insiste l’ex commissario, che «anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche». Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione...». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno». Per la cronaca, i diritti del libro di Cottarelli saranno devoluti all’Unicef .

Spese pazze nei tribunali: il governo li "commissaria". Ci sono sedi che spendono cinque volte più di altre. Adesso la gestione passerà dai Comuni allo Stato. Milano ironizza: "Aspetteremo l'idraulico da Roma...", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Far funzionare la giustizia a Bologna costa quasi il doppio che a Firenze. Tenere aperto il tribunale di Sassari costa il triplo che mantenere quello di Trento. La corte d'appello di Messina va avanti con metà degli euro che servono a quella prospiciente di Reggio Calabria, e con un quinto del denaro che inghiotte ogni anno, cento chilometri più in giù, il distretto giudiziario di Catania. Com'è possibile? Mistero, anche se si può stare certi che ognuno dei tribunali spendaccioni avrà pronta una sua spiegazione. Ma il dato di fatto è che nelle tabelle diramate ieri dal ministero della Giustizia emerge un affresco surreale delle spese che ogni anno mantengono in vita l'apparato giudiziario: le spese correnti, quelle per il riscaldamento, i telefoni, la vigilanza privata agli ingressi. Un buco senza fine cui solo di recente il ministero ha deciso di prendere in mano il controllo. Finora (con l'eccezione di Roma e Napoli, già gestite direttamente dal ministero della Giustizia) i palazzi di giustizia vengono mantenuti dai Comuni, che poi si rivalgono sulle casse di via Arenula. E il documento diramato dallo staff del ministro Andrea Orlando rende conto di come sono stati distribuiti i 58 milioni di euro che il governo ha versato ai Comuni per rimborsare una prima tranche, il 70 per cento, delle spese sostenute nell'arco del 2013. La distribuzione riguarda sia i capoluoghi più grossi, che sono sedi di Corti d'appello (e qui il più costoso è Milano, con i suoi 4,7 milioni), sia i Comuni dove c'è solo un tribunale o un giudice di pace, nonchè quelli che ospitavano sedi giudiziarie soppresse recentemente da Renzi nella spending review : ed è un piccolo viaggio nella giustizia di paese, dove si apprende che a Silandro, in Alto Adige, c'era una sede staccata che riusciva a stare aperta con 512 euro l'anno, meno di due euro al giorno; o che la vita quotidiana della giustizia a Foligno costava, chissà perché, 37 volte più che nella vicina Città di Castello. Insomma, un marasma dove accade che il più costoso d'Italia sia il tribunale di Agrigento, e che il suo funzionamento costi il quintuplo di quello di Varese, che ha il doppio di abitanti. È per mettere sotto controllo questo andazzo che il ministero ha deciso di accentrare dal prossimo settembre la gestione delle spese di funzionamento dei palazzi di giustizia. La decisione di Orlando ha sollevato le ire di molte toghe: a Milano si sono addirittura riuniti in assemblea per protesta, «adesso se si rompe un tubo dovremo aspettare l'idraulico da Roma». Ma è un dato oggettivo che le spese per la giustizia erano quasi ovunque fuori da ogni controllo, anche perché la Corte dei Conti, molto e giustamente solerte nel fare le pulci alle spese dei politici, quando si tratta di affari che riguardano altri magistrati è assai più lenta. Tanto per restare a Milano, le denunce sullo sperpero di fondi Expo avvenuto in tribunale sono rimaste senza conseguenze, e lo stesso è accaduto all'esposto della Procura generale sulla folle cifra investita per costruire una nuova aula bunker davanti al carcere di Opera, incompiuta dopo oltre sedici anni.

Cottarelli boccia la Consulta: si sono aumentati le pensioni. L'ex commissario racconta i risparmi mancati dei governi di Letta e Renzi. E bacchetta la Corte costituzionale: l'intero organo costa 60 milioni l'anno, scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. La spesa pubblica resiste. Compressa da interessi sul debito e dalle pensioni. Ridotta negli ultimi anni, ma con grande parsimonia, senza incidere sulle voci principali (a partire dal personale) o con inutili tagli lineari. La macchina della pubblica amministrazione, insomma, non cambia. Quella centrale si espande su migliaia di sedi, quella locale resiste e anche gli organi costituzionali, dopo qualche limatura ai bilanci, restano lontani dagli standard internazionali. Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review nominato dall'ex premier Enrico Letta e uscito di scena con l'esecutivo Renzi, ha dedicato alla sua esperienza un libro (La Lista della spesa, Feltrinelli). Toni molto soft. Soprattutto con gli organi costituzionali. Ma la sostanza resta quella di un Paese che conserva gelosamente le sue anomalie. Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale, Csm, Consiglio di stato, Corte dei conti e Cnel nel 2013 costavano circa 2 miliardi e 700 milioni. Negli ultimi due anni la spesa è «rimasta sostanzialmente invariata». Camera (che ha operato i risparmi più consistenti) e Senato costano circa un miliardo. Per House of Commons e House of Lords i cittadini del regno Unito spendono 675 milioni di euro, il Parlamento tedesco costa 670 milioni, sotto quello italiano anche considerando le pensioni. In Francia 900 milioni. Il confronto è difficile anche per l'opacità delle onorevoli buste paga. La Commissione Giovannini, ricorda Cottarelli, era stata incaricata di confrontare in modo rigoroso gli stipendi dei parlamentari in Europa, ma gettò la spugna. L'ex commissario ci prova comunque e rileva come, a fronte di un'indennità dei parlamentari italiani di 10mila euro, quella francese è di 7mila, 8.000 quella dei tedeschi e di 6.500 euro quella dei britannici. Al netto delle tasse restiamo sopra gli standard europei del 30%. Abbiamo più parlamentari degli altri paesi europei. I costi del personale del Parlamento rappresentano la metà delle spese del bilancio. «La retribuzione media lorda dei dipendenti della Camera è di circa 188mila euro», contro i 106mila di quelli di Bankitalia. Cottarelli fa un accenno anche ai vitalizi e sembra dubitare della riforma che ha introdotto il sistema di calcolo contributivo anche per i deputati. Qualche riga anche alla Corte costituzionale, finita sotto i riflettori per la sentenza che ha salvato la rivalutazione delle pensioni. Costa 60 milioni. I costi di funzionamento sono stati tagliati, ma la Consulta ha fatto registrare anche un aumento della spesa, per pagare le proprie pensioni. In generale, Cottarelli dà conto di un'amministrazione bizantina. Il conto delle pubbliche amministrazioni è di 10.200, solo i Comuni sono 8.100. I ministeri, fanno aumentare il conto degli uffici pubblici di altre 10mila unità. A fine 2012, conta Cottarelli, «erano circa 5.700, cui si devono aggiungere quasi 3.900 sedi di enti vigilati dai ministeri, per un totale di oltre 9.600 sedi». Ogni ministero ha come minimo 100 uffici provinciali che spesso si moltiplicano per ogni funzione. Ad esempio il ministero dell'Economia conta «103 commissioni tributarie provinciali, 102 comandi provinciali della Guardia di finanza, 97 uffici provinciali dell'Agenzia delle entrate e 93 ragionerie territoriali dello stato». Una complessità che si traduce anche in un costo esorbitante per gli affitti degli uffici pubblici. Circa due miliardi all'anno.

Le meteore del 1994 si tengono stretti i vitalizi. È stato l'anno della svolta che ha seppellito la prima Repubblica ma anche quello degli esordienti in politica, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Dal 1994 nulla è stato più come prima. Forse perché, come il 1992, è esistito veramente e non è stato partorito da un'idea di Stefano Accorsi. Altro che fiction, ci sono testimonianze nell'elenco dei vitalizi della Camera che dimostrano come quel Big Bang elettorale abbia inciso sui destini del nostro Paese, ma anche come la politica non fosse pronta a un grande cambiamento. Le resistenze alla novità hanno in qualche modo prevalso, ieri come oggi, e l'impreparazione di molti, insieme all'opportunismo di alcuni, ha fatto il resto. Più che della «gioiosa macchina da guerra» dei Progressisti di Achille Occhetto, sbaragliata da Silvio Berlusconi, val la pena di partire da un segno premonitore nelle circoscrizioni fiorentine. Il Pds presenta un trentottenne consigliere comunale, il segretario fiorentino Leonardo Domenici (-51mila euro il suo sbilancio previdenziale), destinato a diventare cinque anni dopo sindaco del capoluogo. Gli fa idealmente posto un deputato ex dc (Ppi e sinistra non sono ancora alleati): l'ex sottosegretario all'Istruzione Giuseppe Matulli (-600mila euro). Se ne torna nel Mugello a fare il sindaco del suo Paese, poi diverrà il vice di Domenici. Proprio in quegli anni diventa lo «sponsor» politico di uno studente universitario e caposcout, coinvolgendolo di lì a poco nei comitati per Prodi e nello staff di un altro diccino di sinistra, Lapo Pistelli. Sì, Matteo Renzi nasce dalle «porte girevoli» di Montecitorio nel 1994. Certo, agli occhi della grande stampa in quel periodo desta maggiore attenzione il pattuglione di homines novi portati in Parlamento da Silvio Berlusconi e da Umberto Bossi. E, in effetti, rispetto al grigiore del passato la musica cambia. C'è il professor Giuliano Urbani (-238mila euro), ideatore del progetto di coalizione alternativo alla sinistra. Un'idea presentata a Gianni Agnelli e rifiutata dall'Avvocato, restio a scomporre assetti precostituiti. Il Cavaliere ci crede e, assieme al gruppo che aveva creduto nel suo sogno imprenditoriale, realizza un altro sogno: dare una forma alla maggioranza del Paese. La politica, però, è altra cosa dall'economia: la determinazione non basta. Anche perché collaboratori come Vittorio Dotti (-317mila) inciampano nel desiderio di visibilità della propria partner. Altri, come il capogruppo alla Camera Raffaele Della Valle (-345mila) e come il giornalista Umberto Cecchi (-347mila euro) non sono effettivamente preparati al clima incandescente, ma più propensi alle antiche mediazioni. La Forza Italia delle origini è come un elemento radioattivo: è pesante (alle Europee di quell'anno superò il 30%) ma è instabile. Un po' perché alcuni deputati sono più inclini al vecchio lavoro manageriale e presto vi fanno ritorno come Paolo Vigevano (-113mila euro) e Sandro Trevisanato (-117mila euro). Un po' perché l'ambizione di altri li porta verso altri lidi. È il caso della casiniana Ombretta Fumagalli Carulli (-638mila euro) e di Mariella Cavanna Scirea che nella legislatura successiva entreranno addirittura nella maggioranza di centrosinistra. La crisi del primo governo Berlusconi si originò dal colpo di testa di Umberto Bossi e dall'ingerenza del presidente della Repubblica Scalfaro. Anche la Lega, però, non era pronta. Quella fu l'ultima legislatura di Franco Rocchetta (-343mila euro), il fondatore della Liga Veneta incorso negli strali del Senatur. La svolta «dalemiana» di Bossi non piacque a coloro che nel centrodestra unito credevano veramente a quel tempo, come Giuseppe Dallara (-425mila euro), Enrico Hullweck (-149mila euro) e il senatore Renato Ellero (-235mila). Quest'ultimo, oltre un quindicennio dopo, tornerà agli onori delle cronache come avvocato del presunto acquirente della casa di Montecarlo nella quale viveva il cognato di Gianfranco Fini. La sinistra del 1994, invece, non è molto diversa da quella che si conosce oggi anche se tutti hanno indossato i vestiti nuovi del renzismo. Ci sono pretori d'assalto come Nicola Magrone (-324mila euro), un Michele Emiliano ante litteram , e giornalisti embedded come il socialista Vittorio Emiliani (-428mila euro) che poi sarà ricompensato con un posto nel cda Rai. Rifondazione porta con sé un giovane cossuttiano torinese: Marco Rizzo (-136mila euro). Comunista e operaista un po' fuori tempo massimo.

Metamorfosi Carroccio: Roma non è più ladrona, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Sembra passato un secolo, ma solo 35 anni fa, agli inizi degli anni '80 il fondatore e capo carismatico della Lega Nord, Umberto Bossi, approcciava la politica dal lato della poesia, dell'estetica con questi mirabili versi « Aj varan nagott sti dü fioeu, von di nostar e un teron » (Sono dei perdigiorno questi due ragazzi, uno dei nostri e un terrone). E che dire della Dieta degli autonomisti settentrionali al castello di Pomerio, fase embrionale del Parlamento padano? La Lega fino a poco tempo fa, soprattutto nell'immaginario collettivo, aveva un connotato razzista e antimeridionale. «Roma ladrona, la Lega non perdona!» era lo slogan preferito del Senatur. Osservare la folla di Piazza del Popolo in estasi per Matteo Salvini ieri potrebbe sembrare un profondo rivolgimento rispetto a quelli che erano i principi fondanti dello stesso movimento leghista che ancor oggi porta il «Nord» nel nome, pur avendo rinunciato alla dicitura «Padania» in nome del più coinvolgente «No Euro». Ma all'attuale leader del Carroccio occorre riconoscere di aver portato a fecondazione i caratteri già iscritti nel Dna del partito. L'attaccamento al territorio originario sempre minacciato nella sua «diversità» resta anche se non si sentono più certe affermazioni. «Eh sì, ho una nonna romana. Per me è come avere un'unghia incarnita. Mi dà fastidio», diceva Corinto Marchini, capo delle Camicie Verdi. «Non amo i meridionali perché sono europeo», gli faceva eco l'ideologo del Carroccio, Gianfranco Miglio. Tant'è che in uno dei più fortunati manifesti elettorali della Lega il settentrione era rappresentato come una gallina che inviava le proprie uova d'oro a Roma e a tutto il Sud, veri sfruttatori dell'operosità lombardo-veneta-piemontese. Erano i tempi pionieristici, quelli della Lega che sbraitava contro la «colonizzazione meridionale del Nord» invocando la secessione. Come nel settembre 1992: «Da Milano potrebbe partire una marcia su Roma per chiedere la secessione del Nord», tuonò il Senatur. In mezzo a quello che potremmo definire anche il folklore leghista c'erano i primi velleitari tentativi di varcare i confini della Padania per rendere il Carroccio un partito presente su tutto il territorio nazionale o, quantomeno, un movimento federativo delle istanze autonomiste in tutta la Penisola. Si spiega così il tour meridionale di Umberto Bossi nelle principali città del Sud all'inizio degli anni '90. Diffidenza, insulti e un primo scontro con quello che sarebbe diventato un suo alleato, il missino Gianni Alemanno andò fino a Catania per contestarlo senza sapere che di lì a dieci anni se lo sarebbe ritrovato al fianco nell'esecutivo Berlusconi. Si spiegano così pure gli abboccamenti con la Lega Sud Ausonia di Gianfranco Vestuto nel 1996, un flop elettorale clamoroso così come il tandem con l'Mpa di Raffaele Lombardo alle elezioni politiche del 2006. L'antimeridionalismo? Solo un modo per farsi pubblicità. In mezzo a tutto questo un preciso disegno politico: esportare il brand oltreconfine. Un progetto affidato al deputato ligure Giacomo Chiappori nel 2008: la creazione di un Parlamento del Sud da affiancare a quello del Nord (vecchio arnese della fase secessionista 1995-1999) e uno spin off del marchio di via Bellerio, «Alleanza Federalista». Un colpo al cerchio della crescita elettorale e uno alla botte del protoleghismo. Tipo l'infelice battuta bossiana «Spqr, sono porci questi romani» con tanto di magnata di bucatini all'amatriciana per far pace con Alemanno e Polverini a favor di telecamera. Salvini ha fatto tesoro di tutte queste esperienze. E cerca di replicarle senza esagerazioni. In fondo, essere sicuri a casa propria, avere una buona pensione, dire di no a questa Ue sono concetti che vanno bene da Milano fino a Canicattì.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

L'ULTIMA RAPINA COMUNISTA A DANNO DEGLI ITALIANI.

Lo Stato paga i debiti dei Ds. Arriva l'ultima rapina comunista. Lo Stato è stato obbligato a coprire 107 milioni di passivi del quotidiano L'Unità. Tocca ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali dei Ds: lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici del partito. Ma non è finita: da saldare mancano altri 18 milioni di euro, scrive Sergio Rame su "Il Giornale" Lunedì 09/11/2015. Lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici dei Ds. Come denuncia Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, è toccato ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali del partito. Da saldare alla Sga, società nata dieci anni fa per recuperare i crediti dal crac del Banco di Napoli, mancano altri 18 milioni di euro. I 107 milioni di euro pubblici sono stati parcheggiati nelle casse delle banche creditrici dei Ds con "riserva". Sul malloppo pende ancora il giudizio di appello. Una legge del 1998 estende la garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. "Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità - denuncia Rizzo sul Corriere della Sera - tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi". E, nonostante il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti abbia abbattuto gran parte dei 450 milioni di euro di debiti, adesso gli italiani si trovano a dover mettere mano al portafogli. Nonostante fosse stata approvata pure una legge che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura (come avvenne nel 2008, quando i Ds partorirono il Pd), sul groppone dello Stato sono rimasti appunto 125 milioni di euro. Il Pd non ha raccolto l'eredità economica dei Ds e della Margherita, che per tre anni hanno continuato a intascare i fondi statali. "La separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali - denuncia Rizzo - ovvero, soggetti giuridici autonomi". Non avendo più immobili da pignorare, le banche hanno chiesto allo Stato di sborsare i 125 milioni di euro. "Il debitore è morto - diceva Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, ai microfoni di Report - se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto 'guarda, signor Stato, che devi pagare tu…'". Ovvero i contribuenti.

I debiti dei Ds saldati dallo Stato. Una legge obbliga a coprire 107 milioni per i bilanci in rosso della vecchia «Unità», scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” il 9 novembre 2015. La la legge è legge. Così tocca ai contribuenti ripianare i debiti dei Democratici di sinistra: 107 milioni di euro, versati dallo Stato nei giorni scorsi. Mentre già infuriavano le polemiche per i tagli della legge di Stabilità alle Regioni, quel gruzzolo finiva dunque nelle casse delle banche creditrici. E non è nemmeno tutto. Mancherebbero altri 18 milioni dovuti alla Sga, società nata dieci anni fa con la funzione di recuperare la montagna di crediti dal crac del Banco di Napoli che ha ritenuto di non rivendicare quella cifra. Va detto che quei 107 milioni pubblici si trovano ora parcheggiati nei forzieri delle banche creditrici dei Ds con «riserva». Significa che pende ancora il giudizio di appello, ma le speranze che quei denari tornino indietro sono al lumicino. Il finale era scritto da tempo. Il Corriere Report di Milena Gabanelli avevano già raccontato come il rischio che si è materializzato fosse concretissimo. E tutto grazie a una leggina del 1998 che stabiliva l’estensione della garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità. I Democratici di sinistra avevano generosamente deciso di accollarsi la drammatica esposizione bancaria del giornale, che stava imboccando il tunnel di una crisi durissima. Tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi. Il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, il quale non ha mai rinnegato quella mossa assai discutibile, ce la mise comunque tutta per abbattere la montagna di debiti che sfiorava i 450 milioni di euro. Anche con l’aiuto di altre ancor più discutibili leggine approvate dal parlamento intero con rarissime eccezioni, che fecero lievitare come panna montata i rimborsi elettorali: l’ultima, quel capolavoro partorito all’inizio del 2006 che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura, come avvenne nel 2008. L’anno in cui si consumò l’ultimo atto dei Ds, con la nascita del Pd: partito che non raccolse l’eredità economica dei due soggetti fondatori, la Margherita e i Democratici di sinistra, i quali pur defunti continuarono comunque a incamerare per tre anni cospicui fondi statali. Non solo. L’astuta separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali. Ovvero, soggetti giuridici autonomi. Su questo punto la polemica con il segretario democratico Walter Veltroni raggiunse il calor bianco. Ma le sue dimissioni, rassegnate all’inizio del 2009, segnarono la fine di qualunque resistenza interna. E siamo arrivati a oggi, quando le banche creditrici, non avendo più neppure un mattone da pignorare, hanno preteso di escutere la garanzia dello Stato sui debiti residui: 125 milioni. Il giudice non ha potuto che dar loro ragione e lo Stato ha dovuto adesso sborsare 107 milioni. Va detto che non è la prima volta che succede una cosa del genere. Alla fine del 2003 avevamo già pagato i debiti dell’ex Avanti!, il quotidiano del Psi craxiano. Sia pure per una cifra più modesta: 9 milioni e mezzo. Ma allora non fu possibile ascoltare la versione del tesoriere socialista. Vale quindi la pena di riportare le dichiarazioni di Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, intervistato a maggio di quest’anno da Emanuele Bellano di Report: «Il debitore è morto. Se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto “guarda, signor Stato, che devi pagare tu…”». Gli chiede allora il giornalista, dopo aver ricordato la storia della legge del 1998: «È stata una mossa calcolata e strategica quello che poi è successo dopo?» E lui risponde: «Quindi che vuol dire? Che sono stato bravo! Una società mi avrebbe dato tanti soldi per fare questo lavoro…» Verissimo. Almeno quelli ce li siamo risparmiati. Ma è una ben magra consolazione.

LA SPECULAZIONE FLOP SUI DERIVATI.

Buco di Stato, segreto di Stato. I contratti dei derivati-flop comprati dal Tesoro sono tenuti nascosti a tutti. Eppure stanno già costando miliardi alle casse pubbliche. Mentre le banche ci fanno profitti d’oro, scrive Luca Piana su “L’Espresso” il 05 novembre 2015. Che cosa c'entrano i derivati finanziari con due tragedie come l’attentato alla stazione di Bologna o l’abbattimento del Dc-9 Itavia nel cielo di Ustica, avvenute entrambe nel 1980? Nulla, se non fosse per un’indiscrezione di inizio ottobre: il governo di Matteo Renzi ha valutato l’ipotesi di porre il segreto di Stato sui contratti finanziari, noti appunto come derivati, costati al Tesoro ben 16,9 miliardi solo negli ultimi quattro anni. Può suonare irriverente accostare un problema economico ai fatti più sanguinosi della storia repubblicana, che hanno visto i documenti ufficiali desecretati proprio da Renzi. Eppure, scorrendo la legge del 2007 che ha riformato il segreto di Stato e il successivo decreto attuativo, l’ipotesi di una misura così estrema anche per i derivati può non sembrare peregrina: in un passaggio, molto controverso, il testo fa infatti esplicito riferimento alla tutela di interessi «economici e finanziari». Le voci di inizio ottobre, tuttavia, non hanno trovato conferma e la firma del premier per porre il segreto non c’è stata. Perché? Secondo alcune ricostruzioni, le strutture del governo avrebbero dato un parere tecnico negativo. Il Tesoro, interpellato da “l’Espresso”, getta acqua sul fuoco, dicendo di «non aver avanzato alcuna richiesta» in tal senso e definendo «probabilmente infondata» la notizia che il governo ci abbia pensato. Illuminante la spiegazione che lo stesso ministero guidato da Pier Carlo Padoan fornisce di questa sua valutazione: «L’accesso agli atti dei derivati può essere negato senza invocare il segreto di Stato». Proprio lo scorso 8 ottobre, il Movimento 5 Stelle ha visto respingere la propria richiesta di avere copia dei contratti per studiare nei dettagli i derivati del Tesoro, strumenti finanziari molto complessi, che possono essere usati sia in modo prudente, proteggendo chi li fa dai rischi di mercato, sia a fini speculativi. Un esempio: sulla base di un valore pattuito di un miliardo, il Tesoro si impegna a pagare una volta l’anno alla banca un tasso fisso del 3,5 per cento; la banca a versare al Tesoro un tasso variabile pari all’Euribor. Se l’Euribor è uguale al 3,5 per cento, si fa pari e patta; se va sopra ci guadagna il governo italiano; se va sotto a brindare è la banca. A negare i contratti ai 5 Stelle è stata la Commissione per l’accesso agli atti amministrativi, presieduta dal sottosegretario Claudio De Vincenti. La risposta è stata la seguente: siete deputati, fate le vostre domande attraverso le interrogazioni parlamentari. Alle quali, però, il ministero risponde in modo sommario. Perché allora, se non nella forma, il segreto di Stato sui derivati esiste nei fatti? A giudicare da alcuni indizi, è legittimo un sospetto: le perdite che, in questi mesi, il Tesoro si sta accollando su questi complessi strumenti finanziari sono tali da motivare qualche imbarazzo. Il 30 luglio scorso Deutsche Bank ha pubblicato il bilancio del primo semestre 2015. In una tabella si dice che il valore dei derivati italiani posseduti dal colosso tedesco è sceso da 4,4 a 3,5 miliardi in meno di tre mesi, tra marzo e giugno 2015. Semplici variazioni di mercato o ha incassato 800 milioni dal Tesoro per chiudere un derivato? Alcuni dei contratti sono arrivati a fine vita oppure la banca ha accettato di rinegoziarli? A queste domande, Deutsche Bank ha risposto che «non diffonde informazioni sulle relazioni con i propri clienti». Secondo indizio: nelle ultime settimane due deputati della Commissione Finanze della Camera, Giovanni Paglia di Sel e Carla Ruocco dei 5 Stelle, hanno fatto a Padoan una serie d’interrogazioni. È emerso così che nel 2015 sono giunte a scadenza due operazioni firmate 10 anni prima del valore totale di 2 miliardi, definite “swap”, come vengono chiamati quelli dell’esempio fatto sopra. In questo caso il Tesoro ha pagato 91,8 milioni di euro solo per l’ultima rata semestrale. Quali banche hanno incassato? «Non forniamo nomi per obblighi di riservatezza», dice il ministero. Ma qualunque sia l’istituto, quanto ci ha guadagnato in dieci anni? Partendo dai dati forniti nelle interrogazioni, Nicola Benini di Ifa Consulting, società specializzata nell’ingegneria finanziaria dei derivati, che ha assistito vari enti locali nel rinegoziarli, dice che «è possibile arrivare a una risposta di prima approssimazione». In sostanza: in 10 anni il Tesoro avrebbe versato alla banca (o alle banche) dal nome ignoto interessi per un totale di 1,1-1,4 miliardi. Benini aggiunge però un particolare importante: quando è stato firmato, quel contratto era così sbilanciato in favore della banca, da far ragionevolmente supporre che questa abbia versato al Tesoro un sostanzioso bonus d’ingresso, che i tecnici dei derivati chiamano “upfront”. Benini lo quantifica «tra i 700 e i 900 milioni». Incassare subito, ovvero nel 2005, 700-900 milioni, per poi sborsare alla banca 1,1-1,4 miliardi nel giro di dieci anni: qual è la logica? «Con l’esperienza dei derivati analizzati in tanti anni, posso ipotizzare che l’upfront iniziale potesse servire per coprire una perdita su operazioni precedenti o per ridurre il deficit pubblico di quel momento», dice Benini. Non manca un terzo indizio. Nella stessa occasione il Tesoro ha rivelato un altro colpo sfortunato. In alcuni contratti, infatti, esistono clausole di “estinzione anticipata” che, a certe condizioni, permettono ai banchieri di porvi fine, incassando la cifra intera subito, non dilazionata fino al termine naturale. La scadenza, per uno di questi, è il prossimo marzo, su un derivato da 2 miliardi che oggi ha un valore negativo per il Tesoro di ben 849 milioni. Che cosa vuol dire? Gli esperti di Ifa Consulting hanno calcolato che, visto l’andamento dei tassi, l’esercizio della clausola potrebbe costare alle casse dello Stato quasi un miliardo, da versare in marzo a una banca il cui nome non è stato divulgato, chiudendo un contratto che in teoria durerebbe fino al 2036. Perché ci siamo imbarcati in un’operazione così disastrosa? Benini spiega che in questo tipo di derivato, detto “swaption”, il rischio grava tutto sul venditore, cioè sul Tesoro. Che viene compensato da un premio iniziale versato dalla banca, il famigerato “upfront”: «Purtroppo non è possibile essere molto precisi, perché in un caso così l’incasso iniziale del Tesoro può variare enormemente, da un minimo di 100 milioni a un massimo di 500». In base a cosa? Al potere contrattuale delle due parti o di quanto effettivamente sanno prevedere come si muoveranno i mercati: «Solo avere i contratti ci darebbe risposte esaurienti», dice Benini. Per avere idea di quanto costano agli italiani i 160 miliardi di derivati del Tesoro bisogna scorrere il Conto economico delle amministrazioni pubbliche dell’Istat. Alla riga 66 della tabella numero 22 si scopre che negli ultimi 4 anni lo Stato ha versato alle banche un flusso netto d’interessi di 12,6 miliardi. A questi quattrini, però, bisogna aggiungere i costi non contabilizzati tra gli interessi. Si arriva così a un totale in quattro anni di 16,9 miliardi, 4,5 dei quali nel 2014. In pratica, se il Tesoro non avesse perso quei soldi, Renzi avrebbe potuto azzerare l’Imu sulla prima casa senza tagliare altre spese. Chi ha incassato? Non si sa. L’unico caso noto sono i 3,1 miliardi pagati nel 2012 a Morgan Stanley, che esercitò una clausola d’estinzione del contratto, evento che si è ripetuto a vantaggio di banche rimaste ignote: il 10 febbraio Maria Cannata, responsabile debito pubblico del Tesoro, durante un’indagine conoscitiva della Commissione Finanze della Camera, ha detto che altre due clausole sono state esercitate nel 2014, senza nominare le banche coinvolte. Interpellato da “L’Espresso”, il Tesoro ha confermato la riservatezza. «No comment» è stata la replica di JP Morgan, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Barclays e Citi, alcuni degli istituti più esposti sui derivati. Ma è legittimo il segreto?
È toccato proprio a Maria Cannata, in questi mesi, erigere il muro di silenzio che avvolge i derivati. Ai Cinque Stelle che chiedevano i contratti, ha detto no perché «un grado così elevato di trasparenza potrebbe farci perdere in termini di competitività». Il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, ha spiegato: «Si tratta di contratti privati fra due controparti, e in alcuni casi sono state ottenute condizioni molto buone per l’Italia». La Via si è impegnato a diffondere un report annuale - atteso a breve - sulla gestione del debito, con i dati statistici sui derivati. Ma la linea del Piave resta non fornire i contratti, per non divulgare le condizioni «molto buone». Questa spiegazione, però, stride con il fatto che, nel marzo scorso, la perdita potenziale aveva toccato un picco record di 45 miliardi, difficilmente giudicabile un buon risultato. E con la necessità di rispondere alle critiche. Giovanni Paglia di Sel ha osservato che, senza trasparenza, il governo può spendere subito i quattrini che incassa quando i derivati vanno bene, senza accantonare nulla per quando vanno male. E Carla Ruocco, deputata dei 5 Stelle, dice: «Visto il rischio di enormi perdite a cui il Tesoro ha esposto i cittadini per i prossimi anni, riteniamo nostro dovere acquisire i contratti, fare una due diligence e trovare le responsabilità». Per il Tesoro le perdite prevedibili, calate a giugno a 32,4 miliardi («ma a oggi certamente ri-aumentate per effetto del riacquisto di titoli di Stato della Bce», sostiene Benini) non è detto che si verifichino, perché le condizioni di mercato potrebbero mutare. «Tuttavia, ormai dal 2006, queste perdite cosiddette potenziali si stanno regolarmente trasformando in realtà, al punto che a rate abbiamo ormai pagato alle banche svariati miliardi», dice Ruocco, arrabbiatissima per il veto sulla consegna dei contratti: «Sanno che nel Movimento abbiamo non solo la volontà ma anche le competenze per trovare chi deve rispondere dei danni». Anche fuori dai partiti, la segretezza dei derivati fa discutere. Fulvio Cortese, professore di diritto amministrativo all’Università di Trento, dice che il punto d’equilibrio fra le esigenze del Tesoro e la necessità di trasparenza è una questione delicata. Il segreto di Stato è stato riformato nel 2007 e, a una prima lettura, un decreto attuativo del 2008 sembrerebbe dare a Renzi il potere di blindare i contratti: la prima delle materie a cui il segreto si applica è infatti «la tutela di interessi economici, finanziari, industriali, scientifici, tecnologici, sanitari e ambientali». Per Cortese, tuttavia, un campo d’azione così ampio rischia «di allargare eccessivamente la possibilità di apporre il segreto, rispetto alle norme restrittive indicate dalla legge». Che sono, tra le altre, l’integrità della Repubblica e la difesa dello Stato. Bollare i contratti come “top secret”, secondo il giurista, potrebbe dunque essere illegittimo. Cortese dice di comprendere la cautela nel comunicare i contenuti di operazioni finanziarie così complesse senza inquadrarle nel modo giusto: «Fornire i contratti a chiunque, anche a chi non ha un interesse circostanziato, può essere eccessivo», osserva, «ma per il Parlamento è diverso: il Parlamento vota il bilancio dello Stato, deve poter controllare come il governo si procura e spende le risorse. Se gli si tolgono gli strumenti per farlo, viene meno il potere di controllo sulle responsabilità politiche di eventuali errori». Derivati ne sono stati fatti fin dal 1995 ma, come ha spiegato Maria Cannata alla Camera, è dopo il 2000 che l’attività è andata intensificandosi. Fino al 2005, il governo in apparenza ci aveva guadagnato. I derivati, però, tra upfront, clausole segrete e andamento dei mercati manifestano i loro effetti per anni a venire. Così il governo ha iniziato a perderci nel 2006, al punto che Tommaso Padoa-Schioppa, appena insediato ministro dell’Economia nel governo Prodi, si mise in allarme: «Mi disse che voleva vederci chiaro e fece una commissione con la partecipazione di Banca d’Italia e Consob che, partendo dagli enti locali, doveva individuare i rimedi», ricorda Vincenzo Visco, all’epoca vice-ministro. Il Tesoro, dunque, cominciò a perdere quattrini ben prima della crisi dei titoli del debito pubblico, anche se gli esborsi s’impennarono proprio dal 2010, quando i Btp furono travolti dalla speculazione e lo spread schizzò all’insù. Il Tesoro ha spiegato che in un contesto così complicato ha voluto tutelarsi da un rialzo dei tassi, per proteggere le finanze pubbliche da uno choc. Le banche erano restie a comprare Btp ed è stato cercato un modo per indurle a farlo. Questo modo è stato, tra l’altro, la vendita delle già citate swaption. La spiegazione ha fatto tuonare Renato Brunetta (Forza Italia) contro il «rapporto di sudditanza psicologica» nei confronti delle banche. E non convince diversi esperti sentiti dalla Commissione Finanze della Camera. Alcuni hanno sottolineato che l’attività in derivati era forte da anni, quando i Btp non avevano difficoltà ad essere venduti agli investitori, e che le perdite sono partite nel 2006. Marcello Minenna, che insegna finanza quantitativa alla London Graduate School of Mathematical Finance, ha osservato che tre quarti delle perdite potenziali dello Stato (e cioè a giugno 26 miliardi) si riferiscono a circa 100 dei 160 miliardi totali di derivati e che si tratta di operazioni speculative. Sempre in audizione ha fatto notare che, nel caso in cui su uno swap si perda più di un quarto del suo valore, la probabilità che quelle perdite si materializzino negli anni a venire è altissima. Le considerazioni sue e di altri esperti hanno inquietato la Corte dei Conti che, nell’analisi del bilancio dello Stato, in un giudizio sui derivati firmato da Antonio Buccarelli e Cinthia Pinotti, ha definito «di tipo speculativo» le operazioni compiute dal governo con i soldi dei cittadini. Nel parere si fanno propri alcuni calcoli preoccupanti, come quello che i derivati più in perdita costringano il Tesoro a liquidare già nel giro di 2-3 anni un quinto delle perdite potenziali: un esborso certamente miliardario. Due fatti meritano di essere citati. Il primo riguarda il tema, per ora ignorato, sui controlli. Se le polemiche sono esplose alzando un po’ il velo, gran parte del merito - involontario - va al derivato da 3,1 miliardi che il Tesoro ha pagato a Morgan Stanley nel 2012. A dare la notizia fu però una rivista inglese per esperti, “Risk”, senza la quale nulla si sarebbe saputo. Il secondo riguarda il futuro: «Non ne faremo più», ha assicurato La Via, riferendosi ai derivati sui tassi, quelli su cui si è perso di più e che non si fanno dal 2013. Una consolazione, che non spegne le critiche per i soldi bruciati finora. E per quelli che lo saranno, ahinoi, nei prossimi anni.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. 

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.  

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo  su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

«Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

 

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

 

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

 

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

 

Vengo anch'io? No tu no

 

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

 

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

 

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

E poi ancora……

Indennizzo togato. Ernia per la caduta dalla sedia: al giudice vanno 140mila euro. Dopo l'infortunio, il magistrato ha ottenuto la pensione. Poi ha fatto richiesta di risarcimento: il ministero si è opposto, ma il Tar gli ha dato ragione, scrive,scrive (Pep.Rin.) su  “Panorama”. Cadere da una sedia mentre si è in ufficio, rovinando col sedere per terra, è un’esperienza vissuta da molti. Che può avere, a volte, fastidiose conseguenze per la salute: distorsioni del bacino, lesioni vertebrali, lividi ed escoriazioni. Ne discende un danno per il lavoratore - caduto, ripetiamo, da una sedia, non da un’impalcatura - che sarà poi compensato da chi di dovere a seconda di parametri valutativi che possono cambiare da lavoratore a lavoratore. Si chiamano cause di servizio, un tempo sorta di sport nazionale, oggi circoscritto da un obbligato cambio di «clima» nelle finanze del Paese: l’unica cosa rimasta uguale è la lunghezza dei procedimenti, giunta in alcuni casi a livelli parossistici coprendo alcuni decenni. A un magistrato in servizio nel distretto napoletano, però, una caduta dalla sedia, che pure qualche danno gli creò, s’è risolta in un baleno (si fa per dire): appena sette anni dalla data dell’infortunio. Ma soprattutto con risarcimento per causa di servizio pari a circa 140mila euro. Più altri oneri. Una storia tutta italiana, raccontata ieri dal Corriere del Mezzogiorno. Lui si chiama Francesco Schettino. E nel 2007 la sedia del suo nuovo ufficio al Centro direzionale di Napoli traballò, facendolo cadere in terra. Primo soccorso dei colleghi, poi l’iter sanitario e l’avvio del procedimento risarcitorio in costanza di congedo dal posto di lavoro. Che durò inizialmente all’incirca tre mesi (dal 24 marzo al 18 giugno 2007), finché l’Inail non l’ebbe dichiarato «guarito con postumi», valutando l’invalidità nella misura del 30%: siamo nel luglio del 2007. Nel giugno di due anni dopo (2009) il ministero della Giustizia gli riconosce questo tipo di patologia: «Esiti di trauma distorsivo del rachide lombare produttivo di ernia discale con impegno radicolare e rigidità del tratto dorso-lombare». I referti sono un po’ come le norme dei codici, non sempre è agevole la comprensione per chi tecnico non è. Ma andiamo avanti. L’anno dopo il giudice fa domanda di pensione, che ottiene, e dopo altri due anni (siamo al 2012) formula richiesta di risarcimento per circa 200mila euro, così ripartiti: 116.838 a titolo di danno biologico; 33.883 come «aumento personalizzato»; 50.000 per il danno esistenziale; 2.410 quale «lucro cessante per le decurtazioni stipendiali subite nei periodi di assenza dal servizio per malattia», cioè il mancato incasso di parti dello stipendio che se fosse stato in servizio sarebbero state maggiori di quanto comunque incassato. Ma il ministero della Giustizia si oppone. Come di consueto, si finisce al Tar . E che cosa decidono i magistrati del tribunale amministrativo relativamente alla pretesa del magistrato che loro si era rivolto? Che effettivamente al dottor Schettino, che ha agito nel più completo rispetto della normativa, venga «riconosciuta la somma richiesta». Non si conoscono precedenti in materia, almeno non di questo tipo. L’interessato, al Corriere del Mezzogiorno, non ha inteso replicare, limitandosi a dire che per lui «parla la sentenza».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

LO SPRECO DEI PASTI AI CLANDESTINI.

Le foto che vedete a lato e sotto l'articolo e che ci sono state concesse da un volontario del centro di prima accoglienza di Pozzallo dicono tutto: centinaia di piatti di pasta e carne ancora sigillati e caldi di cottura buttati nei cassonetti della spazzatura all’interno della stessa struttura che ospita i clandestini degli sbarchi, scrive Calogero Castaldo su “Il Corriere di Ragusa”. Anche la frutta fresca finisce tra i rifiuti. Se si tiene conto che questa scandalosa situazione dura da parecchi giorni e che i pasti buttati costano 15 euro al giorno per ciascun migrante, l’entità dello spreco è evidente e suona come uno schiaffo a chi magari non ha di che vivere. Perché i pasti in più finiscono nei cassonetti invece di essere destinati ad altri centri o a persone bisognose che non hanno nulla da mangiare? E’ il comune di Pozzallo a gestire la situazione con denaro pubblico sotto la supervisione della Prefettura, ma il sindaco Luigi Ammatuna (nella foto con il cibo buttato nei cassonetti) ha appreso da noi l’incredibile vicenda: "Non ne sapevo nulla. Resto quantomeno sorpreso, farò gli opportuni controlli". Nessuna risposta al telefono invece dal responsabile del centro. Lo scandaloso spreco non è dovuto solo al numero di pasti sovrastimati e quotidianamente ordinati dal comune alla ditta con sede a Ispica che ha in appalto il servizio, ma anche ai gusti degli stessi clandestini, molti dei quali si rivelano schizzinosi e preferiscono mangiare nei locali pubblici, in quanto il cibo servito al Cpa non è di loro gradimento. Restano queste immagini che colpiscono con la stessa forza di un pugno allo stomaco, soprattutto in questi tempi difficili che costringono un po’ tutti a tirare la cinghia.

Gettati via i pasti dei profughi: si indaga sullo spreco in Sicilia. Mentre continuano gli sbarchi in Sicilia, a Pozzallo errori di gestione e il cibo va nella spazzatura. L'ira del prete di frontiera: potevamo darli a italiani bisognosi, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”. L'ondata di sbarchi continua e sulla costa meridionale della Sicilia è emergenza continua. Gestire la marea di umanità disperata in arrivo non è una passeggiata e i Comuni bussano continuamente a Roma in cerca di risorse. Ecco perché appare ancora più incredibile lo spreco documentato fotograficamente al Centro di primo soccorso e accoglienza di Pozzallo: cassonetti della spazzatura stracolmi di decine e decine di portate di cibo ancora avvolte nel cellophan. Qualcuno dentro la struttura ha fotografato lo spreco e le immagini rimbalzate sul sito locale Ragusanews.com hanno creato un (comprensibile) vespaio. Pasta, carne e frutta: tutto pagato dai contribuenti, tutto finito tra i rifiuti. Come se non bastasse lo sforzo che il Paese sta facendo per l'accoglienza. Uno schiaffo in faccia alla crisi e alle famiglie, anche a quelle italiane, che faticano a riempire il frigorifero. Uno spreco su cui ora indagano i carabinieri della Compagnia di Modica, che hanno sentito i responsabili del Cpsa, ed è stata aperta anche un'inchiesta amministrativa interna alla struttura. Il prefetto di Ragusa, Annunziato Vardè, ha inviato una nota al sindaco, Luigi Ammatuna, e all'Azienda sanitaria provinciale di Ragusa per avere lumi sullo spreco, che sembrerebbe dipendere da un incrocio perverso tra le abitudini alimentari degli immigrati e carenze organizzative del Centro. La convenzione tra Prefettura e Comune prevede, infatti, il rispetto delle tradizioni religiose e una scelta di alimenti non in contrasto con i principi e le abitudini alimentari degli ospiti. E se ciò è stato rispettato - elemento che sarà vagliato per accertarsi del rispetto degli accordi - sarà il caso di ricontare il numero di pasti fornito quotidianamente e la corrispondenza con quello degli ospiti del centro, visto che la convenzione tra Comune e una ditta di Pescara con succursale a Ispica, non lontano dal Cpsa, aggiudicataria del bando, prevede un pagamento di 15 euro al giorno a persona per i pasti. Non prepararli affatto, anziché buttarli, avrebbe significato risparmiare denaro pubblico. Ma c'è di più: se anche si fossero sbagliati i conti, magari perché gli immigrati, riescono a nutrirsi da soli in paese, non si potevano recuperare i pasti girandoli a chi ha bisogno? Il Cpsa replica che non è previsto dalla convenzione. Il che non evita l'indignazione. Imbufalito Don Beniamino Sacco, il prete di frontiera che aveva annunciato di voler devolvere il 10% del finanziamento per accogliere gli immigrati alle famiglie italiane bisognose, e lo sta facendo davvero, in barba alle convenzioni: «L'ho fatto e ne sono felice: così diamo a chi ha bisogno». Il problema dell'accoglienza per don Sacco è «l'improvvisazione» malgrado l'esperienza italiana di 40 anni di sbarchi. «Non sembra esserci volontà di progettazione - dice - nemmeno ora che tanta gente è pronta a venire». Soltanto nel weekend sono stati soccorsi 2.600 immigrati dalla Marina militare. Un centinaio sono sbarcati da soli sulle coste di Pachino (Sr). La metà ha fatto perdere le proprie tracce. «C'è caos nell'accoglienza» - denuncia anche monsignor Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco di Fermo. «Il massimo ribasso favorisce gli albergatori dell'ultim'ora che intendono speculare», dice. Il prelato parla di «un meccanismo automatico» che va dalla comunicazione del Ministero dell'Interno alle Prefetture del numero da accogliere, al coinvolgimento di associazioni, enti e imprenditori disponibili per l'accoglienza. «Chi si aggiudica il bando per 35 euro a ribasso garantirà i servizi adeguati?». L'episodio del cibo sprecato sembra fare eco a questa domanda. E richiede un chiarimento immediato.

Pasti buttati dagli immigrati, la grillina: "Non digeriscono la pasta". A Pozzallo buttato via il cibo per gli immigrati. Per la Lorefice il problema è la pasta: "Non la digeriscono". E suggerisce di adeguare gli orari al ramadan, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Gli sbarchi di clandestini non si arrestano. Complice il bel tempo, il Mediterraneo riversa decine di migliaia di disperati sulle nostre coste. C'è chi fugge dalla guerra e chi cerca semplicemente un lavoro. E, mentre in Italia dilagano disoccupazione e povertà, il fallimento dell'operazione "Mare nostrum" si trasforma in un costo abnorme per le casse pubbliche. Le forze della Marina Militare sono impegnate giorno e notte per salvare i barconi in difficoltà, i centri di prima accoglienza sono al collasso e gli enti locali sono obbligati a ospitare migliaia di immigrati che non sanno nemmeno dove mettere. Eppure per la grillina Marialucia Lorefice la vera emergenza è il tipo di cibo fornito agli stranieri appena sbarcati. Pasta e carne non vanno bene: hanno abitudini alimentari e culturali diverse e, a suo dire, lo Stato italiano è chiamato ad adeguarsi alle loro esigenze. La scorsa settimana la Lorefice ha depositato un'interrogazione sul problema della gestione dei pasti nei centri di prima accoglienza. Lo spunto sono state le fotografie scattate al Centro di primo soccorso e accoglienza di Pozzallo: cassonetti della spazzatura stracolmi di decine e decine di portate di cibo ancora avvolte nel cellophan. Qualcuno dentro la struttura ha fotografato lo spreco e le immagini rimbalzate sul sito locale Ragusanews e riportate dal Giornale hanno creato un vespaio senza precedenti. Pasta, carne e frutta: tutto pagato dai contribuenti, tutto finito tra i rifiuti. Uno spreco su cui è già stata aperta un'inchiesta amministrativa interna alla struttura. E qui è scesa in campo la Lorefice. Non perché sanamente imbarazzata dallo spreco, bensì sulla dieta a cui sarebbero "obbligati" gli stranieri. "Sebbene quelli offerti rispondono alle caratteristiche dieta mediterranea, la migliore, i migranti provengo da zone in cui sono abituati a nutrirsi di cose ben diverse - si legge sulla pagina Facebook della grillina - questo significa che anche la semplice pasta diventa per loro un problema. Non riescono a digerirla". Non solo. A suo dire il problema si porrebbe anche per la carne che i musulmani non possono mangiare. Per tutelare "le tradizioni religiose" degli islamici, la grillina ha addirittura mobilitato la prefettura di Ragusa e il Viminale. Al ministro dell'Interno Angelino Alfano è stato chiesto di estendere le linee di indirizzo nazionale per la ristorazione scolastica e di "modificare gli orari di distribuzione dei pasti, conseguentemente a particolari periodi di preghiera come quello attuale del ramadan". Una richiesta che ha destato non poche polemiche. Il leghista Davide Boni, per esempio, twitta stupito il contenuto dell'interrogazione. Non è l'unico. In uno stato di emergenza come questo, preoccuparsi della dieta degli stranieri ha scatenato un feroce dibattito sulla rete. Tanto che la Lorefice si è vista costretta a fare un secondo post su Facebook per spiegare le proprie intenzioni: "L'Italia non è un Paese razzista, siamo stati e siamo popolo di emigranti anche noi. Chi si spaventa dello straniero, di un pasto dato nel rispetto di una religione diversa è un debole".

La battaglia della deputata grillina per la buona digestione dei migranti. Marialucia Lorefice (M5S): "A Pozzallo non digeriscono la pasta", scrive Claudia Daconto su “Panorama”. C'è una deputata grillina che ha deciso di fare della dieta dei migranti la propria personalissima battaglia politica. Al punto da presentare, il 15 luglio scorso, un' interrogazione a risposta scritta al ministro dell'Interno sul “grave” problema del menù somministrato ai migranti nei centri di prima accoglienza. Contattata da Panorama.it, l'onorevole cittadina ha risposto che “la questione è già abbastanza spiacevole per aggiungere altro”. Sottraendosi quindi alla richiesta di ulteriori chiarimenti, ci ha rimandato alla sua pagina Fb "dove ho già detto quel che dovevo dire". Grazie. Siciliana di Ispica, in provincia di Ragusa, Marialucia Lorefice, 34 anni, è infatti assurta all'onore delle cronache grazie ai presunti disturbi digestivi degli immigrati che arrivano in Italia dopo essere sopravvissuti a fatiche e privazioni indicibili e che, a suo avviso, a differenza di altri milioni di stranieri (compresi quelli di religione araba) che addirittura pagano per mangiare italiano, si troverebbero a disagio con la nostra dieta mediterranea. Le avremmo per esempio voluto chiedere quali sono le sue fonti, se ha avuto occasione di parlare direttamente con queste persone o quale medico o dietista le abbia suggerito che la causa del rifiuto di cibo da parte degli ospiti del CPSA di Pozzallo sia effettivamente la difficoltà a digerirlo. A convincere la deputata (per la quale anche gli orari di somministrazione dei pasti sarebbero in contrasto con le abitudini culturali e religiose degli immigrati), il ritrovamento nei cassonetti dell'immondizia della località siciliana di cibo sigillato ancora caldo proveniente dalla locale struttura d'accoglienza, sarebbe infatti da addebitare un po' alla novità della pasta italiana indigesta, un po' al fatto che mangiare a una certa ora piuttosto che a un'altra non incontrerebbe il gradimento dei migranti. Una teoria in forte contrasto rispetto all'esperienza di molti operatori che da anni sono impegnati nel lavoro di accoglienza e sostegno i quali, come per esempio padre Giovanni Lamanna, direttore del Centro Astalli di Roma, riferendo della sua esperienza presso il centro ascolto all'interno del Cie di Ponte Galeria, sostiene che la richiesta più pressante che arriva da quella gente è sempre la stessa: una sigaretta e qualcosa da mangiare. Qualunque cosa. Lorefice, che fino a 2 anni fa dava ripetizioni di italiano, non si è mai laureata (o almeno così risulta dal suo curriculum vitae) e, oltre alla conoscenza del pacchetto office e della navigazione in internet, vanta capacità artistiche, la conoscenza del pianoforte, attività di volontariato in famiglie disagiate e, come attivista 5 Stelle, la partecipazione a un intervento di pulizia del Belvedere di Ispica, all'operazione “Fiato sul collo in Consiglio comunale” e al banchetto informativo “Raccolta proposte e segnalazioni sprechi”, non si è mai occupata direttamente di temi dell'immigrazione. Nonostante lei stessa riconosca che “la dieta mediterranea, quella servita, sia la migliore”, tuttavia trova ingiusto costringere i migranti, “abituati a nutrirsi di cose ben diverse”, a mangiare pasta. La stessa pasta che in nessuna altra parte del mondo pare crei problemi simili. Avremmo voluto chiedere a Lorefice perché esclude che siano altri i motivi dello spreco di cibo in quella struttura; se non pensa che preoccuparsi della digeribilità dei pasti non sposti l'attenzione da problemi ben più gravi e pressanti come le indecenti condizioni igienico sanitarie in cui si ritrovano a vivere gli ospiti di queste strutture, la carenza di posti letto e addirittura delle celle frigo per conservare dignitosamente i cadaveri di uomini, donne e bambini che perdono la vita in mezzo al mare o le cifre enormi che lo Stato italiano paga ogni anno per tenere aperti centri che assomigliano più a lager che a luoghi di accoglienza. E se di fronte alla quotidiana fatica di migliaia di anziani che vanno a rovistare tra la spazzatura alla chiusura dei mercati o al disagio di milioni di famiglie che, sognandosi i tre pasti al giorno serviti a Pozzallo, fanno cenare i loro figli con latte e biscotti, non teme che iniziative come queste diventino incomprensibili anche per gli stessi elettori grillini. Che infatti, almeno a leggere i commenti al famoso post, non le capiscono.

Riceviamo e pubblichiamo. Desidero precisare di non aver mai parlato con la giornalista, a lei non ho rilasciato nessuna delle dichiarazioni a me attribuite, che dunque sono false. Tengo a sottolineare comunque che lo scopo dell’interrogazione era quello di richiamare l’attenzione del governo sullo spreco dei pasti destinati ai centri d'accoglienza che, se non consumati, vengono gettati dal momento che non è prevista una destinazione alternativa. Uno spreco rispetto al quale sarebbe giusto trovare soluzioni, anche in ragione dello stato di crisi e povertà che vivono troppi cittadini. Inoltre, nell’articolo viene affermato che i migranti “si troverebbero a disagio con la nostra dieta mediterranea”, tanto da non voler consumare i pasti distribuiti nei centri di accoglienza in ragion “della pasta italiana indigesta” e per il fatto che “che mangiare a una certa ora piuttosto che a un'altra non incontrerebbe il gradimento dei migranti”. Tutte affermazioni, quelle riportate nei virgolettati, che non sono contenute nell’interrogazione della sottoscritta e che quindi, sono frutto di conclusioni soggettive e non di documentazione oggettiva. Marialucia Lorefice.

IMMIGRAZIONE: RISORSA? MA QUANTO MI COSTI? UN MILIARDO O 4O MILIARDI DI EURO ALL'ANNO?

Nell’affrontare l’argomento bisogna distinguere la propaganda ideologica dai dati concreti.

Il costo (salato) degli immigrati: oltre un miliardo per mantenerli. Dal 2013 i costi per mantenere gli immigrati sono raddoppiati. I motivi? Il maggior numero di sbarchi e la lentezza dello Stato, scrive Andrea Riva su “Il Giornale”. Quanto costa mantenere un immigrato? Generalmente dai 35 ai 40 euro al giorno. Quanti immigrati ci sono in Italia? All'incirca 81mila. Facendo un rapido conto, come ha rilevato Repubblica, "nel 2015 l'Italia spenderà più di un miliardo di euro per accogliere i migranti. È il record assoluto. Sono 400 milioni in più dello scorso anno, 500 rispetto al 2013". I motivi di questo aumento sono essenzialmente due: il maggior numero di sbarchi e, rileva sempre Repubblica, "la lentezza dello Stato che non riesce a dare in tempi ragionevoli risposte sulle richieste d'asilo". Gli immigrati, infatti, dovrebbero attendere solamente tre settimane per ricevere la conferma della richiesta d'asilo, ma i tempi sono sempre più lunghi perché "chi deve decidere se hanno diritto o no - sulla base di una serie di requisiti, primo tra tutti le condizioni del paese di provenienza - sono le 40 commissioni territoriali nominate dal ministero dell'Interno che dipendono dalle Prefetture". A ciò va aggiunto lo sfruttamento che le coop, come dimostra il caso Mafia capitale, fanno sulle disgrazie dei migranti. E a pagare sono sempre i contribuenti italiani.

L'invasione degli immigrati ci costa 55 milioni al mese. I dati choc del Viminale: per gli stranieri ospitati nelle strutture di accoglienza spendiamo quasi due milioni di euro ogni giorno. Ma sono cifre destinate a salire, scrivono Domenico Ferrara e Andrea Indini su “Il Giornale”. Quasi due milioni di euro al giorno. Poco più di 55 milioni al mese. Oltre 660 milioni all'anno. Benvenuti nel bilancio preventivo dell'esodo degli immigrati in Italia. Sono numeri da capogiro quelli che, in nome della tanto decantata accoglienza, sborsiamo per il mantenimento dei 61.238 stranieri che, a oggi, sono ospitati dalle strutture messe a disposizione dal nostro Paese. Numeri tenuti al ribasso, ma che nella realtà lievitano vertiginosamente. Perché se è vero che il Viminale stanzia 30 euro al giorno per dare vitto e alloggio a ogni straniero, è pur vero che molto spesso la cifra è più alta. «Fino al 31 agosto scorso abbiamo avuto una convenzione con un'associazione di Ragusa, quindi con il ministero dell'Interno, che ci rimborsava 80 euro pro capite a immigrato per tutta la gestione del centro. Dal primo settembre, invece, la Prefettura ci ha fatto la proposta di rimborsarci soltanto 35 euro», tuonava nel settembre scorso Luigi Ammatuna, sindaco di Pozzallo, uno dei comuni più «colpiti» dall'emergenza immigrazione. «Già abbiamo avuto cali in fatto di immagine e di presenze turistiche - spiegava il primo cittadino - non possiamo mettere soldi che non abbiamo e che sarebbero debiti fuori bilancio». Come aveva svelato Ammatuna, ogni extracomunitario ospitato dall'hotel Italia arrivava anche a costare 80 euro al giorno. Cifra che fa indignare se paragonata agli «altri» 80 euro, il bonus tanto sbandierato da Renzi. Solo che agli italiani toccano una volta al mese. I soldi spesi nel centro di prima accoglienza di Pozzallo coprono i pasti, la scheda telefonica e un kit che contiene un paio di tute, alcune magliette, il ricambio di mutande, lo spazzolino e il dentifricio, il bagnoschiuma e l'asciugamano. Si capisce, quindi, come siamo ben lontani dalla media dei 30 euro al giorno su cui abbiamo calcolato i 660 milioni di euro sborsati in un anno. Nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, per fare un altro esempio, ci sono quasi 4mila persone che attendono che venga evasa la richiesta. Un'attesa che, però, può durare anche più di un anno e che costa al giorno circa 34 euro a persona. I dati del Viminale, aggiornati al 31 ottobre 2014, parlano 61.238 immigrati attualmente presenti sul territorio italiano. Nello specifico, 32.335 sono ospitati in strutture temporanee, altri 10.206 vivono nei Centri governativi per richiedenti asilo, 18.697 occupano invece gli spazi dedicati ai rifugiati (Sprar). Sin dall'inizio della fallimentare operazione Mare Nostrum, il Viminale ha diviso gli immigrati regione per regione, con evidenti disparità. La Sicilia è quella che ne ospita di più: ben 14mila. Seguono il Lazio (quasi 8mila), la Puglia (quasi 6mila) e la Lombardia (quasi 5mila). Ma quello che fa più impressione è l'impennata impressionante che, da gennaio a ottobre si è registrata. Se all'inizio dell'anno, gli extracomunitari erano circa 17mila, nel giro di soli nove mesi le presenze nei centri di prima accoglienza sono quasi quadruplicate arrivando così a quota 61mila. Secondo un recente report dell'Eurostat, infatti, l'Italia è sicuramente il Paese più «accogliente» di tutto il Vecchio Continente. Nel 2013 Roma ha respinto il 36% delle richieste di asilo presentate, mentre Berlino ne ha bocciate il 74%, Parigi l'83% e Londra l'82%. Lascia, poi, l'amaro in bocca vedere che, mentre vengono spesi 660 milioni per mantenere gli immigrati, il governo taglia quasi la stessa cifra al ministero della Difesa e circa la metà al comparto sicurezza.

Immigrati, un tesoro nascosto nella gabbia degli stereotipi. Articolo tratto dal sito di Nigrizia. La cronaca, come la strage dei gommoni, ha sempre il sopravvento. E alla fine il senso comune sull'immigrazione si appiattisce sugli stereotipi dell'emergenza e dell'allarme sociale. Uno studio mostra, invece, come gli stranieri non siano un costo, bensì una ricchezza che salva, ad esempio, le casse previdenziali italiane, scrive Gianni Ballarini su "La Repubblica". Scriviamo sotto dettatura degli orrori della "strage dei gommoni". Con centinaia di persone scomparse nel Canale di Sicilia nella seconda settimana di febbraio. Trecento? Quattrocento? Mille migranti? Che importa? Sono corpi e storie senza peso specifico. Che affollano la nostra già traboccante cattiva coscienza. Quante altre stragi silenziose e ignote si sono susseguite ritmicamente in questi giorni, in questi mesi, in questi anni? Stragi utili, forse, per qualche giorno di commozione. Che si esaurirà presto - tra imbarazzante impotenza e burocratica indifferenza - senza lasciare conseguenze. Se non una: appiattire mediaticamente il fenomeno dell'immigrazione sugli stereotipi della cronaca. I migranti rappresentati solo come quelli che muoiono in mare, che sbarcano, che sono coinvolti in fatti di violenza o, peggio ancora, di terrorismo. Vittime o carnefici. Sfruttati o sfruttatori. Mentre l'immigrazione è anche altro: un fattore strutturale della società italiana. Non marginale. E neppure solo emergenziale o di allarme sociale. Gli 846 articoli di giornale analizzati. La Fondazione Leone Moressa, con il contributo di Open society foundations, all'interno del progetto Il valore dell'immigrazione, ha monitorato per sei mesi, nel 2014, tre importanti quotidiani italiani (??la Repubblica, Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore) analizzandone 846 articoli dedicati all'immigrazione. Solo il 12% racconta il migrante che esce dalla gabbia dello stereotipo; quello inserito nella società, integrato, con un lavoro e che porta perfino benefici al sistema economico in generale. Tutto il resto è, appunto, sbarchi, emergenza profughi, criminalità, proteste. L'individuo scompare. I ricercatori hanno calcolato che, mediamente, solo una notizia su dieci rappresenta lo straniero in modo positivo. E questo contribuisce a costruire un senso comune negativo sull'immigrazione. Gli italiani sono i peggio informati. Da un sondaggio condotto da una tra le principali società britanniche di ricerca e marketing, Ipsos Mori, gli italiani risultano tra i peggio informati sulle caratteristiche di base del proprio paese. Valutano, ad esempio, che gli immigrati siano il 30% della popolazione, quando sono invece il 7%; mentre sottostimano, paradossalmente, il numero di contribuenti stranieri, ritenendo ininfluente quanto migliorino la previdenza sociale. Pensano, anzi, che usufruiscano in misura maggiore dei benefici sociale, quando, invece, accade esattamente l'opposto. Sono gli studiosi della Fondazione Leone Moressa a ricordarcelo: sommando tutte le entrate pubbliche dovute all'immigrazione (gettito fiscale, irpef, imposta sui consumi, sui carburanti, i permessi di soggiorno e i mutui previdenziali) e le spese (sanità, scuola, servizi sociali, accoglienza e spese per l'immigrazione irregolare) vi è un saldo positivo di quasi 4 miliardi di euro (16,5 miliardi di entrate; 12,6 miliardi di spese). Dagli stranieri 123 miliardi, l'8% del Pil nazionale. Sono gli stranieri, di fatto, a sostenere la nostra spesa pubblica. E ogni anno pompano nel sistema circolatorio italiano 123 miliardi di euro, l'8,8% della ricchezza prodotta in Italia. I 3,5 milioni di contribuenti nati all'estero pagano quasi 7 miliardi di tasse, mentre i 2,4 milioni di occupati stranieri rappresentano il 10,8% degli occupati totali. Certo, il loro tasso di disoccupazione, tra il 2007 e il 2013, è cresciuto ben più di quello degli italiani (9 punti contro 3) e ancora oggi uno straniero dovrebbe lavorare 80 giorni in più all'anno per avere la stessa retribuzione di un italiano, a livello medio. Ma è spiccato il loro spirito imprenditoriale. Secondo dati Confesercenti, nel secondo trimestre del 2014, il commercio è cresciuto di oltre 57mila occupati. Di questi, 31mila hanno trovato posto in un'attività gestita da imprenditori non italiani.

Quanto costano davvero gli immigrati. Uno studio della fondazione Leone Moressa ha realizzato il bilancio economico della presenza degli stranieri in Italia, scrive Caterina Michelotti su “ThePostInternazionale”. Uno studio condotto dalla fondazione Leone Moressa, un istituto di studi e ricerche nato nel 2002, ha realizzato il bilancio economico sulla presenza degli immigrati in Italia. La ricerca "L'economia dell'immigrazione: costi e benefici" rivela che il contributo da parte degli immigrati all'economia del Paese è pari a quasi 4 miliardi di euro ogni anno. Cose utili da sapere:

- Quanto ha speso l'Italia per gli immigrati: nel 2012 lo Stato italiano ha speso 12,6 miliardi di euro per l'arrivo di nuove famiglie di immigrati sul suolo italiano.

- Le spese comprendono gli oneri per i servizi sanitari (3,7 miliardi), quelli educativi (3,5), i servizi sociali (0,6), gli alloggi (0,4), la giustizia (1,8), le spese del ministero degli Interni per la gestione (1,0) e i trasferimenti economici (1,6).

- Calcolando che la spesa pubblica in Italia è stata di 800 miliardi, i costi dell’immigrazione sono stati l'1,57 per cento della quota complessiva.

- Quanto ha ottenuto l'Italia dagli immigrati: lo Stato, nel 2012, ha ottenuto 16,5 miliardi di euro dagli stranieri così suddivisi:

- Una parte delle entrate - vale a dire 7 miliardi di euro circa - deriva dal pagamento dell’Irpef (4,9 miliardi di euro), dall’imposta sui consumi (1,4 miliardi), sugli oli minerali (0,84), su lotto e lotterie (0,21) e per tasse e permessi (0,25).

- A ciò vanno aggiunti 8,9 miliardi di contributi previdenziali per gli stranieri.

- Il totale delle entrate di 16,5 miliardi di euro nel 2012 ha quindi coperto con scarto i 12,6 miliardi di spesa pubblica. I cittadini stranieri hanno fruttato 3,9 miliardi di euro all’economia italiana.

- Occupazione: gli immigrati creano anche lavoro. In Italia possiedono l’8,2 per cento delle aziende totali e, grazie a queste, producono 85 miliardi di valore aggiunto.

- Mentre il bilancio delle attività italiane è negativo, dal momento che nel 2012 almeno 50mila imprese hanno dovuto chiudere per via della crisi, gli stranieri hanno investito a tal punto da far crescere di 18mila il numero delle attività commerciali degli immigrati rispetto all'anno precedente.

Gli immigrati sono un peso o una risorsa? Si chiede Paolo Bramante su “IBTimes”. Dopo il naufragio di qualche giorno fa, in cui sono morte centinaia di persone, sono partite le polemiche sulla gestione degli sbarchi, polemiche legittime ma che in alcuni casi sono andate oltre la questione. Diversi politici hanno fatto intendere che l’Italia, abbandonata da tutta l’Europa, è l’unico Paese a farsi carico di coloro che scappano da guerre e povertà, dipingendo un Paese pieno di stranieri che portano solo problemi. La realtà è però diversa. Innanzitutto facciamo chiarezza sui numeri: secondo i dati ISTAT in Italia al 1° gennaio 2015 risultavano residenti circa 5 milioni di stranieri, a fronte di una popolazione complessiva di 60 milioni di individui. La percentuale di stranieri regolari è quindi dell’8%, mentre gli irregolari nel 2013 erano circa 300 mila, secondo la stima della Fondazione Ismu - Iniziative e Studi sulla Multietnicità, parliamo quindi di cifre piccole. I 300 mila irregolari sono un problema, perché se va bene lavorano in nero e se va male delinquono, il che ci porta al tema carcerario: quanti sono gli stranieri in carcere? L’ultimo rapporto ISTAT ci dice che nelle carceri italiane abbiamo 62.536 detenuti, di cui 21.854 stranieri (il 34,9%), una percentuale molto alta, che fa capire come il processo di integrazione sia ancora molto lontano. La delinquenza è un costo sociale ed economico, ma la maggioranza degli stranieri lavora e paga le tasse: parliamo di 2,3 milioni di occupati stranieri (in aumento del 5% nell'ultimo anno rispetto al precedente), mentre i lavoratori italiani sono circa 20 milioni (diminuiti dello 0,1%). Ciò significa che la popolazione straniera, pur essendo solo l’8%, rappresentano oltre il 10% dei lavoratori. Secondo l’elaborazione dei dati ISTAT effettuata dalla Fondazione Leone Moressa gli stranieri hanno contribuito con 123 miliardi di PIL, che rappresenta l’8,8% della ricchezza italiana complessiva: di nuovo una percentuale maggiore rispetto alla popolazione. Adesso sappiamo che l’immigrazione ci porta tanti bei soldi, ma quanto ci costa fronteggiare l’immigrazione? Dati ufficiali non ce ne sono, secondo un calcolo del Sole 24 Ore ci costa circa 1 miliardo l’anno, ma in questo calcolo sono considerati solo gli sbarchi. Se a questo aggiungiamo i costi sociali si può arrivare ad ipotizzare anche un costo totale di 10 miliardi annui, una cifra comunque molto inferiore ai benefici economici che porta l’immigrazione. Dobbiamo anche tenere conto che molti immigrati coi loro contributi previdenziali pagano le pensioni a noi italiani, lo ha spiegato molto bene l’attuale presidente dell’INPS Tito Boeri due anni fa: “I pagamenti erogati dallo stato per i lavoratori extracomunitari sono nettamente inferiori rispetto ai contributi versati. Questo succede perché in molti casi i lavoratori extracomunitari arrivano nel nostro Paese, lavorano e versano i contributi per poi tornare al loro Paese d’origine senza aver maturato la condizione necessaria per richiedere l’assistenza previdenziale”. Quindi spesso lasciano a noi italiani i loro contributi e non parliamo di piccole cifre: nel 2009 abbiamo avuto oltre 6 miliardi di euro di contributi da lavoratori stranieri. Un dato negativo è rappresentato dalle cosiddette rimesse dei lavoratori stranieri, cioè il denaro inviato ai propri Paesi d’origine, che di fatto toglie loro una fetta di ricchezza da usare per i consumi. Secondo un’analisi del Centro Studi "ImpresaLavoro" negli ultimi 10 anni sono stati inviati ai Paesi d’origine quasi 60 miliardi di euro, ma la crisi si è fatta sentire e nel 2014 solo 5,3 miliardi sono usciti dall’Italia, il livello più basso dal 2007. Da tutti questi dati possiamo affermare che l’immigrazione è sicuramente una risorsa, ma deve migliorare la gestione e l’integrazione, allontanando dal Paese chi non viene qui per studiare o lavorare, ma solo per delinquere.

I veri costi e benefici dell’immigrazione, scrive Alessandro Giovannini su “Affari Internazionali”. Alessandro Giovannini è Associate Researcher al Centre for European Policy Studies. Se i cambiamenti climatici a volte ci fanno dubitare che esistano ancora le stagioni come l'abbiamo sempre conosciute, c'è una stagione che da oramai più di un decennio arriva con certezza: quella del dibattito sulla immigrazione. Che si concentra su tre argomenti: i) l’Unione europea (Ue) ci lascia soli nella gestione degli immigrati; ii) gli immigrati costano troppo per le nostre finanze pubbliche; iii) gli immigrati sono un peso inutile per il paese. Con l'aiuto di dati e statistiche ufficiali è possibile capire i costi e i benefici legati all’immigrazione.

Abbandonati dall’Ue. Quante risorse impiega effettivamente la Ue per sostenere l'Italia nella gestione dei flussi migratori? Il programma europeo per la “Solidarietà e Gestione dei flussi migratori” riconosce all’Italia (così come ad altri paesi Ue “di frontiera”) risorse finanziare ad hoc per sostenere gli oneri più gravosi di questa attività rispetto ad altri paesi, realizzando così un meccanismo di solidarietà finanziaria tra paesi membri. Il programma opera concretamente attraverso quattro fondi: il Fondo per le frontiere esterne, il Fondo per i rimpatri, il Fondo europeo per i rifugiati e il Fondo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi. Il primo fondo prevede risorse per la Polizia di Stato, la Guardia di Finanza, la Marina Militare, le Capitanerie di Porto e il Ministero degli Affari Esteri per finanziare un'attività di controllo e di sorveglianza delle frontiere esterne. Il Fondo europeo per i Rimpatri è destinato a migliorare e agevolare la gestione dei rimpatri, sostenendo finanziariamente gli sforzi compiuti dall’Italia (come dagli altri Stati membri beneficiari) per questa attività. È gestito direttamente del ministero dell’Interno ed è stato utilizzato per finanziare l’attuazione di programmi di rimpatrio volontario e forzato, voli charter congiunti con altri Stati membri o Frontex e attività di formazione del personale di scorta. Anche in questo caso il Fondo opera in co-finanziamento con lo Stato membro, coprendo così circa il 50%/75% dei costi delle attività. Il Fondo europeo per i Rifugiati è destinato a finanziare progetti di capacity building per creare situazioni di accoglienza durevoli negli Stati membri. Il Fondo non finanzia direttamente l’attività istituzionale per l’accoglienza, ma azioni che mirano ad integrarla e a rafforzarla. Infine, il Fondo per l'integrazione dei cittadini di paesi terzi co-finanzia azioni concrete a sostegno del processo di integrazione degli immigrati, favorendo al tempo stesso la creazione di buone pratiche volte a sostenere la cooperazione interna ed esterna allo Stato. Le somme del fondo vengono gestite dal Ministero dell’Interno e più precisamente dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione. Secondo uno studio a cura di Lunaria del 2013, tra il 2005 e 2013 l’Italia ha partecipato a tredici progetti finalizzate alla lotta dell’immigrazione irregolare finanziati da questo fondo. Le risorse stanziate per finanziare queste attività ammontano a 38,2 milioni di euro, di cui 33,3 milioni di provenienza comunitaria.

Immigrati troppo cari. Sulla base dell’analisi effettuate da Lunaria, il costo totale delle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina più il costo di funzionamento di tutto il sistema accoglienza degli immigrati è stato di circa 1 miliardo e 500 milioni (di cui circa 230 milioni finalizzati dalla Ue) nel periodo 2005-2012. Una cifra, secondo molti, eccessiva. Ma quale è l’impatto generale dell’immigrazione sulle nostre finanze pubbliche? L'Ocse lo ha recentemente calcolato, guardando al fenomeno migratorio nel suo insieme. Da un lato, gli immigrati hanno, in media, una struttura di età più favorevole. Le tasse che pagano sono maggiori dei servizi che ricevono. In particolare gli immigrati finanziano il sistema pensionistico più che usufruirne. D'altra parte però, la stessa struttura di età degli immigrati si traduce, rispetto alla media, in maggiori spese per l'istruzione - hanno infatti più figli in età scolare - e minori acconti di imposta indiretta poiché percepiscono un reddito minore. L'impatto fiscale complessivo sul Pil è positivo per l’Italia come per la maggior parte dei paesi europei analizzati, come mostra la Figura 1. Come si vede, l’immigrazione gioca un ruolo cruciale nella spesa pensionistica.

Gli immigrati peso inutile per l’Italia. Gli effetti positivi dell’immigrazione, tuttavia, non si esauriscono nell'impatto sulle finanze pubbliche. L’immigrazione assume un’importanza economica particolare in un paese come l’Italia che ha forti problemi di invecchiamento della popolazione. L’invecchiamento della forza lavoro pone un problema di sostituzione: le corti giovanili che entreranno nella forza lavoro sono infatti più piccole di quelle dei baby-boomers che vanno in pensione. Il profilo anagrafico degli immigrati potrebbe in parte compensare questo squilibrio in Italia come nel resto della Ue, sostenendo così la crescita economica. Ad esempio, in Italia (come anche nel Regno Unito), tutta o quasi tutta la crescita della forza lavoro verificatesi tra il 2000 e il 2010 è dovuta all’arrivo di nuovi immigrati. La presenza degli immigrati, tuttavia, non solo aiuta a mantenere la dimensione della forza lavoro, ma garantisce anche un adeguato apporto di competenze per rispondere alle continua crescita dei posti di lavoro altamente qualificati. La figura 2 fornisce una panoramica generale dei livelli medi di istruzione degli immigrati in entrata nella forza lavoro nel 2010 rispetto ai livelli di coloro che ne sono usciti nello stesso anno. In Europa, in media, la percentuale di immigrati entrati nella forza lavoro che hanno livelli di istruzione bassa è stata inferiore a quella degli anziani che si sono ritirati dal mondo del lavoro; specularmente, la percentuale di nuovi entranti con elevati livelli di istruzione è stata più alta. Questo non è, tuttavia, il caso dell’Italia in cui la percentuale di immigrati con alti livelli di istruzione è stata fra le più basse a livello europeo, una riprova che il paese non è in grado di attrarre un’immigrazione di alto livello.

Immigrati, la risorsa che non sappiamo gestire. Sul tema dei migranti, d'attualità a causa dei tragici sbarchi sulle nostre coste, ci sono molti equivoci. Perché chi arriva via mare è solo una porzione di chi entra clandestinamente in Europa. E perché non è vero che i nuovi arrivati rubano lavoro. Come dimostra la Germania, che ha più immigrati di noi ma meno disoccupati, scrive Giovanni Gozzini su “L’Espresso”. Iniziamo da un punto che tutti dimenticano: gli ingressi illegali in Europa di migranti che attraversano il Mediterraneo (con il loro carico di disperazione e di morte) sono la piccolissima punta di un iceberg. Nei loro anni di punta toccano le 60mila unità: più o meno il 10% dell’immigrazione clandestina europea. Come accade sull’altro fronte di guerra delle migrazioni internazionali – il confine tra Stati Uniti e Messico – la stragrande maggioranza dei clandestini è infatti composta in realtà da «overstayers», cioè da persone che entrano legalmente (con un visto turistico, generalmente) e poi prolungano il loro soggiorno oltre i termini di legge, confidando in una regolarizzazione futura dopo un periodo più o meno lungo vissuto sfuggendo alla legge. I fatti danno loro ragione: non si prendono rischi nel viaggio di trasferimento, quasi sempre spendono molto meno di chi si affida alle organizzazioni criminali, possono contare sulla rete di protezione dei loro connazionali che li hanno preceduti (esattamente come don Vito Corleone e Cosa Nostra per i migranti italiani di un secolo fa). Non sono (come invece siamo portati a immaginare) i più poveri nelle loro società originarie: hanno livelli di reddito e scolarizzazione tali da consentirgli la conoscenza (magari immaginaria ma proprio per questo ancora più potente) di un altro mondo diverso dal proprio e la progettazione di un trasferimento e di una nuova vita. I più poveri sono invece fissati al loro piccolo ambiente di precarietà quotidiana, dal quale sono incapaci di sollevare lo sguardo. Sono questi ultimi le vittime che si affidano ai trafficanti, credono alle loro bugie e affidano loro tutti i risparmi per affrontare un viaggio pericolosissimo.

I MIGRANTI NON SONO TUTTI UGUALI. Tutti noi possiamo constatare di persona questa differenza: tra le clandestine filippine o peruviane (che appartengono alla prima categoria di overstayers meno poveri) e, per esempio, le ragazze nigeriane che attraversano il Mediterraneo e rimangono schiave del racket della prostituzione. Per le prime la scelta di migrare corrisponde a una strategia, magari disperata ma pur sempre razionale, per garantire la sopravvivenza di un intero nucleo familiare (parte del quale rimane nel paese d’origine). Le rimesse (i soldi che questi migranti mandano a casa) hanno da tempo superato il volume finanziario globale degli aiuti ufficiali che i paesi ricchi elargiscono ai paesi poveri e si avviano a raggiungere il livello degli investimenti esteri delle multinazionali. Un’altro fenomeno poco conosciuto è che circa la metà del totale degli immigrati in Europa torna a casa dopo un periodo medio di cinque anni. Per le donne nigeriane che arrivano in Italia la scelta di migrare corrisponde praticamente a una nuova forma di riduzione in schiavitù. Si stima che il giro di denaro mosso dal movimento illegale di esseri umani si collochi ormai poche spanne sotto quello del traffico internazionale di stupefacenti. Gli scafisti che talvolta i nostri poliziotti riescono a catturare rappresentano l’ultimo anello (sottopagato e rischioso) di una catena che spesso lega insieme diverse organizzazioni criminali: da quella stanziata nel paese d’origine, che convince i disgraziati a partire a quella terminale, stanziata nel paese di destinazione, che ne organizza lo sfruttamento e la vita da clandestini senza futuro. Sono queste reti criminali a costituire la più vistosa differenza con le migrazioni storiche del passato e, insieme, il decisivo problema da affrontare con gli strumenti della repressione e della collaborazione tra paesi. Qualsiasi politica vera di gestione del problema migratorio dovrebbe partire da qui.

IL PROBLEMA DEI PROFUGHI. C’è però un’eccezione che negli ultimi tre anni ha acquisito una sempre maggiore centralità: i profughi, frutto della nuova e recente instabilità politica della sponda sud del Mediterraneo. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite, che dagli anni Cinquanta si occupa del problema, è abituato a gestire tra i 15 e i 20 milioni di persone ogni anno. Vengono da guerre civili endemiche e dimenticate («conflitti a bassa intensità» sono definite nel cinico linguaggio delle scienze sociali, perché non superano i mille morti all’anno) nel cuore dell’Africa e dell’Asia. Occasionalmente anche da guerre più famose (Afghanistan, Iraq). La politica dell’Onu è di non farli allontanare troppo dalle zone d’origine per rendere più facile il rientro e non dare troppa noia (con malsani attendamenti di bisognosi) ai paesi vicini. Ma in Siria, per esempio, non è stato possibile. Due milioni di siriani (il numero è in costante aumento) sono stati costretti a fuggire dalle loro case e a trovare rifugio nei campi oltre confine in Libano, Giordania, Turchia. In questo caso le nostre distinzioni saltano: nei campi si ritrovano insieme ricchi e poveri, colti e analfabeti. Una piccolissima parte di loro – di nuovo quella più fragile e con meno difese culturali – sale sui barconi della morte. Da decenni i clandestini sfruttano la confusione tra migrazione economica e migrazione politica: tra le poche cose che conoscono c’è il diritto d’asilo. Chi emigra sa che se riesce a dimostrare di essere perseguitati in patria nessuno può chiudergli la porta in faccia. La polizia tedesca ha sempre avuto un bel daffare a distinguere tra turchi e curdi, tra chi voleva venire a lavorare e chi scappava dalla guerra. Per questa ragione nascono i centri di identificazione, a Lampedusa come altrove: possiamo chiamarli anche lager ma non è che esistano molte alternative. Una delle disgrazie (forse la maggiore) del tema migrazioni è di prestarsi a facilissime propagande ma nello stesso tempo di non essere risolvibile per vie altrettanto facili. Gli imprenditori politici della paura che proclamano «ognuno a casa sua» vanno contro a millenni di storia umana, compresi Giulio Cesare e Cristoforo Colombo. Loro nemmeno lo sanno né gli importa. Ma invece dovrebbe.

DISOCCUPAZIONE? NON DIAMO LA COLPA AGLI IMMIGRATI. Perché gli Stati Uniti e la Germania hanno più immigrati di tutti e meno disoccupazione? Perché più dell’80% degli immigrati in Italia si concentra nel nord mentre la disoccupazione al sud è doppia che al nord? Per sfatare uno di più diffusi luoghi comuni dell’ignoranza (gli immigrati ci tolgono posti di lavoro) i sociologi usano la formula 3D. Non si tratta della terza dimensione ma più semplicemente di una sigla composta dalle iniziali di dirty, dangerous, demanding (sporco, pericoloso, faticoso): sono le caratteristiche delle occupazioni che gli immigrati vanno a riempire – dai badanti ai raccoglitori di pomodori – e che i nostri giovani con titolo di studio cercano di evitare. Esiste un mercato del lavoro duale: uno per i nativi e uno per gli immigrati. Ecco perché negli Stati Uniti la disoccupazione, nonostante la crisi bancaria, è al 6% con 46 milioni (il 15% della popolazione) di immigrati. E in Germania al 5% con 10 milioni (12% della popolazione) di immigrati. Forse dovremmo pensarci, noi italiani che cerchiamo di dare la colpa della disoccupazione (al 13%) ai 5 milioni di immigrati (9% della popolazione). E dovremmo pensare di più al fatto che, secondo le ultime stime, quei cinque milioni di immigrati garantiscono il 12% del nostro prodotto lordo (molte pensioni dei tanti vecchi 'indigeni' …) ma solo il 3% delle entrate fiscali: perché dirty, nel nostro caso, significa sommerso e la colpa è del datore di lavoro quasi sempre italiano. Sarebbe una svolta epocale e una prova di grande trasparenza se governo e imprenditori fissassero ogni anno la quota di immigrati di cui la nostra base produttiva ha bisogno perché non è soddisfatta dall’offerta di lavoro interna. I clandestini gestiti (con più soldi dall’Unione Europea di quanti oggi non arrivino) sulla base di questa mappa. I criminali spiati, inseguiti, catturati e condannati con la collaborazione dei governi stranieri. I migranti liberati dalla schiavitù e dai falsi sogni. I profughi aiutati a ritornare nei loro paesi. Le guerre civili portate al tavolo del negoziato grazie all’eliminazione delle milizie che tengono in ostaggio le popolazioni e la pace. Come un dannato labirinto, la globalizzazione mostra la concatenazione di ogni problema. Possiamo farcene sopraffare. Oppure possiamo scegliere da dove partire e incominciare a dipanare la matassa.

Le balle sugli immigrati: loro una risorsa? E' falso, scrive Gilberto Oneto su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta. Cifre alla mano, ecco perché impoveriranno ulteriormente l'Italia. I numeri su lavoro, pensioni e la super crescita demografica. In queste settimane il dibattito si infuoca attorno alla manovra economica e tutti hanno suggerimenti su dove e come ridurre le spese. Nessuno però dice mai di intervenire su una delle voragini che si inghiottono i soldi della comunità: l’immigrazione. È stata abilmente fatta passare l’idea che gli immigrati siano una risorsa, una ricchezza, che siano quasi i soli a contribuire in positivo alle dissestate casse comuni. Sull’immigrazione è stata fatta una colossale opera di disinformazione. I principali gruppi di motivazioni che vengono solitamente tirati fuori per giustificare l’immigrazione sono: 1) che i nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni, 2) che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, 3) che gli immigrati sono una risorsa economica, 4) che sono una ricchezza sociale, 5) che pongono rimedio alla nostra denatalità, 6) che abbiamo il dovere della solidarietà. Vediamo di esaminare soprattutto i punti aventi incidenza economica, non senza avere prima fatto una indispensabile premessa. Il fenomeno è cruciale ma le informazioni per conoscerlo e governarlo sono approssimative. I soli dati ufficiali che si hanno a disposizione sono quelli che riguardano i regolarizzati. Restano vaghi i numeri di quelli appena arrivati o che vivono nel mondo dell’illegalità. Ci si deve perciò affidare principalmente alle informazioni della Caritas-Migrantes che, pur ricevendo finanziamenti pubblici, è una struttura privata che svolge i compiti che toccherebbero allo Stato, ma è  anche e soprattutto una organizzazione di parte e questo non la aiuta a fornire le garanzie di imparzialità che la struttura pubblica, pur nelle sue lentezze e inefficienze, dovrebbe invece garantire. La Caritas è anche condizionata dalle sue scelte ideologiche, dal suo evidente schieramento a favore dell’immigrazione e dell’accoglienza a qualsiasi costo e condizione, oltre che dal non trascurabile dettaglio che proprio dall’ambaradan dell’immigrazione trae sostanziosi finanziamenti. Secondo il Dossier statistico 2010 della Caritas-Migrantes, ci sarebbero in Italia all’inizio del 2010 4.235.000 stranieri residenti, o 4.919.000 considerando quelli non ancora iscritti all’anagrafe. Gli stranieri sono triplicati in un decennio e aumentati di quasi un milione nell’ultimo biennio. I clandestini sono stimati fra i 500 e i 700 mila, ma non è certo scorretto pensare che siano almeno il doppio. Si arriva perciò a una cifra di più di 6 milioni di persone (quasi l’11% della popolazione residente, uno straniero ogni 9 italiani), cui vanno aggiunti circa 500 mila naturalizzati italiani negli ultimi anni.  Metà circa degli immigrati sono donne. Nel 2007 gli stranieri erano 3.690.000, il 5,6% della popolazione.

PAGANO LE PENSIONI? Grande risalto è stato dato al fatto che i contributi degli immigrati hanno aiutato l’Inps a rimettere un po’ a posto i conti. In effetti l’arrivo di tanti nuovi contribuenti che non percepiranno pensioni per un po’ di tempo è salutare. Si tratta però di una situazione temporanea perché, a partire da 20 anni da oggi (quando a maturare pensioni di vecchiaia o anzianità cominceranno a esserci moltitudini di immigrati), si riproporrà anche nella comunità foresta lo stesso schema attuale di un rapporto fra lavoratori e pensionati sbilanciato a favore di questi ultimi, a meno che non si conti su un continuo afflusso di immigrati giovani paganti. In tale caso si tornerebbe in qualche modo al sistema a ripartizione su cui in anni di boom demografico si era basato il sistema pensionistico, facendo saltare ogni buona intenzione di trasformarlo in un sistema a capitalizzazione. Insomma gli immigrati non risolvono i problemi del sistema pensionistico italiano ma lo spostano solo un po’ più in là nel tempo. Oggi il rapporto fra pensionati e abitanti è di circa 1 a 5 per gli italiani e di 1 a 25 per gli stranieri: il divario diminuirà costantemente fino a stabilizzarsi sullo stesso rapporto a meno che - come detto - il numero degli immigranti non continui a crescere in misura esponenziale. Dai dati Inps più recenti e completi disponibili (III Rapporto su immigrati e previdenza), risulta che nel 2004 gli stranieri iscritti ai ruolini pensionistici erano 1.537.380, e cioè meno della metà  del totale degli immigrati di allora. Non cambia la situazione nel 2010, quando - secondo la Caritas - gli iscritti all’Inps sarebbero circa due milioni, e cioè circa il 40% dei regolari. Questi versano un totale di 7,5 miliardi in contributi previdenziali; nel 2007 le pensioni erogate erano 294.025 con una spesa annua di 2 miliardi e 564 milioni. Oltre a queste c’è una cifra imprecisata ma piuttosto alta per prestazioni sociali d’altro genere. Ci sarebbe così un saldo attivo di qualche miliardo. Occorre notare che il bilancio è migliorato da quando è stata soppressa la facoltà prima concessa agli immigrati di farsi rimborsare i contributi versati in caso di rimpatrio, rafforzando la tendenza a permanere in Italia.

I DATI NON TORNANO. Per essere un gruppo sociale la cui presenza viene giustificata come “forza lavoro”, occorre notare come la percentuale di stranieri che pagano i contributi previdenziali sia sospettosamente bassa. Questo significa che la più parte di loro non paga i contributi sociali perché lavora in nero, o evade, o non lavora affatto, o fa “lavori” (criminalità, droga e prostituzione) che non hanno vocazione né possibilità di essere assoggettati a contributi. I numeri non tornano. Comprendendo anche gli irregolari, meno di un terzo degli stranieri versa contributi previdenziali: una percentuale inferiore a quella del totale degli italiani al di sotto dei 65 anni (39.318.000 nel 2010)  che sono regolarmente occupati (più di 21 milioni), e cioè il 54,7%. Risulta perciò piuttosto evidente (e preoccupante) che l’attuale attivo del bilancio previdenziale degli stranieri sia rapidamente destinato a esaurirsi (salvo una crescita esponenziale degli immigrati e una irrealistica dilatazione del mercato del lavoro) e che perciò la presenza degli stranieri non risolverà ma aggraverà i problemi pensionistici.  É del tutto falso affermare che gli stranieri pagheranno le nostre pensioni: lo fanno in parte marginale oggi per la loro età media più bassa, ma impoveriranno ulteriormente in avvenire le sempre più esigue risorse del paese.

Gli stranieri una risorsa? Macché: ci costano 40 miliardi l'anno, scrive ancora Gilberto Oneto su “Libero Quotidiano”. Come ogni anno, la Caritas Migrantes ha presentato il suo rapporto annuale sull’immigrazione. Come sempre il documento ha ricevuto «fraterna» accoglienza da parte di quasi tutti gli organi di informazione che contano, che gli hanno così conferito una sorta di ufficialità, di insindacabile verità. È - come sempre - piuttosto strano che sia una struttura privata a «dare i numeri» sull’immigrazione, invece di uno dei tanti organismi statali che si occupano della materia. Dov’è - ad esempio - il Ministero che era stato inventato per «valorizzare» la simpatica signora Kyenge? La Caritas non è al di sopra delle parti, non è l’arbitro del gioco ma uno dei giocatori e - come tale - ci mette del comprensibile settarismo. Prendere per buoni i suoi dati è come farsi certificare la velocità da un automobilista, magari col piede un po’ pesante. Quest’anno la presentazione del Dossier capita in un momento un po’ sfigato, nel bel mezzo della bufera giudiziaria che (finalmente) sta devastando il peloso mondo dell’accoglienza e del business dell’immigrazione. Naturalmente l’organizzazione ecclesiale è al di sopra di ogni sospetto (a parte l’incidente del presidente della Caritas di Trapani accusato di concussione e reati sessuali «multiculturali») ma suona pur sempre beffardo che in un turbinio di scandali e porcherie collegate alla gestione dell’immigrazione ci venga a proporre i suoi soliti mantra quali fossero verità di fede. Il primo e più gettonato è che gli stranieri siano un affare per l’Italia perché «rendono» più di quel che costano e perché rivitalizzano energie economiche che sembrano un po’ rilassate fra gli indigeni. Il dogma si basa sul calcolo secondo cui i foresti, che sono l’8,1% della popolazione produrrebbero l’8,8% del Pil. Già sui numeri c’è da fare qualche osservazione. Mancano dal conteggio i clandestini (c’è chi dice un milione) e non si valuta l’età media delle comunità: la percentuale di stranieri in età da lavoro è molto più alta di quella dei «vecchi» italiani. Non sarebbe più corretto fare un confronto entro la fascia dell’età produttiva, nella quale gli stranieri regolari sono circa il 12%? Ma il vero calcolo da fare riguarda dati con i quali la Caritas si cimenta solo parzialmente . Il conto va fatto sul contributo fiscale e previdenziale degli stranieri, dalla cui somma va detratta una lunghissima lista di voci: erogazioni previdenziali, spese sanitarie (ricoveri, operazioni, medicine, assistenza a parenti, pronto soccorso ecc.), quota parte della spesa per l’istruzione (i fruitori stranieri del servizio scolastico sono circa il 10% in rapida crescita), quota parte della spesa per la gestione di ordine pubblico, giustizia e detenzione (circa un terzo del totale), rimesse legali e clandestine, insolvenze nei pagamenti di servizi, quote di ammortamento dell’edilizia popolare affidata a stranieri, costo dell’accoglienza (che la Caritas conosce in dettaglio), oltre ad alcuni altri parametri di più difficile quantificazione, come le attività illegali e il costo sociale dei comportamenti asociali di molti ospiti. Anni fa, un conteggio approssimativo dava un peso dell’immigrazione gravante sui cittadini italiani di 30-40 miliardi l’anno: altro che «risorsa», altro che «ricchezza», altro che «vantaggio per l’economia italiana»!

Chi specula sui profughi. Un miliardo e 300 milioni: è quello che ha speso finora lo Stato per assistere le persone fuggite da Libia e Tunisia. Un fiume di denaro senza controllo. Che si è trasformato in business per albergatori, coop spregiudicate e truffatori, scrivono Michele Sasso e Francesca Sironi su "Espresso”. Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sarà di un miliardo e 300 milioni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non troverà una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada. In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinare tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Così l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonata per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti. Dalle Alpi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le convenzioni non sono mai un problema: vengono firmate direttamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esempio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari del residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I più furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale, che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più. Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male, se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, più di mille persone. «La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata così: solo all'Hotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alla Stazione centrale, dormono tutt'ora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro. I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio:«A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associazioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis, che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti. Altro che diciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi mesi. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno». Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro. Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande coop della ristorazione che tre anni fa è stata al centro di un'inchiesta per il tentativo di entrare nella gestione dei cpt. Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese. Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulci», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante. A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti, di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivù satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per l'accoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E sì che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "l'Espresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «È mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andata oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perché non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perché loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipendenti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebbe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità.

Il tariffario delle tangenti: “Un euro a migrante”, scrive “La Stampa”. Le intercettazioni del Ros svelano le mazzette. Il ras delle coop sociali Buzzi al telefono: «La mucca deve mangiare per essere munta». Mucche da mungere solo se ben foraggiate. Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e in carcere per l’inchiesta di Mafia Capitale dello scorso anno, così si esprimeva al telefono con altri indagati. A pagina 21 dell’ordinanza del gip Flavia Costantini, che conta 500 pagine, si legge che «ha ricevuto l’eloquente risposta che la mucca era stata ben foraggiata dall’attività di Coratti (ex presidente del consiglio comunale ndr) considerazione alla quale altrettanto eloquentemente Buzzi ribadiva che «la mucca era stata munta tanto». Nell’ordinanza, che riporta appunto le intercettazioni telefoniche, viene evidenziato che ciò «è un’eloquente dimostrazione di un rapporto corruttivo continuativo nel tempo». «Le erogazioni di utilità di Buzzi, esecuzione della linea strategica delineata di concerto con Massimo Carminati - si legge nel provvedimento - avevano l’evidente funzione di asservire agli interessi del gruppo politici che gravitavano nei segmenti delle istituzioni maggiormente interessati ai rapporti con il gruppo medesimo». Ma la 29 giugno non è l’unica cooperativa interessata dalla «mungitura della mucca», il giudice scrive, infatti, ancora: «Gli esponenti del gruppo La Cascina (coop attiva, dal 2012, anche nel settore dei servizi per l’immigrazione, e oggetto questa mattina di perquisizione da parte dei carabinieri del Ros, ndr) avevano promesso a Luca Odevaine una retribuzione fissa mensile, concordata prima in 10mila euro al mese e poi aumentata a 20mila euro e commisurata al numero di immigrati ospitati dai centri gestiti dal gruppo». La cifra - spiega il Gip - è il «prezzo per lo stabile asservimento della sua funzione di pubblico ufficiale componente del Tavolo di Coordinamento sull’immigrazione istituito presso il ministero degli Interni» e «per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio come componente delle commissioni di aggiudicazione delle gare indette per la gestione dei servizi presso il Cara di Mineo». L’effettiva, periodica consegna delle somme pattuite, sarebbe confermata dalle intercettazioni ambientali e, «con certezza», in «almeno cinque episodi», dalle indagini tecniche. La conferma arriva dalle stesse parole di Odevaine, intercettato nell’ambito dell’inchiesta: «...altre cose in giro per l’Italia... possiamo pure quantificare, guarda ... se me dai ... cento persone facciamo un euro a persona ... non lo so, per dire, hai capito? E ...e basta, uno ragiona così dice va be’ ... ti metto 200 persone a Roma, 200 a Messina ... 50 là ... e ... le quantifichiamo, poi...». Questo è lo stralcio di una conversazione con alcuni suoi collaboratori intercettata nella sua stanza negli uffici della Fondazione IntegraAzione, grazie al quale il gip Flavia Costantini prospetta l’esistenza di «un vero e proprio tariffario per migrante ospitato». A titolo esplicativo Odevaine parla dell’accordo stretto, tra gli altri, con Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa 29 giugno e spiega: «Gli ho fatto avere altri centri, in Sicilia... in provincia di Roma e quant’altro, quindi su tutto quella... quella parte là ci mettiamo d’accordo dovremo..., più o meno, stiamo concordando una cifra tipo come 1 euro a persona, ci danno, calcolando che so’ almeno un migliaio di persone, dovrebbero essere grosso modo un migliaio di persone, insomma so’ 1000 euro al giorno quindi 30.000 euro al mese che entrano...». Costantini sottolinea come Le indagini dei carabinieri del Ros abbiano evidenziato «la straordinaria pericolosità di Luca Gramazio». L’amministratore di centrodestra «potrebbe sfruttare la rete ampia dei collegamenti per fornire nuova linfa alle attività delittuose e agli interessi dell’associazione» capeggiata da Massimo Carminati, «nonostante lo stato detentivo di numerosi sodali». In un altro passaggio viene evidenziato come per le elezioni al parlamento europeo del maggio 2014, Gianni Alemanno, chiese l’appoggio a Salvatore Buzzi. Quest’ultimo si sarebbe mosso per ottenere il sostegno alla candidatura anche con gli uomini della cosca `ndranghetista dei Mancuso di Limbadi. «Un ulteriore tassello idoneo a corroborare il rapporto di reciproco riconoscimento tra le due organizzazioni - scrive il giudice - è costituito dai riscontri intercettivi effettuati in occasione delle elezioni del Parlamento Europeo 2014, che hanno visto il politico Giovanni Alemanno, candidato nella lista «Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale», nella circoscrizione Sud». Buzzi, in una conversazione con Massimo Carminati, intercettata il 21 marzo del 2014, riferiva l’esito di un incontro avuto poco prima con Alemanno negli uffici della «Commissione Commercio» a Roma. «Buzzi - scrive il gip - riferiva del sostegno richiesto in quell’occasione dall’ex primo cittadino («no, no era pe’ la campagna elettorale ... una sottoscrizione e poi se candida al sud») e rappresentava al sodale come avesse individuato Campennì, indicato con il solo nome di battesimo, quale strumento idoneo per assecondare tale richiesta (».. da Giovanni ... gli famo fa ..«). Buzzi, il giorno seguente contattava «Giovanni Campennì, al fine di interessarlo per «da ’na mano a Alemanno ... in campagna elettorale ...«. Il tentativo «di Buzzi di mascherare, in maniera evidentemente strumentale con l’interlocutore («sto numero è intercettato ... però so telefonate legali ..»), l’illecita richiesta pervenutagli, facendola passare come innocua e legittima istanza volta ad ampliare il consenso elettorale (»? basta che non sia voto di scambio .... tutto è legale ... uno po’ vota’ gli amici???!!!»), nell’ambito di una circoscrizione elettorale particolarmente ampia («? mica può venire li!!! Scusa ... no perché la circoscrizione è grandissima .... è Abruzzo .... Campania .... la Calabria .... Puglia .... Basilicata ..... come cazzo fa? ... èèè ....»), veniva perfettamente compreso da Campennì, il quale, avendo evidentemente ben inteso il vero senso della richiesta («ah ste chiamate so legali??? ...»), aderiva prontamente alla richiesta, non potendo evitare, tuttavia, di sottolineare la propria capacità di poter attingere a un ampio bacino di consensi pilotabili, facendo ricorso a una metafora particolarmente espressiva («va bene .... allora .... è qua la famiglia è grande ... un voto gli si dà»).

Milioni sulla pelle dei rifugiati. Un dossier segreto commissionato dal Viminale svela il meccanismo attraverso il quale i soldi del pocket money, destinati agli ospiti dei centri d'accoglienza, non vengono distribuiti e spariscono nel nulla. La mancata erogazione dei 2,50 euro quotidiani cui ha diritto ogni migrante, nel solo Cara calabrese di Isola Capo Rizzuto, vale 3.750 euro al giorno che, moltiplicati per i 21 mesi di permanenza media dei richiedenti asilo, arrivano a superare i due milioni. Se si considera poi che la distribuzione della quota non avviene in modo regolare anche in altri centri italiani, le cifre lievitano ulteriormente. Si tratta di denaro che lo Stato versa agli enti gestori. RE Inchieste è entrata in possesso del documento che il ministero dell'Interno tiene in un cassetto da mesi, scrivono Raffaele Cosentino ed Alessandro Mezzaroma su “La Repubblica”. Illeciti e irregolarità nell'erogazione del "pocket money", la paga giornaliera ai richiedenti asilo, nell'impiego di mediatori culturali, interpreti e psicologi. E poi mancato rispetto delle procedure legali da parte di molte questure, come nel caso di quelle di Roma, Caltanissetta e Crotone che non rilasciano il permesso di soggiorno per richiesta d'asilo allo scadere dei 35 giorni di permanenza nel centro. E ancora, un quadro impietoso e desolante degli alloggi in cui i migranti, in particolare i richiedenti asilo, sono costretti a vivere, da Gorizia a Trapani. È quanto emerge da un rapporto riservato rimasto nei cassetti, o meglio, nei computer perché si tratta di file Excel, del ministero dell'Interno, mai reso pubblico, di cui Repubblica.it è entrata in possesso. Presenza di armi bianche, di scarafaggi nei container, mancanza di docce e di acqua calda, servizi igienici in comune per uomini e donne, lavandini otturati, rubinetti e vetri rotti, pulizia scarsa, bambini senza assistenza pediatrica. Sono alcuni degli esiti di un doppio monitoraggio che le organizzazioni del progetto Praesidium, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, l'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), Save The Children e la Croce Rossa hanno realizzato nel corso del 2013 su 18 centri italiani, nove Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e nove Centri di identificazione e di espulsione (Cie), su mandato ispettivo del Viminale. Migliaia di persone costrette a vivere anche per due anni dentro un Centro di accoglienza - il tempo effettivo per l'esame della richiesta d'asilo contro i 35 giorni previsti dalla legge - senza poter avere neanche una bacinella e il sapone per fare il bucato. Perché il capitolato d'appalto del ministero prevede una serie di servizi come la lavanderia e la barberia, che spesso sono disattesi dagli enti gestori. Profughi segregati a chilometri di distanza dalle città, senza mezzi di trasporto, e dunque costretti a fare anche cinque chilometri a piedi su strade pericolose per raggiungere il primo centro abitato. Giovani rifugiati che alla fine del lungo periodo passato nei Cara, ne escono senza possibilità di inclusione sociale perché non hanno neanche imparato l'italiano. I corsi di lingua, quando ci sono, sono scarsi o mal strutturati. Sotto il profilo della gestione, merita attenzione quanto è scritto sul centro di accoglienza di Sant'Anna di Isola Capo Rizzuto, vicino a Crotone, dove gli operatori del progetto Praesidium presenti all'interno del Cara hanno rilevato lo scorso settembre che "l'erogazione del pocket money avviene tramite la distribuzione di due pacchetti di 10 sigarette a settimana. Il migrante non ha la possibilità di acquistare nessun altro bene né gli viene fornita una chiavetta elettronica o una carta moneta per poter spendere l'importo rimanente. Da settembre 2011 a maggio 2013, gli ospiti riferiscono che il buono economico non è stato erogato". La denuncia dei migranti è stata presa sul serio da chi ha scritto il rapporto che, nella parte riservata alle raccomandazioni, chiede in caratteri maiuscoli di "riattivare immediatamente l'erogazione del pocket money" e di "costituire un sistema informatizzato che permetta di rilevare l'effettiva tracciabilità dell'erogazione del buono economico". Il pocket money è la quota di due euro e cinquanta centesimi che spetta al migrante sull'importo giornaliero pagato per ogni ospite dallo Stato ai gestori del centro. Nel caso di Isola Capo Rizzuto, la cifra complessiva erogata è pari a circa 21 euro, con i quali devono essere garantiti tutti i servizi. Il centro ha una capienza ufficiale di 729 posti, ma come gli altri Cara è solitamente sovraffollato. Al momento del monitoraggio erano presenti 1497 persone, oltre il doppio dei posti disponibili. Gli ospiti erano 1600 quando Repubblica ha visitato il Cara lo scorso 3 settembre (il rapporto porta la data del 25 settembre 2013 ma non è mai stato reso pubblico). Facendo un calcolo approssimativo di 2,50 euro per una media di 1500 persone, si arriva alla somma di 3.750 euro al giorno che moltiplicato per 21 mesi, cioè 630 giorni, fa oltre due milioni di euro. Anche con un numero di ospiti pari alla capienza, si raggiunge una cifra a sei zeri che, leggendo questo documento, sembra non sia stata erogata ai suoi legittimi destinatari, cioè i profughi fuggiti da guerre e persecuzioni ospitati nel Cara calabrese. Nel rapporto c'è scritto che andrebbe predisposto un paniere di beni da poter acquistare all'interno del centro o previste soluzioni alternative, come la possibilità di accumulare l'importo mensile del buono per pagare le marche da bollo necessarie al rilascio del primo permesso di soggiorno e del documento di viaggio. Nel file si sottolinea che quando il pocket money è stato erogato, ai migranti sarebbero stati consegnati solo due pacchetti di sigarette da 10 a settimana come equivalente di tutto l'importo settimanale pari a 17 euro e cinquanta centesimi.  Il centro è gestito da dieci anni dalla confraternita della Misericordia fondata dal parroco di Isola Capo Rizzuto, il rosminiano don Edoardo Scordio, e dal suo uomo di fiducia Leonardo Sacco, attuale vicepresidente delle Misericordie d'Italia. L'ultima gara d'appalto triennale vinta dalle Misericordie (nel 2012 contratto valido fino al  2015) è stata di 28.021.050 euro iva esclusa. Nello stesso periodo in cui le organizzazioni di Praesidium realizzavano il rapporto, Repubblica aveva chiesto al direttore del Cara, Francesco Tipaldi, come venisse distribuito il pocket money. "Diamo l'equivalente dei 2 euro e cinquanta centesimi giornalieri in beni", è stata la risposta. "Dividiamo i 1600 ospiti in diversi giorni per poter accedere al pocket money, non lo diamo con cadenza quotidiana perché questa attività durerebbe 24 ore, ma lo suddividiamo in maniera settimanale". I disservizi riscontrati nel centro crotonese sono anche altri. "La distribuzione dei beni consumabili avviene ogni 20-30 giorni circa, fatto salvo per i nuclei familiari", si  legge nel rapporto. "Il personale del servizio socio-psicologico non sembra essere proporzionale al numero degli ospiti presenti nel centro: ci sono tre psicologhe per circa 1400 ospiti. Il servizio di mediazione culturale non garantisce la copertura delle principali lingue parlate dagli ospiti presenti nel centro. Ad esempio non vi sono mediatori per gli ospiti provenienti dalla Somalia e dal Bangladesh. L'ente gestore ha fornito un organigramma assolutamente inadeguato perché troppo generico". Ma sono state riscontrate anche carenze sanitarie: "Non è garantita l'assistenza pediatrica ed è difficile eseguire vaccinazioni; le condizioni dei servizi igienici del centro d'accoglienza sono assolutamente inadeguate a causa della mancanza di pulizia e del danneggiamento dei sanitari". Infine, gli alloggi nei container sovraffollati e l'impianto di condizionamento non funziona. Il rapporto evidenzia problemi nella gestione del pocket money anche nel Cara di Restinco, a Brindisi, gestito dal consorzio Connecting People di Castelvetrano. I vertici del Consorzio sono stati coinvolti in un'inchiesta della magistratura su fatture gonfiate in un altro Cara, quello di Gradisca d'Isonzo. Tredici i rinviati a giudizio dal tribunale di Gorizia, di cui 11 del consorzio trapanese, fra cui Giuseppe Scozzari, ex presidente del consiglio di amministrazione, per associazione per delinquere, truffa e frode in pubbliche forniture, e due funzionari della prefettura tra cui un vice prefetto, per falso in atti pubblici. Il consorzio si è difeso affermando che esiste una relazione della prefettura di Gorizia che attesta la correttezza delle fatturazioni. L'inizio del processo è previsto per giugno. A Restinco, rileva il dossier, "l'ammontare giornaliero di 2,50 euro del pocket money può essere speso dagli ospiti nell'acquisto di beni presenti al corner shop o nell'acquisto di bibite/snack/bevande calde nei distributori automatici presenti nel centro. Gli ospiti non possono accumulare l'importo giornaliero del pocket money e devono consumarlo nel giro di due giorni, pena la cancellazione dell'importo residuo non speso". Non è specificato però che fine fanno le somme cancellate. Nel Cara brindisino: "Non sono presenti mediatori che coprano tutte le lingue parlate dagli ospiti. L'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'ambulatorio medico del centro presenta gravi condizioni di precarietà igienica". A Bari, in un centro che ospita 1400 richiedenti asilo, pari al doppio della capienza, gestito dalla cooperativa Auxilium "è stata riscontrata la presenza di scarafaggi in tutti i moduli visitati" e anche qui "l'ente gestore non organizza nessuna attività ludico-ricreativa ad eccezione di partite di calcio. L'attesa per l'inserimento dei migranti nei corsi è molto lunga e la durata degli stessi è scarsa". Nel cara di Borgo Mezzanone (Fg) gestito in quel momento dalla Croce Rossa, è stata rilevata "insicurezza per la presenza di ospiti senza titolo e il possesso di armi rudimentali quali coltelli da cucina e barre in legno o ferro". I migranti hanno riferito che gli alloggi non vengono mai puliti e l'igiene è insufficiente. Non c'è il servizio di lavanderia e non vengono distribuite bacinelle né stenditoi. Anche a Gradisca d'Isonzo, nel centro ancora gestito da Connecting People, "le condizioni igieniche dei servizi igienico sanitari sono piuttosto scarse. La qualità dei vestiti forniti è molto bassa e il cambio di vestiario avviene ogni 3 mesi. L'ente gestore ha attivato un corso di lingua italiana solo qualche settimana prima della visita di monitoraggio. Il corso risulta, però, inadeguato poiché i posti disponibili sono pochi e i tempi di attesa per l'acceso troppo lunghi (anche fino a due mesi)".  A Caltanissetta, un Cara da 500 persone è fatto di container vecchi "in cattivo stato, e in condizione di evidente sovraffollamento", con i bagni in condizioni igieniche "estremamente carenti, soprattutto a causa della ruggine e dell'allagamento continuo del pavimento provocato dalle frequenti otturazioni dei lavandini che vengono condivisi da un elevato numero di persone". A questo contribuisce la mancanza di un servizio di lavanderia, per cui "gli ospiti lavano i vestiti nei lavabi dei bagni, con lo stesso sapone che usano per l'igiene personale". L'ente gestore era in quel momento la cooperativa Albatros (a cui è poi subentrata Auxilium dal primo ottobre) che "si è rifiutata di fornire l'organigramma dettagliato del personale". Ma, secondo il documento, "i servizi di supporto socio-psicologico e legale sono apparsi insufficienti per il numero complessivo di stranieri presenti. I corsi di lingua italiana vengono erogati dai mediatori culturali e non da personale qualificato. Nessuno degli ospiti intervistati era in grado di parlare la lingua italiana nonostante fossero ospiti del centro già da diversi mesi". Inoltre, "i migranti intervistati hanno riferito di non aver ricevuto tutti i beni che spettavano loro e che gli asciugamani non sono mai stati sostituiti durante tutta la loro permanenza al Cara". Il monitoraggio evidenzia anche alcuni elementi positivi che sono un po' ovunque la buona disponibilità degli operatori, l'adeguatezza dei pasti e l'iscrizione a scuola dei bambini.

Quelle regole non applicate su cui adesso il Viminale deve fare luce. Secondo il capitolato d'appalto dei Centri dell'immigrazione, pubblicato sul sito del ministero dell'Interno, dovrebbero essere le prefetture a controllare che i contratti stipulati con gli enti gestori vengano rispettati. Dai file, però, emergono irregolarità gestionali e procedurali, oltre che strutture fatiscenti. Ne sono responsabili, nell'ordine: le cooperative che sono gli enti gestori, le questure e il Viminale. Le organizzazioni che hanno monitorato i centri non hanno diffuso pubblicamente queste informazioni. Si tratta comunque di realtà che operano con il ministero dell'Interno. Nel caso della Croce Rossa che ha ispezionato l'ambito sanitario, c'è anche un conflitto di interessi, essendo la Cri a sua volta gestore di diversi centri nel momento in cui è stato realizzato il dossier, come i Cie di Torino e di Milano e il Cara di Foggia. Alla luce di tutto questo restano alcune domande. Sono passati sette mesi da quando il Viminale ha avuto i risultati del monitoraggio realizzato con l'uso di soldi pubblici: perché i risultati non sono stati pubblicati? Quali misure intende utilizzare per migliorare l'accoglienza? Sempre secondo il capitolato d'appalto, gli enti gestori devono garantire i servizi di barberia e lavanderia, una dotazione minima di personale per l'assistenza 24 ore su 24 e figure professionali adeguate al relativo compito. I kit igienici forniti agli ospiti (sapone, shampoo, dentifricio) devono essere costantemente sostituiti sulla base di una dose monouso giornaliera. I disservizi per "mancata o inesatta esecuzione dei servizi presenti nel contratto", rilevati in sede ispettiva, di controllo e di monitoraggio o lamentati dagli utenti con riscontri fondati, devono portare a una penale di almeno il 3% del corrispettivo mensile ma è prevista anche la possibilità di un risarcimento dei danni più alto. È stata mai applicata questa norma del contratto d'appalto? E se non lo è stata, quale è il motivo? Infine, i soldi del pocket money, che nel solo Cara di Isola Capo Rizzuto ammontano a due milioni di euro, stanziati dallo Stato e non erogati a chi ne aveva diritto, dove sono finiti?

Sulla pelle dei rifugiati bambini. Garantire un alloggio ai minori che sbarcano in Italia senza genitori, così come a quelli che vengono sottratti alle famiglie, costa alle casse pubbliche oltre 30 milioni di euro l'anno. Una massa di denaro che ha messo in moto vasti appetiti criminali: dal giro delle solite coop legate ai boss di Mafia Capitale agli intermediari senza scrupoli che spacciano per ragazzini giovani di oltre 30 anni. E destano dubbi anche alcune sentenze di affidamento al centro di una guerra legale con il governo dell'Ecuador. L'Inchiesta di “La Repubblica”.

Decine di milioni che fanno gola a molti, scrivono Daniele Autieri e Roberta Rei. Al mercato delle anime battezzato da Mafia Capitale con i centri di accoglienza, c'è una merce che vale più delle altre: gli immigrati minorenni. Nel 2014 i comuni italiani hanno dato alloggio a 10.536 stranieri under 18, un esercito di solitudini accolto da poche centinaia di associazioni e cooperative e trasformato, in molti casi, in una cambiale da riscuotere. L'articolo 403 del codice civile prevede infatti che i Msna (minori stranieri non accompagnati) debbano essere accolti ed economicamente sostenuti dal sindaco del Comune in cui vengono identificati. Ed è nelle pieghe della legge che si addensano le vischiosità di un sistema che drena denari pubblici senza un reale controllo. Ad esclusivo vantaggio dei protagonisti delle inchieste giudiziarie degli ultimi mesi, dalle cooperative di Mafia Capitale alle associazioni vicine a Comunione&Liberazione. Tutti pronti a reclamare una fetta del ricco business dei minori. Fare affari con i rifugiati bambini. Il sistema, prima di tutto. A spiegare come funziona è una qualificata fonte delle forze di polizia. "Quando i minori stranieri arrivano, i dirigenti del dipartimento politiche sociali di un qualsiasi comune italiano contattano le cooperative con cui collaborano. L'affare è grosso e queste si organizzano. Se non hanno alloggi li trovano in una notte: acquistano villette, affittano, chiedono palazzetti in prestito a costruttori amici. Pochi giorni dopo la macchina è pronta ad accogliere i ragazzi". Un banchetto ricco, distribuito lungo un tavolo dove c'è spazio per tutti. Nell'inchiesta Mafia Capitale le cimici del Ros dei carabinieri intercettano una conversazione tra Tiziano Zuccolo, consigliere e vice presidente della cooperativa Domus Caritatis, e Salvatore Buzzi, l'uomo della "29 Giugno" sodale di Massimo Carminati. "Eh bravo - dice Zuccolo - l'accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da bravi fratelli". Lo spirito ecumenico è condensato in poche parole che spiegano come i protagonisti del sistema si preparino a spartirsi i rifugiati siriani in arrivo a Roma. Intervenendo sulle generalità anagrafiche dei soggetti coinvolti, il palcoscenico cambia, ma gli attori restano gli stessi e il copione scritto per i rifugiati viene replicato tale e quale con i minorenni. La cooperativa Osa Mayor è sconosciuta ai più, eppure analizzando i suoi bilanci si scopre che la sede è nello stesso stabile della Domus Caritatis e che a dirigerla c'è ancora una volta lui, Tiziano Zuccolo. La Domus Caritatis non è roba da poco. Fattura 36 milioni di euro, ha 15 milioni di debiti accumulati verso i fornitori e al 31 dicembre del 2013 vantava partecipazioni nel Cara di Mineo e nella Cascina, il colosso della ristorazione vicino a Comunione&Liberazione. Dalle carte dell'inchiesta di Firenze sulle grandi opere che ha portato in cella Ercole Incalza, emergono alcuni pagamenti per prestazioni poco chiare fatti dalla Domus Caritatis alla Capa srl di Francesco Cavallo, il faccendiere legatissimo all'ex-ministro Maurizio Lupi. Del resto, gli interessi del gruppo spaziano un po' dappertutto, e arrivano fino alla Osa Mayor, la piccola cooperativa che ottiene dal dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma il compito di accogliere circa 60 stranieri, tutte famiglie con minori al seguito. Gli ospiti vengono alloggiati in un villino alle porte di Roma, in via Casal Morena. Per loro il Campidoglio paga la retta completa, ma cosa offre in cambio la Osa Mayor? Una cucina di fortuna allestita nel garage con un forno a microonde, impianti non a norma, letti accatastati, mancato rispetto delle normative antincendio e soprattutto continua a dichiarare la presenza di tutti gli ospiti anche quando parte di loro ha lasciato la casa. Nessuno controlla. Il Comune paga. E la cooperativa si arricchisce. La vicenda è un puntino rispetto al grande mare dei 10.536 minori stranieri che nel corso del 2014 sono arrivati in Italia. Il loro peso economico grava soprattutto sulle casse degli enti locali. Lo scorso anno il ministero del Lavoro ha stanziato appena 14,8 milioni di euro per sostenere i comuni, mentre la fetta più grossa esce direttamente dalle casse degli enti locali. I trasferimenti statali sono stati effettuati sui conti di Tesoreria comunale, ma solo 4 amministrazioni hanno presentato i certificati di corretto utilizzo del contributo pubblico, per un valore irrisorio di 21.240 euro. Al 31 dicembre del 2014 non vi era ancora traccia di come i restanti 313 comuni abbiano usato gli altri 14,7 milioni. E in questa confusione, non sempre casuale, i mercanti di bambini si sono organizzati e hanno messo in piedi il business più redditizio. Non solo rifugiati. L'altra faccia del dramma minorile non riguarda ragazzi soli, ma famiglie comuni. Il tema è molto delicato ed è stato più volte denunciato perché tocca il sistema tradizionale degli affidamenti: un assistente sociale dichiara che il nucleo familiare non è sicuro per il bambino e questo viene immediatamente assegnato alle cure di una casa famiglia. A quel punto interviene il tribunale minorile che conferma l'affido e ne stabilisce la durata. Statistiche ufficiali non esistono, ma gli organi impegnati nel settore parlano di 30.000 minori in Italia. La macchina è complessa e, a fronte di tantissimi casi virtuosi, permangono alcuni elementi di criticità che arrivano a coinvolgere anche alcuni giudici onorari dei tribunali minorili. Secondo "Finalmente Liberi", l'associazione legata a Federcontribuenti che monitora il fenomeno, circa 200 sui 1.082 giudici onorari italiani avrebbero maturato conflitti d'interesse rispetto alla circolare del Csm che ne individua le incompatibilità, ottenendo incarichi personali dalle case famiglia mentre svolgono la loro attività all'interno dei tribunali minorili. Le inefficienze del sistema sono tali che alcuni Stati stranieri hanno avviato contenziosi legali per tutelare legalmente i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese. È quanto ha fatto la Repubblica dell'Ecuador. "L'indicazione di avviare cause contro il sistema italiano degli affidi - spiega l'ambasciatore dell'Ecuador a Roma, Juan F. Holguìn  -  arriva direttamente dal Presidente della Repubblica, che segue questa vicenda in prima persona. Sono moltissimi i bambini della nostra comunità presente in Italia che vengono tolti alle loro famiglie. E a nostro parere questo avviene ingiustamente. Abbiamo quindi costituito un'equipe legale e avviato una serie di cause. Ad oggi, grazie alla nostra assistenza legale, già 10 bambini sono tornati dalle loro madri".

Il muro del pianto dei ragazzi di Termini, continuano Autieri e Rei. Stazione Termini: una ragnatela ferroviaria attraversata da 480.000 persone al giorno, 150 milioni l'anno. Molte di esse costeggiano via Giolitti, il bordo multietnico che confina con l'Esquilino. Passano e non si fermano. Sul muro di marmo che fa da argine alla scalinata del sottopassaggio un gruppo di ragazzi egiziani attende. Sono tutti minorenni. Passa qualche minuto, e un uomo di mezza età si avvicina. Ne abborda uno. Poche parole, una veloce trattativa e spariscono insieme sotto le scale. A volte il cliente arriva in macchina, carica il prescelto e lo riconsegna al "muro del pianto" solo di sera, dopo averlo portato a casa e avergli offerto un pasto caldo. Lui, come tutti gli altri, non è un clandestino. Anzi. Si prostituisce per mandare i soldi alla famiglia d'origine e quando arriva la sera torna alle cooperative dove il Comune di Roma lo ha alloggiato. Chi ha potuto parlare e passare del tempo con questi ragazzi racconta chi li ospita: "Sono sempre i soliti - confessa - Istituto Sacra Famiglia, Eriches (controllata dalla "29 Giugno" di Buzzi), Domus Caritatis, Riserva Nuova di Morena, Best House, Eta Beta. Alveari che in passato sono stati capaci di ammassare anche 100 ragazzi. E per ognuno di loro il Comune di Roma può arrivare a sborsare fino a 100 euro al giorno". Molti dei giovani di Termini vengono dal Car, il Centro agrolimentare di Guidonia dove hanno lavorato per mesi con paghe da fame. In quell'occasione il giro d'affari venne svelato da un'indagine del Corpo di Polizia di Roma Capitale guidato dal vice comandante Antonio Di Maggio (e rivelata da "REInchieste"). Anche allora, quando gli agenti della Polizia Municipale si imbatterono nel fenomeno, scoprirono che molti giovani egiziani impegnati nel lavoro nero erano affidati a case famiglia. All'interno di un'informativa riservata depositata in Procura si legge che le associazioni dove i ragazzi del Car alloggiavano erano l'Istituto Sacra Famiglia, la Eriches, la Domus Caritatis e la Virtus Italia.

Barba e capelli per sembrare più giovani, continuano Autieri e Rei. La storia di Ullah è molto simile a quella delle centinaia dei falsi minorenni alloggiati in case famiglia che, nel corso del 2013, sono stati smascherati dagli uomini della Polizia di Roma Capitale. Una volta arrivati in città i ragazzi finivano in una rete criminale che prima interveniva sul look (barbe tagliate, capelli tinti, ecc.), poi li indirizzava ad alcuni uffici comunali o ai commissariati del centro storico spiegandogli come denunciare la minore età e assicurarsi così l'alloggio nelle comunità pagate dal Campidoglio. Ullah, a differenza di molti altri, ha deciso di collaborare con la giustizia e testimoniare contro i criminali che lo avevano inserito nel giro. "Mi hanno abbordato sulla linea A della metropolitana - ricorda - e mi hanno portato a casa loro. Ho dormito lì per 8 giorni, poi mi hanno spiegato come avrei potuto ottenere il permesso di soggiorno". I trafficanti gli tolgono il passaporto e in cambio gli danno un falso certificato, rilasciato da un ospedale romano, che indica la minore età. "Mi hanno accompagnato fino alla questura - prosegue Ullah - dicendomi come avrei dovuto fare. Lì sono stato riconosciuto minorenne e spedito in una casa famiglia a Morena". Un mese dopo, quando i Vigili fanno irruzione nella casa del trafficante, scoprono decine di documenti falsi che dimostrano l'esistenza di un vero e proprio business dei falsi minorenni. Da quel momento Ullah collabora con la giustizia, ma due anni dopo attende ancora che la procura di Civitavecchia e l'ufficio immigrazione del ministero gli rinnovino il permesso di soggiorno. Come lui, tanti altri immigrati sono finiti nel giro. E oggi sono diverse le inchieste aperte su un fenomeno tutt'altro che superato. La novità è che, per la prima volta, al centro di alcune indagini è finito il presunto scambio affaristico tra le organizzazioni che garantiscono la "materia prima" e alcune cooperative conniventi. Un patto criminale, siglato in nome del denaro.

E per chi fa qualcosa arriva il taglio dei soldi, scrivono Monica D'Ambrosio ed Anna Di Russo. Il Sacrai è uno di quei posti dove ogni giorno neuropsichiatri e psicologi infantili seguono minori abusatori e abusati per sottrarli al carcere o alle case famiglia. Eppure le attività del centro, che opera all’interno dell’Università la Sapienza di Roma, hanno rischiato di concludersi insieme ai fondi governativi stanziati a favore di progetti pilota per minori svantaggiati. Con la grave conseguenza che l’interruzione della terapia vanificasse il lavoro fatto fin lì e aggravasse le condizioni dei minori presi in cura. Ora, dopo mesi d’incertezza, proprio il Sacrai è l’unico centro ad  aver ottenuto un rifinanziamento (100mila euro) grazie ad un emendamento all’articolo 7 del Milleproproghe firmato dall’ex ministro per le Pari Opportunità  Mara Carfagna. Ma il principio al momento sembra valere solo per il centro universitario. Non per le altre 26 strutture, anch’esse finanziate dalle Pari Opportunità, che a ottobre 2014 hanno esaurito la copertura economica. Eppure tutti i 27 destinatari dei fondi hanno fornito con il loro lavoro la risposta italiana alla convenzione di Lanzarote e al richiamo dell’Europa che sollecitava gli Stati membri a fare di più per l’infanzia e l’adolescenza. “L’Europa - precisa Vincenzo Spadafora, Garante per l’infanzia - ha fissato degli obiettivi economici che dobbiamo perseguire: l’Italia ha precisi obblighi anche riguardo ai piani per l’infanzia e l’adolescenza”. “Sottovalutare i traumi subiti dai minori – aggiunge – è un grave errore anche in termini di spesa pubblica. In Italia il costo sociale complessivo del maltrattamento è di circa 13 miliardi di euro, con un’incidenza annuale in incremento di nuovi casi pari a 910 milioni”. Eppure quanto un servizio psicologico integrato e multidisciplinare può fare per enti locali e aziende sanitarie lo ha dimostrato il centro Vatma in Molise, che non solo ha limitato l’ingresso di alcuni minori in case famiglie o in altre strutture ad hoc, con un risparmio di oltre 30mila euro all’anno a bambino (circa 85 euro al giorno), ma ha anche tagliato tutti quei costi diretti che gli enti locali devono sostenere. Pochi, confusi e spesi male. I finanziamenti per l’infanzia e l’adolescenza esistono, ma per capirci qualcosa bisogna districarsi tra una serie di fondi statali, regionali ed europei che non sempre vengono destinati davvero ai minori. Perché oltre a non esserci un monitoraggio a livello istituzionale, non esiste neanche una programmazione chiara e una visione di lungo periodo sull’utilizzo di queste risorse. Così, oltre ai tagli – il Fondo nazionale per l’Infanzia e l’adolescenza dal 2001 al 2015 ha perso oltre il 43% dei finanziamenti, mentre non si riesce a quantificare quanto del Fondo per le politiche sociali sia stato dedicato ai minori – molte regioni, in particolare al sud, hanno difficoltà a programmare e spendere i soldi disponibili. La Campania, ad esempio, non ha ancora programmato, richiesto e utilizzato le risorse statali del 2009, 2010 e 2011, per un totale di oltre 34 milioni di euro. Eppure oggi la copertura dei suoi servizi regionali non raggiunge il 3%. Va meglio invece con i fondi europei con 227 milioni di euro (Fondo di aiuti agli indigenti 2014-2020) che nei prossimi anni saranno utilizzati per assicurare materiale scolastico e accesso gratuito alla mensa a bambini e adolescenti in condizioni di povertà e all’apertura pomeridiana delle scuole in contesti deprivati.

Dal ministero delle Pari Opportunità riceviamo e pubblichiamo .Sostegno ai minori, la precisazione del governo: Gentile Direttore, nell'articolo pubblicato sul vostro sito dal titolo "E per chi fa qualcosa arrivo il taglio dei soldi", a firma Monica D'Ambrosio e Anna Di Russo, nell'ambito di una inchiesta sui bambini rifugiati, appaiono alcune inesattezza circa il ruolo del Dipartimento delle Pari Opportunità  e delle decisioni che è chiamato ad adottare, colgo dunque l'occasione per fare chiarezza sull'intera questione. Gli autori dell'articolo sostengono che dei 27 progetti pilota - finanziati con  Avviso pubblico n.1/2011 per la concessione di contributi per il sostegno a progetto pilota per il trattamento di minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale - soltanto uno ha avuto la proroga dei fondi scaduti a fine 2014, il Sacrai, che opera all'interno dell'Università la Sapienza di Roma. E' vero, ma questo non per decisione del Dipartimento, quanto piuttosto, come riportato nell'articolo, grazie ad un emendamento  all'articolo 7 del Milleproroghe, firmato dall'ex ministra Mara Carfagna. Senza mettere in dubbio il  lavoro svolto da Sacrai, va sottolineato che con quell'emendamento, presentato per un'unica struttura,  di fatto non si è provveduto ad un intervento sistemico nei confronti di tutte le strutture coinvolte nei progetti pilota i cui finanziamenti erano relativi a 18 mesi di attività. Ecco perché il Dipartimento, che a questo fine dispone di propri fondi,  ha avviato un monitoraggio per individuare quanti sono i minori attualmente in carico alla varie strutture e di conseguenza  formulare un piano di finanziamento ad hoc per i progetti sperimentali ancora attivi.  Occorre, però,  precisare che la presa in carico di minori non è tra le competenze di questo Dipartimento, a cui spetta la prevenzione del fenomeno  e quindi a tal fine, per gli interventi strutturali e i relativi fondi, sono altri soggetti istituzionali a doversene fare carico, come prevede la legge. Ancora qualche precisazione:  l'avviso pubblico da cui nascono i progetti pilota ha avuto come obiettivo strategico quello di promuovere interventi sperimentali e innovativi a favore dei minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale caratterizzati dalla capacità di raccordare tutte le risorse operative e istituzionali del sistema locale. Ma il nostro impegno è mirato anche all'individuazione di livelli minimi di assistenza che siano applicabili e applicati su tutto il territorio nazionale sopperendo a quella disomogeneità che ancora purtroppo persiste. L'esperienza delle strutture impegnate nel progetto pilota,  è dunque diventata una base conoscitiva anche per la redazione di apposite linee guida, come previsto dal III Piano biennale nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo  sviluppo dei soggetti in età evolutiva per l'individuazione delle quali è stata attivata  un'azione di monitoraggio, in collaborazione con l'Istituto degli  Innocenti di Firenze,   al fine  di rendere omogeneo su tutto il territorio il servizio delle attività a tale scopo finalizzate. Ma il Dipartimento sull'intera materia ha inteso superare la logica emergenziale, mettendo a punto politiche in grado di contrastare su più fronti il fenomeno. Due gli strumenti a cui si sta lavorando:  il Piano nazionale di contrasto alla tratta e al grave sfruttamento (dove si dedica grande attenzione al fenomeno dei minori non accompagnati che molto spesso finiscono nelle mani di organizzazioni criminali per essere poi destinati al mercato del sesso a pagamento e alla segregazione) e il Piano nazionale di prevenzione e contrasto dell'abuso e dello sfruttamento sessuale dei minori. Entro il prossimo 9 giugno, a tal riguardo, si concluderà il giro di consultazioni che il Dipartimento ha avviato non solo con i soggetti istituzionali coinvolti nella materia ma anche e soprattutto con le associazioni del settore  in vista della stesura finale del Piano antipedofilia nel quale è previsto un rafforzamento del ruolo di coordinamento unico in capo al Dipartimento stesso  al fine di evitare sovrapposizioni e spacchettamenti di deleghe. Il nostro obiettivo finale è quello di mettere a sistema misure e interventi multi-livello e multi-agenzia in grado di rendere efficaci  le azioni programmate e di raccordare l'operato di tutti i soggetti e gli enti  coinvolti nel contrasto di tali fenomeni  garantendo un servizio omogeneo sull'intero territorio nazionale.   Uno degli strumenti individuati nel Piano antipedofilia è quello di centri pilota regionali per la cura e la presa in carico di minori autori e vittime di abusi valorizzando il ruolo e il lavoro delle ong e delle associazioni di settore.  Altro strumento fondamentale sarà un monitoraggio costante di tutta la fase di attuazione degli interventi perché qualunque legge o progetto deve poi poter essere valutato alla luce dei risultati che effettivamente produce in ogni suo aspetto. Lo sfruttamento e l'abuso dei minori sono gravi violazione dei diritti dell'infanzia, una vera e propria forma di schiavitù che va combattuta su più fronti, un fenomeno che si alimenta sia dentro circoscritti ambiti sociali (rapporti famigliari, scolastici, amicali) sia in ambito sovranazionale (pedopornografia, pedofilia, turismo sessuale, tratta di esseri umani).  Come risulta dai dati della Campagna del Consiglio d'Europa contro la violenza sessuale nei confronti dei bambini, in Europa il fenomeno riguarda quasi un minore su cinque  che almeno una volta nell'infanzia  subisce abusi sessuali:  vittime sono i minori di entrambi i sessi anche se la maggioranza sono bambine, di ogni età con percentuali più alte a partire dalla pre-adolescenza e non ci sono particolari differenze tra etnie. L'articolazione e la dimensione stessa del fenomeno indicano la complessità degli interventi necessari, il Dipartimento sta facendo la sua parte e lo sta facendo nel rispetto della normativa nazionale ed europea, ma soprattutto garantendo in ogni passaggio la trasparenza e il rigore a cui è chiamata ogni azione della Pubblica amministrazione. Distinti saluti. Giovanna Martelli, consigliera del Presidente del Consiglio per le Pari Opportunità.

"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce  ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo  dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha  avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.

Il nero e i bianchi, la torta delle coop. L'accordo globale di Mafia Capitale. Concorrenza inesistente. Consiglieri comunali compiacenti. L'unico dirigente "contro" allontanato. La squadra  di Carminati godeva su appoggi trasversali per ottenere milioni di euro nel gestire emergenze abitative e migratorie. Ora sono finiti in carcere anche i rappresentanti delle reti cattoliche, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «Noi che dovemo sta sul pezzo pe’ magnasse un po' de caciotta». Ha ragione, il Nero. Il suo braccio destro Salvatore Buzzi è un lavoratore instancabile. Non conosce domeniche o festivi: è sempre al telefono per spartirsi affari, o impegnato in riunioni, incontri e strette di mano per assicurare a sé o agli amici milioni di euro dal Campidoglio e dal ministero dell'Interno. Mai una pausa. La frase la dice Massimo Carminati, “er Cecato”, ed è riportata nell'ordinanza che ha scoperchiato la seconda parte dell'inchiesta su Mafia Capitale, con 44 arresti e decine di indagati fra politici, amministratori e imprenditori. Il piatto principale è sempre la gestione delle emergenze abitative e dell'accoglienza dei migranti da parte di un ristretto gruppo d'affari. La novità è che ora sono state arrestate le controparti di Buzzi e Carminati: i rappresentanti di quelle coop “bianche” di cui l'Espresso parla da tempo , e che nella Capitale spadroneggiavano nel settore degli aiuti sociali, spalla spalla alla banda di Carminati. Il nero e i bianchi, il neofascista delle trame e le onlus che facevano riferimento al vescovo e agli ordini religiosi. Agli arresti sono finiti infatti Tiziano Zuccolo, della cattolica Domus Caritatis, e Francesco Ferrara, Domenico Cammisa, Salvatore Menolascina e Carmelo Parabita, rappresentanti del consorzio La Cascina, legata a Comunione e Liberazione. Con Buzzi si intendevano alla perfezione. Il giudice li ritiene infatti «partecipi agli accordi corruttivi con Luca Odevaine» - il funzionario stipendiato per assegnare risorse e immigrati agli amici dal tavolo del ministero dell'Interno – oltre che autori di «plurimi episodi di corruzione e di turbativa d’asta dal 2011 al 2014», dimostrando «una spiccata attitudine a delinquere, al fine di ottenere vantaggi economici nell’esercizio della loro attività imprenditoriale». Negli atti si raccolgono così gli accordi e gli intrecci che hanno intorpidito Roma per anni, chiudendola in una rete indistricabile di cooperative – bianche, rosse, nere, incensurate o indipendenti, non cambia – che si accordavano sui progetti prima ancora venissero pubblicate le gare. Nessuna alternativa aveva spazio. C'era chi si metteva d'accordo per quieto vivere, chi sotto minaccia. E chi semplicemente traeva maggior guadagni grazie all'oligopolio. Come il gruppo dei consorzi bianchi di Zuccolo e Ferrara. Uno degli episodi che meglio spiegano  come sono stati spesi in questi anni i fondi per i più poveri, a Roma, riguarda 580 persone - donne, uomini e bambini finiti per strada a cui bisognava trovare un tetto per l'inverno del 2014. Il bando viene pubblicato il 14 luglio. Buzzi e Zuccolo sono molto preoccupati, perché a gestirlo è tale Aldo Barletta, un dirigente che a detta del socio di Carminati «è entrato da 10 giorni ed ha applicato tutto quello che non avevano applicato fino ad adesso», uno che «non cede nemmeno davanti a Gesù e Maria». Era un «pericolo», questo funzionario, per le sue «resistenze ad assecondare le procedure sfavorevoli agli interessi della pubblica amministrazione». E la procedura aperta da lui per trovare casa a quei 580 disperati era considerata un ostacolo: troppo trasparente e favorevole alla concorrenza. Andava aggirata. Come? Con l'alacre attività di cui Buzzi si fa coordinatore. E che consiste nel «far desistere» tutti i potenziali avversari dal partecipare alla gara. Il funzionario “nemico” aveva invitato infatti 15 società a presentare un'offerta. Alcuni nomi, fra gli invitati, risultavano nuovi a Salvatore Buzzi, ed è allora Angelo Scozzafava (indagato), direttore del dipartimento per le Politiche Sociali di Roma, a dargli i contatti necessari. Altri invece li conosceva bene. E inizia con gli sms e le chiamate. Contatta anche a Gabriella Errico, la responsabile della coop “Un Sorriso” che gestiva il centro per minori di Tor Sapienza diventato noto dopo l'aggressione e il caos con gli abitanti del quartiere. Lei risponde «tranquillo», si dichiara «a disposizione» e non partecipa al bando (ora è indagata). Altri fanno maggiori resistenze. Alcuni chiedono favori in cambio, come Alberto Picarelli che desiste dall'occasione ghiotta ma dice: «Salvato' spero che un giorno pure io ti possa... quando ti chiedo qualcosa me ne venga accolta». Con questi piccoli debiti o scambi Buzzi sistema la concorrenza. I colleghi competitor si dissolvono tutti. Rimane la rete di Zuccolo e Ferrara, La Cascina. Ma tutto è sistemato con una telefonata tra amici e un accordo che gli inquirenti definiscono "globale": «Io su quello dei 580 preferirei che andasse completamente deserto, che partecipassi solo io, capisci? Sugli altri dimme te, io ti ci vengo e tu vieni sui miei», dice il braccio destro di Carminati. E Ferrara conferma: «Secondo me tu vieni ed io vengo e poi hai capito, così almeno più è... e poi sti cazzi, cioè hai capito?». Chi ha capito ha capito: tu mi aiuti qui, io ti aiuto lì, e la spartizione è fatta. La manovra non fa una piega. E il 25 agosto alla “manifestazione d'interesse” dei soggetti sul territorio per accogliere quei 580 sfollati si presenta una sola società. La cooperativa Eriches di Salvatore Buzzi. Che si aggiudica così indisturbata l'affare da un milione e seicentomila euro. Turbativa d'asta in piena regola. Ferrara è coinvolto anche in altre pratiche, fra cui la manomissione di una gara indetta il 30 giugno del 2014 dalla prefettura di Roma per assicurare l'accoglienza a 1.278 migranti, oltre a ulteriori 800 richiedenti asilo in arrivo. Valore: 10 milioni di euro. Per ottenere le assegnazioni dei progetti, e far approvare una delibera che assegnasse i fondi fuori bilancio, Ferrara avrebbe partecipato alla «corruzione di consiglieri comunali mediante la promessa della somma di complessivi 130mila euro». La situazione di Eriches e Domus Caritatis/la Cascina era entrata infatti in crisi dopo un rapporto della Finanza, che giudicava illegittime le assegnazioni dirette del Campidoglio a quella ristretta cerchia di imprese sociali di milioni e milioni di euro. Ma né rapporti né dirigenti specchiati sono riusciti a fermarli.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo. 

ZINGARI ED IMMIGRATI: GLI SPRECHI SOLIDALI.

Roma, la casta degli zingari: per ogni famiglia 2750 euro al mese, scrive Beatrice Nencha su “Libero Quotidiano”, Mantenere una famiglia rom in un Centro di raccolta della capitale costa al Comune di Roma circa 33mila euro l'anno, pari a 2.750 euro al mese a nucleo famigliare. Quasi il triplo rispetto all’assistenza domiciliare garantita dal Campidoglio a un disabile invalido al cento per cento, che percepisce tra gli 850 e i 900 euro mensili di rimborsi con cui pagare il proprio badante, che spesso non arrivano a coprire nemmeno tutte le spese. Continuano a infiammare la polemica politica i dati svelati dal Rapporto Centri di Raccolta s.p.a. stilato dall’Associazione 21 Luglio e presentato mercoledì in Campidoglio, secondo cui «il sistema dell’accoglienza per soli rom a Roma vale 8 milioni, una cifra superiore del 30% rispetto allo scorso anno: è quanto ha speso il Comune di Roma nel 2014 per segregare e violare i diritti umani di 242 famiglie rom nei cosiddetti «centri di raccolta». Il primo a denunciare questo «strabismo» dei fondi, destinati con profusione ai nomadi rispetto ai tagli subiti dai portatori di handicap, è il capogruppo della lista Marchini, Alessandro Onorato. Che in un post pubblicato su Facebook, picchia duro: «Nel 2014 Ignazio Marino ha fatto spendere al Comune di Roma 33mila euro l’anno per ogni famiglia Rom. Una vergogna ancora più grande se pensiamo che una famiglia che ha un bambino autistico o con una malattia gravemente invalidante percepisce al massimo 500 euro al mese». Dopo l’ultima proposta dell’assessore alle Politiche sociali Francesca Danese di destinare il bonus Casa anche ai Rom, Onorato annuncia che «a breve la lista Marchini presenterà una delibera per indicare percorsi alternativi», sul superamento dei Centri di raccolta. Che, secondo il consigliere, stanno diventando un grimaldello per creare pericolosi percorsi privilegiati anche all’interno della Pubblica amministrazione: «Mesi fa la giunta Marino ha fatto un bando da 300mila euro in cui si conferisce un punteggio più elevato alle Coop che assumono Rom per ripulire i campi nomadi. Così, oltre a discriminare i disoccupati romani, si premiano gli artefici stessi del degrado dei campi». Dopo la sparata dell’assessore Danese sul bonus Casa, furenti anche le associazioni dei disabili, che si vedono tagliare i fondi per servizi come trasporto, laboratori e attività sociali. «A me, disabile al 100% su sedia a rotelle, il Comune garantisce 900 euro al mese di assistenza domiciliare per la badante, che però mi costa complessivamente 1.479 euro» spiega Roberta Sibaud, vicepresidente della Consulta Handicap di un Municipio. Più duri i commenti su Facebook dei romani, stufi di vedere spuntare insediamenti Rom o centri per rifugiati, che stanno per riversarsi anche in zone residenziali come l’Olgiata (Roma Nord). «Ho incontrato in XV Municipio il prefetto Gabrielli, disponibile a valutare un sito alternativo per accogliere i cento rifugiati in arrivo, destinati nell’ex Scuola privata Socrate in località San Nicola», commenta la consigliera Lavinia Mennuni. «Siamo contrari alla realizzazione di un centro di accoglienza a San Nicola: come Fdi-An non vogliamo che questa operazione porti altro disagio, emarginazione sociale e povertà». E se il prefetto annuncia l’arrivo di altri 2mila richiedenti asilo, l’assessore Danese cerca di arginare l’emergenza dopo l’incontro di ieri tra Viminale, Comuni e Regioni sull’emergenza immigrazione: «Roma accoglie già oltre 10mila richiedenti asilo. Con tutta l’area metropolitana si arriva a 66mila totali. Questi numeri non possono consentire ulteriori aggravi. Abbiamo raggiunto il nostro tetto».

Clandestini, ecco dove li ospitiamo, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Il governo italiano spende circa 35 euro al giorno per ogni profugo. La cifra finisce solo in minima parte agli stranieri (meno di tre euro al dì) mentre il resto è destinato a chi si occupa della loro accoglienza. Solitamente, si tratta di cooperative specializzate o albergatori. L’esecutivo, il ministro dell’Interno Angelino Alfano in testa, giudica  questa politica un esempio di civiltà e di doverosa accoglienza per chi sbarca nel nostro Paese scappando dalla fame o dalla guerra. Di ben altro avviso alcuni partiti, su tutti la Lega Nord di Matteo Salvini, che parlano apertamente di spreco e di discriminazione verso gli italiani indigenti. È un dibattito che si trascina ormai da alcuni mesi, e con la bella stagione è lecito immaginare che gli arrivi sulle coste meridionali possano moltiplicarsi. Nelle ultime ore, per esempio, è stata segnalata una partenza di circa 1.500 persone dalla Libia a bordo di imbarcazioni fatiscenti, dalle quali sono subito partite richieste di aiuto. In queste pagine Libero ha raccolto solo qualche esempio fotografico delle strutture che, in tutta Italia, ospitano i profughi: ci sono alberghi, alcuni dei quali di categorie più che dignitose, alcuni edifici comunali che erano destinati agli anziani, bed and breakfast, ostelli. Va ricordato che ai profughi vanno garantiti colazione, pranzo e cena. Beni di prima necessità per l’igiene personale, dal sapone al rasoio. Poi schede telefoniche e lenzuola pulite.

Busto Arsizio, soldi per aiutare i profughi: loro li spendono in scommesse, scrive di Claudia Osmetti su “Libero Quotidiano”. «Quell’incontro è una presa in giro». Roberto Maroni, presidente di Regione Lombardia, non le manda certo a dire, nemmeno al ministro Alfano. Così, ieri, ha fatto sapere che lui al vertice istituzionale per l’accoglienza dei profughi proprio non ci avrebbe messo piede: a rappresentare la Rosa Camuna sono stati gli assessori Bordonali e Garavaglia, ma il vertice del Pirellone proprio no. Il motivo? «Ci convocano per decidere come distribuire i clandestini e poi, due giorni prima, fanno una circolare che ordina ai prefetti di assegnarli». Come a dire, appunto, ci prendono per i fondelli. E intanto scoppia la polemica sulle politiche di integrazione made in Italy. Nel senso: molti degli immigrati che sbarcano in Sicilia e poi arrivano (anche) in Lombardia usano gli aiuti giornalieri che ricevono per scommettere sulle partite di calcio. O per giocare al Lotto. Più raramente per sfidare la dea bendata con un gratta&vinci. Sì, perché il governo dà loro un tetto sotto cui stare, servizi per integrarsi e qualche spiccio per far fronte alle spese quotidiane. Giusto aiutare chi ha bisogno. Eppure a Busto Arsizio succede che quella paghetta giornaliera (non è molto: meno di tre euro) non venga sempre usata per prendere qualche bene di prima necessità. Nossignori. Viene investita in ricevitoria. Se ne è accorto Giampiero Reguzzoni, vicesindaco della città in quota Lega Nord, una mattina facendo colazione al bar. «Li ho visti lì», racconta: «Io bevevo il caffè e intanto c’erano quattro o cinque profughi che scommettevano». Allora li ha seguiti e si è ritrovato di fronte alla palazzina che, a Busto, ospita proprio loro: i migranti dell’emergenza sbarchi. Non succede solo in provincia. Il dubbio è che accada anche a Milano, basta fare un giro per le lottomatiche e i botteghini. Ne abbiamo girati dodici dal centro di Milano a Loreto. E tutti i gestori confermano che sono molti i clienti stranieri. Chi sono? «Per lo più uomini, intorno alla quarantina, africani o comunque di Paesi arabi: spendono due o tre euro alla volta» racconta qualcuno. E, guarda caso, quella è proprio la cifra che ricevono quotidianamente a titolo di aiuto. «Come fai a sgamarli, non siamo mica tenuti a chiedere i documenti», taglia corto un altro. «È comunque gente che gioca pochi spicci e non con regolarità», chiosa un terzo. L’identikit, insomma, sembra proprio combaciare. Va detto, non c’è nulla di irregolare. Per scommettere o comprare un gratta&vinci non serve un documento d’identità. E i profughi non fanno eccezione: possono disporre di quella piccola somma come meglio credono. Certo, però, la fila al botteghino per fare una puntata al Lotto lascia perplessi. Soprattutto se si pensa ai soldi stanziati dal governo per far fronte a quelli che si pensa siano bisogni dei profughi un po’ più impellenti. «Se venisse provato, sarebbe l’ennesima dimostrazione che non dovremmo dar loro nemmeno un euro», commenta Igor Iezzi, consigliere comunale per il Carroccio a Palazzo Marino: «Quelli sono soldi sprecati, che potremmo usare diversamente, magari per i milanesi in difficoltà che certo non li userebbe per scommettere sulle partite di calcio».

I migranti rifiutano l'hotel per motivi religiosi. Succede in provincia di Livorno. Alcuni sono risaliti sul pulmino: "Non possiamo restare nella struttura con donne sposate o sole", scrive Mario Neri su “La Repubblica”. Alcuni sono risaliti sul pulmino, altri si sono appoggiati alle fiancate con le braccia incrociate. «Qui non ci restiamo, la nostra religione e le nostre tradizioni non ce lo permettono». È andato avanti tutta la mattina il braccio di ferro fra forze dell’ordine, operatori sociali e un gruppo di migranti arrivati a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, che si rifiutavano di alloggiare all’Hotel i Cinque Lecci. Alla fine, dopo ore di tensioni e trattative, sono stati trasferiti in mini appartamenti di un’altra struttura per le vacanze. «Si tratta di 13 rifugiati dei venti destinati in Toscana dalla Sicilia e arrivati stamani con un pullman in questa zona  – dice il commissario di polizia di Piombino, Walter Delfino – che non hanno gradito la sistemazione a causa di motivazioni etnico-religiose. Sono giovani fra i 20 e i 25 provenienti da Gambia, Ghana, Zimbabwe e Kenya, tutti musulmani che non accettavano la convivenza con donne sposate e donne sole. Sono in Italia da 18 mesi, finora erano alloggiati a Trapani, prima nel grande centro di accoglienza e poi in piccoli appartamenti dove potevano vivere da soli». In Toscana sono arrivati dal centro di smistamento di Trapani ieri e stamani, con un pullman, sono stati trasferiti nella struttura accompagnati da alcuni responsabili della cooperativa a cui è affidata la gestione dell’accoglienza. Ma all’arrivo del pullman alcuni si sono rifiutati di entrare. Qualcuno perfino di scendere dal bus. In un primo momento era sembrato che, fra i motivi delle proteste dei profughi, ci fosse anche l’assenza di wifi e tv all’interno del residence. La notizia è stata smentita dalla questura e dalla prefettura che ha confermato invece la tesi dei motivi etnico religiosi. Ma Luca Guidi, responsabile della cooperativa Diogene a cui è affidata la struttura per l'accoglienza, precisa meglio: «Hanno vissuto in un centro a Trapani molto bello, pieno di comfort, con alloggi separati. Già l'idea di trasferirsi l'avevano presa di malavoglia - dice - Li ho accompagnati io da Livorno e già durante il viaggio verso Campiglia, accorgendosi di arrivare in un luogo isolato, in una zona rurale e lontana dalla città, avevano cominciato a lamentarsi. Una volta arrivati hanno cominciato a far questioni sulla qualità e sulla posizione dell'albergo. E' arrivato Delfino (il commissario di polizia ndr) ed è venuto fuori che, per il fatto di essere musulmani non gradivano mangiare insieme nella stessa sala con le donne, inoltre si sono lamentati che nelle stanze non c'era la tv e il wifi, sebbene ci fosse internet e gli avessimo detto che a breve ci sarebbero state anche i televisori. Insomma, rispetto ai 25 rifugiati che già ospitiamo si sono mostrati un po' bizzosi. Ma alla fine abbiamo trovato la soluzione. Li abbiamo portati a vedere gli appartamenti che avevamo qui (fanno parte dello stesso progetto di accoglienza ndr) e hanno accettato di rimanere. Non ci sono stati scontri, solo un po' di tensione. Qui gli altri si sono sistemati bene, c'è un sacco di gente che ci porta aiuti, che viene a regalare abiti e vestiti per questi migranti. Non sprechiamo questo capitale di fiducia con l'odio». Walter Delfino, del commissariato di polizia, smentisce la questione wi-fi e tv: «Assolutamente no – dice – le lamentele erano legate solo a motivi di convivenza. Ai Cinque Lecci avrebbero dovuto pranzare e cenare nella sala dell’hotel insieme a donne sposate e donne sole. E alcuni musulmani la promiscuità è blasfema». Per questo i migranti che hanno protestato a un certo punto della discussione con la polizia hanno chiesto di tornare in Sicilia, in un struttura che li aveva ospitati per un anno e mezzo. Ma il ritorno non era più possibile. «A questo punto per evitare di creare anche conflitti etnici – precisa il dirigente di polizia – sono stati trasferiti in quattro mini appartamenti di una struttura ricettiva a 100 metri di distanza. Il titolare aveva dato la disponibilità alla prefettura di Livorno per settembre di partecipare ai progetti di accoglienza, ma vista la situazione ha accettato di partire prima».

Ma a quanto sembra la realtà è un’altra.

Donne sposate nell'hotel: i profughi si fanno spostare. Appena arrivati si rifiutano di scendere dal pulmino: non volevano stare in un hotel dove erano già state donne sposate, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. L'hotel disposto dalla prefettura proprio non gli andava giù e sono riusciti a farsi spostare. Alcuni immigrati africani, trasferiti oggi dalla Sicilia alla Toscana e destinati alla provincia di Livorno, hanno fatto i diavoli a quattro perché non gradivano la sistemazione nell'albergo di Campiglia Marittima ottenendo così di essere sistemati in mini-appartamenti che solitamente sono usati per le vacanze estive. I motivi della protesta? Svariati e abbastanza fantasiosi. Tra questi anche la presenza in hotel di donne sposate. Non appena sono scesi dal pullman, gli immigrati (tutti ragazzi di età compresa tra i 20 e i 25 anni e provenienti da Gambia, Ghana, Zimbabwe e Kenya) hanno iniziato ad avanzare un'infinità di pretese. Tra queste l'inopportunità, per motivi etnico-religiosi, di alloggiare in una struttura dove sono presenti donne sposate che fanno parte di un altro gruppo di clandestini arrivati in precedenza. Una prossimità che la loro religione non consente. Ma a invastitire gli africani ci sarebbero anche il peggioramento della logistica e degli spazi: "Non abbiamo uno spazio dove cucinare autonomamente". Cosa che evidentemente erano abituati a fare quando si trovavano in Sicilia. La discussione si è fatta subito incandescente. Gli immigrati sono addirittura arrivati a chiedere alla polizia di poter tornare in Sicilia dove sono stati già ospitati un anno e mezzo. Alla fine è stata trovata la soluzione e il gruppo è stato sistemato in quattro mini-appartamenti di una struttura turistica situata a poca distanza. Nella decisione le autorità italiane hanno dovuto anche tenere conto di potenziali dissidi che si possono creare fra etnie diverse.

I migranti non gradiscono l'hotel: pochi servizi nelle camere e problemi legati alla religione. Appena arrivati a Campiglia si sono rifiutati di scendere dal pulmino. Poi sono stati convinti ad accettare un'altra struttura, della stessa proprietà. Il Video di Luca Guidi ricostruisce quanto avvenuto, scrive “Il Tirreno”. Nello stesso albergo vivono da giorni altri profughi. Il racconto di Ubaldo Giardelli. "Appena giunti a Campiglia, però, accompagnati dai membri della cooperativa Diogene che si occupa della loro gestione, alcuni di loro si sono rifiutati di scendere dal pulmino. Due o tre hanno anche iniziato a protestare, urlando di non voler scendere. Alcuni di loro, in particolare, hanno lamentato la mancanza di alcuni servizi in hotel, fra i quali il wifi e la tv. Un altro problema è l'isolamento del posto, lontano dal centro abitato. Fra gli altri rilievi evidenziati dai migranti, poi, l'inopportunità, per motivi etnico-religiosi, di alloggiare in una struttura dove già erano presenti una trentina di altri immigrati arrivati in precedenza poiché tra loro ci sono donne sposate, una prossimità che la loro religione non consente. Dai primi accertamenti è emerso che il gruppo è in Italia già da qualche mese. Finora era in Sicilia. Molti di loro avevano iniziato ad inserirsi, avevano anche trovato qualche lavoretto. Hanno qualche soldo in tasca, qualcuno ha anche il telefonino. Sono stati trasferiti perché la struttura che li ospitava deve essere liberata per i nuovi arrivi, ormai quasi quotidiani. I profughi, quindi, si sono trovati a dover ripartire da capo e per questo si sono arrabbiati rifiutandosi di entrare in albergo.  L'hotel 5 Lecci, come detto, già ospita un gruppo di migranti da giorni, che non ha dato alcun problema. Dopo alcune ore di trattative e un giro in macchina a Venturina, i migranti sono stati portati in un'altra struttura, a loro più gradita, l'Hotel Rosa dei Venti, della stessa proprietà.

La proposta di Alfano: “I migranti lavorino gratis”. La proposta del ministro: «Invece di farli stare lì a non far nulla, i Comuni li facciano lavorare». Salvini attacca: schiavista. Santanché: così meno occupazione per gli italiani, scrive “La Stampa”. Matteo Salvini accorre in difesa dei migranti sfruttati. Succede anche questo mentre il tema sbarchi diventa sempre più rovente. La nuova polemica l’accende il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. «Dobbiamo chiedere ai Comuni - spiega il titolare del Viminale - di applicare una nostra circolare che permette di far lavorare gratis i migranti. Invece di farli stare lì a non far nulla, che li facciano lavorare». La circolare è dello scorso novembre ed invita tutti i prefetti a far svolgere attività di volontariato gratuite ai richiedenti asilo, perchè «l’inattività dei migranti si riverbera negativamente sul tessuto sociale ospitante». Coinvolgendo i migranti in attività di pubblica utilità a favore delle popolazioni locali, indica il documento, «si assicurano loro maggiori prospettive di integrazione nel tessuto sociale del nostro Paese, scongiurando un clima di contrapposizioni nei loro confronti». Ma le parole di Alfano scatenano un polverone, da sinistra come prevedibile, ma anche da destra. «Non ho parole. Alfano da scafista a schiavista...», commenta il segretario della Lega Nord Salvini, che infierisce: «Alfano sarebbe pagato per impedire che sbarchino, non per sfruttarli!». Sulla stessa linea Daniela Santanchè (Fi): «Alfano riscopre lo schiavismo. Lavoro gratis agli immigrati uguale a più disoccupazione per gli italiani». Da sinistra attacca Arturo Scotto (Sel). «Alfano - dice - si vergogni per frasi su migranti che lavorano gratis per Comuni. Oltre alla decenza si perde pure l’umanità. Ritiri circolare». Gli fa eco il leader dei Verdi Angelo Bonelli: «E’ gravissimo che Alfano, nel bel mezzo di un dramma che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero, insegua il populismo di Salvini». Gianni Bottalico, presidente nazionale delle Acli, si augura che quella del ministro dell’Interno sia «solo una boutade elettorale, altrimenti è una affermazione gravissima, perché non si possono saltare le norme che regolano il lavoro». In difesa di Alfano si schiera l’ex leghista e sindaco di Verona, Flavio Tosi: «Chiedere ai profughi di “sdebitarsi” con chi li ospita e concedergli il permesso umanitario di tre mesi per la libera circolazione in Europa, obbligando tutti gli Stati membri a farsi carico della questione - osserva - credo siano le uniche soluzioni attuabili in questo momento». Più articolato il commento di Gennaro Migliore (Pd), presidente della commissione d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti. «I lavori socialmente utili - rileva - costituiscono un percorso di integrazione importante per i richiedenti asilo. Il ministro Alfano indica, dunque, una pratica da applicare, ma deve essere chiaro che i migranti non possono esse utilizzati come manovalanza gratuita, perché al loro lavoro deve esse data dignità».

Migranti, Alfano: “Lavorino gratis”. Salvini: “Ministro da scafista a schiavista”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Il titolare del Viminale vuole chiedere ai comuni di applicare una circolare che permetta di farli lavorare senza compenso. Idea bocciata da Forza Italia a Sel fino alla Lega Nord e ai Verdi. E anche Migliore (Pd) dice: "Sia data dignità al lavoro". In più, per il sindaco di Isola di Capo Rizzuto la "proposta non è fattibile". “Invece di farli stare lì a non far nulla che li facciano lavorare“. Il soggetto sono i migranti e chi parla è il ministro dell’Interno Angelino Alfano, secondo cui, una volta arrivati in Italia potrebbero iniziare a lavorare. Senza percepire un compenso. “Dobbiamo chiedere ai Comuni di applicare una nostra circolare che permette di far lavorare gratis i migranti”, ha proseguito il titolare del Viminale al termine della Conferenza Unificata e prima del vertice sull’immigrazione. Ma da Forza Italia a Sel fino alla Lega Nord e ai Verdi arrivano solo critiche alla proposta del leader Ncd. Il più duro è il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, secondo cui Alfano “da scafista” diventa “schiavista” e così fa “l’affittacamere degli immigrati e fa un favore agli scafisti”. “Alfano – aggiunge – sarebbe pagato per impedire che sbarchino, non per sfruttarli“. In più “dovrebbe evitare gli sbarchi, non dovrebbe voler far lavorare gratis gli immigrati: sono sbigottito“. Il punto per il leader del Carroccio è che “dovrebbe evitare l’arrivo degli immigrati, a meno che non siano profughi, non farli lavorare gratis”, rimarca. “Non voglio dire le solite cose – conclude Salvini – spero solo che se ne vada presto”. D’accordo con Salvini anche la deputata di Forza Italia Daniela Santanchè che su Twitter scrive: “Alfano riscopre lo schiavismo. Lavoro gratis agli immigrati uguale a più disoccupazione per gli italiani”. Stessa posizione per il leader dei Verdi Angelo Bonelli che si domanda: “La soluzione del ministro Alfano al dramma dei migranti è una nuova forma di schiavismo?”. Poi aggiunge: “E’ gravissimo che Alfano nel bel mezzo di un dramma che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero, insegua il populismo di Salvini. Quelle del ministro dell’Interno sono affermazioni che lasciano senza parole ed è per questo che il senatore dei Verdi Bartolomeo Pepe presenterà un’interrogazione parlamentare per chiedergliene conto”. Per il capogruppo Sel Arturo Scotto, poi, Alfano dovrebbe vergognarsi per le frasi su “migranti che lavorano gratis per Comuni. Oltre alla decenza si perde pure l’umanità. Ritiri circolare”. Critico anche il deputato dem Gennaro Migliore, presidente della commissione d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti, che ribadisce come debba essere chiaro “che i migranti non possono esse utilizzati come manovalanza gratuita, perché al loro lavoro deve essere data dignità”. Secondo Migliore “la migliore pratica di accoglienza è rappresentata dal modello Sprar, che coinvolge su base volontaria i Comuni e costituisce un sistema di riferimento per l’integrazione. È proprio sulle effettive capacità degli Enti Locali di assorbire e integrare i migranti – sottolinea – che si dovrebbe indirizzare il progetto di infrastrutturazione per l’accoglienza dei migranti”. Il sindaco di Isola di Capo Rizzuto: “Proposta non fattibile” – Ma eventualmente la circolare di Alfano sarebbe concretamente applicabile sul territorio? No: o almeno è infattibile per Gianluca Bruno, sindaco di centrodestra di Isola Capo Rizzuto, comune sulla costa ionica crotonese che negli anni ha legato il proprio nome al centro di accoglienza per immigrati più grande d’Europa, il “Sant’Anna”. Nella struttura gravitano ogni giorno un migliaio di migranti, ma nei momenti “caldi” degli arrivi, il numero può arrivare sino a 1.500, capienza massima del Cara. Gli ospiti del centro non hanno limitazioni e possono uscire quando vogliono per recarsi in paese o spostarsi a Crotone o in qualsiasi altra località. Bruno, dunque, il fenomeno dell’immigrazione lo conosce, avendo sul territorio una simile struttura. “La proposta del ministro – spiega all’Ansa – è da valutare a 360 gradi, non può essere l’applicazione fine a se stessa di una circolare. Ma comunque non è possibile impiegare gratis i migranti visto che la nostra normativa prevede che ogni lavoro abbia un corrispettivo in denaro”. “E poi – si chiede il sindaco – quali lavori dovrebbero fare? Verrebbero occupati nel pubblico o nel privato? Questa dei migranti è sicuramente une tematica importante sulla quale occorrerebbe un ragionamento serio. Un loro impiego potrebbe anche essere una decisione utile, dal momento che potrebbero essere impiegati per la cura del verde pubblico piuttosto che per altri impieghi”. Resta tuttavia il problema di fondo dell’impossibilità, secondo Bruno, del mancato pagamento. Ma anche qualora fosse previsto un compenso, la fattibilità della proposta, secondo Bruno, non sarebbe possibile: “Se pagassimo i migranti per farli lavorare, cosa direbbero poi gli italiani? Potrebbero sentirsi parte lesa dal momento che una eventuale fonte di sostentamento verrebbe dirottata sui migranti per mezzo di un provvedimento. Ciò dimostra che quella dell’immigrazione è veramente una tematica delicata”. La circolare del Viminale – E’ una circolare firmata lo scorso 27 novembre dal capo Dipartimento libertà civili ed immigrazione del ministero dell’Interno, Mario Morcone, a invitare tutti i prefetti a far svolgere attività di volontariato gratuite ai migranti. I massicci flussi migratori, indica la circolare, hanno determinato “una significativa presenza di cittadini stranieri extracomunitari ospitati in tutte le province del nostro territorio”. A seguito di ciò, una delle criticità connesse all’accoglienza “è quella relativa all’inattività dei migranti che si riverbera negativamente sul tessuto sociale ospitante”. Per ovviare a ciò Morcone invita le prefetture a sottoscrivere protocolli d’intesa con gli enti locali per “superare la condizione di passività dei migranti ospitati […] attraverso l’individuazione di attività di volontariato”. In questo modo, “coinvolgendo i migranti in attività volontarie di pubblica utilità svolte a favore delle popolazioni locali, si assicurano loro maggiori prospettive di integrazione nel tessuto sociale del nostro Paese, scongiurando un clima di contrapposizioni nei loro confronti”. Queste attività devono coinvolgere solo i richiedenti asilo in attesa della definizione del ricorso sul rifiuto della domanda di protezione, “ciò nella considerazione che, per i titolari di protezione internazionale, sono previsti altri percorsi di inserimento lavorativo“. Le attività dei richiedenti asilo, stabilisce la circolare, “devono esser svolte esclusivamente su base volontaria e gratuita; devono essere finalizzate al raggiungimento di uno scopo sociale e non lucrativo; deve essere sottoscritta un’adeguata copertura assicurativa non a carico del ministero; deve essere assicurata una formazione adeguata”.

BAGNOLI: LA STATO FA FALLIRE SE STESSO.

Il disastro di Bagnoli, 350 milioni persi. Lo Stato fa fallire se stesso. Bagnolifutura (controllata dal Comune di Napoli) fallita su istanza di Fintecna, azienda del Tesoro, scrive Sergio Rizzo su Corriere.it. Lo Stato che manda in fallimento lo Stato. Fino a questo punto è arrivata la follia che da vent’anni si è impossessata di Bagnoli. Assenza di visione strategica, inettitudine, disinteresse, clientelismo, cattiva politica, burocrazia: in questa storia non manca davvero nulla. Nemmeno la rabbia per lo spreco immane di risorse, nell’assistere inermi allo spettacolo di un patrimonio simile che va in rovina dopo che sono stati gettati via 300, forse 350 milioni di euro senza creare un solo posto di lavoro. «Se riparte Bagnoli riparte il Sud», proclamava Matteo Renzi il 29 agosto dello scorso anno. Nella legge Sblocca Italia aveva infilato una norma per sbloccare anche Bagnoli. Il risanamento e la sistemazione dell’immensa area dell’ex acciaieria Italsider sarebbe stata affidata a un commissario, per dare finalmente una svolta a una incredibile vicenda che si trascinava senza costrutto dal 1992. Da allora sono passati otto mesi, e del commissario nemmeno l’ombra. Uno smacco clamoroso per il governo «del fare». Di fronte alla prospettiva che dopo vent’anni il boccino tornasse di nuovo nelle mani dello Stato centrale, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris è insorto. Poco importa che nei tre lustri passati, durante i quali la faccenda è stata gestita dalla politica locale, siano stati combinati solo disastri. Ma c’è dell’altro, oltre le barricate comunali, a ostacolare il commissariamento di Bagnoli. Il fatto è che da due anni gran parte dell’area è sotto sequestro: i magistrati contestano le modalità con cui sarebbero state realizzate negli anni le bonifiche dei suoli e hanno mandato un mucchio di gente sotto processo. Non bastasse, poi, c’è di mezzo anche il fallimento della società pubblica, Bagnolifutura spa, controllata dal Comune di Napoli incaricata a suo tempo di gestire l’operazione. E a farla fallire, l’anno scorso, è stata un’altra società pubblica. Si chiama Fintecna, ed è l’erede dell’Iri ora controllata dal Tesoro. È il colmo, anche perché questo rende nella sostanza inutile l’arrivo di un commissario, almeno per com’è stato definito nello Sblocca Italia. Le aree sono sequestrate e ciò che non è sequestrato dai magistrati è in procedura fallimentare, affidata a cinque curatori: Francesco Fimmanò, Vincenzo Moretta, Giovanna Carrieri, Francesco Palmieri e Mauro Marobbio. Circa 200 milioni i debiti da onorare, e senza quei soldi non si va da nessuna parte. Poi ci sono gli altri soldi che servirebbero per far «ripartire» Bagnoli, come dice Renzi. E qui è buio pesto. Un posto così non ce l’ha nessun Paese al mondo. È un’area più grande del Principato di Monaco, ma in pianura, di fronte a uno scenario unico: sul mare, dirimpetto alle isole di Procida e Ischia. L’ideale per qualunque progetto, a patto di averne uno. Come a Bilbao, per esempio. Vi chiederete: che cosa c’entra con questa storia? C’entra eccome. Anche a Bilbao c’era un’acciaieria che doveva essere chiusa, a ridosso del centro urbano. L’hanno smantellata trasformando l’area in un grande parco che è diventato il polmone verde della città. L’operazione ha cambiato la faccia di Bilbao, rimettendo anche in moto l’economia. Sulla sponda opposta del fiume Nerviòn, che attraversa la città, è sorto il museo Guggenheim: con il risultato che il centro operaio degradato e decadente si è trasformato in un formidabile attrattore di turismo e moltiplicatore di affari. Con relativi posti di lavoro. Il bello è che si era ipotizzato di metterlo, quel museo, a Bagnoli. Ovviamente non se n’è fatto nulla, e non è l’unico affare che gli spagnoli hanno soffiato a Napoli. Eppure Bilbao non è nemmeno lontanamente paragonabile a Bagnoli. Basta una passeggiata sul pontile lungo 800 metri che arriva in mezzo al mare, dove l’isoletta di Nisida sembra di toccarla, per rendersene conto. Ma quella passeggiata fa capire anche perché il museo non è arrivato qui. Ottocento metri sospesi sul mare, per una larghezza tale da poter ospitare bar e ristorantini in uno scenario incredibile, considerando che al tempo dell’acciaieria lì sopra ci passavano i treni. Eppure non c’è un bel niente. Giusto una fontanella dell’acqua per dissetare quelli che sul pontile fanno jogging. Non che non ci avessero pensato, sia chiaro. Esiste anche una spaziosa cabina sopraelevata, in una posizione spettacolare, che avrebbe potuto servire allo scopo. L’avevano ristrutturata, poi la cosa non è andata avanti: come tutto il resto. E non ha neppure senso chiedersi perché «La storia di Bagnoli» comincia quasi trent’anni fa, quando a Bruxelles si decide che l’Europa produce troppo acciaio e si devono chiudere alcuni altoforni. Manco a dirlo, tocca all’Italia: la sorte dell’Italsider, nonostante sia uno degli impianti più tecnologicamente avanzati, è segnata. Nel 1992 l’acciaieria viene chiusa, i pezzi buoni si vendono agli indiani e ai cinesi, che con quelli ci faranno concorrenza. E il resto si comincia a smontare. Molto lentamente, però. Non c’è nessun progetto. Più che sistemare un’area così preziosa (più di 200 ettari in pianura sul mare con l’alta velocità ferroviaria a due passi e ben due linee di metropolitana) per farne una nuova occasione di sviluppo, la preoccupazione dei politici sembra essere quella di garantire il posto di lavoro a 360 ex operai impegnati nella bonifica. Che dunque deve durare più a lungo possibile. Tramonta l’idea del museo Guggenheim. Tramonta anche quella di realizzare un grande acquario. Mentre il progetto di farne un campo da golf non viene nemmeno preso in considerazione: come si può pensare di trasformare un posto dove lavoravano gli operai in un luogo di svago per ricchi? Nel frattempo all’Iri subentra il Comune di Napoli con una sua società battezzata Bagnolifutura, e una sessantina di dipendenti. Spunta il piano suggestivo di far nascere lì la Città della Vela, puntando sulla Coppa America che si terrà nel 2007. L’edizione del 2003 l’ha vinta un imprenditore italo-svizzero, Ernesto Bertarelli con la sua Alinghi. Che però alla fine sceglie la maggiore affidabilità degli spagnoli e se ne va a Valencia. E dopo che la suggestione è evaporata, si procede con iniziative casuali e talvolta assolutamente insensate. In compenso, costosissime. I silos vengono ristrutturati per ospitare un centro per le tartarughe marine: una decina di milioni. Quindi ecco la città dello sport: altre decine di milioni. Poi si progetta un grande auditorium, con un enorme bar e un centro benessere per ricconi: 46 milioni. Chiamano il tutto «La Porta del Parco» ma il parco ovviamente non c’è. Completata quattro anni fa, la spa non è mai stata aperta. Per giunta, non ha nemmeno l’acqua termale nonostante lì sotto ci sia dappertutto, a 42 gradi di temperatura, e le sorgenti si trovino a pochi metri di distanza. Ma la competenza delle acque è regionale mentre la società è comunale. Mai aperto il bar: come la spa era stato assegnato a un gestore che non l’ha mai preso in carico. Chi mai frequenterebbe un bar, o una spa, in un posto simile? Il fallimento è un esito scontato. I debiti contratti con Fintecna per la cessione delle aree non sono stati onorati, e il creditore si rivolge al tribunale. Il fatto che creditore e debitore siano entrambi pubblici è appena un dettaglio. Anche se decisamente grottesco. E oggi è tutto fermo, immobile, paralizzato. Mentre la spa cade a pezzi, il bar cade a pezzi, i resti di archeologia industriale cadono a pezzi, e cade a pezzi anche la città dello sport, i politici continuano a litigare senza costrutto. Avendo come unica certezza l’assoluta mancanza di idee.

RIMBORSI. LA GRANDE ABBUFFATA DEI PARTITI.

Rimborsi, la grande abbuffata dei partiti. Un tesoro incassato coi contributi pubblici. Nella Seconda Repubblica le campagne elettorali sono costate 727 milioni. Ma alle formazioni politiche sono andati 2 miliardi e mezzo di “rimborsi”. Anche se il referendum del ’93 ha teoricamente abolito il finanziamento statale, scrive Paolo Fantauzzi - dati Openpolis - su ”L’Espresso". Il vocabolario Treccani non lascia dubbi sulla definizione di "rimborso": "Il fatto di venire rimborsato di quanto si è speso". Evidentemente il concetto non è altrettanto chiaro alla politica italiana, che chiama "rimborsi elettorali" anche erogazioni assai superiori ai costi sostenuti. Tanto da aver consentito, da quando è nata la Seconda Repubblica, che nelle casse dei partiti affluisse un utile di 1 miliardo e 753 milioni. Una "cresta" che in 21 anni è costata ai contribuenti 230 mila euro al giorno compresi i sabati, le domeniche e i festivi. A mettere nero su bianco questa incredibile situazione è il Collegio di controllo sulle spese elettorali della Corte dei conti, che verifica consuntivi e fonti di finanziamento dei partecipanti alle consultazioni politiche, regionali ed europee. E i numeri parlano da soli: a fronte di 727 milioni per le campagne elettorali dal 1994 a oggi, i partiti hanno incassato 2 miliardi e mezzo. Per ogni 100 euro impiegati, in pratica, lo Stato ne ha “rimborsati” 341: quasi tre volte e mezzo la somma effettivamente utilizzata. Con il caso-limite delle politiche del 2001 che riportarono Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, quando i contributi furono addirittura dieci volte superiori alle spese e i partiti ebbero un attivo di oltre 400 milioni. Somme che per la loro entità spiegano gli scandali più recenti, da Lusi a Belsito, e che sembrano avere poco a che fare con la necessità di risorse statali per assicurare la buona salute della democrazia. Tanto più che l'assetto istituzionale nato dalle macerie fumanti di Tangentopoli aveva come mito fondatore proprio l'abolizione del finanziamento pubblico, sancito a furor di popolo da un referendum promosso dai radicali nel 1993. A leggere le cifre appare invece evidente che quel verdetto non solo non sia servito a nulla ma che la volontà degli italiani è stata aggirata grazie a un trucchetto facile facile: cambiare nome al meccanismo. Niente più contributi ma semplici “rimborsi”. Prima estesi a tutte le tornate elettorali, poi spalmati su cinque anni anche nei casi di scioglimento anticipato della legislatura, erogati a chiunque superava l’asticella dell’1 per cento e soprattutto lievitati anno dopo anno: 1.600 lire per ogni cittadino maggiorenne (1994), divenute 4 mila lire nel 1999 e infine, grazie all'introduzione della nuova moneta, convertite molto generosamente in 5 euro per ogni voto ricevuto (2002). La pacchia, già ridotta significativamente, durerà solo un altro paio d’anni: i rimborsi spariranno del tutto nel 2017. Non a caso, alle prese con la contrazione dei cordoni della borsa, già da tempo quasi tutti i partiti denunciano bilanci in rosso e la necessità di mettere i dipendenti in cassa integrazione. Eppure non si può certo dire che arrivare a piangere miseria fosse scritto negli astri. Sulla base dei dati Openpolis, l’Espresso ha infatti ricostruito i principali finanziamenti dal 2000 in poi e l’ammontare delle erogazioni è impressionante. Ad esempio solo negli ultimi 15 anni Silvio Berlusconi ha incassato quasi 700 milioni grazie a Forza Italia e al Pdl (ma in quest’ultimo caso una quota minoritaria è andata ad Alleanza nazionale). Ma ancora più ricco si rivela il patrimonio dell’attuale Partito democratico: considerando anche i fondatori (Ds e Margherita) e il progenitore Ulivo si arriva infatti alla bellezza di 770 milioni. A seguire, dopo la Lega, una serie di partiti ormai agonizzanti (come l’Udc) o spariti del tutto dalla scena politica (An, la sinistra radicale, i Verdi, l’Italia dei valori, l’Udeur di Clemente Mastella). Tutti premiati con decine di milioni per i loro risultati elettorali. Ma non è questo l’unico ingrediente della ricca torta. Una volta entrati a Palazzo infatti, sulla base della loro consistenza, i partiti ricevono anche risorse per il funzionamento dei gruppi parlamentari. Soldi che diventeranno ancor più fondamentali quando cesserà l’attuale sistema di finanziamento pubblico. Del resto le cifre sono di assoluto rilievo: ben 40 milioni solo nel 2013 (e la legislatura è iniziata a metà marzo), quasi quanto la rata annuale dei rimborsi elettorali. Solo che quest'altra fetta di contributo statale, forse perché meno nota, è finora risultata immune a qualunque sforbiciata. E non finisce qui, perché il grande fiume dei contributi alla politica è nutrito da numerosi affluenti. E quel che vale in Parlamento si ripete anche nelle Regioni, non a caso pure loro protagoniste di innumerevoli scandali proprio per le generose iniezioni di denaro pubblico. Prendendo in considerazione soltanto il 2013, ai partiti sono andati a livello locale altri 30 milioni. Una cifra di tutto rispetto eppure assai inferiore al bengodi precedente: nel 2011, calcolò l'Espresso, la cifra si aggirava sugli 80 milioni l'anno. E solo la Regione Lazio, poco prima che scoppiasse il caso Fiorito, superava i 13 milioni. Non tutti gli enti sono ugualmente munifici però. A guidare la classifica è la Sicilia, che in virtù della sua autonomia chiama “deputati” gli eletti all’Assemblea regionale (che dei parlamentari nazionali hanno anche l’entità del trattamento economico): 6 milioni e mezzo scarsi, grosso modo la metà di quanto eroga il Senato della Repubblica. Ma ripartendo la spesa per il numero dei residenti, si scopre che i partiti non pesano sulle tasche dei cittadini allo stesso modo. E se i lombardi, con un contributo di appena 5 centesimi a testa, possono ritenersi i più fortunati, non altrettanto si può dire per il piccolo Molise. Fra Isernia e Campobasso, senza considerare gli stipendi dei consiglieri, solo i partiti costano 3 euro l’anno a ogni abitante. Neonati inclusi. 

I PAPPONI DELLE PENSIONI E DEI VITALIZI.

Pensioni, la bomba sociale pronta a esplodere. Così il sistema è sempre meno sostenibile. La nostra previdenza è strutturata in modo che pochi abbiano tanto e, negli ultimi anni, la spesa per le pensioni sta ingessando sempre di più l'economia, penalizzando chi ancora non ha raggiunto l'età. Mentre sul fronte dell'invalidità, il divario Nord-Sud è abissale, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso”. Oggi le pensioni rappresentano per le forze politiche una questione delicatissima. Il sistema previdenziale, infatti, è strutturato in modo che in pochi abbiano molto e in tanti abbiano poco. E un’ampia platea di persone, compresa fra i 55 e i 65 anni, per effetto della crisi si è ritrovata senza lavoro proprio a ridosso della pensione, con il rischio di maturare diritti largamente inferiori a quelli che erano le aspettative maturate fino a qualche anno fa. L’Inps nel 2015 conta oltre 18 milioni di pensioni erogate, fra prestazioni previdenziali e assistenziali, ma il 65 per cento del totale non supera i 750 euro mensili. Se si considerano poi le pensioni di reversibilità, quelle ai coniugi di contribuenti che nel frattempo sono mancati, la media scende a 597 euro. Questo in un momento in cui le famiglie si devono sobbarcare l’onere di supportare figli e nipoti, alle prese con un mercato del lavoro che continua a dare pochissime prospettive. Osservando i dati si apprendono però due aspetti che vanno tenuti in considerazione. Anzitutto il fatto che negli ultimi dieci anni l’importo medio delle pensioni è andato aumentando di pari passo con il costo della vita, passando da 618 euro a 825 euro in media per persona. Secondo, che la spesa per le pensioni sta ingessando sempre più l’economia italiana: se nel 2000 rappresentava il 12,7 per cento del Prodotto interno lordo (Pil), nel 2013 si è toccato il 15 per cento. Pur con tante sfortune, ben note agli addetti ai lavori, dal punto di vista finanziario il sistema finora ha retto. I problemi però sono numerosi: «Al di là dell’eterna voragine rappresentata dall’evasione contributiva, il problema qui sono le entrate, il fatto cioè che una grossa fetta di chi riceve pensioni o assistenza non abbia versato in passato i contributi necessari per sostenere gli oneri attuali», spiega Marco Paolo Nigi, segretario della Confsal, associazione che raccoglie i sindacati autonomi. «Mi riferisco in particolare alle pensioni sociali, agli assegni familiari e a tutti coloro che, complice anche la crisi, non sono riusciti nella loro vita lavorativa a versare almeno 15 anni di contribuzione regolare. «E' evidente che le persone in difficoltà vanno aiutate», spiega Nigi, «ma va anche detto che gli enti assistenziali oggi sono in affanno poiché il differenziale tra entrate e uscite è molto elevato». Un pensionato su due, infatti, percepisce prestazioni totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale, e con il proseguire della crisi è difficile immaginare uno scenario migliore per i prossimi anni. Per non parlare di chi invalido non è ma la pensione la prende ugualmente, e a questo proposito i dati Inps pongono ancora oggi forti quesiti. Nel meridione, infatti, si registra una media di 80 prestazioni assistenziali ogni mille abitanti, esattamente il doppio delle regioni del nord. La punta dell’iceberg è rappresentata da Calabria (93 ogni mille abitanti), Sicilia (88) e Sardegna (87), mentre in fondo alla graduatoria si trovano Trentino Alto Adige (27) e Valle d’Aosta (31).

"Scalfari, Rodotà: rispondeteci". L'editoriale di Maurizio Belpietro. Stefano Rodotà è un professore molto democratico, tanto democratico che non si nega mai a un giornalista. L’ex Garante della privacy è infatti sempre pronto a farsi intervistare e l’ultima sua conversazione di cui si ha notizia è dell’altro ieri, con un cronista de Il manifesto. Ma da un paio giorni l’uomo che due anni fa i grillini candidarono al Quirinale, inspiegabilmente, tace. Sui giornali è silenzio di tomba e pure sulle agenzie. Perché il loquace professore sia improvvisamente ammutolito è un mistero. O forse no. Perché proprio due giorni fa Franco Bechis ha fatto i conti di quanto ha incassato Rodotà da quando è uscito dal Parlamento. In una ventina d’anni ha accumulato oltre un milione e 100 mila euro di vitalizi, avendo versato contributi per poco più di 200 mila euro. Il suo conto personale dunque è in attivo di oltre 900 mila euro, quello dei contribuenti sotto di 900. Ma il democratico docente, sempre pronto all’uso per talk show e stampa libera, non è il solo ad essere ammutolito. (...)

I papponi delle pensioni, su Libero altri 20 nomi: ci sono pure Ignazio Visco e Toni Negri. Continua su Libero l'inchiesta sui papponi delle pensioni. Sul quotidiano in edicola oggi, lunedì 18 maggio, Franco Bechis svela i nomi di altri venti parlamentari con i vitalizi d'oro. Fra questi spiccano Vincenzo Visco, Toni Negri e gli Occhetto. Il "vampiro" visco in sette anni ha già incassato col vitalizio più di quanto ha versato. Quindi il "cattivo maestro" Negri, eletto coi radicali, al quale abbiamo già regalato 589mila euro. All'ex leader del Pds e alla moglie circa 700mila euro.

Giorgia Meloni: "Aboliamo i vitalizi e diamo i soldi ai rapinati da Monti", scrive Paolo Emilio Russo su “Libero Quotidiano”. «È la solita storia: guanti di velluto per le pensioni d’oro, mannaia per tutti gli altri… È così che si muovono i figli del Sessantotto, quelli per cui l’uguaglianza è fondamentale, ma vale solo per gli altri». Giorgia Meloni sul tema dei vitalizi e delle pensioni d’oro batte da più di un anno: il partito di cui è leader, Fratelli d'Italia, aveva proposto ai maxi assegni e il loro ricalcolo col sistema contributivo già a gennaio 2014; la maggioranza ha risposto proponendo un emendamento soppressivo dell’emendamento soppressivo. Discussione finita.

Presidente, magari, semplicemente, non era una buona proposta di legge, no?

«Beh, avrebbero potuto migliorarla, allora. Ma nessuno lo ha fatto, hanno semplicemente presentato un emendamento soppressivo della nostra proposta: cancellata. Di certo se fosse passata quella proposta su pensioni d’oro e vitalizi oggi non staremmo dove siamo: prevedeva il ricalcolo di tutte le pensioni in essere, un riequilibrio tra contributi versati e soldi presi».

A proposito di riequilibrio, ci sono ex parlamentari che hanno già incassato il quadruplo dei soldi versati allo Stato sotto forma di contributi.

«Nel nostro Paese ci sono 200 mila persone che prendono una pensione più alta di dieci volte la minima, cioè superiore ai 5 mila euro al mese. Queste 200mila persone pesano 16 miliardi di euro l’anno sul sistema pensionistico; di contro, qualche milione di italiani sta pagando i contributi non per la propria pensione, ma per i privilegi di qualcun altro».

Molti di questi “privilegiati” sono ex parlamentari, sarà un caso?

«Noi prevedevamo che per la parte che eccede i 5mila euro venisse ricalcolata con il sistema contributivo per tutti. Se uno ha versato contributi corrispondenti per prendere una pensione anche da 90mila euro, continuerà a prenderla, ma se non sono stati versati, come noi pensiamo che sia avvenuto in moltissimi casi come quelli che avete raccontato, allora la parte in eccedenza doveva venire revocata e con quelle risorse si potevano aumentare pensioni minime e di invalidità».

Chi difende in Parlamento i vitalizi?

«Sono i figli della sinistra radical chic, i sessantottini per cui l’uguaglianza è fondamentale, ma solo quando vale per gli altri. Noi abbiamo chiesto la calendarizzazione nella quota di tempo riservata alle opposizioni, loro hanno chiuso il sipario».

Secondo i calcoli di Libero, Stefano Rodotà ha incassato 1 milione e 180 mila euro e ne ha versati 241 mila, Gino Paoli 557 mila euro a fronte di 60mila euro di contributi, mentre Mario Capanna ha incassato oltre mezzo milione a fronte di 123 mila euro di contributi...

«Sono quelli che volevano la gioventù al potere, ma hanno omesso di dire che la regola valeva soltanto fino a quando erano giovani loro. Da quel giorno in poi, infatti, non hanno mai schiodato dalle loro poltrone e hanno impedito che qualcun altro le occupasse… Difendono solo le loro posizioni. Eppoi scusi…».

Dica.

«L’elenco di per sé è significativo. Rodotà è un campione del Movimento 5 stelle, che lo voleva Capo dello Stato: lo ricandiderebbero oggi?».

C’è pure l’autore di “Il Cielo in una stanza”, deputato Pci dal 1987 al 1992.

«Eggià, il cantante che suona alle Feste de l’Unità, non mi pare abbia dato un apporto fondamentale alle istituzioni, ed è accusato di avere evaso due milioni…».

Capanna ha pure il vitalizio da consigliere regionale: due.

«Il campione del ’68...».

Riproverete a cambiare la legge in Parlamento?

«Certo che sì, anche se il tema riguarda ormai solo gli eletti della Prima Repubblica e dell’inizio della prima, quando bastava un giorno di legislatura per avere il vitalizio tutta la vita. Dal 2012 è già in vigore il sistema contributivo per tutti, anche se resta il fatto che parlamentari e consiglieri regionali possono avere diritto ad un trattamento pensionistico solo dopo 5 anni di contributi».

A proposito di pensioni, il governo non vuole restituire i soldi ai pensionati “semplici”, come da sentenza della Corte costituzionale. Come finirà?

«Siamo sempre lì: quando la Corte decise di restituire i soldi ai pensionati d’oro, il governo non ci ha pensato su due volte. Ora che si tratta di restituire il maltolto a persone che percepiscono pensioni “normali”, Matteo Renzi propone un tetto ai trattamenti fino a duemila euro lordi, invece che restituire fino all’ultimo centesimo a persone letteralmente rapinate da Mario Monti con la complicità del Pd».

Avete proposto una class action, no?

«Fdi offre assistenza legale gratuita per aiutare i pensionati a far valere i loro diritti. Siamo pronti ad avviare una class action per obbligare il governo a restituire tutto e fino all'ultimo euro". 

L'inchiesta di Libero. Papponi delle pensioni, leggi l'articolo completo di Franco Bechis. Altro che fondi pensione, nemmeno con la soffiata giusta per l’investimento in Borsa avrebbero potuto fare di meglio. Forse solo con la roulette, a patto di azzeccare il numero secco. L’investimento finanziario che più ha reso nella storia della Repubblica italiana è quello dei parlamentari sulla loro pensione. Per loro fortuna generalmente sono longevi, ma grazie all’istituto del vitalizio (e pure al sistema del mini-vitalizio introdotto nel 2012 che loro vergognosamente chiamano pensione contributiva) sono riusciti a fare lievitare di 6-7-8, in qualche caso addirittura di dieci volte il capitale investito. Cose impensabili per milioni di pensionati italiani, ma con un passaggio anche breve in Parlamento c’è chi ha strappato per decenni assegni mensili da 2, 3, 4, 5 o anche 6mila euro per tutto il resto della vita. Di fatto non ha versato nulla, perchè stabilendo l’ammontare dello stipendio da parlamentare ci hanno pensato Camera e Senato a versare i contributi per loro conto. Ma non c’è paragone fra quel piccolo impegno (8,8% del lordo mensile) e quel che è venuto in tasca a loro dal giorno in cui hanno potuto percepire il vitalizio. Oggi vitalizio o mini-vitalizio si percepisce con 5 anni di contributi a 65 anni. Ma se hai 6 anni di contributi, la pacchia inizia a 64, se ne hai 7 puoi prendere l’assegno previdenziale a 63, e così via fino a 10 anni di contributi, con cui puoi andartene in pensione a 60 anni in barba a tutti gli altri lavoratori d’Italia che a quella età non possono incrociare le braccia né con 10, né con 15, né con 20, 25 o 30 anni di lavoro. Queste sono le regole di oggi, ma fino a ieri la pacchia era perfino più grande: se eri già in Parlamento prima del 2012, fino a quell’anno valevano le vecchie regole, e allora si poteva andare in pensione anche prima. Se la prima elezione è datata prima del 1997, c’era il diritto per tutti a fare il baby pensionato: assegno in tasca dai 50 anni in poi, e con qualche penalizzazione era possibile anche prima di quell’età. Alcune di queste regole da paese di Bengodi sopravvivono oggi a macchia di leopardo in molte Regioni, che il vitalizio l’hanno abolito e sostituito con un sistema chiamato in altro nome ma assai simile. L’Italia ha migliaia di politici-part time pensionati di lungo corso, e sono tutti pensionati d’oro. O per il generoso assegno percepito, o per la disparità fra quanto incassato e quanto versato per meritarselo. La situazione è comune a tutti i pensionati della politica, e nei prossimi giorni vi forniremo a tappe l’elenco più esaustivo possibile di chi si è messo in tasca centinaia di migliaia di euro avendo versato qualche migliaio di euro di contributi. Oggi partiamo con un primo elenco, che offre alcuni dei casi più clamorosi. Come quello di Stefano Rodotà. Sì, proprio il Ro-do-tà, Ro-do-tà che con grande ingenuità il Movimento 5 stelle voleva portare al Quirinale. Nelle casse del Parlamento a suo nome sono stati versati 241.610 euro. Scattato il diritto al vitalizio, il professore, che per sua fortuna è in gran forma nonostante abbia passato gli 80 anni, ha ricevuto poco meno di 1,2 milioni di euro lordi. La differenza fra quanto versato e quanto incassato è dunque di 938.810 euro, quasi un milione di surplus. Quota che verrà presto superata, visto che gli auguriamo di cuore ancora lunga vita. Non molto dissimile la situazione di Giuliano Amato: in vita sua ha versato per la carriera parlamentare 302.013 euro di contributi. Ha ricevuto oltre 1,1 milioni di euro in assegni vitalizi lordi. Lo spread fra quanto versato e quanto incassato è di 809 mila euro. A differenza di Rodotà, però la somma non è destinata nel breve a lievitare. Amato ha più volte sostenuto di non avere mai preso il vitalizio, e non è così: lo riceveva e lo girava (dice lui) in beneficienza. È una scelta personale, che non modifica in nulla il meccanismo. Però dal 2012 in poi è entrato in vigore un regolamento che sospende il vitalizio in caso o di rielezione o di assunzione di incarico pubblico incompatibile con un mandato parlamentare. Amato da meno di due anni è giudice della Corte costituzionale, e finchè sarà lì il vitalizio resta congelato. Riprenderà a correre al termine di quel mandato. Di quello spread (molti soldi in tasca, pochi contributi versati) hanno beneficiato anche ex parlamentari che non ne avevano per altro alcuna necessità economica. Come il cantante Gino Paoli (che ha giù ricevuto quasi 500 mila euro più di quanto versato), o come l’industriale Luciano Benetton (anche lui stesso surplus: 491 euro di guadagno), come il principe dei fiscalisti Augusto Fantozzi (271 mila euro di guadagno) e l’industriale Franco Debenedetti, fratello del più noto Carlo (228 mila euro di guadagno). Ne beneficia sia chi ha contestato una vita la politica, come Mario Capanna (402 mila euro di guadagno al momento), sia chi contesta sempre tutto e tutti come Massimo Cacciari (432 mila euro di guadagno). Ed è clamoroso che riesca a guadagnarci grazie alla disparità fra contributi versati e assegni già incassati anche chi fa ancora il politico a tempo pieno, perchè la funzione di sindaco non è ritenuta incompatibile con la percezione del vitalizio mensile. Vale per un sindaco di piccolo comune come Esterino Montino, primo cittadino di Fiumicino (che ha già guadagnato 150 mila euro e per altro ha diritto a un secondo vitalizio come ex consigliere regionale del Lazio), e vale anche per chi guida una città capoluogo come Massimo Cialente, primo cittadino de L’Aquila (ha già ottenuto un guadagno di 126 mila euro). 

Papponi, altri venti mangioni del vitalizio... e c'è anche Romano Prodi, continua "Libero Quotidiano". Dal 2008 Romano Prodi è in pensione anche da parlamentare. Bisogna scrivere “anche”, perché il professore a quella data aveva già due pensioni. Una da dirigente d’azienda pubblico (Inpdap) un pizzico superiore ai 4 mila euro al mese. E un’altra - al compimento dei 65 anni (quindi dall’agosto 2004)- da ex presidente di Commissione europea. Questo assegno si calcola secondo il regolamento sulla base del 4,5 per cento dello stipendio lordo annuale moltiplicato per il numero di anni di presidenza della commissione (5). Vale dunque il 22,5% dello stipendio che prendeva allora Prodi: poco meno di 280 mila euro, quindi questa sua seconda pensione oscilla intorno ai 5 mila euro mensili. La terza è appunto il vitalizio da parlamentare, che Prodi percepisce da sette anni, da quando cioè è uscito non per sua volontà da palazzo Chigi al suo secondo tentativo. In tutto il professore ha fatto due legislature: una intera (1996-2001), e dieci anni dopo solo un mozzicone (2006-2008). Per portare un po’ su l’importo del vitalizio l’ex premier e fondatore dell’Ulivo ha versato una integrazione di contributi. Così fra l’una e l’altra esperienza parlamentare ha messo da parte per la sua terza pensione 120 mila euro e rotti. Grazie a cui da 7 anni prende un vitalizio mensile da 2.864,94 euro. Il tempo della terza pensione è breve, ma con quell’assegno l’uomo che fu- e resta ancora- il solo leader della sinistra italiana in grado di vincere le elezioni politiche, ha incassato già 240 mila euro. E cioè il doppio di quanto ha versato, tanto è che a suo favore c’è uno spread contributivo di pochi centesimi inferiore ai 120 mila euro. Sembrano spiccioli, ma il caso Prodi è forse più ancora di tanti altri il simbolo di quella stortura e prepotenza sociale che è il vitalizio. Se in soli 3 anni e mezzo un pensionato si riprende tutti i contributi versati nella sua carriera lavorativa, c’è evidentemente qualcosa di profondamente ingiusto nel sistema. Figurarsi quando si moltiplicano gli anni in cui quell'assegno corre. Perché anche se si sono passati decenni in parlamento, versando ogni mese quei contributi, se l’età del vitalizio è già passata da un po’, qualsiasi politico incassa ha già incassato una montagna di soldi assolutamente sproporzionata con i suoi versamenti. E guardate che nella tabelle che in questi giorni pubblichiamo su Libero (anche quella di oggi) i contributi versati sono sempre attualizzati al valore 2015, dopo avere calcolato la media ponderata dei versamenti. Quello spread dunque è attuale, attualissimo. Basti vedere quel che accade a un ex ministro del Pd come Franco Bassanini che in parlamento è restato per lustri, con una carriera contributiva da gran lavoratore. Lui in effetti ha versato 422 mila euro di contributi, ed è una delle somme più alte della storia parlamentare. Però prende un assegno vitalizio mensile altino: 6.176,83 euro, e da un bel po’ di anni. Così ha già incassato 244 mila euro più di quanto versato, e la somma gonfierà ancora nei prossimi anni. Ci sono spread clamorosi come quello che fa registrare l’ex segretario del Psdi Pietro Longo, fuori dal parlamento dal lontano 1987, e pure finito nei guai con la giustizia. Il suo nome è uno di quelli che appare nella lista dei possibili depennati dal vitalizio, per la decisione presa ora dalle Camere nei confronti dei parlamentari condannati. Ma al momento ha già quasi incassato un milione più dei contributi versati. Somma praticamente identica allo spread milionario che si sono messi in tasca due vecchi del partito comunista come Gian Mario Albani (sinistra indipendente) e il partigiano ribelle Otello Montanari. Vicino al milione di guadagno anche Piero Bassetti, imprenditore dell’omonima azienda tessile, ex parlamentare dc e primo presidente della Regione Lombardia: incassa da decenni anche quel secondo vitalizio. La differenza fra contributi pagati e vitalizi incassati rasenta il milione di euro anche a favore delle tasche di Antonio Rastrelli, ex parlamentare campano di An. Anche lui prende un secondo vitalizio, visto che è stato anche presidente della Regione Campania. Come lui il Pd Antonio Bassolino, altro bigamo del vitalizio: ne prende uno da ex presidente di Regione e uno da ex parlamentare, con cui ha già guadagnato quasi mezzo milione di euro, avendo versato il 20% circa di contributi rispetto agli assegni già incassati. C’è una terza autorità campana nella tabella di oggi: è Rosa Russo Jervolino, ex parlamentare ed ex sindaco di Napoli. Prende un vitalizio da 5403 euro al mese e ci ha già guadagnato rispetto ai contributi versati 545 mila euro. Meglio di lei ha fatto l’ex leader socialista Claudio Martelli: prende un mensile un pizzico inferiore (4684,19 euro), ma ha già guadagnato sui contributi ben 713 mila euro.

Taglio ai vitalizi, la furbata degli onorevoli: calcoli truccati, ecco quanto guadagneranno dopo 5 anni, continua "Libero Quotidiano". È una delle più straordinarie beffe che il mondo politico e istituzionale abbia messo in scena in questi anni: l’abolizione dei vitalizi. È stato fatto quasi all’unisono nel 2012 prima dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica, poi in quasi tutti i consigli regionali italiani: via i vitalizi- dissero- d’ora in avanti la Casta sarà uguale a tutti gli altri italiani, e vivrà come loro anche in età della pensione, con il sistema contributivo che Elsa Fornero e il governo di Mario Monti hanno esteso a tutti. Uguali agli altri italiani. È falso. Ed è falso anche che per deputati, senatori e consiglieri regionali sia entrato in vigore il sistema contributivo che vale per tutti gli altri comuni cittadini. Solo da qualche settimana, grazie alla Regione Puglia che ha messo on line l’intero testo e le tabelle per il calcolo dei coefficienti con cui otterranno la loro pensione, si è alzato il velo sulla grande bugia. Espressamente la Regione Puglia ha premesso che il testo del regolamento adottato e soprattutto le tabelle di calcolo è preso pari pari da quello varato da Camera e Senato. Grazie all’aiuto tecnico della Fondazione studi dei consulenti del lavoro abbiamo così potuto calcolare la nuova pensione degli appartenenti alla cosiddetta casta politica. Due gli esempi esplicativi fatti, che peraltro rappresentano abbastanza bene la situazione della maggioranza dei nuovi eletti in questo Parlamento, visto che il nuovo regime previdenziale che ha sostituito i vitalizi è entrato in vigore dal primo gennaio 2013 e riguarda quindi chiunque sia stato eletto la prima volta in questa legislatura. E varrà anche per i consiglieri regionali che verranno eletti alle prossime elezioni. Ipotesi numero uno: prima elezione, versamenti solo per la legislatura corrente, perchè poi si cambierà mestiere o banalmente non si verrà più candidati o eletti. Età di partenza: 35 anni. Nel caso dei deputati e senatori si parte dal 2013, in quello dei consiglieri regionali si parte in questo 2015 con i versamenti contributivi. A fine legislatura si saranno versati in tutto 216.4158,14 euro, rivalutati secondo il coefficiente di capitalizzazione previsto. Con quei soli 5 anni di lavoro da politico, sarà garantita una pensione al compimento del 65° anno di età. Per tutti gli altri italiani l’età minima è già oggi 66 anni. Per chi oggi ha 35 anni l’età minima sarà intorno ai 70 anni. E già qui c’è un vantaggio di un lustro almeno per la casta. Arrivata l’età della pensione (2043 per l’ipotetico onorevole, 2045 per l’ipotetico consigliere regionale) si riceverà un assegno di 1.985,07. Certo, è inferiore all’ultimo importo previsto per un vitalizio percepito con una sola legislatura alle spalle (circa 3 mila euro lordi), ma è vitalizio pure questo anche se la chiamano pensione contributiva. Secondo caso previsto: stessa età, 35 anni. Stesse caratteristiche: eletto per la prima volta in Parlamento nel 2013 o in consiglio regionale nel 2015. Unica differenza: due legislature di lavoro in politica, in tutto 10 anni, poi si cambia mestiere. Grazie a questo raddoppio l’ipotetico deputato/consigliere andrà in pensione 5 anni prima del collega di cui abbiamo appena finito di parlare. Dieci anni prima dei loro coetanei italiani che non hanno avuto la fortuna di fare parte della casta politica: a 60 anni. E con due legislature la pensione è praticamente identica a quella che si percepiva prima con il vitalizio: 2.926,42 euro al mese. Perchè così alta? Perchè il trucco con cui le pensioni contributive dei politici restano di fatto dei vitalizi camuffati è tutto nei coefficienti di capitalizzazione che sono altissimi, quasi il doppio di quelli che valgono per tutti gli altri italiani. Sono vitalizi non solo per l’importo della pensione, ma anche per le caratteristiche della pensionabilità. Con soli 5 anni di versamenti contributivi nessun lavoratore dipendente italiano potrebbe oggi andare in pensione. Prima che sia loro concesso debbono lavorare sette volte tanto. Per i lavoratori autonomi sarebbe comunque impossibile andare in pensione sia con 5 che con 10 anni di contributi all’età concessa ai deputati. Bisognerebbe essere iscritti all’Inps2, che per concedere la pensione con 5 anni di contributi chiede comunque almeno 20 anni aggiuntivi versati a Inps 1. Oggi solo dopo i 70 anni di età è concesso loro di andare in pensione con soli 5 anni di versamenti. E se avessero davvero riversato la stessa cifra (alta) di parlamentari e consiglieri regionali in quel lustro, si godrebbero una pensione lorda di poco superiore ai 750 euro mensili. Meno della metà dei politici, che quindi conservano sotto ogni aspetto il vecchio vitalizio a cui hanno solo cambiato nome e un po’ ridotto l’importo. 

Vitalizi, ecco i primi dieci nomi dei papponi di stato. Stefano Rodotà, Giuliano Amato, Gino Paoli: sono loro i campioni dello spread dei vitalizi, ovvero la differenza tra quanto versato di contributi e quanto effettivamente incassato come rendita. La medaglia d'oro spetta al professore che con grande ingenuità i grillini, cha hanno fatto della battaglia ai privilegi la loro bandiera, voleva portare al Quirinale; medaglia d'argento al "dottor Sottile" che sostiene di aver sempre girato il vitalizio in beneficenza (ma la sostanza non cambia); medaglia di bronzo a Gino Paoli che oltre a cantare sedette sui banchi di Montecitorio dal 1987 al 1992 tra le fila del partito comunista. Franco Bechis, su Libero in edicola oggi, elenca tutti gli onorevoli che godono di questo privilegio. La classifica continua con l'imprenditore Luciano Benetton, fondatore del gruppo omonimo e senatore per il Partito Repubblicano Italiano dal 1992 al 1994; il filosofo Massimo Cacciari, ex militante di Potere Operaio aderì al Pci e fu eletto alla Camera dei deputati dal 1976 al 1983; e il leader dei Sessantottini Mario Capanna che diventò parlamentare europeo nel 1979 dopo essersi candidato con Democrazia Proletaria. Deputato nazionale dal 1983 al 1987 nel 1989 aderì al gruppo misto della Camera dei deputati, e pochi mesi dopo partecipò alla nascita di un nuovo movimento politico italiano: i "Verdi Arcobaleno", formazione della sinistra ambientalista. Seguono Agusto Fantozzi, rettore dell'Università degli Studi Giustino Fortunato e più volte ministro della Repubblica; Franco Debenedetti, fratello del patron di Repubblica Carlo De Benedetti (che ha sempre usato il cognome staccato) che per tre legislature è stato eletto al Senato della Repubblica, rispettivamente del 1994, 1996 e 2001 per le liste del PDS e DS. Chiudono la classifica dei 10 papponi delle pensioni il sindaco di Fiumicino Esterino Montino e il primo cittadino dell'Aquila Massimo Cialente. Questa schiera di fortunati "di fatto non ha versato nulla, perché stabilendo l'ammontare dello stipendio da parlamentare ci hanno pensato Camera e Senato a versare i contributi per loro conto. Ma non c'è paragone fra quel piccolo impegno (8,8% del lordo mensile) e quel che è venuto in tasca a loro dal giorno in cui hanno potuto percepire il vitalizio. Oggi vitalizio o mini-vitalizio si percepisce con 5 anni di contributi a 65 anni. Ma se hai 6 anni di contributi, la pacchia inizia a 64, se ne hai 7 puoi prendere l'assegno previdenziale a 63, e così via fino a 10 anni di contributi, con cui puoi andartene in pensione a 60 anni in barba a tutti gli altri lavoratori d'Italia che a quella età non possono incrociare le braccia né con 10, né con 15, né con 20, 25 o 30 anni di lavoro".

Papponi del vitalizio, l'ex rivoluzionario Mario Capanna: "Parlo con voi solo se mi date un lavoro", scrivono Francesco Borgonovo e Sandro Iacometti su “Libero Quotidiano”. Che Mario Capanna non ami parlare dei vitalizi che gentilmente gli italiani gli versano in tasca ogni mese, lo sapevamo. Ne avevamo già avuto prova con la scena madre vista all’Arena di Massimo Giletti. Il quale, certo, ci mise un bel po’ del suo, ma che si attirò le ire funeste dell’ex sessantottino solo per aver nominato la prebenda di cui Capanna gode. Con Libero, la storia si ripete: c’è giusto un pizzico di arroganza in più. Abbiamo rintracciato il signor Mario al telefono e lui ci ha subito bloccato. Voleva fare «una premessa», ci ha spiegato gentilmente. «Ho tenuto per qualche anno una rubrica settimanale su Libero, quando era direttore Feltri», ha aggiunto. «Arriva poi Belpietro che senza nemmeno dirmi la ragione la cassò. Allora io sono felice di rispondere a qualsiasi domanda di Libero se mi garantite che Belpietro mi rimette la rubrica. Altrimenti io non dirò nulla a voi, su nessun argomento». A parte il fatto che è diritto di un direttore togliere una rubrica dal proprio giornale. Avete capito il ragionamento di Capanna? È disposto a parlarci del lauto vitalizio che gli pagano gli italiani a patto che Libero gli conceda di scrivere una rubrica. Beh, a questo punto potrebbe anche dire che è disposto a rinunciare il vitalizio a patto che il nostro giornale gli versi uno stipendio mensile. Abbiamo tentato di insistere. La nostra inchiesta riguarda il denaro pubblico, e Capanna dovrebbe risponderne non tanto a Libero quanto agli italiani. Ma lui è stato irremovibile: o rubrica o silenzio. Secondo lui, il fatto di essere stato privato dello spazio settimanale sul giornale «è stato un atto di impegno di prepotenza senza nemmeno giustificazione». Ragion per cui, ha concluso il prode Mario, «se Belpietro mi rimette la rubrica io rispondo. Questo è insuperabile, per cui ringrazio per la gentilezza e vi lascio al vostro lavoro sperando che non vi venga bene». Ringraziando per l’augurio ci troviamo, quindi, costretti ad attingere ad altre fonti. Del resto, cosa pensi delle inchieste sui vitalizi, l’ex leader del Movimento studentesco e di Democrazia proletaria, oggi settantenne, lo ha già detto chiaramente nelle scorse settimane. Si tratta, ha dichiarato a metà gennaio a La Zanzara, di «minchiate e pirlate» con cui il giornalismo «titilla la pancia delle persone» invece di occuparsi «degli altri problemi del Paese». Oggetto del dibattito era la clamorosa decisione di scagliarsi contro il taglio dei vitalizi deciso dalla Regione Lombardia. L’ex sessantottino, che ora produce miele e olio in Umbria (dove è nato) e dice di non possedere telefonini, ha infatti impugnato di fronte al Tar, insieme ad altri 53 ex consiglieri regionali, la delibera del Pirellone che sforbicia in media del 10% le generose pensioni elargite dalla Regione. Vitalizio che per Capanna, consigliere dal 1975 al 1980, si aggira sui 5mila euro lordi mensili e si va a sommare a quello da parlamentare, deputato per due legislature (1983-92) di 4.725 euro lordi. Solo quest’ultimo, secondo i calcoli effettuati da Libero, gli ha permesso di incassare fino ad oggi 523.100 euro a fronte di 120.805 contributi versati. Gli altri 402.295 euro li abbiamo messi noi. L’ex Dp è uno fissato con le scuse. Nel 2008 ha preteso, con cinquant'anni di ritardo, quelle del rettore della Cattolica: l’università di Milano, avendolo espulso nel 1968 in seguito alle sue azioni di protesta, gli avrebbe negato il diritto a laurearsi in filosofia. Nel 2009, a quarant’anni da Piazza Fontana, ha chiesto al presidente Giorgio Napolitano di «esprimere le scuse di Stato per una strage di Stato». In tempo reale è arrivata invece la richiesta a Giletti, quando il giornalista ha scaraventato il libro di Capanna in terra dopo la furiosa lite proprio sull’opportunità di intascare vitalizi così generosi. Il ragionamento di Giletti non era poi così peregrino. Ma Capanna, che le scuse è sempre pronto a pretenderle, non ha mai neanche per un attimo pensato di doverne dare. C’è sempre una risposta pronta per tutto. Quando, lo scorso novembre, si è dimesso dalla presidenza del Corecom Umbria (1.230 euro netti al mese) per non perdere il vitalizio della Regione Lombardia, ha spiegato senza fare una piega: la legge regionale sull’incompatibilità «non soltanto è stata fatta con i piedi», ma va ad «incidere sull’attività istituzionale di un’altra regione». Straordinaria la motivazione per il ricorso contro la Regione. «Tutti dovrebbero fare il tifo per il Tar», ha scritto in una lettera al Corriere, «se ci desse torto i diritti acquisiti di milioni di pensionati potrebbero essere manomessi». Quanto al doppio vitalizio che, come lui stesso ha detto, gli porta in tasca ogni mese 2.300 euro dalla Regione e 3mila come parlamentare, la replica è da incorniciare. «Non sono un privilegiato», ha detto sempre a La Zanzara, «ho fatto il parlamentare e il consigliere regionale. Ora dovrei fare il barbone sotto un ponte?». Libero potrebbe essere disponibile ad ospitare una rubrica di Capanna. Quella in cui ci spiega per quale motivo i contribuenti gli abbiano dovuto regalare più di 400mila euro.

Papponi delle pensioni, Libero telefona a Massimo Cacciari e lui si scalda: "Il vitalizio? Non me ne frega un cazzo", scrive “Libero Quotidiano”. Nella classifica dei "papponi delle pensioni" stilata da Libero, Massimo Cacciari è quinto. L'ex parlamentare ha versato 120.805 euro incassandone 553.797, per un assegno mensile da 2.884 euro e una differenza tra dato e avuto di 432.992 euro. Non male per uno che contesta tutto e tutti. Raggiunto telefonicamente da Francesco Borgonovo, Cacciari inizia difendendosi: "Ho i vitalizi che prendono tutti quelli che hanno fatto i parlamentari come me. Non so altro". Quando il giornalista di Libero gli fa cortesemente notare la sproporzione tra contributi versati e vitalizio ricevuto in cambio , il filosofo ed ex sindaco di Venezia inizia a scaldarsi: "E allora che li tolgano i vitalizi, magari non soltanto a me. Tra l'altro non so perché chiamate me, mi sfugge completamente". In ogni caso, par di capire che Cacciari sarebbe disposto a farsi togliere il vitalizio. Risposta laconica: "Non me ne frega un cazzo". Tu-tu-tu-tu. 

Scalfari, Bertinotti, Pomicino. Ecco i papponi del vitalizio. Un'inchiesta di Bechis svela lo spread tra i contributi versati e il vitalizio percepito dagli ex parlamentari, scrive Francesco Curridori su “Il Giornale”. “Pochi se lo ricorderanno. Eugenio Scalfari, il più famoso giornalista italiano vivente, è stato anche un politico in una parte assai breve della sua lunga carriera. Eletto nel partito socialista, fece il deputato fra il 1968 e il 1972, quattro anni prima di fondare Repubblica”. Inizia con un j’accuse contro il fondatore di Repubblica l’inchiesta di Franco Bechis su Libero sui vitalizi degli ex parlamentari che, nel corso degli ultimi decenni, hanno percepito molto di più di quanto hanno versato. Grazie a questi pochi anni da deputato Scalfari prende ogni mese un assegno lordo di 2.162,52 euro. “Non è un granché, e Scalfari – scrive Bechis - manco se ne accorgerà: le sue finanze dipendono sicuramente da altro. Però tutti insieme quegli assegnini- il famoso vitalizio degli ex onorevoli- hanno fatto negli anni un assegnone, superiore ai 908mila euro”. Una cifra ben superiore di quella che “la Camera stessa gli aveva messo da parte durante quella legislatura che fu pure sciolta anticipatamente”. “Fra quello che allora fu versato e quello negli anni incassato – spiega Bechis - c'è una differenza da 847mila euro, che mettono Scalfari ai primi posti della classifica dei re del vitalizio. Anche merito della sua buona salute e della evidente longevità”. Gli ex parlamentari, anche quelli che magari hanno fatto solo una o due legislature, si ritrovano ugualmente un gran bel vitalizio. In base alle vecchie regole, poi, si poteva percepire il vitalizio anche a 50 anni, mentre ora la pensione da politico spetta a 65 anni con soli 5 anni di contributi, e a 60 anni con 10 anni. Altri nomi illustri sono quelli di Paolo Cirino Pomicino che è rientrato in Parlamento anche nella Seconda Repubblica e per il quale “fra il vitalizio preso fino al 30 aprile scorso e i contributi versati (che per lui non sono pochi) c’è comunque una differenza di 775 mila euro a suo favore. Dovuta all'assegno che è più del doppio di quello di Scalfari: 5.231,07 euro lordi al mese”. Pure l’ex campione del Milan Gianni Rivera gode di un vitalizio che supera i 5 mila euro che, considerati i contributi versati, “gli ha dato “un vantaggio di 547mila euro”. L’ex ministro Giuseppe Guarino, invece, che ci ha guadagnato 496mila euro, mentre Sandra Bonsanti, ex giornalista di Repubblica, ha uno spread a suo favore di 411mila euro di spread. Per Vittorio Dotti, avvocato ed capogruppo di Forza Italia nel ’94, c’è un guadagno pari a 310mila euro. Tra gli altri nomi illustri anche Chiara Ingrao, l’avvocato Carlo Taormina, Fausto Bertinotti e Sergio Chiamparino che, secondo i calcoli di Bechis, hanno “un dividendo da vitalizio che supera i 100 mila euro e arriva fino a 200 mila”.

Quei 750mila euro di sbilancio incassati dai coniugi Occhetto. "Il Giornale" ha calcolato il gap tra contributi effettivamente versati e quanto percepito dall'addio al Palazzo ad oggi. Il record della coppia formata dall'ex segretario Pds dalla moglie viene superato dai compagni Pellegrino (-1,27 milioni) e Pasquino (-800mila euro), scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Giovanni Pieraccini, Mario Valiante e Karl Mitterdorfer sono nomi che, oggi, dicono poco al grande pubblico perché appartenenti a un'era politica ormai tramontata. Queste «colonne della Repubblica», ormai alla soglia dei novant'anni, fanno parte dell'elenco dei vitalizi assegnati dal Senato. Lontani dal Palazzo da più di trent'anni, hanno percepito l'assegno per tutto questo tempo e le erogazioni hanno superato di gran lunga il montante dei contributi versati durante una lunga e onorata carriera di parlamentari. Il risultato, però, è sconcertante. Lo sbilancio dell'ex ministro del Bilancio (perdonate il calembour, ma con Renzi ormai vanno di moda) Pieraccini - successore nel 1964 di Antonio Giolitti - è di oltre 2,5 milioni di euro, quello dell'ex dc Valiante di 2 milioni. Per l'altoatesino Mitterdorfer è superiore agli 1,75 milioni: niente male se si considera che il 95enne bolzanino da giovane optò per la Germania combattendo nella Luftwaffe e garantendosi una croce di ferro di seconda classe. Il Giornale ha preso in esame l'elenco dei vitalizi in essere del Senato a fine 2014 e ha calcolato per cinquanta ex componenti dell'assise di Palazzo Madama la differenza tra il montante contributivo e le «pensioni» ricevute. Si è preso in esame un contributo medio annuo di 15.873 euro, la cifra grosso modo versata in media ogni anno dagli attuali senatori e comprensiva dell' addendum per ottenere la reversibilità a favore di coniugi e partner. Come erogazione si è considerata la cifra netta dell'assegno vitalizio mensile. A scopo prudenziale abbiamo considerato sospesa l'erogazione in caso di assunzione di altri incarichi pubblici (consigliere regionale, assessore, eurodeputato, componente di organi costituzionali) sebbene la riforma del regolamento sui vitalizi che ne prevede lo stop risalga al 2012. Si possono così osservare alcuni casi specifici. Ad esempio, i coniugi Occhetto hanno ricevuto circa 750mila euro in più di quanto abbiano versato. L'ex segretario del Pds è «indietro» di 235mila euro circa, mentre la moglie Aureliana Alberici ha già ottenuto oltre 500mila euro in più delle trattenute. La loro somma è pur sempre inferiore allo «sbilancio» di altri noti esponenti dei Ds come l'ex presidente della commissione Stragi, l'avvocato Giovanni Pellegrino (-1,27 milioni) o come il politologo Gianfranco Pasquino (-800mila euro). Dietro i tre recordmen citati all'inizio figura un ex parlamentare comunista come Sergio Flamigni che, abbandonato il laticlavio nel 1987 si è dedicato a scrivere di «caso Moro» e loggia P2. Con un vitalizio di 6.227 euro mensili è stato sicuramente più facile: in questi 28 anni, però si sono prodotti circa 1,7 milioni di quello che per un normale pensionato si definirebbe «buco previdenziale». Che, poi, insomma è più difficile parlare di mancate perequazioni e sentenze della Consulta per chi riceve poco più di 1.500 euro al mese di assegno Inps quando per gli ex parlamentari, come detto, l'economia è cominciata solo tre anni fa. Vale anche per l'ex sottosegretario dc Riccardo Triglia (5.692 euro e una posizione in rosso per un milione). Prima della riforma, infatti, con meno di trent'anni in Parlamento si riceveva l'85,5% dell'indennità. Se si aggiunge che anche le legislature concluse prima del quinquennio naturale venivano considerate come intere, si ottengono i superassegni di Mitterdorfer (6.868 euro) e dei democristiani Pietro Pala e Giuliano Zoso (6.227 euro entrambi) che hanno ricevuto oltre un milione in più di quanto abbiano versato. Lo stesso dicasi per l'ex ministro socialista Giorgio Ruffolo (4.581 euro di assegno e 861mila euro di ammanco). Così nell'elenco compaiono nomi noti come quelli dell'ex pm Giuseppe Ayala (-297mila), di Nando Dalla Chiesa (-256mila) e del sociologo Franco Debenedetti (-210mila). Il vecchio sistema, inoltre, consentiva di accedere al vitalizio anche con una breve presenza in Parlamento: è il caso di due esponenti di centrodestra come Jas Gawronski e il regista Pasquale Squitieri che hanno ottenuto un trattamento minimo secondo i vecchi parametri (2.381 euro). Avendo versato pochi contributi, però, le loro rispettive posizioni sono già in rosso per 320 mila e 434mila euro rispettivamente. Le regole attuali sono un po' più stringenti, ma non cambiano la sostanza della questione, ovvero se sia giusto ricevere un assegno «pensionistico» quando i contributi versati sono esauriti.

Marrazzo, un vitalizio da 3mila euro al mese, scrive “Libero Quotidiano”. Non solo parlamentari, anche a livello Regionale esiste il "vitalizio". Un assegno che garantisce una rendita anche dopo pochi anni. L'ex presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo, per esempio,  governato la Regione per quattro anni poi è stato costretto alle dimissioni dopo lo scandalo trans.  Ogni mese sullo stipendio di 11mila euro pagata circa 990 di contributi e da 6 anni prende un vitalizio di 3.187 mila euro al mese.  Ha preso  229.464 euro. Una cifra che è  quasi 5 volte i 47.520 contributi versati.

Mogli, fratelli e cugini: il vitalizio è di famiglia. La suocera di Veltroni, la figlia di Cossutta, il parente stretto di Crocetta. Va avanti l'inchiesta del "Giornale" sui vitalizi, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su "Il Giornale". «Aggiungi un posto a tavola ché c'è un parente in più, se sposti un po' la seggiola stai comodo anche tu». Garinei e Giovannini forse l'avrebbero scritta in questo modo se avessero saputo che, con il passare degli anni, Palazzo Madama (e anche la Camera) si sarebbe trasformato in un buen retiro per fratelli, cugini, figli e suocere. Perché il potere ha anche un tratto ereditario e, pur essendo l'Italia una repubblica, c'è sempre qualche cinghia di trasmissione che consente di estendere ai consanguinei (biologici o acquisiti) qualche benefit. Scorrendo l'elenco dei vitalizi erogati dal Senato, infatti, si scopre che dal 1992 al 2001 ha transitato sui banchi di Palazzo Madama Franca D'Alessandro Prisco. Si tratta della suocera di Walter Veltroni. Ex assessore nelle giunte comuniste del Comune di Roma con i sindaci Argan, Petroselli e Vetere, Franca D'Alessandro, moglie di Massimo Prisco, direttore della federazione statali della Cgil, compì il grande salto sulla scena nazionale. Nei quattordici anni trascorsi dal termine della propria esperienza al Senato, ha accumulato circa 770mila euro di vitalizi a fronte di una contribuzione di 238mila euro per uno sbilancio complessivo di 531mila euro circa. Una cifra leggermente inferiore a quella di Salvatore Crocetta (-586mila di «buco» previdenziale), fratello dell'attuale governatore siculo Rosario. Salvatore è un comunista vero e, dopo la Bolognina, se ne va con Rifondazione. Ma per quanto abbia avuto i suoi cinque minuti di visibilità con tre legislature da senatore, è a Rosario che è riuscito il colpo grosso di fare il sindaco del paese natio, Gela, e poi il potentissimo presidente (tra un rimpasto e l'altro) della Regione Sicilia. Ecco, la Sicilia appunto. Una terra nella quale i valori familiari sono sempre al primo posto. Basta spostarsi dalla siracusana Gela alla catanese Paternò per incontrare un'altra famiglia importante: quella dei La Russa. Tutti conoscono il simpaticissimo e focoso Ignazio, avvocato fondatore di An, ex ministro della Difesa con il Pdl e oggi difensore dei valori della Destra in Fratelli d'Italia. Un po' meno noto al grande pubblico è il fatto che la famiglia La Russa abbia la politica nel sangue. Il padre di Ignazio era senatore dell'Msi, il fratello è stato invece senatore della Dc prima e del Ccd di Casini poi. Dal '96 non è più parlamentare e così lo sbilancio della posizione è salito a circa 700mila euro. Non è un caso isolato. Prendiamo, ad esempio, Francesco Covello. Calabrese di Castrovillari, moroteo, ha seguito tutto il cursus honorum : consigliere comunale, assessore provinciale, consigliere regionale, amministratore unico delle Ferrovie della Calabria e, infine, senatore (-659mila euro). Poteva uscire di scena come un uomo qualunque? Certo che no! La figlia Stefania oggi è parlamentare Pd ed è componente della segreteria del partito di Matteo Renzi con delega ai fondi europei. Non è l'unica figlia d'arte: è accaduto a Maura Cossutta, figlia del rigoroso filosovietico Armando (-27.400 euro). È successo anche a Balda Di Vittorio, figlia del leader storico della Cgil e scomparsa all'inizio di quest'anno. La citazione non è casuale. Laddove il nome non sia garanzia di successo e di continuità della tradizione, spesso è venuto in soccorso proprio il ruolo svolto nella rappresentanza degli interessi delle «masse operaie». Il sindacato ha così traslato a Palazzo Madama figure importanti. L'ultimo in ordine di tempo è stato Franco Marini, ex numero uno della Cisl che, avendo terminato l'esperienza due anni fa, è ancora in attivo per quanto riguarda la posizione contributiva. In passivo (-256mila euro), invece, è già Antonio Pizzinato, il successore di Luciano Lama alla guida del sindacato di Via Po: un comunista duro e puro, educato a Mosca. In passivo anche Giorgio Benvenuto (-192mila euro) che con lo stesso Lama e Pierre Carniti (-378mila euro, la sua scheda è stata pubblicata lunedì) faceva tremare governi e Confindustria tra gli anni '70 e '80. Talvolta vale pure il processo inverso: un brand è talmente forte che lo si può anche declinare in politica. Ne sa qualcosa Luigi Biscardi (-531mila euro), al Senato dal 1992 al 2001 con il Pds-Ds. È il fratello del famosissimo Aldo, quello del Processo del lunedì . Entrambi avevano il cuore a sinistra da giovani. L'Aldo nazionale passò da Paese Sera al Tg3 in un sol colpo. Anche il partito aveva bisogno di uno sgub .

Guido Rossi, 578mila euro dopo un solo giro al Senato. Padre della legislazione antitrust, due volte alla guida di Telecom Italia, è sugli scudi accompagnando la soluzione della crisi dell'Ilva. Pochi ricordano la sua presenza a Palazzo Madama, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su "Il Giornale". Giurista, ex presidente della Consob, padre della legislazione antitrust in Italia, due volte alla guida di Telecom Italia, commissario della Federcalcio e interista sfegatato. L'avvocato milanese Guido Rossi, alla veneranda età di 84 anni, è sempre stato alla ribalta delle cronache: anche oggi è sugli scudi accompagnando, secondo quanto riferiscono le cronache finanziarie, il processo di soluzione della crisi dell'Ilva. Pochi ricordano, invece, la sua presenza a Palazzo Madama, una sola legislatura nelle file della Sinistra indipendente, costola liberal del Pci. Circostanza che gli dà diritto a un assegno vitalizio di 2.381,64 euro al mese e che, rispetto ai 79.365 euro versati (attualizzati alle cifre di oggi) ha già determinato un rosso della sua posizione previdenziale al Senato di circa 578mila euro. Non male per un intellettuale che la domenica sul Sole 24 Ore distilla preziosismi come «il capitalismo autoritario ha avuto la meglio su quello liberaldemocratico, tradito ormai dalla globalizzazione del mercato e da uno sviluppo tecnologico dirompente». Rossi, in quanto rappresentante dell'aristocrazia finanziaria italiana (quella dei «salotti buoni», per intendersi), è in buona compagnia. Ad esempio, l'ex presidente della Regione Lombardia, Giuseppe Guzzetti, è stato senatore democristiano dal 1987 al 1994. Dopo due anni dal termine del mandato è diventato prima commissario e poi presidente della Fondazione Cariplo, l'azionista più «pesante» di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana. E da quindici anni guida l'Acri, l'associazione delle Fondazioni di origine bancaria e delle casse di risparmio. Il suo vitalizio, però, costa più dei contributi versati e, in questi anni, ha prodotto uno sbilancio di 700mila euro. Guzzetti è uno degli «orologiai» del capitalismo italiano: quei 3.408 euro al mese non cambiano la vita anche se egli è da sempre vicino al volontariato e al terzo settore. Nell'elenco figura anche l'ex ministro Franco Reviglio, professore universitario, ex presidente dell'Eni e soprattutto mentore di Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco e Franco Bernabè, tutti suoi allievi. Il suo assegno da ex senatore, per quanto minimo, ha però causato alle casse di Palazzo Madama una perdita di 492mila euro. Tra gli assidui del milieu finanziario anche l'ex rettore della Bocconi Carlo Secchi, già componente di numerosi consigli di amministrazione di società quotate. Una breve comparsa al Senato in quota centrista (oltre a un mandato da eurodeputato a Bruxelles) gli valgono però un assegno da 2.934 euro mensili. La modesta contribuzione è già esaurita e il totale erogato l'ha già superato di 365mila euro. Solo perché «pensionato» dal Palazzo da minor tempo lo sbilancio del presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini, è inferiore a 200mila euro. All'ex ministro si deve la riforma del diritto amministrativo, Bassanini è capofila di una lunga schiera di professori universitari transitati al Senato. Come l'ex presidente del Senato ed economista Carlo Scognamiglio (-531mila euro) e il filosofo napoletano Aldo Masullo (-638mila euro). Non sono, tuttavia, questi i casi più eclatanti di squilibrio tra contributi e prestazioni. Palazzo Madama è lo specchio fedele della società italiana. Laticlavi di lungo corso con oltre trent'anni di carriera parlamentare, hanno lasciato l'Aula con il massimo dell'assegno (un tempo si arrivava all'85,5% dell'ultima indennità) e, grazie all'allungamento dell'età media, incidono sui conti: è il caso dei nonagenari Mario Toros (sindacalista friulano) e Remo Segnana (già presidente delle assicurazioni Itas Vita) che hanno circa 1,8 milioni di buco previdenziale. O dell'avvocato altoatesino Roland Riz che con circa 7mila euro al mese di assegno ha già ottenuto un milione in più di quanto versato. Come l'ex radicale Massimo Teodori. Tra gli altri nomi rilevanti che si mettono in evidenza scorrendo l'elenco degli assegni vitalizi spiccano l'ex ministro leghista Francesco Speroni (-504mila euro) e la presidente dell'associazione parenti delle vittime di Ustica, Daria Bonfietti, già senatrice diessina (-210mila euro di posizione previdenziale). Si segnalano anche l'avvocato e bon vivant Mario d'Urso, ex sottosegretario diniano con un «rosso» di 206mila euro e il sociologo antimafia Pino Arlacchi (-209mila). La politica è anche questo.

Pittella, l'amico dei brigatisti che ci è costato 1,5 milioni. Medico, padre dell'europarlamentare Gianni e del governatore lucano Marcello, è stato condannato a 12 anni per aver ricoverato una terrorista nella sua clinica. Ma il suo vitalizio da 4,5mila euro al mese in quanto senatore non si è fermato, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su "Il Giornale". Aveva prestato soccorso, senza denunciarla, alla brigatista latitante Natalia Ligas, ferita nell'attentato poi fallito all'avvocato del pentito Patrizio Peci. Per il giudice Rosario Priore egli stesso era un «brigatista a tutti gli effetti» in quanto nella sua ex casa di cura i terroristi venivano ospitati senza troppi problemi. Avrebbe anche architettato nel 1981 un tentativo di sequestro del presidente della Basilicata Schettini. Lui stesso fu latitante per sei anni tra Francia e Belgio prima di costituirsi a Rebibbia nel 1999. Si tratta di Domenico Pittella, per tutti Mimì, padre del vicepresidente dell'Europarlamento Gianni e dell'attuale governatore lucano Marcello, ma soprattutto senatore per tre legislature dal 1972 al 1983 e, quindi, titolare di un vitalizio di 4.581,48 euro mensili che, nel corso degli anni, hanno prodotto un disavanzo della posizione «pensionistica» di oltre 1,5 milioni di euro. La riforma varata da poco dagli uffici di presidenza delle due Camere dovrebbe comportare una cancellazione dell'assegno di Pittella in quanto condannato in via definitiva nel 1993 a 12 anni e un mese (dunque più dei due anni indicati come soglia) «per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata». La pena, ridotta di un terzo per grazia parziale concessa dal presidente Ciampi nel 2000, si è estinta nel 2002 tra detenzione, domiciliari e affidamento ai servizi sociali. Per il momento, invece, si «salverebbe» l'ex sindaco di Agrigento, Calogero Sodano, che al momento vanta solo una condanna definitiva a un anno e sei mesi per aver chiuso un occhio sull'abusivismo edilizio nella Valle dei Templi in cambio di sostegno elettorale (un anno, invece, per irregolarità di gestione dell'acquedotto cittadino). L'anno scorso, però, Sodano è stato arrestato dalla Procura di Palermo nell'ambito di un'indagine che lo vede accusato, tra l'altro, di concorso esterno in associazione mafiosa. Sodano, con soli cinque anni di legislatura, riceve un vitalizio di 2.381,64 euro che ha prodotti finora un rosso di 35mila euro. Sono pochi se confrontati con il «rosso» di emeriti colleghi, ma potrebbero essere troppi. Il giro di vite «giustizialista» avallato da Piero Grasso potrebbe, tuttavia, rivelarsi inutile in quanto un regolamento parlamentare ha comunque meno cogenza rispetto a una norma di legge. Bisognerà, tuttavia, aspettare che la giustizia faccia il proprio corso con l'attuale sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno. Due anni fa è stato rinviato a giudizio nell'ambito dell'inchiesta sull'Ilva per abuso e omissioni d'atti di ufficio. Secondo la Procura non si sarebbe adoperato a sufficienza per la tutela della salute dei cittadini. Stefàno è un ex senatore diessino e il suo assegno da 3.408,19 euro mensili ha già causato un buco previdenziale di oltre 600mila euro. Rosso da 843mila euro anche per Franco Bonferroni, ex dc ed ex componente del cda di Finmeccanica. In una carriera politica lunghissima è uscito immacolato da una lunga serie di inchieste: P2, appalti Anas, crac Parmalat, tangenti Finmeccanica e, ultima in ordine temporale, un'inchiesta per corruzione della Dda di Brescia su una lottizzazione a Mantova. Per ora, quei 5.692,79 euro mensili non li tocca nessuno. Così come nessuno può toccare finora i 4.113,12 euro al mese di Giuseppe Brienza (-484mila euro), a Palazzo Madama dal 1994 al 2001 con il Ccd-Udc e poi europarlamentare. L'anno scorso è finito ai domiciliari per un'inchiesta della Procura di Roma sugli appalti pubblici. Brienza è stato, infatti, presidente dell'Authority di vigilanza sui contratti pubblici. Nulla di rilevante dal punto di vista penale per l'ex senatrice aretina ed ex sottosegretario Ds Monica Bettoni (-240mila euro). Dall'anno scorso ha perso il posto di direttore generale dell'Istituto superiore di Sanità (Iss), commissariato dal ministro Lorenzin dopo il buco di circa 30 milioni rilevato dalla Corte dei Conti. Tra le vicende dubbie quella della Fondazione «Sicurezza in sanità» (di cui Bettoni era vicepresidente) formata dallo stesso Iss e dalla Gutenberg, società che faceva capo all'ex deputato Ds Vasco Giannotti. Iss e Gutenberg organizzano annualmente un convegno sul risk management ad Arezzo. Giannotti e la compagna Giorgia Artiano, socia di maggioranza di Gutenberg, sono accusati dalla Procura di Modena di turbativa d'asta e riciclaggio. Ma queste sono storie di Montecitorio...

La vera "green economy": fare il deputato dei Verdi. Sul bilancio della Camera pesano i vitalizi del pattuglione ambientalista. Pannella batte tutti: 2,5 milioni di bonus, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Che c'entra Alfonso Pecoraro Scanio con Li Hejun? L'uno è l'ex leader, ministro e parlamentare Verde, l'altro l'uomo più ricco della Cina. In comune hanno solo una cosa: entrambi sono fan della «green economy». Però Li Hejun ci ha costruito su un impero e due giorni fa l'ha visto traballare quando il titolo della sua società di energia solare in 20 minuti ha perso 14 miliardi di dollari in Borsa. Rischio che Pecoraro Scanio non corre: all'Italia la green economy non è servita granché, lui invece ci si è riempito la bocca e di conseguenza le tasche: il Paese l'ha mandato in pensione da soli sette anni ma grazie ai privilegi garantiti agli ex deputati si è già ripreso i contributi versati ed è in attivo di 60.000 euro. Niente male per un giovane pensionato che ha appena 56 anni e continua a ricevere un vitalizio da 5.450 euro al mese. Sul bilancio della Camera del resto pesa un bel mazzetto di assegni pesanti pagati all'ex pattuglione dei Verdi, col consueto paradosso che chi da più tempo è stato liquidato dalla storia politica del Paese, più riesce a moltiplicare l'investimento fatto nei giorni belli della Camera versando un misero otto-virgola-percento dei propri corposi emolumenti. Il record spetta ad Annamaria Procacci, ex insegnante e animalista che grazie alla militanza verde ha portato a casa un vitalizio prossimo ai 5.000 euro che gli ha già consentito di metter via un plusvalore di 574mila euro. Segue Mauro Paissan che, oltre ad aver incassato quasi 700mila euro di assegni previdenziali avendo versato meno di 200mila euro di contributi, si è poi reimpiegato per diversi anni nell'Autorità garante per la privacy. È invece sparito dai radar Massimo Scalia, ricordato soprattutto per la presidenza della Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e per la battaglia che ha privato l'Italia dell'energia nucleare. Per lui la differenza tra versamenti previdenziali e vitalizio già incassato sfiora il mezzo milione. Appena sotto c'è Fulco Pratesi, il padre fondatore del Wwf che inciampò in un'intervista in cui raccontò di tirare un gran poco lo sciacquone pur di risparmiare l'acqua. La Camera con lui è stata più generosa di quanto lui lo sia stato col bagno: con una sola legislatura all'attivo ha già incamerato uno spread di oltre 440.000 euro. Segue Carla Rocchi, un'altra animalista (è stata anche presidente della Protezione animali) che ha già accumulato 275.000 euro. Chiude Marco Boato, che in realtà con i Verdi ha una parentela piuttosto lasca, e invece si ricorda per la militanza garantista e per il record di discorso più lungo mai pronunciato a Montecitorio (oltre 18 ore). Rimasto fuori dai giochi, si consola con un vitalizio di quasi seimila euro, che gli ha già permesso di accumulare oltre 100mila euro di sbilancio. Alla Camera, guardando tra i grandi vecchi, si trovano ben altri «tesoretti». Invidiabile quello di Marco Pannella, che in una vita di militanza, entrando e uscendo dal Parlamento, è arrivato ad accumulare un vitalizio da 6.000 euro con un attivo di oltre 2,5 milioni. Tra i suoi beneficiati c'è anche Ilona Staller, l'ex pornostar che, candidata dai Radicali, raccolse una pioggia di preferenze, risultando seconda solo allo storico leader. Varcò tra le polemiche la soglia di Montecitorio per uscirne dopo un solo mandato. Quanto basta per portare a casa un vitalizio da 2.232 euro. Per il resto, sono i superstiti della Prima repubblica a spiccare nell'elenco di chi sta godendo di vitalizi d'oro da anni: tra i mister e le miss milione (inteso come milione di euro di spread tra il versato e il percepito) ci sono vecchie glorie come Tina Anselmi, Oscar Mammì, Filippo Maria Pandolfi, Guido Bodrato e Augusto Barbera. Si allunga dunque la lista dei politici che intascano rendite da privilegio proprio mentre arriva il testo del decreto che restituirà solo spiccioli ai comuni pensionati cui era stata bloccata la rivalutazione dell'assegno. Sorpresa: la norma si affretta a includere tra i beneficiati dalla sentenza dalla Consulta anche i politici che percepiscono vitalizi. A fronte di questo vale poco la difesa d'ufficio che Renzi fa della Corte costituzionale («la rispettiamo»), mentre il ministro dell'Economia Padoan riapre il giallo sulla presunta difesa «moscia» della posizione del governo da parte dell'Avvocatura dello Stato: alla Corte «non era chiaro il costo della sentenza e non so chi avrebbe dovuto quantificarlo».

Papponi del vitalizio, la banda dei vitalizi doppi e tripli: ecco le pensioni di chi sta ancora in Parlamento, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Vitalizi aboliti? Solo un diritto del passato su cui c’è l’imbarazzo dei diritti acquisiti? Macchè. Quasi un terzo degli attuali deputati e degli attuali senatori quando appenderà la politica al chiodo e avrà l’età minima (per quasi tutti è ancora 60 anni) per andare in pensione, si prenderà ancora il famoso vitalizio. Di più: si prenderà un assegno per il vitalizio e un altro assegno, appena meno generoso per la pensione. Non pochi di loro aggiungeranno un terzo assegno: il vitalizio per l’esperienza trascorsa in consiglio regionale o per il periodo in cui è stato europarlamentare. Oggi Libero pubblica i primi nomi - rigorosamente in ordine alfabetico (arriviamo alla lettera F) - dei futuri re delle pensioni. Minimo grazie ai due assegni avranno 3.950 euro al mese, e in non pochi casi più di 9 mila euro, fino ad arrivare al record di Roberto Formigoni (pensioni e vitalizi per 12.550 euro). Avranno vitalizio e pensione anche ministri e sottosegretari dello stesso governo di Matteo Renzi, il premier che ha giudicato «sacrosanta» la battaglia di Libero, ma che è circondato sia a Palazzo Chigi che in Parlamento da suoi parlamentari o da esponenti di maggioranza in attesa di quella doppia o tripla pensione che fa venire la bile a tutti gli altri italiani. Oggi non avrebbero nemmeno l’età, ma se la linea è quella fin qui seguita (ogni assegno è considerato un diritto acquisito) avranno due vitalizi e una generosa pensione da parlamentare, l’ex segretario e oggi leader della minoranza Pd, Pierluigi Bersani, la pasionaria sempre pronta ad andarsene da quel partito Rosy Bindi, il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico (Pd), il sottosegretario Gianpiero Bocci (Pd), il leader storico della Lega Nord, Umberto Bossi, e l’attuale ministro dell’Interno, Angelino Alfano. E poi tre assegni nei gruppi Pd a Silvana Amati, Angelo Capodicasa e Vannino Chiti. Nel gruppo centrista di Ap avranno quella fortuna Andrea Augello e il già citato Formigoni. Fra i leghisti accadrà a Stefano Allasia. Nel gruppetto di Fratelli di Italia ci sarà Edmondo Cirielli. In Forza Italia anche un piccola pattuglia: Giuseppina Castiello, Basilio Catanoso, Remigio Ceroni e Claudio Fazzone. Ma andando avanti nell’ordine alfabetico toccherà anche a tanti altri, e le due sole forze politiche non sfiorate (o poco sfiorate) dal problema sono quelle arrivate per la prima volta in Parlamento nel 2013: tutti i parlamentari del Movimento 5 stelle e quasi tutti quelli partiti con la maglia di Scelta civica. Nella tabella di oggi ci sono poi più di 50 parlamentari che comunque avranno la doppia pensione, e anche in questo caso non mancano i nomi noti: il ministro Dario Franceschini, il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, l’altro leader della minoranza Pd, Gianni Cuperlo, il sottosegretario all’Economia, Luigi Casero (Ap), quello alla Difesa Gioacchino Alfano (Ap), il presidente della commissione Esteri del Senato, Pierferdinando Casini, la presidentessa della commissione affari costituzionali Anna Finocchiaro, l’ex portavoce di Silvio Berlusconi, Paolo Bonaiuti, l’ex coordinatore azzurro Sandro Bondi, appena uscito dal partito, l’anima popolare e margheritina del Pd, Beppe Fioroni. E poi ancora parlamentari giovani, che quel privilegio avranno solo fra molti anni (e per cifre sicuramente più alte di quelle riportate in tabella), come i forzisti Simone Baldelli, l’ex ministra azzurra Mara Carfagna, la fedelissima berlusconiana Michaela Biancofiore, l’ex finiano Benedetto Della Vedova. Se vale anche per loro, è l’esempio più lampante di come con la storiella dei diritti acquisiti non sia cambiata in realtà proprio nulla di nulla in gran parte del Palazzo. Si discute dei privilegi di antichi pensionati, ma la situazione è esattamente identica per chi ha un briciolo di esperienza politica alle spalle e ancora un po’ di anni prima di smettere. Quando le Camere decisero (dal primo gennaio 2012) la dead line dei vitalizi, e l’inizio della pensione che hanno chiamato contributiva (ma non lo è davvero), si sono dimenticati di stabilire incompatibilità fra assegni pensionistici. Hanno definito «pro rata» il sistema per chi era in carica in quel momento, e così sarebbe stato se avessero avuto solo quella legislatura: 5 anni di contributi, tre calcolati come vitalizio e due come pensione. Ma chi era in carica già dalla o dalle legislature precedenti a quel punto aveva già maturato il vitalizio secondo le regole allora vigenti, e se lo terrà stretto. Per la pensione invece basterà attendere i 5 anni minimi di contribuzione (due della scorsa legislatura e tre di questa) e l’assegno allora raddoppia. Avverrà dall’aprile 2016 in poi, e da quel mese in poi gli importi saliranno rispetto a quei 1950 euro che abbiamo calcolato per tutti.

Papponi del vitalizio, le pensioni da serie A degli ex big del calcio da Antonio Matarrese a Giancarlo Abete, scrive ancora Bechis. Nella loro vita ne hanno visti tanti, e chissà quanti calci di rigore li hanno resi furibondi. Da giocatori in campo, da dirigenti sportivi ai massimi livelli. Chissà quante volte ce l’hanno avuta con l’arbitro... Ma di vite ne hanno avute due, talvolta anche parallele. Sono diventati parlamentari, hanno conosciuto un altro tipo di arbitro, che non porta i calzoncini corti ma spesso suscita discussioni simili. Poi sono andati in pensione, e da quel momento la loro vita si è capovolta. Non più calci di rigore. Ma un calcio, anzi un calcione al rigore. Si sono presi il vitalizio, e in breve tempo il rigore è stato un pallido ricordo. Antonio Matarrese, presidente del Bari dei primi anni Ottanta. Poi a ruota alla guida della Lega calcio per un lustro. Da lì schizzato al vertice della Federcalcio, di cui è stato signore e padrone fra il 1987 e il 1996. Organizzò i mondiali 1990 in Italia, chiamò Arrigo Sacchi alla guida della Nazionale di calcio. Erano i tempi di Roberto Baggio e Totò Schillaci, e nel palmares azzurro di Matarrese ci fu una medaglia di bronzo ai mondiali del ’90 e una di argento a quelli del ’94. Bei tempi, e la passione per il calcio è proseguita, tanto è che ancora a inizio anni duemila divenne vicepresidente vicario della Lega guidata da Adriano Galliani. E nel 2013 è stato nominato membro onorario della Figc. E mentre si divertiva con il pallone, Matarrese viveva una seconda vita, naturalmente un po’ a singhiozzo visti gli impegni sportivi: deputato ininterrottamente dal 1976 al 1994, 18 anni. Contributi versati per il vitalizio: 223 mila euro. Assegni già riscossi: 991 mila euro. Differenza a suo vantaggio: 768 mila euro. Un calcione al rigore delle finanze pubbliche, anche se quello spread pazzesco fra versato e riscosso non è un privilegio proprio di Matarrese. L’arbitro ha assegnato quella possibilità a tutti gli ex parlamentari. Quelli che hanno fatto solo politica e quelli che hanno vissuto ben altri mestieri, anche più redditizi. Come Matarrese il calcione al rigore l’ha tirato pure Giancarlo Abete, fratello di Luigi (ex presidente di Confindustria e attuale presidente di Bnl), imprenditore di successo e con una lunga carriera dirigenziale interna alla Figc, che ha presieduto dal 2007 ai rovinosi ultimi mondiali di calcio del 2014, quelli finiti da Cesare Prandelli contro l’Uruguay. È stato anche capo delegazione della federazione ai vittoriosi mondiali del 2006 in Germania. Mentre faceva carriera nel calcio, Abete si è fatto una capatina in Parlamento: deputato dal 1979 al 1992, tredici anni. E se ne è uscito con un vitalizio da 3.796 euro mensili. Che gli hanno già portato in tasca 668 mila euro di assegni, a fronte di 181 mila euro di contributi versati. Ha guadagnato 486 mila euro, da vero bomber che ha contributo come tanti altri a sfasciare quel rigore dei conti pubblici che poi sarebbe stato regola solo per gli altri italiani. Come l’autorevole coppia tanti altri sportivi: da Enzo Maiorca, re dell’apnea che in Parlamento si è fatto solo un breve giretto grazie ad An, ed è già in vantaggio di 432 mila euro rispetto ai contributi versati. O come un altro calciatore che ha militato nello stesso partito: Luigi Martini, detto Gigi, che fu nella grande Lazio di Giorgio Chinaglia e vinse il primo scudetto biancoceleste. Poi ha fatto tanti altri mestieri, e alla fine si è preso (da non molto) il vitalizio. Pochi anni ed è già in vantaggio di 187 mila euro sui contributi versati. Dietro di loro una lunga fila di sportivi e dirigenti sportivi che o è andata in pensione solo nel 2013 o deve ancora andarci, ma che godrà delle stesse generose regole se nessuno vorrà cambiarle: Mario Pescante, ex presidente del Coni, Paolo Barelli, capo della Federnuoto, e ancora Franco Carraro (che è attualmente senatore), altro potente dello sport italiano. Tutti pronti per il loro calcio al rigore. È solo questione di tempo.

Gli onorevoli banchieri si sono spartiti 7 milioni, continua Bechis. Sono passati 25 anni, e difficilmente qualcuno ricorderà ancora. La prima repubblica batteva i suoi ultimi colpi di coda. Al governo c’era Giulio Andreotti, abituato da sempre a navigare nei palazzi della politica. Era nata l’ennesima crisi, provocata da un gruppo di Dc (quelli di sinistra) tornati di attualità negli ultimi tempi: fra loro c’era Sergio Mattarella. Rimpasto e nuovo governo Andreotti, più debole. Come capita in questi casi chi saliva a bordo dettava nuove regole. Di solito si trattava di avere qualche poltrona in più. Mosca rara invece chi puntava su un cambio di programma. Colpì un giovane e allampanato deputato, che al tavolo delle trattative pose questioni di finanza pubblica. «Il deficit pubblico va affrontato finalmente con coraggio e decisione iniziando dalla lotta agli sprechi e agli abusi nella spesa pubblica», chiese. Quel giovane aveva 39 anni. Non era nemmeno un Carneade. Si chiamava Antonio Patuelli ed era vicesegretario del Partito liberale. Disse pure che bisognava affrontare seriamente «il nodo della previdenza». Patuelli cavalcava in un periodo in cui non erano di moda battaglie oggi sacrosante. Era con Mariotto Segni sul referendum che avrebbe segnato la fine del proporzionale. Uno così sarebbe stato notato tre anni dopo da Carlo Azeglio Ciampi, che lo volle nel governo di emergenza nel pieno di Tangentopoli. Fu sottosegretario alla Difesa, ed era il 1993. Mentre lui era al governo Mattarella scrisse la legge elettorale che porta il suo nome e che doveva essere la risposta al referendum. Patuelli la considerò una schifezza, e per protesta annunciò che non si sarebbe ricandidato. Predicava benissimo. Quanto a razzolare, fu pizzicato solo con un piccolo vizio: la poltroncina in banca. Prima di essere eletto Patuelli era infatti vicepresidente della Cassa di risparmio di Ravenna. Dovette lasciare la carica per incompatibilità. Ma dimettendosi restò consigliere di amministrazione. Alla banca ci teneva, e presto avremmo capito perché. Con il beau geste il giovane liberale lasciò per sempre la politica. Era il 1994, Berlusconi arrivava a palazzo Chigi e Patuelli andava in pensione. No, non è un modo di dire: a 43 anni ricevette il primo assegno mensile del vitalizio da ex parlamentare. Per altro non restando a lungo inattivo: poco tempo dopo divenne presidente della Cassa di risparmio di Ravenna. Pensionato e banchiere. Ha fatto carriera in tutti e due i campi. Oggi ha poco meno di mezzo milione di euro in tasca più dei contributi versati da ex parlamentare. Ed è pure presidente dell’Abi, l’associazione delle banche italiane. Patuelli è uno dei re del vitalizio e pure re dei banchieri italiani. Gente che non guadagna esattamente un centesimo al mese. Fu mosca bianca all’epoca, ma oggi Patuelli non è un caso raro. Sono molti i banchieri che alle spalle hanno una bella carriera in Parlamento. Uniscono così i gettoni di presenza e lo stipendio da presidenti e consiglieri di amministrazione di spa o Fondazioni bancarie al comodo vitalizio che si trascinano da quando lasciarono Camera o Senato. Nell’elenco di chi ha visto lievitare nel modo pazzesco che stiamo raccontando in questi giorni i contributi versati per il vitalizio ci sono le due figure di banchiere più rappresentative di Italia. C’è Patuelli, capo delle banche tradizionali. E c’è Giuseppe Guzzetti, ex presidente della Cariplo, oggi alla guida di tutte le fondazioni bancarie e non solo: presiede l’Acri, che riunisce anche tutte le casse di risparmio italiane. Guzzetti, vecchia volpe democristiana, si è già portato a casa con il vitalizio da parlamentare 666 mila euro più dei contributi versati negli anni. Ma la cifra è tutta per difetto. Perché oltre allo stipendio da banchiere, oltre al vitalizio parlamentare (3.123 euro al mese), Guzzetti riceve anche il vitalizio da consigliere regionale (4.782 euro lordi al mese). Mica sono soli i due. Nella rossa Emilia ad esempio è quasi una regola: hai fatto il parlamentare? Bene, goditi la tua meritata pensione con un bel posticino nel consiglio di una fondazione bancaria o di una cassa di risparmio del territorio. Così oggi uniscono generosi spread conquistati sul vitalizio a stipendi ed esperienza da banchieri. C’è l'ex Ds Bruno Solaroli, che ha già visto lievitare il suo vitalizio di oltre mezzo milione più dei contributi versati. C’è Gianfranco Sabbatini, ex dc presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, che ha ricevuto 1,2 milioni di euro di vitalizio più dei contributi versati. C’è Antonio Rubbi, comunista tutto di un pezzo (non manca mai d’agosto alla commemorazione di Palmiro Togliatti) ed ex sottosegretario al Tesoro, entrato poi nel cda della Fondazione cassa di risparmio di Bologna, che ha già guadagnato con il vitalizio 1,1 milioni di euro più dei contributi versati.

Registrano fra 800 e 944 mila euro di guadagno con il vitalizio anche Dino De Poli, ex dc e ancora presidente della Fondazione Cassamarca, Roberto Mazzotta già numero uno di Cariplo e Banca popolare di Milano e Virginiangelo Marabini che a lungo è stato in consiglio della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. Nell’elenco anche Franco Bassanini, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti, che è una banca pubblica un po’ speciale. E poi Nerio Nesi, ex socialista, ex rifondarolo che fu pure presidente della Bnl. È diventato banchiere un altro dc di lungo corso già sottosegretario al Tesoro come Roberto Pinza, che presiede la Fondazione Cassa di risparmio di Forlì e può contare anche su un vitalizio di 5595 euro mensili su cui ha già avuto un vantaggio di 100 mila euro. Poco sotto - perché era giovane e il vitalizio l’ha preso più tardi - Marianna Li Calzi, ex di Forza Italia e di Rinnovamento italiano, oggi nel consiglio di amministrazione di Unicredit.

Pensioni, così gli ex consiglieri regionali potranno aggirare il blocco del vitalizio, continua Bechis. Prima decisione di Matteo Renzi contenuta nel decreto legge sulle pensioni, con cui il governo dà parzialissima attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale che ha cassato le norme Fornero con cui aveva bloccato per due anni l'indicizzazione delle pensioni oltre tre volte il minimo. «La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici», è scritto nel decreto, «secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, determinata dal comma 25, primo periodo, per gli anni 2012 e 2013 con riguardo ai trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo Inps è riconosciuta: a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; b) a decorrere dall’anno 2016 nella misura del 50 per cento». Sì, avete fatto centro: come sempre la norma è stata scritta per non capire un fico secco. Così quando il bonus che arriverà il primo di agosti sarà la metà di quello che era atteso, saprete con chi prendervela: con il meccanismo previsto dal comma x, che modifica la legge y che interveniva sul decreto z... Ma torniamo a Renzi. Comma n. 2 nella sua legge restituisci un pizzico di inflazione ai pensionati: «Le disposizioni di cui al presente articolo si riferiscono a ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo di tutti i trattamenti pensionistici in godimento, inclusi gli assegni vitalizi derivanti da uffici elettivi». Sì, letto bene: «assegni vitalizi». Proprio quelli di cui sta parlando Libero in questi giorni. Intendiamoci, per quanto confuse le intenzioni del governo sono quelle di prender di mira quei vitalizi. E la frase appena letta avrebbe voluto essere tradotta così probabilmente nelle intenzioni di chi l’ha scritta: «Prendete 2 mila euro lordi di pensione? Avete diritto al rimborso! Ah, ma avete oltre alla pensione pure il vitalizio? No, no! Non avete diritto ad alcun rimborso...». Però quel comma può essere letto (e lo è da qualche ora) anche al contrario, quasi fosse un palindromo. Lo traduciamo noi: «Chi ha diritto alla restituzione di quella indicizzazione negata nel 2011 dalla Fornero? Qualsiasi trattamento pensionistico di cui si goda. E pure l’assegno vitalizio che deriva da cariche elettive». Non potranno rivendicarlo i parlamentari: non furono toccati dalla decisione della Fornero. E per altro da oltre dieci anni i loro emolumenti non sono indicizzati. Ma quella restituzione fa gola invece ai consiglieri regionali, che infatti ci puntano. I loro vitalizi sono infatti stati toccati dalla indicizzazione della Fornero del 2011 e molte Regioni misero il blocco. Ora chiedono il rimborso. Potranno averlo? Grazie al decreto Renzi, sì. Anche se non si tratterà di molti altri casi: bisogna non avere altre pensioni oltre al vitalizio generale e non superare i 3 mila euro lordi con l’assegno che si riceve. Chi potrà ambirvi? Quelli che cumulano il vitalizio con un reddito da lavoro dipendente o autonomo: avvocati, professori universitari, medici o magistrati. Non si tratta di centinaia di casi, ma solo dell’ultima beffa che gli italiani rischiano di subire suoi vitalizi...

L'ITALICA FURBATA: TANGENTE O RACCOMANDAZIONE.

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata ieri a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

L'ITALIA DEI FURBI: TANGENTI E SPRECHI.

L'Italia dei furbi. Tangenti e sprechi. Sei miliardi di euro sottratti allo Stato. L’Italia degli sprechi sanitari, delle consulenze false e inutili, degli appalti truccati, delle truffe alla Comunità europea, della corruzione. Un sistema generalizzato, dai grandi enti ai piccoli comuni, di gestire i fondi pubblici. E qualcuno ancora si stupisce che in Europa diffidino di noi, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Ci sono i medici e gli operatori sanitari, i funzionari ministeriali e i lavoratori di primo livello, e anche i manager e gli impiegati. Negli elenchi compaiono tutti i dipendenti pubblici «infedeli», colpevoli di reati e di illeciti amministrativi, chiamati a risarcire i danni allo Stato. Sono oltre 13.300 persone che in meno di due anni hanno provocato una voragine nella casse dell’Erario di ben 5 miliardi e 700 milioni di euro. I dati dei controlli effettuati dalla Guardia di Finanza e dalla Corte dei conti dal 1 gennaio 2013 al 30 settembre scorso, fotografano l’Italia degli sprechi sanitari, delle consulenze false e inutili, degli appalti truccati e delle truffe alla Comunità europea. Ma forniscono, soprattutto, l’immagine di un Paese ancora segnato dalla corruzione. Perché è vero che molti di questi dipendenti pagano per omissioni e abusi, ma sono migliaia quelli che hanno intascato mazzette per sbloccare una pratica, pilotare una gara, sottrarre beni al pubblico per incrementare la propria attività privata. Obiettivo degli accertamenti affidati agli specialisti del Terzo Reparto che si occupano di tutela della Spesa, è quello di verificare «l’impiego e l’utilizzo delle risorse pubbliche a seguito delle quali possono configurarsi ipotesi di responsabilità amministrativa per danno erariale». E dunque «possono essere chiamati a rispondere di tale particolare forma di responsabilità gli amministratori e i dipendenti pubblici che, nell’esercizio delle proprie funzioni, hanno determinato lo sperpero o la cattiva gestione della "cosa pubblica" attraverso comportamenti dolosi o determinati da colpa grave». Un’attività che il comandante generale della Fiamme Gialle, Saverio Capolupo, ha voluto inserire tra gli «obiettivi strategici perché consente di combattere ogni forma di frode o spreco nell’utilizzo delle risorse della collettività». Nei primi nove mesi del 2014 gli interventi sono stati incrementati del 24 per cento rispetto all’anno precedente consentendo di segnalare ben 7.368 persone e chiedere danni per 2 miliardi e 248 milioni di euro. Queste cifre altissime si sommano a quelle dello scorso anno: 5.987 dipendenti portati di fronte al giudice contabile e chiamati a risarcire tre miliardi e 541 milioni di euro. Il totale fa ben comprendere quale sia l’interesse di finanzieri e Corte dei conti a proseguire su questa strada e cercare in questo modo di far recuperare all’Erario ben cinque miliardi e 789 milioni di euro. Proprio per individuare i settori maggiormente penalizzati dagli abusi di chi dovrebbe invece lavorare per tenere i conti in regola, si è deciso di scorporare i risultati relativi ai controlli compiuti. E si è evidenziato come la maggiore sofferenza riguardi la spesa sanitaria, con 1.176 dipendenti segnalati e un danno pari a un miliardo e 200 milioni di euro. La Calabria rimane una delle Regioni dove più alto è il numero di episodi di malagestione, ma anche nel resto d’Italia si moltiplicano i bilanci in rosso causati dagli illeciti commessi dai dirigenti. I casi accertati sono nella maggior parte eclatanti, però fa impressione scoprire che ci sono medici disposti a rischiare il posto di lavoro anche per poche migliaia di euro. È accaduto a un dottore dell’ospedale di Ivrea sorpreso ad effettuare visite private mentre aveva già timbrato il cartellino e risultava presente nella struttura pubblica. Guadagno calcolato tra il 2009 e il 2013: 110 mila euro (poco più di 27 mila euro all’anno) che gli sono costati la denuncia per truffa e il deferimento alla magistratura contabile. Comportamento analogo quello del direttore sanitario dalla Asl di Spoleto: mentre risultava in servizio, andava presso la Onlus che aveva fondato senza però comunicarlo alla sua struttura e così percepiva l’indennità di esclusiva da 23 mila euro l’anno. Tutt’altra entità di danno allo Stato ha provocato quello che è accaduto presso la Asl di Napoli 1 Centro. Gli investigatori del nucleo Tributario hanno scoperto che dal 2000 al 2012 tutti i fornitori sono stati pagati due volte, con un esborso non dovuto pari a 32 milioni di euro. La Corte dei conti ha contestato gli ammanchi ai quindici amministratori che nel corso di questi dodici anni sono stati incaricati di gestire la contabilità della struttura. Non solo. Durante le perquisizioni sono state trovate in un archivio abbandonato documenti da contabilizzare — e dunque da controllare — per 560 milioni di euro. «L’azienda sanitaria — annotano gli investigatori nella loro relazione di servizio — ha stipulato contratti con una società di revisione che ha effettuato un vaglio delle carte mai esaminate per un valore di circa 233 milioni di euro, rilevando ulteriori doppi pagamenti per 17 milioni di euro». Soldi che certamente potevamo essere utilizzati in maniera diversa, per migliorare le condizioni degli ospedali partenopei. Le ruberie dalle casse pubbliche certamente sono rese possibili anche da un sistema di controllo che appare totalmente inefficace. Per dieci anni nessuno ha verificato quanto accadeva all’Agenzia territoriale per la casa di Asti, dove il direttore Pierino Santoro è riuscito a portarsi via ben 9 milioni di euro grazie all’uso personale delle carte di credito dell’Ente e i prelevamenti in contanti. Le indagini hanno accertato «la contabilizzazione di falsi mandati di pagamento, imputati a generiche “spese tecniche” mai sostenute, ai sistematici prelievi sul conto corrente postale intestato all’Agenzia dove gli ignari inquilini versavano i canoni di locazione». Con la carta di credito il direttore acquistava «abbigliamento e gioielli», mentre il resto delle risorse lo ha reinvestito in «auto di lusso, immobili a Torino e Asti, moto di serie limitata, polizze assicurative». Santoro ha patteggiato una condanna per peculato, adesso la Corte dei conti ha avviato il giudizio per il recupero del denaro.

C’è sempre corruzione dietro lo spreco di denaro pubblico, scrive  Salvatore Sfrecola su “Giuristidiamministrazione”. Propongo ai lettori di Logos una riconsiderazione del fenomeno corruzione in termini in parte diversi da quelli che caratterizzano la prevalente pubblicistica, tecnica e giornalistica, che considera quasi esclusivamente il profilo penale degli illeciti. È  mia opinione, infatti, che la corruzione si annidi in ogni gestione impropria di denaro pubblico, in sostanza in quelli che chiamiamo sprechi, dei quali si chiede, invano, l’eliminazione. Spese inutili o eccessive, cattiva gestione del patrimonio pubblico (lo Stato italiano è, tra tutti, il più grande proprietario immobiliare eppure molti uffici pubblici sono in affitto da privati “amici”) nascondono spesso favori a fronte dei quali l’autorità pubblica che decide, amministratore o funzionario, riceve un vantaggio che, quando non è costituito dalla classica “mazzetta”, assicura comunque “altra utilità”, come si esprime il codice penale (art. 318). Si tratti di un incarico professionale ben remunerato, dell’assunzione di un parente, di vacanze gratis, dell’intestazione di auto o di un immobile, acquistato dal pubblico ufficiale totalmente o parzialmente “a sua insaputa”. La stampa ha dato recentemente notizia del rinvio a giudizio di medici i quali traevano vantaggi di vario genere da prescrizioni indebite, perfino del latte artificiale per neonati. Latte di una particolare marca, com’è ovvio. Naturalmente concorrono nell’illecito di chi decide anche coloro che omettono di vigilare. E qui si apre la finestra su una vasta gamma di comportamenti, di coloro i quali sono tenuti ad approvare i contratti di appalto di lavori o forniture, sotto il profilo della legittimità delle clausole giuridiche e della congruità dei prezzi e dei tempi delle realizzazioni o della rispondenza dei beni alle necessità delle amministrazioni. Non sfugge a nessuno che amministrazioni ed enti si trovano sovente a soccombere negli arbitrati come nella definizione degli “accordi bonari” e nelle aule dei tribunali. E questo è certo l’effetto di errori che potrebbero essere, se non voluti, certamente sfuggiti ad occhi che non sono stati vigili, come il ruolo dell’amministratore o del funzionario avrebbe richiesto. Situazioni evidenti in quelle vicende delle quali sovente le inchieste degli organi di informazione hanno dato conto, si tratti di lavori o forniture inutili o eccessivamente costose. Si va dalla stazione ferroviaria di Matera da anni completata e mai utilizzata perché mancano i binari, alle tante opere non completate o completate con gravissimo ritardo, come il carcere di Capanne a Perugia, consegnato all’Amministrazione penitenziaria molti anni oltre la previsione contrattuale, quando è andato a svolgere funzioni di Provveditore alle Opere Pubbliche un funzionario di valore che ha saputo superare le difficoltà, molte pretestuose, frapposte dalle imprese titolari del cantiere. Ritardi che determinano sempre aggravi di spese perché con il passare del tempo aumenta il costo dei materiali e del personale. E spesso occorrono varianti progettuali, sulla base di perizie quasi mai giustificate da ragioni obiettive, come la classica “sorpresa geologica” che dovrebbe essere rarissima se il progetto si è avvalso di idonei accertamenti geognostici. Accade spesso che l’opera completata esiga presto interventi di manutenzione straordinaria. Tutto questo perché evidentemente qualcuno non ha controllato i lavori in corso d’opera o al momento del collaudo. Raramente paga l’impresa, mai il collaudatore, incapace o infedele. A parte le sanzioni possibili, ma rare, i collaudatori dovrebbero essere soggetti a regole rigide. Pagati bene e scelti per la loro professionalità ed esperienza, i collaudatori dovrebbero essere messi al riparo da “tentazioni”, quali l’aspettativa di un incarico dall’impresa i cui lavori hanno collaudato o da imprese collegate, almeno per un quinquennio. Non solo, uguale limitazione dovrebbe riguardare i familiari e gli affini che potrebbero essere gratificati di incarichi ben remunerati per “ringraziare” il collaudatore compiacente. Sprechi, dunque, di risorse dei bilanci pubblici che concorrono a determinare quella “percezione” della corruzione che ha indotto Transparency International ad indicare l’Italia, a fine 2014, nel suo ultimo Corruption perception index, quale il paese più corrotto d’Europa. Non una novità se, all’inizio del secolo scorso Giovanni Giolitti, grande statista anche se politico controverso, amato ed odiato, come da Gaetano Salvemini che l’aveva definito “il Ministro della malavita”, sosteneva che solo la presenza della Grecia impediva all’Italia di essere, in quel periodo, il paese più corrotto d’Europa. Oggi siamo al 69esimo posto, secondo la richiamata indagine, come nel 2013. Ci hanno raggiunto Bulgaria e Grecia che così hanno migliorato la propria posizione. Dietro di noi non c’è nessuno dei paesi dell’Unione Europea. Ultimi anche nel G7. Mentre nel G20 stanno meglio di noi Usa e Canada, Arabia Saudita e Turchia. Il dato è sempre quello della corruzione “percepita”, così come ritenuta sulla base di vari indici e dalle interviste attraverso le quali Transparency International registra valutazioni e opinioni di istituzioni, imprese, persone. Elementi che non permettono all’Italia di raggiungere la sufficienza, 43 punti su 100. Corruzione “percepita”, pertanto rilevata sulla base di indicatori che attengono a quel che la gente ritiene un comportamento che realizza un vantaggio economico od altra utilità per il pubblico ufficiale “per l’esercizio delle sue funzioni”, ovvero “per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio”. Il dato è contestato da quanti insistono nel ricondurre la corruzione all’interno delle indagini e dei processi, ciò che ridurrebbe di molto il fenomeno, se si pensa che sul versante penale i fatti emergono quasi sempre dopo molti anni, con l’accertamento della prescrizione del reato, ogni volta che la corsa a ritardare premia il “presunto innocente” che si guarda bene dal chiedere una sentenza che lo assolva nel merito. Poche battute per dire che il sistema così non va, tanto che sono in cantiere modifiche, peraltro controverse, della normativa codicistica appena revisionata dalla legge 190 del 2012 (anticorruzione). Lo dimostra la geografia degli scandali che nei mesi scorsi ha riguardato “grandi opere”, dall’Expo 2015 al Mose di Venezia, che hanno messo subito alla prova l’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) diretta da Raffaele Cantone, un magistrato di grande esperienza nella lotta alla criminalità organizzata. Ma anche i recenti rinvii a giudizio per “Mafia Capitale”. E qui un’altra mia convinzione. Per combattere il malaffare nel nostro Paese non basta il ricorso al codice penale, un’illusione che ha dimostrato limiti gravissimi. La corruzione si può limitare solamente attraverso la individuazione di indici di danno alla stazione appaltante, come un’opera inutile o acquistata a costi eccessivi, realizzata in difformità dal progetto e con materiali scadenti. Occorre, in una parola, colpire là dove si realizza quell’illecito guadagno che è la finalità dell’accordo tra corrotto e corruttore. Il quale deve recuperare il prezzo dell’illecito (la tangente) e guadagnare oltre. Ciò che è possibile, come si è visto, attraverso i ritardi nella realizzazione dell’opera, le perizie di variante e, soprattutto, l’esecuzione dell’opera non a regola d’arte o con materiali scadenti. Situazioni delle quali si sarebbero dovuti accorgere il direttore dei lavori, il collaudatore in corso d’opera ed il collaudatore finale. Se, poi, pensiamo che la maggior parte delle opere pubbliche viene realizzata da imprese che hanno ottenuto l’appalto con forti ribassi, spesso non remunerativi, è evidente che l’imprenditore cerca di “recuperare” sui guadagni sperati se non sulla tangente, sempre con l’acquiescenza di chi dovrebbe controllare. Finché non si andrà a vedere come sono state realizzate le opere ed assicurate le forniture di beni e servizi ed a quali costi non si frenerà lo spreco. Quando non si tratta di “operazioni inesistenti”, la finzione di un acquisto. Non sono casi rari. In questa guerra al malaffare in primo luogo dev’essere impegnata l’Amministrazione pubblica i cui bilanci sono fortemente incisi dagli sprechi. Che stavolta non è sola. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac) mette a disposizione uomini e competenze, in parte acquisiti con l’incorporazione dell’Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici (Avpc), per promuovere la trasparenza della pubblica amministrazione attraverso la pubblicazione online di spese e compensi, far attuare i piani anticorruzione. Anche con più attività ispettiva, in collaborazione con la Corte dei conti e la Guardia di Finanza. C’è anche un profilo “politico” da considerare, che ci fa dire, sulla base dell’esperienza, che spreco e corruzione sono necessariamente bipartisan. Sono in molti a mostrarsi stupiti del fatto che le indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Roma su episodi di corruzione che hanno visto coinvolti oltre 100 amministratori e funzionari pubblici abbiano riguardato appartenenti alla destra e alla sinistra uniti in un consorzio criminale che li ha portati ad arricchirsi ai danni della finanza pubblica. Stupisce lo stupore che non è chiaro se in buona fede o frutto di colpevole dabbenaggine, perché è evidente che questi comportamenti corruttivi presuppongono la connivenza di chi è all’opposizione oppure una colpevole distrazione rispetto all’attenzione che in un regime democratico va riservata a chi governa. Ugualmente latitanti appaiono all’evidenza gli organi di controllo, considerato che le operazioni che gravano sulla finanza pubblica sono facilmente riconoscibili da parte di chi è chiamato a verifiche di legittimità, di regolarità contabile e di efficienza. Voglio dire che l’intesa criminale diretta ad assunzioni non consentite, ad acquisti non necessari od a prezzi eccessivi ovvero di forniture scadenti costituiscono elementi indiziari i quali consentono al controllore interno od esterno di affondare le mani nella gestione illecita. Per non dire delle consulenze inutili che premiano i clientes di ministri e assessori. Troppo spesso, invece, questi controlli sono formali, soprattutto quando effettuati da organismi di controllo interno che, come diceva Beniamino Finocchiaro, sono per definizione inutili quanto alla loro capacità di intercettare l’illecito. Trattasi, infatti, di organismi che vedono coinvolti soggetti dell’amministrazione colleghi di coloro i quali hanno effettuato per disposizione o d’intensa con il politico corrotto gli acquisti di beni o servizi a danno della finanza pubblica. Come insegna la storia, le infrastrutture, ma anche le forniture, vengono assai spesso immaginate e localizzate in ragione di interessi locali o personali del titolare di un potere di scelta ampiamente discrezionale. Naturalmente ciò non esclude che opere e forniture, pur così originate, siano necessarie e realizzate bene ed acquisite a costi giusti. Per far comprendere ai nostri lettori di cosa parliamo, giorni addietro la televisione ha dato notizia che in una cittadina di 28mila abitanti è stato costruito un campo di polo dimensionato su 20mila spettatori. Non servono spiegazioni o commenti. Attenzione, non un campo di calcio, che sarebbe stato comunque sovradimensionato rispetto ai possibili utenti, ma un campo di polo, uno sport che, come tutti sanno, è popolare e diffuso in Italia! In questa scelta si inserisce, come l’esperienza insegna, una diversa variabile. Quella che attiene all’impresa “predestinata” a realizzare l’opera o ad assicurare la fornitura di beni e servizi. Non sembri un’eresia nel Paese nel quale regole dettagliate disciplinano il procedimenti di gara in applicazione anche della normativa europea in tema di concorrenza. Il fatto è che il progetto viene spesso confezionato tenendo presente le caratteristiche di una determinata impresa, delle sue specifiche, reali o presunte, capacità tecniche e dell’esperienza maturata nello specifico settore. Così la scelta del fornitore. Nonostante gli scandali che quotidianamente impegnano i mezzi d’informazione c’è una tendenza in alcuni ambienti politici a proporre riduzioni di controlli. È estremamente pericoloso, perché minori verifiche amministrative e contabili aprono la strada a controlli giudiziari che non è possibile limitare, anche se è il desiderio non troppo nascosto di imprenditori e politici. A cominciare da quelli dei Tribunali Amministrativi Regionali attivati da ricorsi di concorrenti esclusi dalle gare o risultati soccombenti in una gara pilotata. L’effetto in questo caso è spesso la sospensione della procedura con effetti negativi sulla realizzazione dell’opera, quando effettivamente necessaria, ed alte grida di politici e giornalisti che se la prendono con i giudici che tutelano diritti che l’amministrazione potrebbe aver violato. I politici se ne lamentano ma, in realtà, i ritardi dovuti a procedure sospese dai giudici fanno comodo perché generano spesso quello stato di emergenza che giustifica proroghe di contratti scaduti e deroghe alle leggi. Proroghe e deroghe nelle quali s’insinuano sprechi e corruzione. Un rischio grosso per il Paese e per la comunità. La corruzione, infatti, oltre a danneggiare gravemente la concorrenza, nel senso che espunge dal mercato le imprese serie non disponibili a pagare la tangente crea un grave pregiudizio  all’immagine dell’Italia che tiene lontane le imprese straniere, assai più della pur grave lentezza della giustizia civile.

CORRUZIONE E STAMPA.

Corruzione e stampa: “Il Giornale ne scrive di meno, ma cita più la sinistra", scrive Mario Portanova su "Il Fatto Quotidiano". Una ricerca dell'Università di Perugia quantifica la "polarizzazione" politica sul tema caldo delle mazzette. Dal 2004 al 2013 la testata berlusconiana ha pubblicato 8mila articoli in materia, contro i 49mila di Repubblica. Ma soprattutto, spesso li ha associati a "sinistra", "Di Pietro", "Travaglio, "Santoro", per contrastare i loro attacchi al "Cav". Il professor Mancini: "Manca un senso condiviso del problema". Il Giornale scrive molto meno di corruzione e dintorni rispetto a Repubblica, e quando lo fa associa spesso i suoi articoli a parole come “sinistra”, “Di Pietro”, “Travaglio”, “Santoro”. E’ la “polarizzazione” politica dell’informazione italiana quando affronta il tema scottante delle mazzette, che emerge da una ricerca dell’Università di Perugia sul “discorso pubblico della corruzione” i cui primi risultati sono stati presentati ieri in un convegno organizzato dalla Facoltà di Scienze politiche all’ateneo umbro. “E’ normale che ogni testata prema di più sui casi che mettono in difficoltà un avversario”, ha commentato il curatore della ricerca Paolo Mancini, professore di sociologia delle comunicazioni e fra i maggiori esperti di comunicazione politica nel nostro Paese, “ma quello che colpisce in Italia è che oltre alla copertura ‘di parte’ dei fatti non esiste un senso comune condiviso sul tema generale della corruzione”. E tra i due litiganti, i terzi (le cricche, i burocrati inamovibili, i politici impresentabili che vengono presentati lo stesso…) godono. Lo studio, che fa parte del progetto europeo Anticorrp e a cui ha lavorato un team composto da Marco Mazzoni, Alessio Cornia, Rita Marchetti e Roberto Minigrucci, mostra inoltre che nei Paesi presi in considerazione (Gran Bretagna, Francia e Romania più altri che saranno analizzati più avanti), quello in cui i giornali presi in considerazione hanno parlato di più di corruzione e parole chiave collegate è la Gran Bretagna, ma “con una netta prevalenza di casi stranieri, per esempio sulla Russia, o di grandi aziende multinazionali, o ancora di vicende che riguardano lo sport”, ha spiegato Mancini. In Italia, invece, la materia prima si trova in casa, in abbondanza, e ha a che fare per lo più con la politica. Dal 2004 al 2013 le testate prese in considerazione (Rubblica, Corriere della Sera, Giornale, Sole 24 ore; non Il Fatto Quotidiano, nato nel 2009) hanno pubblicato 49.171 articoli su corruzione e parole chiave collegate (per esempio tangente, mazzetta, peculato…) contro i 50.211 della stampa britannica (Guardian, Times, Sun, Financial Times). Ma, appunto, hanno potuto attingere a piene mani alla casistica nostrana. Repubblica ne ha pubblicati oltre 18mila, il Corriere oltre 14mila, il Giornale 8mila, solo una manciata in più rispetto al Sole, che però è una testata economica. E’ soprattutto dall’analisi delle parole che ciascuna testata usa di più rispetto alle altre negli articoli che parlano di corruzione che emerge la polarizzazione. Per il Giornale diretto da Alessandro Sallusti ed edito da Paolo Berlusconi, la più “sovracitata” in assoluto è “sinistra“, seguita da Cav, Di Pietro, Travaglio, D’Alema, Santoro. Dal direttore del Fatto al conduttore di Servizio pubblico, i personaggi “sovracitati” non sono mai stati coinvolti in accuse di tangenti o simili. Ma, spiegano i ricercatori, il Giornale di Sallusti tende a fare molti articoli in risposta quello che viene detto o scritto da loro contro Berlusconi. In misura così massiccia da diventare statisticamente evidente. Quanto a Repubblica, emerge che si è occupata molto più di tutti gli altri del caso Soria-Premio Grinzane Cavour, di corruzione legata alla mafia (con parole come clan, Sicilia…) e, ovviamente, di “bunga bunga” e “Ruby“. Il Corriere appare come un giornale meno polarizzato, e non si distingue per eccessi o difetti di copertura. Per esempio associa i temi della corruzione a Berlusconi molto meno di quanto facciano Repubblica e Giornale, sebbene con intenti opposti. “Berlusconi”, rivela la ricerca, è anche il cognome italiano più esportato sui media stranieri in articoli legati alla corruzione. Ma anche la celebrata stampa britannica ha le sue polarizzazioni, “più legate al business che alla politica” ha spiegato Mancini. Rupert Murdoch è molto sovracitato dal Guardian, concorrente del gruppo del magnate australiano, e molto sottocitato dal Times, di cui Murdoch è proprietario. Interessante, infine, l’analisi dei picchi del numero di articoli pubblicati sul tema, che in Italia si raggiunge nel 2010 in concomitanza con i casi della “cricca” del G8, del consigliere comunale milanese Mirko Pennisi, del sindaco di Bologna Flavio Delbono, del processo Berlusconi-Mills. Ma il singolo caso che più ha fatto impennare la copertura giornalistica tra il 2004 e il 2013 è stato quello dell’arresto dell’assessore lombardo Zambetti, culmine della serie di scandali che travolgeranno la giunta Formigoni, seguito poco dopo da quello di Franco Fioritoer Batman dei rimborsi del Consiglio regionale del Lazio, che travolgerà la giunta Polverini. E chissà se il record è caduto  nel 2014-2015 con Mose, Expo, Mafia capitale e, in ultimo, l’affaire Incalza-Grandi opere che ha portato all’annuncio delle dimissioni del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi.

GRANDI OPERE: GRANDI SPRECHI E GRANDI SCANDALI.

Expo, Tav, Mose, ma anche l’intramontabile G8. L’elenco delle Grandi Opere finite nelle inchieste delle procure del Belpaese è veramente completo, scrive “L’Indro”. Già da tempo, grazie a galantuomini come Guido Bertolaso, Angelo Balducci, Diego Anemone e agli altri protagonisti della cosiddetta cricca delle Grandi Opere, gli italiani erano al corrente dell’immenso giro di denaro sporco allestito nel 2009 in occasione del G8 dell’Aquila e dei Mondiali di Nuoto. Oggi arriva la notizia dell’arresto per corruzione ordinato dalla procura di Firenze di Ercole Incalza (insieme ad altri pesci piccoli), il potentissimo ex dirigente del Ministero dei Lavori Pubblici (con 2 governi Berlusconi, ma anche Prodi, Monti, Letta e Renzi), attualmente solo consulente esterno. Tutte le principali Grandi Opere, in particolare gli appalti relativi alla Tav Firenze e alcuni riguardanti l'Expo, ma non solo, rende noto la procura fiorentina che coordina le indagini, sarebbero state oggetto dell’«articolato sistema corruttivo» architettato dalle persone arrestate e indagate. A proposito di affari sporchi, il gioco delle quattro poltron’ (una volta si chiamavano cantoni) colpisce anche Roma Capitale, meglio nota come Mafia Capitale. L’annuncio di un Giubileo straordinario fatto a sorpresa da papa Francesco venerdì scorso, ha avuto l’effetto di un terremoto sulle istituzioni italiane e capitoline, scatenando al contempo gli appetiti affaristici della  solita cricca dei Grandi Eventi.

Coinvolto in ben quattordici inchieste non è stato mai condannato (anche se qualche prescrizione l’ha incassata). Il suo avvocato Titta Madia: “Incalza funge sempre da parafulmine perché è il migliore”…, scrive Roberto Scafuri per “il Giornale”. Il nome evoca fatiche e colonne. Il cognome, una certa persistenza negli affari che contano. Eppure Ercole Incalza, oltre che superburocrate delle Grandi opere, snodo degli appalti importanti, è soprattutto l'uomo che attraversa come un fantasma le principali inchieste degli ultimi quarant'anni. Assoluto recordman dello slalom processuale, lo definisce il suo avvocato, Titta Madia: «Quattordici proscioglimenti e mai una condanna» (ma qualche prescrizione sì). Anzi, secondo Madia, di condanna sulle spalle ce n'è soprattutto una: «fungere sempre da parafulmine, perché è il migliore». D'altronde la parabola d'Ercole sorge settant'anni fa a Francavilla Fontana (Brindisi) nel giorno di Ferragosto, gran festa delle messi. Ingegnere e architetto, nel '78 è dirigente della Cassa per il Mezzogiorno e nell'83 già consigliere del ministro dei Trasporti. C'è stella polare e senso di marcia, nell'irresistibile ascesa: Incalza è un giovanotto legatissimo a Claudio Signorile. Si parla da tempo di «sinistra ferroviaria», e dunque l' Archingegnere è l'uomo giusto al posto giusto. La fine del governo Craxi lo proietta al vertice della Motorizzazione e nell'agosto '91 alle Fs di Necci. C'è un motivo: il mese successivo viene costituita la Tav spa, e Incalza ne diviene l'«anima» autentica (è ad fino al '96). Sarà lui a curare l'affidamento diretto a Eni, Fiat e Iri delle prime linee superveloci. In questi anni aurei, eccolo con Chicco Testa e Mercedes Bresso a cercare di convincere i Verdi ai convegni sulla bontà del progetto. Ma eccolo anche comparire davanti all'Antimafia, il 14 settembre '95, sugli affari Tav. Abile ed esperto, Incalza parla di Prodi che, «in qualità di presidente dell'Iri, aveva dato il benestare all'aggiudicazione dei lavori Tav a società quantomeno sospette, certamente in odore di camorra, stando almeno a quanto emergerà dal rapporto dello Sco e alle indagini della Procura di Napoli». Se i magistrati hanno cominciato a interessarsi a lui già con l'inchiesta su Italia '90 e ora stanno cercando il bandolo della matassa Tav, il governo Prodi lo allontana dal ruolo di superconsulente esterno del ministro (all'epoca Di Pietro). Eppure nel settembre '97 è il pds Burlando ad affidargli la presidenza del gruppo di lavoro della Commissione italo-francese per il primo tunnel della Torino-Lyon. Rapporti che tornano buoni quando, il 7 febbraio successivo, viene arrestato con l'accusa di aver corrotto i magistrati che indagavano sulla Tav (Squillante e Castellucci). Tornato capo segreteria tecnica con Lunardi, nel 2001, Incalza si avvicina al mondo ciellino. Esemplare presentazione al Meeting di Rimini del 2005: «Voglio ringraziare davanti a tutti - dice l'entusiasta Lupi - una persona che ho incontrato in questi anni, un prezioso collaboratore di Lunardi, ma prezioso collaboratori di tutti noi. Volevo presentare e fare un applauso a Ercole Incalza che è, credo, una persona eccezionale e un patrimonio per il nostro Paese».  Eppure era stato proprio nel luglio dell'anno precedente, come appurerà l'inchiesta su Anemone &C., che il patrimonio della famiglia Incalza s'era accresciuto di una casa in Piazzale Flaminio grazie al «regalo» di 820mila euro pagati «a sua insaputa» dal solito Zampolini. Caso speculare a quello Scajola, con la differenza che il genero di Incalza, Alberto Donati, acquirente della casa di lusso con soli 390mila euro di tasca propria, spiegò d'aver fatto «un sopralluogo nella casa assieme a Incalza». Ma l' Archingegnere non ne aveva capito il valore, evidentemente. Capo struttura del ministero anche con Matteoli, Passera e Lupi (incarico rinnovato fino a gennaio), Incalza è comparso e scomparso come fantasma anche nelle inchieste sul G8, sul Mose, sull'Expo. Ma soprattutto in quella sui favoritismi alla CoopSette , coop rossa cara all'ex governatrice umbra Lorenzetti. Campione di mimetismo, è passato oltre le colonne d'ogni governo. Zelig d'un potere impalpabile, quello dei superburocrati, e di sicuro anche implacabile.

Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scriveTiziana Maiolo su “Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Ieri mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende. Intanto è stato Ministro ai lavori pubblici, proprio nel palazzo dove oggi lavora Lupi, e ha avuto occasione di conoscere Ercole Incalza e lo ha cacciato subito perché il dirigente era “uno della prima repubblica”, addirittura un socialista. Roba da peccato originale. Che soddisfazione, vederlo oggi in manette! Poi magari però Di Pietro non spiega bene perché lasciò frettolosamente quel posto al Ministero in seguito ad avvisi di garanzia ( sarà poi prosciolto ), alcuni dei quali saranno ripresi nella famosa “sentenza Maddalo”, da cui emergeranno anche i motivi che lo avevano indotto a gettare frettolosamente la toga nel dicembre del 1994. L’elenco dei comportamenti di quello che fu l’eroe della moralità e che nessun imitatore è riuscito ancora a raggiungere per popolarità, fa impallidire qualunque imprudenza il ministro Lupi possa aver commesso. Anche perché stiamo parlando di un magistrato il quale – così dice la sentenza dei giudici di Brescia – fu costretto a lasciare la carriera prima che intervenisse a cacciarlo il Consiglio superiore della magistratura proprio per quei fatti. L’elenco, riportato puntigliosamente anche nel libro dedicato all’ex Pm dal giornalista Filippo Facci, andrebbe distribuito in tutti gli uffici pubblici per spiegare ai funzionari che cosa non si deve fare se non si vuole incorrere in sanzioni, non tanto da quel Tribunale del Popolo così attivo con Maurizio Lupi, ma almeno da quel minimo di regole etiche che sembrano oggi stare tanto a cuore a Di Pietro. Può un pubblico funzionario farsi prestare cifre ingenti senza interessi e poi restituirle ( ma solo dopo che la “generosità” degli amici viene resa pubblica ) in contanti avvolti in pagine di giornale oppure in una scatola di scarpe? Può farsi dare un’auto di grossa cilindrata e rivenderla per cifra molto maggiore prima ancora di averla pagata, e poi averne un’altra in regalo per sé e la moglie? Può avere in uso gratuito appartamenti a Milano e Roma oppure ricevere, dai soliti amici, i soldi per acquistarne uno al proprio paese? Può ricevere decine di consulenze legali per la propria moglie avvocato e anche per il suo difensore di fiducia? E due posti di lavoro per il figlio? E agende, ombrelli, uno stock di calzettoni al ginocchio e abiti in quantità da un famoso negozio milanese? Nessuno che rivesta incarichi pubblici potrebbe fare ciò. A maggior ragione se si tratta di un magistrato e se gli amici sono un pochino, appena un pochettino, da lui inquisiti. Pure non ci fu reato, e Di Pietro, dopo aver lasciato la magistratura, divenne addirittura ministro dei lavori pubblici nel governo Prodi del 1996. Questi sono i precedenti di chi può oggi “dar buoni consigli non potendo più dare il cattivo esempio”. Di questo tipo di stoffa sono fatti i membri del Tribunale del popolo. Hanno il diritto di chiedere le dimissioni di un ministro per un vestito?

Antonio Di Pietro, un danno da 1,5 miliardi. Ma lui: "Non mi ricordo nulla...", scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L’altro ieri sera, al minuto 104 della trasmissione Servizio pubblico di Michele Santoro (visionabile sul sito de La 7) si è verificata una scena da Mezzogiorno di fuoco. In tv l’imprenditore ed ex politico Chicco Testa illustra come migliorare il sistema degli appalti pubblici ed esclama: «Bisogna eliminare gli arbitrati!». Santoro chiede perché non si faccia: «Perché il potere politico è molto debole, quanti ministri sono passati…», risponde Testa, cercando l’approvazione dell’ospite d’onore Antonio Di Pietro che di quel dicastero è stato al vertice dal 2006 al 2008 e in più occasioni, comprese molte interviste, aveva annunciato l’abolizione dei costosissimi giudizi privati «che non garantiscono trasparenza e penalizzano sempre la pubblica amministrazione». Ma l’ex pm l’altra sera non ha raccolto l’assist di Testa ed è rimasto immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé. In quel clima surreale da spaghetti western, ai due pistoleri del Fatto presenti in studio, Marco Travaglio e Marco Lillo, di solito infallibili nell’impallinare di domande il politico di turno, si è inceppata la favella. Ma una domandina, una sola, sarebbe stata opportuna. Visto che proprio il giorno prima la Corte d’appello di Roma ha inviato alla procura regionale della Corte dei conti gli atti di un lodo arbitrale che costa all’erario pubblico 1.258.990.183,91 euro, per la precisione. Un giudizio privato fortemente voluto dall’allora ministro Di Pietro, nonostante il fermo parere contrario dell’Avvocatura dello Stato e dell’allora direttore generale dell’edilizia statale Celestino Lops. Quello strumento venne scelto per dirimere tre diversi contenziosi (costati in tutto alla pubblica amministrazione 1,5 miliardi di euro) con l’imprenditore Edoardo Longarini, riguardanti altrettanti piani di ricostruzione postbellica mai realizzati. La Corte d’appello di Roma ha criticato la decisione di «attribuire a un collegio arbitrale il compito di liquidare un così rilevante danno, nonostante la sostanziale incensurabilità della decisione in sede giurisdizionale» e per questo ha chiesto l’intervento dei giudici contabili. Ovviamente, dopo che l’ordinanza del tribunale capitolino ha confermato il pignoramento di 821 milioni di euro del ministero delle Infrastrutture presso la Banca d’Italia, mettendo a rischio il trasporto pubblico locale (a cui erano destinati 600 milioni), 12 importanti opere pubbliche (tra cui la Torino-Lione) e 40 mila posti di lavoro (fonte lo stesso ministero), a noi un po’ di curiosità è venuta. E le domande che a Servizio pubblico hanno preferito risparmiare all’"amico" Di Pietro, abbiamo provato a rivolgergliele noi. Ecco la trascrizione del brevissimo duello al sole. Buonasera onorevole Di Pietro, sono Giacomo Amadori, un giornalista di Libero. «Ah, sì, sì». La disturbo? «Mi dica, mi dica». Vorrei un suo commento sulla decisione della Corte d’appello di Roma di inviare gli atti del lodo Longarini alla Corte dei conti. «Non so nulla, sono in campagna a Montenero di Bisaccia». Rammenta i tre lodi Longarini? «Non mi ricordo niente, mi scusi». Erano quei tre arbitrati decisi quando lei era ministro. «Mi dispiace, ma non mi ricordo proprio niente». Ah, non se li ricorda? «Non so di che cosa sta parlando in questo momento. Mi ha beccato in campagna. Mi scusi. Buonasera». L’implacabile fustigatore di costumi altrui ha completamente perso la memoria. Ripercorre nei dettagli la guerra che fece quando era ministro nei confronti di Ercole Incalza, l’ex capo della struttura di missione per le Grandi opere arrestato nell’inchiesta "Sistema" della procura Firenze, mentre di quegli arbitrati che sono costati all’erario pubblico 1,5 miliardi non ha reminescenze. Chissà se ora la Corte dei conti gli curerà queste amnesie. E se i giornali, sovreccitati per il rolex regalato al figlio dell’ex ministro Maurizio Lupi, dedicheranno almeno un trafiletto al racconto del buco miliardario causato anche da Di Pietro.

La Maddalena, che cosa resta del G8 fantasma. Una mega struttura di lusso costata finora alle casse pubbliche 470 milioni di euro, scrive Sergio Rizzo su Corriere.it. Nell’androne dell’albergo superlussoextrapremium il lampadario da 110 mila euro di Zaha Hadid si accende solo per gli occasionali invitati a una visita spettrale. Deserta la reception. Deserto il bar dietro una quinta di sedie ammucchiate. Deserta la cucina immensa con i fornelli ancora avvolti nel cellophane. Deserta la Spa. Deserto il bagno turco. Deserta la palestra popolata solo da robot pietosamente coperti da lenzuoli bianchi. Deserte le stanze con i letti rifatti alla perfezione e il sapone nei bagni. Deserti i lunghi corridoi dove perfino i ragni si guardano bene dal tessere le loro ragnatele. Non ci sono insetti da catturare. Ma non è il set del remake del film di Stanley Kubrick, Shining. È il resort che nel luglio 2009 avrebbe dovuto ospitare i potenti della Terra per il G8 previsto alla Maddalena, in Sardegna, in uno scenario che non ha eguali sul pianeta Terra. Inutilizzato da anni, come il gigantesco Main conference, le strutture di supporto, i negozi, i ristoranti, le piscine, il cinema, le banchine che potrebbero ospitare seicento yacht, di cui almeno sei oltre i cento metri di lunghezza: che neppure il porto di Barcellona arriva a tanto. Di quella avventura abortita non resta ora che un clamoroso oltraggio alla Sardegna e a tutti i contribuenti italiani. Costato finora alle casse pubbliche 470 milioni di euro. E il conto è destinato a salire. Qualche mese fa un collegio arbitrale ha stabilito che la Protezione civile deve risarcire la società Mita Resort, concessionario delle strutture realizzate fra il 2008 e il 2010 in quella meravigliosa isola della Sardegna per il G8 fantasma, dei danni subiti. Per l’esattezza, 39 milioni. Quali danni? I «mancati guadagni» causati dal fatto che la bonifica dello specchio di mare destinato agli yacht non è mai stata completata. Niente bonifica, niente barche. Niente barche, niente clienti. Niente clienti, nessun guadagno. Elementare, Watson. Appena un dettaglio il fatto che il 50 per cento della Mita Resort sia del gruppo imprenditoriale di Emma Marcegaglia, nominata la scorsa primavera presidente dell’Eni: dallo stesso governo con il quale l’ex numero uno della Confindustria era in causa. Per capire che cosa è successo, non resta che fare un passo indietro di almeno sette anni. La base della Maddalena è chiusa, i sommergibili nucleari sono stati sloggiati e i 2.600 militari americani sono tornati a casa. Molti in Sardegna tirano un respiro di sollievo. Ma non alla Maddalena. Perché la base americana teneva in piedi un bel pezzo dell’economia locale, e ora che non c’è più restano soltanto i guai. E non parliamo dei bar e dei ristoranti vuoti, ma di un grosso pezzo dell’isola da risanare. Il vecchio arsenale dirimpetto a Caprera è una specie di bomba ecologica. I muri cadono a pezzi, il porto è pieno zeppo di resti di barche e navigli affondati che nessuno si è mai curato di tirare fuori, c’è amianto dappertutto. Sistemare quel pandemonio sembra un’impresa disperata. A meno che… A meno del miracoloso solito evento eccezionale. L’unico modo per fare le opere pubbliche in fretta (e senza badare a spese) che si conosca in Italia. Ecco allora l’idea. L’Italia deve organizzare nel 2009 un G8? Ebbene, si farà alla Maddalena. A palazzo Chigi c’è Romano Prodi, presidente della Regione Sardegna è il patron di Tiscali, Renato Soru. Il G8 sarà l’occasione per risarcire l’isola che ha perduto la base americana con una bella bonifica e il rilancio dell’economia: una volta finito tutto, le strutture realizzate per l’evento diventeranno la perla turistica più splendente del Mediterraneo. Roba da miliardari russi sbarcati da panfili grandi come transatlantici, che già pare di veder sciamare fra le banchine e i cocktail. Alla faccia della Costa azzurra. Le cose, come vedremo, prenderanno purtroppo una piega ben diversa: questa volta peggio ancora della solita. All’inizio del 2008 cade il governo di centrosinistra. Torna Silvio Berlusconi, che si ritrova fra i piedi una cosa già organizzata non da lui. L’ha pensata Prodi e nonostante la sua villa Certosa sia a un tiro di schioppo dalla Maddalena, l’idea non lo fa impazzire. Ma ormai è troppo tardi. Al G8 manca poco più di un anno e non c’è tempo. Bisogna sbrigarsi. E anche qui va in scena il solito copione. Gli appalti finiscono nelle mani delle imprese legate alla famosa Cricca che ha il monopolio dei Grandi eventi, la cui gestione viene affidata da una legge assurda fatta dal precedente governo Berlusconi che il centrosinistra non ha abrogato, alla Protezione civile di Guido Bertolaso. I costi lievitano come la panna montata con la scusa dell’urgenza e del disagio perché si lavora su un’isola, anche se quella circostanza era ben nota fin dall’inizio: che la Maddalena sia in mezzo al mare non si può certo scoprire quando si apre il cantiere, ma la cosa non sembra turbare chi si vede presentare quel conto astronomico, salito in un baleno per le sole opere delle strutture dell’Arsenale da 200 a 327 milioni. Più 57 per cento. Un fatto secondo il progettista, l’architetto Stefano Boeri, «assolutamente senza senso: le maggiorazioni sono giustificabili per le vere emergenze, che com’è noto sono cosa ben diversa dalle urgenze. In una situazione come quella del G8 hanno invece determinato margini ingiustificati di guadagno». Il denaro correva a fiumi, senza riguardo per i contribuenti. I tecnici della famigerata unità di missione«di Angelo Balducci che aveva in mano tutto», ha raccontato ancora Boeri, «giravano con occhiali Ray-Ban in Audi e Bmw, e avevano affittato ville sulla costa…». Ma in questo allegro andazzo c’è un colpo di scena. La notte del 6 aprile 2009 il terremoto sconvolge l’Abruzzo, devastando L’Aquila. E Berlusconi decide di spostare lì il G8. Come avessero girato un interruttore, alla Maddalena la tensione cala di colpo. E ancora prima delle inchieste giudiziarie cominciano i problemi. La concessione per gestire l’Arsenale se l’è aggiudicata la Mita Resort di Andrea Donà delle Rose ed Emma Marcegaglia. L’unico partecipante a quello che Carlo Bonini ha definito su Repubblica un «bando sartoriale». Marcegaglia è già in società con lo Stato in una impresa pubblica turistica, Italia turismo, controllata da Sviluppo Italia e presieduta da un senatore della maggioranza di governo, il leghista Dario Fruscio. Per di più, la presidente della Confindustria fa parte della cordata per salvare l’Alitalia che è stata l’arma segreta di Berlusconi nella campagna elettorale. Ce n’è abbastanza, insomma, per una bella dose di polemiche e sospetti. Tuttavia quello che sembrava un grande affare diventa inaspettatamente una bella gatta da pelare. Siccome le condizioni di partenza sono cambiate, la concessione che Mita Resort ha firmato con la Protezione Civile viene rinegoziata. La durata sale a 40 anni e l’una tantum da versare allo Stato scende a 31 milioni. Il canone annuo, invece, è di 65 mila euro: un settimo dei 475 mila euro di Imu che paga oggi la Regione Sardegna, proprietaria del complesso. Ma della bonifica marina nemmeno l’ombra. Anche se questo non impedisce che nel 2010 si svolga alla Maddalena la Louis Vuitton Cup con i suoi strascichi velenosi: la Corte dei conti contesta il fatto, davvero singolare, che la regata sia stata organizzata anch’essa con i soldi della Protezione civile. Berlusconi giura che la pazienza dei sardi (e del concessionario) sarà ripagata: all’Arsenale, promette, si faranno dieci grandi eventi l’anno. Nel 2011 si prova a sperimentare una stagione turistica, sottotono. Poi più niente. C’è da aspettarselo, anche perché nel frattempo è accaduto di tutto. Berlusconi annaspa nella bufera delle allegre serate di Arcore, mentre imperversa lo scandalo della Cricca. Salta Bertolaso, poi salta anche il Cavaliere. La crisi sta divorando l’Italia e figurarsi se qualcuno, nel governo Monti che arriva a novembre 2011, ha la testa per pensare alla Maddalena. Tanto meno la Protezione civile di Franco Gabrielli. Non ha i soldi nemmeno per le frane e gli alluvioni, figurarsi se li ha per bonificare un porto da turisti supervip. E per fortuna non ha nemmeno più il compito insensato di pensare ai grandi eventi. Di lì a poco uscirà pure definitivamente di scena, considerando che dal primo gennaio 2013 la proprietà di tutto passerà alla Regione Sardegna, che siccome non ha firmato la concessione in tutto questo tempo se n’è stata alla finestra. Completamente disinteressata alla materia: neppure l’ex Ospedale militare trasformato in albergo con una marea di soldi pubblici, che è fuori dall’area dell’Arsenale ed è di esclusiva competenza regionale, è mai entrato in funzione. Chi ha firmato, assumendosi l’impegno a bonificare, è invece la Protezione Civile, e Mita Resort la trascina davanti agli arbitri con una richiesta astronomica: 210 milioni. Il collegio arbitrale riconosce un danno di 39 milioni e la concessione viene dichiarata risolta. Mentre si profila il ricorso in appello all’ormai ex concessionario non resterebbe che restituire le chiavi e andarsene. Ovvio, ma a chi? La Regione Sardegna fa orecchie da mercante. La Protezione Civile non c’entra più niente. Il governo di Roma ha altro a cui pensare. Nessuno si vuole prendere questa rogna, così il concessionario non più concessionario è incastrato lì, con i costi di sorveglianza e delle utenze che continuano a correre. E meno male che ci sono loro, quel giorno di marzo che la Maddalena viene investita da un furibondo maestrale. Perché scoppia un incendio che provocherebbe un disastro se qualcuno non chiamasse subito i pompieri. La patata bollente finisce in mano al Comune della Maddalena, dove peraltro il sindaco Antonio Comiti, in scadenza, non può fare altro che sgolarsi con tutti i presunti responsabili spiegando loro come ogni giorno la situazione peggiori inesorabilmente. È desolante vedere adesso il «Main Conference», che aggetta spericolato nel mare, circondato da una grata di ferro: neanche fosse stato già dichiarato rudere ancor prima di aver visto anima viva. Vuoto e disadorno lo sterminato salone con l’immenso pavimento di marmo realizzato con strati ricavati da un unico blocco per far apprezzare la geometria delle venature. Che nessuno, tranne chi l’ha fatto (e chi ha incassato i soldi) ha potuto apprezzare. Vuoto l’enorme androne con una ciclopica immagine del mondo immortalato dal satellite. Fermo l’ascensore più grande d’Europa. All’esterno, i fiori di vetro del rivestimento scenografico legati l’uno all’altro da tiranti d’acciaio devono fare i conti con il maestrale, che senza la (costosa) manutenzione necessaria ne fa strage. Vetri ovunque, in terra e nell’acqua. La ruggine aggredisce qua e là i pilastri di ferro degli ex magazzini e nei negozi destinati alle grandi firme che mai sono arrivate sono ammucchiate biciclette coperte di polvere e salsedine. Dicono che sono sciocchezze: con un milione e mezzo si rimette tutto a posto. Sarà. Per la bonifica a mare, poi, si sarebbero trovati 11 milioni: dice Comiti che bastano e avanzano. Speriamo abbia ragione. Ma come, e soprattutto quando cominceranno a risolvere questa grana, è impossibile saperlo. Non si sa nemmeno chi dovrebbe occuparsene. Forse la Regione? Qualche ministero? Oppure il Comune? E il concessionario? Si dovrà fare una nuova gara? Adesso ci sarebbe una specie di protocollo d’intesa da discutere, ma alla riunione convocata un mese fa i rappresentanti della Regione Sardegna, che nel frattempo è passata dal centrodestra di Ugo Cappellacci al centrosinistra di Francesco Pigliaru, non si sono presentati. E i nostri soldi, mezzo miliardo di euro, stanno lì a marcire.

L’eterno restauro della tomba di Augusto da sette anni chiusa al pubblico. Nel cuore di Roma c’è la tomba antica più grande che l’umanità ricordi dopo le piramidi. Da anni è chiusa per lavori di restauro iniziati 7 anni fa e e che continueranno chissà per quanto tempo ancora scrive Sergio Rizzo su CorriereTv. C’era una volta, a Roma, una piazza. Non una piazza qualunque, bensì uno dei luoghi maggiormente suggestivi del mondo. Al centro, la tomba antica più grande che umanità ricordi, con l’unica eccezione delle piramidi egizie. Un sepolcro circolare immenso, del diametro di 87 metri, edificato nel 28 avanti Cristo da colui che sarebbe stato il fondatore dell’impero romano: Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto. Più grande ancora del mausoleo sopra cui venne edificato Castel Sant’Angelo, sull’altra sponde del Tevere, e dove furono sepolti gli imperatori Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo. Siamo al centro della capitale d’Italia. Via del Corso è a pochi metri, e dal lato opposto, sul Lungotevere, si affaccia l’Ara Pacis. Quella piazza intitolata ad Augusto Imperatore adesso non c’è più. Nel 2007 è stata chiusa causa ristrutturazione dell’intera area, con previsione di restauro del sito archeologica: che però a otto anni di distanza ancora non è iniziata. Il gigantesco mausoleo che doveva ricordare quello di Alessandro Magno, e nel quale riposarono i resti di Augusto e dei suoi parenti, dal nipote Marco Claudio Marcello alla mamma Azia, e trovarono accoglienza anche quelli della madre di Caligola, Agrippina, è circondata da una invalicabile barriera metallica. Fossero ancora li’ dentro tutti quanti, pure ridotti in cenere si rivolterebbero nella tomba. La zona è off limits. Scorgiamo la sagoma del monumento appena attraverso la grata che lo imprigiona lungo tutto il perimetro. Solo questo è concesso a chi passa da quelle parti. Come tante storie del nostro patrimonio culturale umiliato, pure questa è incresciosa. Ma se si considera l’importanza del luogo, e di quello che è rimasto lì, sarebbe meglio dire: vergognosa. Anche per la beffa a testata multipla che ci siamo inflitti. Racconta il bravo giornalista del Corriere della sera Lorenzo Salvia nel suo libro di prossima uscita “Resort Italia”, edito da Marsilio, che la mostra per il bimillenario della morte di Ottaviano e’ stata realizzata a Roma con dodici mesi di anticipo, nel 2013 “perché l’anno fatidico, il 2014, è stato riservato alla Francia con un allestimento al Grand Palais. Una scelta, di fatto, imposta dal Louvre, che solo a queste condizioni ha accettato di concedere alcuni dei suoi pezzi”. Inutile dire che la mostra parigina ha avuto molti più visitatori di quella romana. Non bastasse, quel 19 agosto 2014 in cui il mausoleo di Augusto è stato brevemente riaperto in omaggio alla ricorrenza, l’area è finita sott’acqua causa tubatura dell’Acea spaccata. Quando si dice: il fato. Peccato soltanto che in questo caso gli artefici del destino siamo noi stessi. Scrive ancora Salvia: “A Roma, alle spalle di via del Corso, Augusto ha il suo mausoleo. La piazza che lo circonda è ridotta a un grande parcheggio; i giardini sono una via di mezzo fra la discarica e un wc all’aria aperta. Dopo una lunga mediazione, il Comune ha finalmente deciso di risistemare l’intera area. Salvo ritardi, la nuova piazza Augusto Imperatore sarà pronta nel 2017. La mostra un anno prima, la piazza tre ani dopo. Cosa poteva essere, per Roma, avere nel 2014 la mostra di Augusto, l’inaugurazione della piazza, una serie di attività collegate, dall’alto del grande convegno per studiosi fino ai giochi per bambini dedicati all’imperatore? E quante persone e soldi in più avrebbe potuto portare un progetto del genere? Il vero evento sarebbe stato pensarci per tempo”. E qui tocchi con mano la pochezza di una classe politica mediocre e ignorante: piegata unicamente ai propri interessi da cortile. Piazza Augusto Imperatore e il mausoleo di Ottaviano sono in quelle condizioni pietose da anni perché da anni, dicono, non ci sono i soldi. Quanti soldi? In tutto meno di trenta milioni. Dodici per i restauri e una quindicina per la risistemazione della piazza. Briciole, in una città capitale dello spreco, e dove le recenti inchieste su Mafia capitale stanno dimostrando l’esistenza di un radicato e diffuso sistema di corruzione. Non si trovano 27 milioni per un’operazione che oltre a restituire decenza a quella parte del centro di Roma e alla nostra memoria porterebbe anche un bel po’ di incassi, ma si sono trovati senza farsi troppe domande 42 milioni l’anno (e 42 milioni per 8 anni fa 336 milioni) per affittare da privati immobiliaristi e palazzinari immobili destinati alla cosiddetta emergenza abitativa, pagando gli appartamenti fino a 2.700 euro al mese: salvo poi scoprire, come stanno facendo scoprire le verifiche avviate dal sindaco Ignazio Marino, che tantissimi di quei presunti indigenti in realtà indigenti non lo sono affatto. “Il vero evento sarebbe stato pensarci per tempo”, chiosa Salvia. E di tempo per evitare la figuraccia del 2014 ce ne sarebbe stato, eccome. Quel monumento ha avuto una storia travagliata fin dall’antichità. Dopo la fine dell’impero romano il “grande tumulo che sorge su un’alta base di marmo bianco nei pressi del fiume coperto ovunque, dalla sommità, di alberi sempreverdi” e sormontato da “una statua in bronzo di Cesare Augusto”, secondo la descrizione tramandata ai posteri dallo storico e geografo greco Strabone, venne pian piano sbucciato come una mela per riutilizzare l’enorme quantità di marmo. E’ addirittura verosimile che nell’area antistante l’ingresso si trovasse una calcara, rudimentale impianto per produrre calce. Dopo essere stato utilizzato prima come roccaforte e poi come anfiteatro, il Mausoleo diventò un auditorium che ebbe però vita breve. Alla fine degli anni Trenta, con gli sventramenti fascisti di tutta quella zona, il teatro fu smontato per riportare alla luce i resti romani. Così la tomba di Augusto è rimasta fino a oggi. Nel 2007, quando al Campidoglio c’era ancora Walter Veltroni, fu avviato un progetto di risistemazione della piazza affidato a un pool di architetti guidato da Francesco Cellini. E sarebbero partiti anche i primi restauri del monumento dopo settant’anni. Ma i fondi ben presto evaporarono: dirottati verso altre iniziative, spiega oggi il soprintendente ai beni culturali di Roma Claudio Parisi Presicce. Confortato dal fatto che si sono finalmente reperiti ora, e con molte difficoltà, i pochi quattrini necessari a cominciare il restauro, partendo dalla rimozione dei resti delle vecchie strutture in cemento su cui era poggiato l’auditorium. Quattro milioni e 275 mila euro, grazie anche ai fondi europei. È una cifra pari a metà di quanto speso dal Comune per la beatificazione congiunta di Papa Wojtyla e Giovanni XXIII. Oppure, se preferite, pari a un quarto dei denari impiegati per salvare dal dissesto le farmacie comunali: le uniche al mondo capaci di chiudere i bilanci in rosso. Per gli altri quattrini necessari a completare il restauro e a sistemare la piazza non resta che incrociare le dita, sperando che non saltino fuori altre priorità. Come tappare i buchi di qualche municipalizzata devastata in passato dalle scorribande politiche e dalle assunzioni clientelari.

Roma, la Città dello sport di Calatrava già costata 200 milioni e che forse non sarà mai terminata. Per completare l’opera avveniristica, che si trova a Tor Vergata, servirebbero altri 426 milioni. Sei volte la stima fatta quando venne ideata, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”Chi crede che la Città dello sport di Tor Vergata, nella landa desolata della periferia a Sud Est di Roma, sia un’opera incompiuta fra le tante, sbaglia di grosso. Perché è assolutamente unica. Non per le sue dimensioni: la copertura reticolare a forma di vela che l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti avrà potuto ammirare chissà quante volte dallo spazio è alta 75 metri e per tirarla su c’è voluto tanto ferro quanto nella Tour Eiffel. Per questo gigantesco monumento allo spreco i contribuenti hanno speso finora 201 milioni, Iva esclusa. E per completarla ne servirebbero altri 426. Per un costo totale pari a sei volte la stima fatta quando l’idea, una decina d’anni fa, venne partorita. Numeri che portano realisticamente a escludere che il progetto concepito dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava possa mai vedere la luce, almeno in quella forma. L’unicità di una questa incompiuta, la cui costruzione è paradossalmente cominciata quando già erano stati versati fiumi d’inchiostro sullo scandalo delle opere pubbliche non finite, consiste nel fatto che non si sa nemmeno chi ne sia il padrone. Il terreno sul quale sono stati costruiti gli scheletri delle gradinate degli stadi del nuoto e del basket sono di proprietà dell’Università statale Tor Vergata. Ma ciò non significa che tutto quel meraviglioso cemento e la vela che sormonta le tribune del nuoto (il progetto di Calatrava ne prevede una seconda identica sopra quelle del basket) siano di proprietà dell’Ateneo. I soldi sono statali, certo. Dunque quel mostro è certamente dello Stato. Ma di quale pezzo, nessuno lo sa. E forse non era chiaro nemmeno all’inizio. La spesa iniziale doveva essere di 60 milioni. Già, l’inizio. Vale la pena di ricordare com’è andata. Quando nasce l’idea di realizzare alcuni impianti sportivi sui terreni dell’università di Tor Vergata (600 ettari!) il sindaco di Roma è ancora Walter Veltroni. Si tratta di un’area immensa accerchiata da un’edilizia disordinata e orribile, e priva di collegamenti: anche se a pochissima distanza passano le linee A e C della metropolitana. Per il progetto iniziale viene prevista una spesa di 60 milioni, che subito però raddoppiano. Anche perché nel frattempo Roma si è vista assegnare i mondiali di nuoto del 2009. E siccome salta fuori l’idea di farli nel nuovissimo impianto che si sta costruendo, le operazioni passano nelle mani della Protezione civile di Guido Bertolaso. I mondiali di nuoto non sono forse un Grande evento, e dal 2001 i Grandi eventi non sono sempre stati gestiti da palazzo Chigi con un commissario ad hoc? Ecco allora spuntare anche qui Angelo Balducci, l’ex provveditore delle opere pubbliche protagonista delle inchieste sulla Cricca. Si sapeva che non sarebbe stata pronta per i Mondiali. Ma sarebbe ancora niente, se l’opera avveniristica progettata da Santiago Calatrava e la cui realizzazione è affidata al gruppo Caltagirone, venisse conclusa per tempo. Peccato però che già quando si comincia a lavorare allo stadio del nuoto è chiaro che difficilmente sarà pronto per i mondiali. E allora? Succede tutto quello che non dovrebbe succedere. A palazzo Chigi c’è Silvio Berlusconi e al Comune di Roma s’è insediato Gianni Alemanno. La figuraccia internazionale incombe: ma anziché cercare di evitarla si pensa di risolvere la faccenda spostando le gare nel vecchio impianto del Foro Italico. Quanto alla città dello sport, tornerà buona per le prossime olimpiadi. Per i giochi olimpici, però, non bastano le piscine. Ci vuole anche uno stadio da 15 mila posti per il basket, la pallavolo, il tennis e gli sport al coperto. Che prontamente viene messo in cantiere. Ci sono soltanto un paio di problemini. Il primo è che ci sono soldi soltanto per uno stadio, quello del nuoto: per due impianti non bastano di certo, ma di questo nessuno si cura. Il secondo è che le Olimpiadi a Roma sono ancora nel mondo dei sogni: e quando arriva il governo di Mario Monti anche il sogno svanisce. Un suicidio in piena regola. Non fosse bastato, nel disperato tentativo di dare un senso a quella storia c’era chi aveva pensato di coinvolgere alcuni privati non meglio identificati. Ma l’idea di una trasformazione “commerciale” è per fortuna abortita subito, tanto era balzana. Duecento milioni di euro (dei cittadini) buttati. Andateci adesso, alla città dello sport. Vedrete fino a che punto possa arrivare il dilettantismo e l’irresponsabilità di certi politici. E come si possano buttare allegramente dalla finestra duecento milioni dei cittadini. Ora si sta cercando di salvare il salvabile, ma non è certo facile. Un anno fa, durante una riunione di commissione al Comune di Roma, il nuovo rettore Giuseppe Novelli ha fatto intravedere la possibilità di adattare il progetto con “ampliamento della destinazione alla Scienza”, naturalmente “salvo il benestare dell’architetto Calatrava”. Mentre la delegata per l’Ambiente dell’Ateneo, Antonella Canini, si è spinta a ipotizzare, è riportato nel verbale della commissione la realizzazione di “una serra che diventerebbe la più grande d’Europa e potrebbe ospitare piante, farfalle e altri percorsi dell’evoluzione, spaziando come tematiche dall’informatica alla natura. Potrebbe divenire, con il benestare dell’architetto Calatrava, un enorme polo di interesse turistico”. Nessuno dei responsabili ha pagato. E ora? Nascerà allora una facoltà universitaria nello stadio delle piscine? O quella gigantesca serra? Comprensibile che almeno la vittima di questa assurdità, l’Università di Tor Vergata, si faccia venire qualche idea. Ammesso però che qualcuna di queste ipotesi abbia un senso, ed è tutto da dimostrare, servirebbe sempre una somma compresa fra i 60 e i 150 milioni. Si potrebbero ricavare dai fondi europei, pensa Novelli. Ma per il momento non ci sono, anche se sono molti meno dei 426 necessari al completamento della città dello sport. Una cifra che da sola rappresenta il 24,3 per cento dei soldi (un miliardo 751 milioni) che servirebbero per finire le 683 opere pubbliche incompiute censite dal ministero delle Infrastrutture e dall’Ance: 83 delle quali nel Lazio, la regione in assoluto più funestata dal fenomeno.E non possiamo nemmeno immaginare dove il premer Matteo Renzi troverà tutti quei soldi se davvero, come ha detto, pensa di utilizzare gli impianti per le Olimpiadi del 2024: ma questo ci sembra un film purtroppo già visto. Ogni giorno che passa, nel frattempo, corrono il degrado e i costi che si devono sopportare per questo stato di cose, dalla vigilanza alle manutenzioni. Ed è davvero inaccettabile che nessuno dei responsabili di questa follia ai danni dei contribuenti finora abbia pagato.

Il mausoleo dei Plautii è una discarica a cielo aperto. Il tesoro romano di Tivoli violato, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”«Idea! Mettiamoci un paio di oblò...». L’idea venne a qualcuno alla Regione Lazio, con l’illusione di placare le proteste contro il muro della vergogna. Succedeva dieci anni fa, quando la barriera di cemento armato che avrebbe dovuto salvare dai frequenti allagamenti un’area a ridosso del fiume Aniene era stata appena tirata su. Gli oblò avrebbero dovuto permettere ai turisti di dare una sbirciatina (sigh!) al di là del muro, dove lo spettacolare mausoleo dei Plautii, che con la celebre tomba di Cecilia Metella sull’Appia Antica è uno dei rarissimi esempi di sepolcri monumentali delle famiglie nobiliari romane dell’età tardo repubblicana, stava precipitando nel degrado. Gli oblò ebbero il buon gusto di risparmiarceli. Il muro, invece, è ancora lì. E gli allagamenti puntualissimi. La storia di questa follia può essere presa a esempio degli sprechi insensati che produce l’ottusità di certe burocrazie, ma anche di quello che succede al nostro e prezioso patrimonio quando ci sono in ballo interessi economici privati. Il mausoleo dei Plautii era il primo monumento che veniva incontro ai viaggiatori del Grand Tour, di cui Tivoli era tappa fondamentale. Per arrivare a Villa Adriana, maestosa residenza dell’imperatore Adriano, Wolfgang Goethe e Giovan Battista Piranesi ci passavano davanti appena dopo aver attraversato il ponte Lucano, costruito fra il crepuscolo della repubblica e l’alba dell’impero romano. Su quel ponte che si poteva ancora attraversare in auto trent’anni fa e oggi ha tre delle cinque arcate sepolte dai materiali trasportati dal fiume, come i detriti scaricati dalle industrie di travertino e mai rimossi, si incontrarono papa Adriano IV e Federico I Barbarossa: incontro che sancì una cosetta da nulla come la nascita del Sacro romano impero. Tanto basterebbe perché quel ponte e tutto quello che c’è intorno, compreso lo straordinario mausoleo dei Plautii con iscrizioni ancora quasi perfette nelle quali si citano l’impresa militare della conquista della Britannia, fosse considerato un’attrazione formidabile custodita con la massima cura. E anche una fonte di reddito e lavoro non indifferente. Accadrebbe in qualunque altro Paese civile al quale fosse capitato di avere un’eredità tanto preziosa. Ma non in Italia. Non a Tivoli, che pure fu il cuore dell’impero romano nei suoi anni più smaglianti. Ponte e mausoleo sono inaccessibili, chiusi da quel muro che taglia in due l’antica via Tiburtina e da una barriera di lamiera arrugginita. Intorno, ovunque immondizia che nessuno raccoglie: bottiglie di plastica, lattine, stracci, siringhe, cartacce, liquami. Da un lato, i ruderi di una vecchia osteria seicentesca diroccata che non crollano del tutto soltanto perché indecorosamente puntellati. Alle sue spalle, una orrenda superfetazione abusiva abusivamente occupata da alcuni rom. E poi il mausoleo: il basamento sepolto da una colata (abusiva) di cemento mentre la parte che ne è stata risparmiata viene divorata dalla vegetazione. Non che prima della costruzione di quel muro la cura di quel sito, che oggi è per l’organizzazione americana World Monument Fund fra i cento monumenti del pianeta da salvare, fosse molto migliore. La dimostrazione è che quella straordinaria area archeologica è da decenni stritolata fra capannoni industriali e brutture edilizie di vario genere. Ma il muro è stato un autentico colpo di grazia. I lavori vengono completati dall’Ardis, l’Agenzia per la difesa del suolo della Regione Lazio, nell’estate del 2004, con la giustificazione che la barriera dovrebbe difendere la zona dalle esondazioni dell’Aniene. Sindaco di Tivoli è l’attuale capogruppo del Partito democratico al consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi. Ministro dei Beni culturali è Giuliano Urbani di Forza Italia, che evidentemente non può opporsi. La Regione costruisce il muro riempiendo anche l’area di cemento senza il benestare della Soprintendenza, e una successiva denuncia al tribunale di Italia Nostra e del Wwf viene archiviata con la motivazione pilatesca che le opere «costituiscono esercizio di discrezionalità amministrativa». Peccato che non sia mai stato fatto uno studio sulle cause delle esondazioni. E peccato che quella «discrezionalità amministrativa» che tanto diligentemente ha sottolineato il magistrato nella sua sentenza non abbia neppure risolto il problema. Perché manca un collettore fognario, e continua ad allagarsi tutto all’interno e all’esterno del muro. Incuranti del ridicolo, alla Regione hanno allora pensato di risolvere la faccenda installando delle pompe idrovore che aspirano l’acqua dalla strada e la sputano verso il ponte e il mausoleo. Il tutto senza che quell’opera, a dieci anni di distanza, sia stata ancora collaudata. Chi mai potrebbe collaudare un tale abominio? Più che logica, quindi, la decisione del nuovo arrabbiatissimo sindaco di Tivoli, Giuseppe Proietti, finalmente determinato a prendere di petto la questione, che nel luglio scorso ha chiesto alla Regione di revocare la vecchia pratica di eliminazione del vincolo di esondazione: con la motivazione che quella roba non serve a niente. I quattro milioni e mezzo di euro spesi non sono nemmeno serviti a evitare che il Comune sia sommerso da cause di risarcimento per i danni provocati dagli allagamenti. Con esborsi milionari anno dopo anno. Mentre il protocollo d’intesa per il recupero dell’area, firmato addirittura nel 2005 sull’onda delle proteste dei cittadini e delle associazioni ambientali, è ancora lettera morta. E qui, riavvolgendo il nastro, vengono tanti pensieri. Pure che lo scempio non sia solo frutto di umana stupidità e incoscienza. Il problema di quel tratto dell’Aniene è noto da decenni: ha a che fare con il restringimento artificiale del fiume causato dai detriti. Per risolverlo non serve un muro, ma una seria opera di bonifica e il rispetto del divieto (esistente per legge) di scaricare materiali nell’alveo. Lo capirebbe anche un bambino. Perché allora si è scelto di alzare una barriera di cemento armato di quattro metri, spendendo inutilmente tutti quei soldi? C’è chi ha tirato in ballo la legge in materia di difesa idraulica emanata dopo il disastro della frana di Sarno, nel 1998. E c’è chi, come Italia Nostra e Wwf che l’hanno scritto nell’esposto rigettato dal tribunale di Tivoli, ha avanzato il sospetto che l’obiettivo non era tanto quello di evitare le esondazioni quanto quello di far venir meno il vincolo alla zona antistante Villa Adriana. Per dare via libera a una lottizzazione. Pura fantasia, dicono... Anche se qualche volta la realtà supera la fantasia.

Dal Mose all'Expo, dai valichi ai moli: i cantieri della vergogna. Grandi, medie o piccole opere rigorosamente pubbliche. In salsa di sperpero, corruzione e fattura facile, scrive QuiFinanza. L'Italia dello sperpero di fondi pubblici annovera 395 cantieri mai portati a termine, che hanno visto stanziare milioni di euro. Progetti perlopiù faraonici, realizzati in tempi biblici o mai portati a termine. Dai cantieri più recenti ad alcuni casi storici: nell'Italia dello sperpero e della corruzione i lavori sono sempre in corso d'opera.

Mose. Costo stimato, 5,5 miliardi di euro. Da quando i lavori sono partiti, nel 2003, i costi del Mose di Venezia (dighe mobili e opere collegate) sono cresciuti del 60%, da 3.441 a 5.493 milioni di euro. In parte per l'avanzamento progettuale, in parte (406 milioni) per l'adeguamento prezzi dovuto al passare degli anni, in parte per richieste di "enti terzi" (260 milioni) o dalla Commissione europea (199 mln). Lo riporta il Sole 24 Ore. Di questi, se le accuse saranno confermate, un numero imprecisato di milioni di euro sarebbero stati impiegati per tangenti e finanziamenti illeciti.

Expo 2015. La spesa iniziale per le sole infrastrutture dell'Expo, quali i padiglioni, l'anfiteatro etc. ammonta a 3,2 miliardi. La cifra complessiva parla di un affare da 14 miliardi che è diventato l'occasione di nuovi e vecchi furti ai danni delle casse pubbliche.

Salerno - Reggio Calabria. Un'autostrada diventata un'icona delle grandi opere... infinite. Uno scandalo che ormai ha compiuto mezzo secolo di vita. Aprì il primo cantiere nel 1963, l'attuale rifacimento è stato avviato nel 1997 e forse verrà terminato entro 20 anni.

Variante di Valico. La variante di Valico è un tratto autostradale in fase di costruzione, compreso tra Barberino di Mugello e Sasso Marconi (più 4,1 km fino a Casalecchio - Lotto 0) con lunghezza complessiva di 65,8 km. I primi lavori furono inaugurati da Silvio Berlusconi, nel 2004. A distanza di vent'anni non sono ancora ultimati. L'opera ha un costo (aggiornato a settembre 2013) di 3.966.600.000 euro: le spese erano stimate precedentemente in 2.521 milioni di euro, il valore è aumentato di quasi il 50%.

Stazione Ferroviaria a Matera. Sul sito del Comitato Ferrovie di Stato a Matera si legge "Può esserci un sito ufficiale di una cosa che non esiste? No, bene è proprio il paradosso in cui viviamo a Matera dove abbiamo una stazione ferroviaria incompiuta e non abbiamo le ferrovie di Stato". La stazione ferroviaria del capoluogo murgese, costata 300 milioni di euro è infatti inutilizzata perché mancherebbero i binari per collegarla alla rete ferroviaria.

Terminal crociere molo Ichnusa (Ca). Il terminal è stato costruito nel 2008, pensato per accogliere le navi da crociera che avrebbero attraccato al molo Ichnusa. Costato 5 milioni di euro, l'immensa struttura che copre un'area di circa 20mila metri quadrati, non ha mai aperto i battenti. Il motivo lo spiega il sito Urban Center "Quando venne realizzato, in una prassi tutta italiana, nessuno pensò al fondale del molo Ichnusa profondo solamente 6,40 metri, mentre per ospitare i giganti del mare, con un pescaggio decisamente superiore, sarebbe servita una profondità di almeno 10 metri".

Arsenale G8 a La Maddalena. Strutture fatiscenti in riva a uno dei mari più belli del nostro Paese, costate secondo i calcoli di Repubblica.it 327 milioni di euro. Avrebbero dovuto ospitare il G8 del 2009, spostato a L'Aquila dopo il terremoto.

Ospedale fantasma di Gerace. Giovanni Verduci, denuncia una clamorosa opera-scandalo della provincia reggina: a Gerace "riposa da 34 anni una struttura costata all'erario quasi dieci miliardi delle vecchie lire (4,9 milioni di euro). Quattro piani pronti all'utilizzo e mai inaugurati, una struttura sanitaria in piena regola con tanto di apparecchiature mediche distrutte dal tempo e dall'incuria e brande per i ricoveri sulle quali mai un malato può dire di aver riposato".

Centro Finanze di Scandicci (Fi). L'ennesimo sperpero di denaro pubblico: a Scandicci, in Via del Parlamento Europeo, è stata edificata un'enorme struttura su tre piani, per un totale di 28.700 metri quadrati, i cui lavori hanno coperto un periodo di tempo che va dal 1991 al 1994. Il complesso doveva ospitare uffici del Ministero delle Finanze per la gestione delle denunce dei redditi delle regioni del centro Italia, ma è stato realizzato soltanto all'85% con un costo di circa 120 miliardi delle vecchie lire. Non ha mai aperto i battenti.

Auditorium di Isernia. Doveva essere pronto per i 150 anni dell'Unità d'Italia. 35mila metri quadri, 300 posti a sedere, per una cittadina di 20mila abitanti. La maestosa struttura, decisamente sovradimensionata per il comune molisano, doveva costare 5 milioni di euro, ma le spese sono lievitate fino a toccarne 55... L'inchiesta di Repubblica.it aggiunge "responsabile del cantiere, nominato dal governo, Fabio De Santis, venne travolto dallo scandalo del G8, che ha visto coinvolti anche altri "attori" presenti sempre nella vicenda dell'Auditorium faraonico".

Pista da bob a Cesana Pariol (To). Costruita per le Olimpiadi di Torino 2006 e costata 77,5 milioni di euro, la pista da bob di Cesana Pariol ha chiuso i battenti. Ora l'Italia non ha una pista d'allenamento per slittino e bob. "Siamo costretti a prenotare piste estere per testare i materiali" si lamentano i campioni, ma la proprietà si è arresa davanti agli elevati costi di gestione: nel 2010-2011 la pista è costata 1.5 milioni di euro.

Interporto di Cervignano (Ud). Attualmente, la struttura adibita allo scambio dei treni merci è utilizzata al 15% delle potenzialità previste nel faraonico progetto, costato secondo Repubblica 248 milioni di euro.

Diga del Pappalai a Monteparano (Ta). Diga del Pappadai, nel territorio di Monteparno, è nata per contenere 20 milioni di metri cubi d'acqua. Avrebbe dovuto irrigare 72.000 ettari di terra nel Salento e nel tarantino ma l'opera non è mai entrata in funzine. I lavori sono cominciati nel 1984, con un costo di 370 milioni di euro. Nel rapporto ecomafie del 2011 si legge che l'attuale utilizzo dell'invaso nulla ha a che fare con l'acqua e le necessità idriche dei paesi pugliesi. Ad oggi infatti la diga risulta carica di rifiuti.

Diga a Valfabbrica (Pg). Versa in stato di abbandono anche la diga del Chiascio, presso Valfabbrica, in provincia di Perugia, costata secondo Repubblica 190 milioni di euro. Dopo anni di attesa l'annuncio di una possibile ripresa dei lavori sulla diga, lasciano sperare.

IL CIMITERO DEI CARRI ARMATI.

Viaggio nel cimitero dei carri armati italiani. Tra i tremila tank di cui l'Italia vuole disfarsi. Giganti costati milioni e che ora la Difesa vuole demolire o vendere ad altri paesi come Pakistan e Giordania. Sono tutti nascosti in una base in Piemonte dove “l’Espresso” è entrato per la prima volta. Scoprendo una storia incredibile, scrive Gianluca Di Feo per l'Espresso. Sono centinaia e centinaia, l'uno accanto all'altro, allineati lungo più file: troppi per riuscire a contarli. È una scena incredibile, mai vista al mondo: quasi tremila mezzi corazzati schierati tutti insieme in un piazzale sterminato. Potrebbe sembrare la versione extralarge di Risiko, ma non si tratta di carriarmatini di plastica pronti a invadere la Kamtchatka: sono veri giganti d’acciaio, ancora capaci di combattere e fare strage sui campi di battaglia. È il segreto meglio custodito della nostra Difesa. Tra le risaie del Vercellese, a pochi chilometri da Arborio, percorrendo una strada anonima si arriva all’ingresso di una vecchia caserma con la bandiera tricolore che garrisce nel vento di primavera. Nessun cartello la indica, nessuno ne ha mai parlato prima. Ma lì a Lenta una coltre d’alberi nasconde la più grande concentrazione di tank d’Europa e forse dell’intero pianeta: sono una moltitudine, più di quanti ne avesse a disposizione Hitler per l’attacco alla Russia. “L’Espresso” ne ha scoperto l’esistenza esaminando un documento britannico, con il censimento della commissione internazionale che vigila sui trattati di disarmo. Con stupore, nel 2012 l’Italia ha denunciato numeri da record: 1.173 carri armati e 3.071 cingolati da combattimento. Una cifra paurosa: gli inglesi hanno solo 270 tank, i francesi il doppio. Un simile arsenale non aveva spiegazioni, visto che in servizio nell’Esercito risultano 200 carri Ariete. Come era possibile che si fosse arrivati ad accumularne tanti? La risposta è banale. Nessun piano top secret, nessun disegno di ambizioni strategiche: soltanto la sciatteria della nostra burocrazia militare. Per quasi vent’anni gli armamenti tolti dalla prima linea sono stati accantonati, senza curarsi del loro destino. Le altre nazioni occidentali li hanno venduti o smantellati, ma da noi la confusione legislativa rende difficile metterli sul mercato e la cronica carenza di fondi ha bloccato le demolizioni, che vanno realizzate seguendo i rigorosi protocolli internazionali. Così mano a mano che i ranghi si assottigliavano, tutto finiva accatastato nel bosco piemontese e in altri due depositi minori. Poco alla volta, la ferrea mole di semoventi e tank ha saturato ogni piazzale. Finché tre anni fa è scattato l’allarme rosso. L’ondata di metallo stava tracimando e non si riusciva più a contenerla: novecento Leopard, trecento M-60, duecento M-109, tremila cingolati M-113 di ogni variante ma anche mezzi recenti, messi da parte a causa della spending review, come centinaia di blindo Centauro e Puma. Questa invasione si è concentrata proprio sulla base di Lenta, nel Vercellese: oltre tre milioni di metri quadrati, circondati da nove chilometri di reticolati, dove c’erano veicoli corazzati buttati ovunque, con alberi e cespugli che avvolgevano i cannoni. Alcuni parcheggi erano stati invasi dall’acqua delle risaie in cui i bestioni da 40 tonnellate erano sprofondati. La sicurezza precaria; i rischi ambientali altissimi, in una zona che è parco naturale. Nel 2013 il generale Claudio Graziano, all’epoca al comando dell’Esercito e da pochi giorni passato al vertice dell’intera Difesa, ha deciso di affrontare quell’armata imboscata. Dando battaglia su due fronti: eliminare i pericoli ambientali e trasformare la giacenza in una risorsa. I veicoli obsoleti sono stati avviati alla rottamazione, quelli migliori verranno ceduti. I bilanci divorati dalla crisi non permettono più sprechi e tutto serve per fare cassa. Così l’installazione piemontese è stata ristrutturata, per rispettare l’ecologia e ragranellare quattrini. È il prezzo medio dei semoventi M109 con cannone da 155 millimetri. Attualmente sono in corso trattative per venderne 100 al Pakistan. È il prezzo medio per un carro armato Leopard di prima generazione. La versione aggiornata invece può arrivare a 150 mila euro. Ce ne sono 668. È il prezzo medio di vendita dei veicoli M113 più vecchi. Nel deposito di Lenta ce ne sono 1903. È quello che l'Esercito ricava dai rottami ottenuti demolendo i mezzi che non hanno più mercato. Attualmente se ne stanno smantellando 500. È il prezzo medio dei semoventi M109 con cannone da 155 millimetri. Attualmente sono in corso trattative per venderne 100 al Pakistan. Oggi la scorta è stata ridotta da 4.000 a 3.000 mezzi, che restano un’enormità. Dei mille che non ci sono più, una parte è stata regalata a paesi “amici”: Pakistan, Gibuti e, prima del caos, la Libia; un’altra parte è stata demolita. «Anche a prezzo di rottame, dai più vecchi riusciamo comunque a ricavare tra quattro e seimila euro, a seconda dei metalli con cui erano costruiti», spiega il colonnello Antonio Oliviero, responsabile dell’ufficio alienazioni dell’Esercito. Adesso in una struttura di cemento - sotto la direzione del colonnello Maurizio Corcione - stanno venendo smantellati cinquecento M-113 da undici tonnellate. Si trasformeranno in nuovi pezzi di ricambio per un valore di 2,6 milioni di euro: le batterie e gli pneumatici a prova di proiettile delle camionette Lince in servizio dal Libano all’Afghanistan.Quasi tremila mezzi corazzati. Depositati in un bosco piemontese. Fra i rovi. Una distesa sterminata di tank. "l'Espresso" è potuto entrare a raccontare per la prima volta la base di Lenta. Da cui ora l'Esercito prende pezzi da rottamare o vendere. Nella base di Lenta - che “l’Espresso” ha potuto visitare per la prima volta in assoluto - la zona più impressionante è il piazzale con i mezzi che hanno ancora un mercato: somiglia all’esposizione di un’autosalone, dove i clienti possono valutare le vetture in vendita. Solo che in mostra ci sono più di duemila Leopard, Vcc, Centauro. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla vernice scrostata, i tank sono praticamente immortali; basta revisionarli e possono tornare in azione. Quelli offerti qui sono più moderni e potenti dei carri che si scontrano tutti i giorni in Siria, Kurdistan e Libia. Si tratta di un “usato sicuro”, a prezzi di saldo, che fa gola a molte nazioni. Ci sono semoventi con obici da 155 millimetri che hanno sparato solamente trenta colpi: il Pakistan ne vuole cento, a circa 60 mila euro l’uno. Il re di Giordania invece ha una passione per le Centauro, autoblindo con un cannone micidiale: il costo oscilla intorno ai 100 mila euro. Ma un cingolato Vcc si può portare via con 20 mila euro, il valore di una berlina. Poco? Per l’Esercito ogni accordo concluso significa un problema in meno e soldi in più. Creando un indotto per le aziende di casa nostra, se riescono ad aggiudicarsi gli appalti per mettere a posto i veicoli secondo i desideri degli acquirenti. Lungo le file del deposito, si ripercorre la storia delle spedizioni all’estero: sulle fiancate resistono i simboli delle missioni in Bosnia, Kosovo, Iraq. Tra i veicoli che stanno per essere rottamati ne spiccano alcuni bianchi, usati nella celebre operazione in Libano del 1982. E viene un brivido pensando che quella massa d’acciaio è costata intorno ai seimila miliardi di lire. Sono prodotti dell’ultima stagione della Guerra Fredda, quella in cui si è sfiorato il conflitto totale: il piazzale infinito di acciaio e cannoni è il monumento più sconvolgente e surreale alla follia che abbiamo vissuto.

L'Italia ha tremila carri armati in un bosco. Ecco lo schieramento mai visto di Lenta. In un deposito piemontese la più grande concentrazione di tank del mondo. È la riserva di mezzi corazzati dell'Esercito, rimasta segreta finora. Adesso una parte sarà demolita, ma la maggioranza è in vendita, scrive Gianluca Di Feo per l'Espresso. È il segreto meglio custodito della nostra Difesa. Tra le risaie del Vercellese, a pochi chilometri da Arborio, in una base dell'Esercito sono accatastati quasi 3000 mezzi corazzati. Contrariamente agli altri paesi occidentali, per quasi vent'anni l'Italia non si è liberata dei tank tolti dal servizio. Stando ai documenti sui trattati del disarmo internazionale nel 2012 l'Italia aveva a disposizione 1.173 carri armati e 3.071 cingolati da combattimento. Una cifra paurosa: gli inglesi hanno solo 270 tank, i francesi il doppio. L'area del deposito di Lenta dove vengono demoliti i mezzi più vecchi. Attualmente si stanno smantellando 500 M113 con motore a benzina, che non hanno mercato. Adesso l'Esercito ha iniziato un piano di smantellamento e cessioni. Un migliaio di mezzi sono già stati demoliti o regalati a paesi amici. Gli altri sono quasi tutti nella base di Lenta (Vercelli), dove all'interno di un bosco c'è la più grande concentrazione di veicoli corazzati del mondo. Si tratta di 2700 tank Leopard, semoventi M-109, autoblindo Centauro, cingolati M-133 e Vcc-1. La maggioranza risale all'ultima fase della Guerra fredda, ma molti sono più recenti. Quasi tremila mezzi corazzati. Depositati in un bosco piemontese. Fra i rovi. Una distesa sterminata di tank. "l'Espresso" è potuto entrare a raccontare per la prima volta la base di Lenta. Da cui ora l'Esercito prende pezzi da rottamare o vendere. L’installazione piemontese è stata completamente ristrutturata, per rispettare l’ecologia. Ora stanno venendo demoliti 500 cingolati: dai rottami di ognuno l'Esercito ricaverà tra i 4 e i 6mila euro. Mentre circa 2300 tank hanno ancora capacità operative: ora sono in vendita a prezzi di saldo e hanno attirato l'interesse di diverse nazioni. Trattative avanzate sono in corso con il Pakistan e la Giordania. Con l'obiettivo di recuperare fondi per fare fronte alla spending review della Difesa.

SPRECHI SPAZIALI.

L'Agenzia spaziale ha un buco da 200 milioni. E spunta anche una parentopoli stellare. I dipendenti spostati all’Asi godono di un bonus extra sullo stipendio. E, grazie alle raccomandazioni, non mancano i cognomi noti. Mentre nei conti c’è una voragine milionaria, scrive Chiara Organtini su “L’Espresso”. Enrico Saggese, ex amministratore Asi, con Samantha Cristoforetti C'è un buco nero nei bilanci dell’Asi, l’agenzia spaziale che ha il compito di portare in orbita il made in Italy nel campo della ricerca scientifica e tecnologica. La Corte dei Conti ha passato al setaccio i risultati del 2013: in soli due anni, il disavanzo finanziario dell’Agenzia è triplicato, arrivando alla soglia record di 233 milioni di euro. Un balzo stellare, con i magistrati contabili che chiedono al management dell’ente statale di provvedere a “ulteriori urgenti iniziative di contenimento della spesa e razionalizzazione dei costi della gestione”. Soprattutto a fronte degli impegni che l’Asi ha preso con l’agenzia spaziale europea (Esa), programmi che la Corte valuta a rischio sostenibilità. È una storia antica, inarrestabile, con l’Agenzia che spende più di quanto le viene conferito per legge e i debiti si accumulano. Nel mirino sono finite le spese per la nuova sede, già bocciate dall’Autorità di vigilanza sugli appalti e l’eccesso di consulenze, definite “anomale e illegittime”. Lo strappo con la vecchia gestione dell’ex amministratore Enrico Saggese - finito sotto processo per una storia di concussione, sprechi e malagestione - non ha sortito ancora risultati. E una nuova pagina di polemiche sta per aprirsi. Perché, nonostante i dipendenti dell’Agenzia spaziale siano obbligati per contratto alla riservatezza, il sentore di una nuova parentopoli per la caccia al posto è più di un’ipotesi. Con un motivo esplicito: all’Asi si guadagna di più rispetto agli altri enti pubblici. Un gettone extra di 600 euro al mese è il vantaggio ottenuto da chi riesce a farsi collocare “in comando” tra le file dell’Agenzia, che nei suoi ranghi conta 227 dipendenti. E se è vero che i costi per il personale sono stati ridotti nell’ultimo biennio da 24 a 19 milioni e mezzo, l’unica spesa che i magistrati contabili trovano in crescita è proprio quella relativa al personale distaccato da altre istituzioni, raddoppiato dai 690 mila euro del 2012 a ben 1,24 milioni. Chi sono e come sono stati scelti questi “comandati”? Dall’organigramma fioccano i nomi di parenti di sindacalisti, revisori dei conti della stessa Agenzia e persino di consiglieri della Corte dei Conti. In alcuni casi, dalla documentazione interna, si capisce che il “comando” temporaneo è solo un escamotage per un posto definitivo. Una di loro sa già che verrà assorbita perché così è scritto nella lettera di nomina dell’Agenzia. Ma è un’altra funzionaria “in prestito”, in una mail interna, a confessare di aver chiesto una raccomandazione per il trasferimento all’Asi: «Ero in cerca di maggiori guadagni e mi è stata data questa possibilità». Tra i 14 comandati nel 2012, sei sono stati assunti definitivamente nello scorso luglio. Probabilmente la sorte di quei lavoratori era stata già decisa proprio al momento dell’ingaggio, all’apogeo della presidenza Saggese. Ma il destino non sarà uguale per tutti. Federica Luciani, ritenuta “una risorsa in eccesso”, è stata rimandata al ministero della Difesa. Non ci sta e segnala all’ispettorato della Funzione pubblica quelle assunzioni. Il ministero si muove subito, scrive all’Agenzia rilevando che la procedura di quegli “assorbimenti” è in contrasto con la legge. Ma il cda dell’Asi non risponde. Il caso finisce sul tavolo di Santo Darko Grillo, responsabile anti corruzione dell’ente spaziale. Il dirigente sostiene che occorrono rilievi oggettivi e liquida quella denuncia come un “whistleblowing”: una soffiata, che però ora è al vaglio dell’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone.

UNIVERSITA': TUTTO TRUCCATO.

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un dottore di ricerca spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”. Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di racocntarli. Sfogliamolo virtualmente.

Concorsi, primo esempio. Il blu e il nero. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo. A me una volta è capitato che a metà prova si siano accorti che alcuni stavano scrivendo in blu e altri in nero. A quel punto ci hanno consegnato delle penne uguali per tutti, e siamo ripartiti daccapo. A fine prova mi sono accorto che c'erano degli stranieri che avevano scritto nella loro lingua natìa... Ma con la penna uguale alla nostra, eh!”.

Concorsi, secondo esempio. Gli ultimi saranno i primi. “M’iscrissi al bando e mi presentai al test d’ammissione che era composto esclusivamente da un colloquio orale in cui si ripercorreva la carriera dei candidati. Era un concorso per titoli. I candidati erano tre: io, una ragazza del sud di trentun’anni neolaureata e una ragazza del nord che stava discutendo la tesi. I posti erano sei, le borse di studio in palio due. Indovinate in graduatoria in che posizione mi piazzai? Esatto, terzo. E ultimo. In un concorso esclusivamente per titoli, cioè non vi erano delle prove d’esame che avrebbero potuto mostrare la preparazione di un candidato piuttosto che l’altro, contava solo il curriculum vitae; in un concorso per titoli tra due neolaureate, o quasi, e io che una laurea, come loro, ce l’avevo e che possedevo anche un titolo di dottore di ricerca, pubblicazioni scientifiche, manuali didattici e un’esperienza di oltre cinque anni in accademia tra lezioni, lauree, seminari e convegni, ecco in gara con loro due mi classifico terzo, dietro di loro…”.

Concorsi, terzo esempio. La salita è in discesa. “Qualche anno fa sono andato a fare un concorso per un contratto di un anno fuori sede. Fuori sede lo dico perché ogni ricercatore, o simile, è come affiliato al dipartimento di provenienza, ogni volta che prova a partecipare a un concorso in un altro ateneo è come se andasse in guerra. Con lo scudo e la fionda contro i fucili e i cacciabombardieri. Il posto era per un assegno di ricerca in Economia e gestione delle imprese. Ci presentiamo in tre. Il vincitore, il fantoccio e io. C’è sempre un fantoccio. Quello che deve fare presenza, ma perdere. Per non dare l’idea che il concorso sia ad personam. Purtroppo per loro però, inavvertitamente, mi ero iscritto pure io. E risultavo tremendamente più titolato degli altri due, vincitore compreso. Questo capitava non perché io fossi particolarmente genio, ma perché, essendo ormai da anni attorcigliato nel meccanismo universitario senza sbocchi in attesa del posto mio, mi ritrovavo a partecipare a concorsi per retrocedere. Scendi di categoria, e sembri un fenomeno. Così succede che devono trovare un modo per fermarmi. E non potendo dire che non ho i titoli o che il mio curriculum mal si relazioni col loro progetto di ricerca. sapete cosa s’inventano? Provano con la psicologia. Anzi la psicologia inversa, il metagame. “Tu sei un ricercatore affermato, ormai hai anni di esperienza, il nostro progetto dal punto di vista quantitativo non presenta una sfida entusiasmante, saranno sì e no due calcoletti, per cui non credo che questo sia il posto adatto a te... E così ho perso un’altra volta”.

Concorsi, per concludere. Così fan tutti.“E così risulta penalizzato anche chi vince perché è più bravo e perché se lo merita. Chi vincerebbe un concorso anche in una molto ipotetica gara alla pari. Senza padrini. Pensate a quanto possa essere frustrante, anche per loro, sapere che nonostante gli anni di studi, i sacrifici, nonostante siano pronti, in realtà si sono ritrovati vincitori perché qualcuno ha deciso così. Per delle logiche che continuano a esulare dalla loro preparazione e ricerca. Tutti penseranno che tu, come tutti, il posto non te lo sei guadagnato. Puoi urlarlo forte quanto vuoi, ma nessuno ti crederà. Tutti ti vedranno come l'abusivo, il solito infame”.

Assegnazione dei fondi. Specchietti per le allodole. “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto alimentato dal blasone dei docenti unitisi (professori che magari fino al giorno prima neanche si salutavano). Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie (pubblicazioni, acquisto di pc all’ultima moda ecc.). Che fine fanno i ragazzi coinvolti? Bene che vada si spartiscono le briciole”.

Libri universitari. Self–publishing.“Molti docenti scrivono libri che poi adottano a lezione, naturalmente, e molto spesso gli editori glieli fanno pagare fino all’ultimo centesimo, della serie “Ti pubblico, ma tu devi comprarne 5 mila copie”. Ma mica li acquistano con portafogli personali, i suddetti saggi; no, ordinari e associati amano invece attingere liberamente dai fondi di dipartimento, che pure magari erano destinati a qualche ricerca seria e pluripremiata”.

Cultore della materia. Il purgatorio dei tuttologi. “Più in basso ancora di assegnisti e dottorandi, c'è la figura del “Cultore della materia”: per permetterti di affiancare un Prof. in università se non hai titoli tuoi, questo ti fa "cultore", e tu così guadagni il diritto di aiutarlo in aula con gli esami o addirittura di fare lezione. La cosa divertente è che la decisione del docente è insindacabile. E così se un domani il tuo supervisor decide che tu debba essere un cultore in Fisica applicata o Letteratura greca medievale, e lo fa soltanto perché gli servi… il giorno dopo tu sarai legittimato ad andare in Aula a parlarne. Anche se non ne sai un fico secco”.

Didattica. Il fanalino di coda. “Viene vista come un fastidio. Un intralcio. È che da noi diventi docente solo dopo aver fatto il ricercatore. Ma il ricercatore dovrebbe fare ricerca, e il docente insegnare. Ci vorrebbe una separazione delle carriere. Un ottimo ricercatore può essere un pessimo docente, e viceversa”.

Seminari e riviste. Tutto fa brodo. “Spesso i dipartimenti organizzano seminari (sempre coi soldi dei fondi) il cui unico scopo è quello di presentare i propri lavori, perché così quel lavoro finirà dritto ne "gli atti del convegno", che è una pubblicazione, e che quindi va a curriculum, fa massa, valore, prestigio, carriera, altri soldi. C’è una lunga teoria di riviste che esistono solo per pubblicare gli atti di questi convegni: periodici clandestini, che pubblicano indiscriminatamente. Ci sono poi dipartimenti che le riviste se le creano da sé. È un circuito drogato, che lievita, ma su impasti veramente fragili. Basti vedere i curriculum dei docenti italiani: le pubblicazioni sulle riviste internazionali, quando ci sono, sono messe in bella mostra, mentre quelle sulle riviste nazionali vengono liquidate sotto la dicitura “altre pubblicazioni”... Come se ce se ne vergognasse”.

GLI SPRECHI E LE PRESE PER IL CULO….

In cassa integrazione ma lavoravano all’estero. Denunciati 36 piloti d’aereo per truffa allo Stato, scrive “La Stampa”. Inchiesta della Guardia di finanza e Inps: danni all’Erario per 7,5 milioni di euro. Per lo Stato italiano erano soltanto dei piloti mandati a casa da Alitalia, Meridiana, Wind Jet e per questo avevano diritto agli ammortizzatori sociali, che nel loro caso potevano arrivare anche ad 11mila euro mensili. Peccato però che per il resto del mondo erano degli affermati professionisti che continuavano regolarmente a volare, pilotando aerei di compagnie straniere e ricevendo uno stipendio tra i 13mila e i 15mila euro, che si andava così a sommare all’indennità per la disoccupazione.  Protagonisti dell’ennesima truffa alle casse dello Stato scoperta dalla Guardia di Finanza sono 36 piloti, tutti italiani e tutti con una lunga esperienza sugli aerei di linea: quando il settore aereo è andato in crisi e le compagnie del nostro paese hanno cominciato a tagliare, sono stati messi in cassa integrazione. Ma le loro indennità - pari all’80% della retribuzione riferita agli ultimi 12 mesi di lavoro - erano ben diverse da quelle di un operaio: al contributo dell’Inps, infatti, sommavano quello della mobilità e quello previsto dal «fondo volo», istituito nel 2008 a seguito della prima crisi dell’Alitalia. Totale, una somma variabile tra i 3mila e gli 11mila euro al mese, per 7 anni. Peccato però che disoccupati i piloti non lo erano affatto. Le indagini della Guardia di Finanza di Roma e del gruppo di Fiumicino hanno accertato che i 36 erano regolarmente assunti in compagnie straniere, soprattutto asiatiche e mediorientali, dalle quali percepivano uno stipendio tra i 13 e i 15mila euro al mese. Ma non solo: il contratto con le compagnie prevedeva anche una serie di benefit, come l’alloggio e la retta di iscrizione dei figli a scuola. I piloti, hanno ricostruito i finanzieri, volavano sempre estero su estero, in modo da non incappare in controlli, ma avevano mantenuto la residenza in Italia per non rischiare di perdere le indennità. E, almeno dal 2009, hanno “dimenticato” di segnalare all’Inps la loro nuova occupazione o hanno presentato false dichiarazioni in cui sostenevano di non avere altri rapporti di lavoro. Una dimenticanza costata alle casse dello Stato almeno 7,5 milioni. Le indagini sono partite seguendo le tracce lasciate da un soggetto in cassa integrazione, che lavorava per una scuola di volo di Roma, e si sono allargate agli altri piloti, individuati grazie all’incrocio dei dati forniti dallo stesso Inps - che sta collaborando alle indagini - con le informazioni ottenute dalle compagnie straniere che fanno scalo in Italia. L’Istituto di previdenza sociale ha immediatamente sospeso l’erogazione dell’indennità e avviato le procedure per il recupero degli importi percepiti indebitamente. Ma l’inchiesta è tutt’altro che chiusa: i piloti sono stati denunciati alla Corte dei Conti e diverse procure hanno aperto dei fascicoli ipotizzando il reato di indebita percezione dei contributi. Le verifiche della Finanza, inoltre, stanno proseguendo su almeno un migliaio di persone: altri piloti che erano in cassa integrazione ma anche assistenti di volo e personale di terra. Indagando sui piloti, i finanzieri hanno anche individuato una diffusa evasione alla cosiddetta «imposta sul lusso», la tassa introdotta sugli aerotaxi nel 2012 dal decreto Monti. In sostanza è emerso che le somme pagate dai passeggeri restavano nelle tasche dei vettori che sistematicamente omettevano di girarle al fisco. Da una prima ricostruzione, solo sullo scalo di Ciampino, sarebbero una ventina le società che hanno violato gli obblighi di legge, per un importo di circa 1,2 milioni. 

Per molti è stato come andare in pensione prima. E intanto sono stati spesi 2 miliardi di euro, scrive Lidia Baratta su “L’Inkiesta”. «Ci hanno mandato in vacanza per sette anni con l’80 per cento dello stipendio», scherza Giuseppe, uno dei 1.100 assistenti di volo lasciati a terra dalla vecchia Alitalia. «In questi anni nessuno ci ha mai proposto un corso di formazione o fornito degli strumenti per trovare un nuovo lavoro. Dobbiamo ringrazia’ Berlusca».  Per la storia degli ammortizzatori sociali italiani, Alitalia è come un evergreen. La vicenda è nota. Nel 2008 la compagnia aerea di bandiera è sommersa dai debiti, Berlusconi arriva al governo sbandierando la difesa dell’italianità dell’azienda agonizzante, che alla fine viene salvata (si fa per dire) dalla cordata italiana guidata da Roberto Colaninno, Cai, Compagnia aerea italiana, incorporando la malandata Air One. Con gli accordi di Palazzo Chigi, gli oltre 5mila lavoratori in esubero della vecchia Alitalia di fatto hanno smesso di lavorare finendo in cassa integrazione per quattro anni più tre di mobilità con un sussidio all’80% dell’ultimo stipendio, finanziato con un sovrapprezzo di tre euro di tutti i biglietti aerei emessi da Alitalia. Una «vacanza» per alcuni, come Giuseppe, vicini alla pensione. Un incubo per altri che, allo scadere dei sette anni, si ritroveranno con anni di “stipendio” pagato alle spalle e nessun valore aggiunto in tasca per trovare un nuovo lavoro.  Il governo Monti aveva deciso di porre fine a questa anomalia, limitando il periodo di ammortizzatori a un massimo di cinque anni. I sindacati però si erano opposti, perché così sarebbero stati violati i patti sottoscritti a Palazzo Chigi nel 2008 da «Berlusca». Alla fine, il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi si è impegnato a garantire per almeno altri due anni il sovrapprezzo necessario a finanziare il fondo speciale dei lavoratori ex Alitalia, circa 180 milioni di euro, più altri 28 concessi per finanziare lo sgravio contributivo superiore al 50% per piloti, hostess e steward che ricevono l’indennità di volo. E così è successo: nel pacchetto Destinazione Italia troviamo la proroga degli ammortizzatori sociali per il personale del trasporto aereo oltre il limite del primo gennaio 2016 e la riduzione del cuneo fiscale per il personale navigante. Per attenuare il peso della sovrattassa è stato deciso di eliminare la doppia imposizione per i passeggeri in transito da un aeroporto all’altro.  Cosa c’entrino le misure per foraggiare Alitalia con un piano per attirare investimenti viene difficile da capire, ma la storia ci insegna che il trasporto aereo ha sempre avuto negli anni particolare (forse troppa) attenzione da parte dei governi, sia per quanto riguarda il sostegno economico da parte delle casse pubbliche, sia sul fronte della tutela dei lavoratori. Era il 2004 quando i trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria e di mobilità venivano estesi al personale, anche navigante, dei vettori aerei e delle società «derivanti», assoggettate quindi a pagare i contributi per finanziare gli ammortizzatori. Il periodo massimo di cassa integrazione veniva incrementato da 24 a 48 mesi; mentre la mobilità era estesa sia nella durata sia nelle caratteristiche del personale (indipendentemente dalla età anagrafica e dall’area geografica di riferimento). Nel 2008, poi, il ministero del lavoro mette a disposizione un tesoretto di 20 milioni di euro, tutti a carico del Fondo per l’occupazione, per concedere in deroga la cassa straordinaria e la mobilità al personale delle imprese di gestione aeroportuale, obbligate da questo momento in poi anche loro al pagamento dei contributi. Arriva il 2012, e con la riforma del Lavoro Fornero la cassa straordinaria viene estesa alle imprese del trasporto aereo e del sistema aeroportuale, a prescindere dal numero dei dipendenti. E il nome di Alitalia (sia Linee italiane spa sia Compagnia aerea italiana) è un evergreen anche per gli ammortizzatori in deroga, cioè quelli pagati dalle casse dello Stato. Solo per l’anno 2012, la troviamo citata in 14 diversi decreti. Alla fine, la manovra messa in atto da «Berlusca» per lasciare Alitalia in mani italiane è costata, solo sul fronte degli ammortizzatori sociali, più di 2 miliardi di euro. A 5mila lavoratori è stato garantito un salario all’80% per sette anni senza che venissero impegnati in altre attività o magari riqualificati per altri lavori, o venisse offerta loro la possibilità di essere reintrodotti in azienda. E non è un caso che le cronache locali ci abbiano raccontato in questi anni diverse operazioni della Guardia di Finanza, che hanno beccato con le mani nel sacco piloti o assistenti di volo in cassa integrazione ingaggiati da altre compagnie straniere con contratti in nero, o senza che ne fosse stata data comunicazione all’Inps. Tra deroghe e rabboccature, tra soldi pubblici e tassazione dei consumatori, i lavoratori della ex Alitalia sono stati lasciati in una sala d’attesa. I pochi dipendenti reintegrati nella Cai, invece, lo hanno fatto a suon di cause di lavoro. «Più che privilegiati, sono stati merce di scambio politico-sociale», ha detto al Sussidiario Mario Canale, presidente di Anelta, Associazione nazionale ex lavoratori del trasporto che sul caso Alitalia ha avviato una class action, realizzando uno studio che verrà presto presentato davanti alla Corte di giustizia europea. «Così ci hanno tenuti calmi», dicono tutti, «è stata una mossa politica». Senza neanche preoccuparsi di ricollocarli. Sussidi a fondo perduto, insomma. O meglio, come ripete Giuseppe, «ci hanno mandato in vacanza». La sua storia nella compagnia di bandiera italiana comincia nel 1987, quando fa una selezione come tecnico di volo. Vince il concorso, ma dopo sei anni gli dicono che di tecnici di volo l’azienda non ha più bisogno. Gli aerei sono cambiati e le tecnologie hanno fatto passi da gigante. Quindi si ricicla come assistente di volo e diventa steward. «Allora si guadagnavano bei soldini», ricorda, «il lavoro era molto meno pesante e in vent’anni mi ha dato sicurezza». Ma «è un lavoro usurante, sia dal punto di vista fisico sia per le relazioni», spiega. «Prima, dopo i voli di lungo raggio, avevamo due giorni di riposo fisiologico più i due riposo normale. Ora i giorni di riposo fisiologico sono scomparsi dal contratto. Ma anche se hai qualche giorno di riposo in più rispetto agli altri lavoratori, per gli altri non ci sei mai. Torni a casa da più otto ore del Giappone e poi magari riparti per l’Argentina. E in quei due giorni di riposo, sei come uno zombie». Negli ultimi tre anni della sua carriera in Alitalia, Giuseppe sceglie infatti di passare al part time. «Quando scendevo dall’aeroplano, mi tremavano le mani», racconta. «Ho pensato: “Se voglio arrivare alla pensione, devo lavorare di meno”». E così è stato. Poi è arrivata la cassa integrazione. A zero ore e con l’80 per cento dello stipendio. «I primi quattro anni di cassa integrazione con una retribuzione di circa 2.200 euro mensili, gli ultimi tre di mobilità con un guadagno di 2.900 su per giù». Niente male per un “esubero”. E per lui è stato un po’ come andare in pensione prima. «Un toccasana», ammette, «una manna, devo ringraziare Berlusca», ride, «per come è diventato ora questo lavoro non avrei retto ancora». Così sono passati quasi sei anni di “buste paga”, senza neanche un tentativo di reintrodurlo nello staff di un altro vettore. «Non ho fatto corsi di formazione. Per fortuna non avevo bisogno di entrate maggiori, non avendo figli, quindi non mi sono riciclato con qualche lavoretto in nero. Non ho fatto nulla». Aspettando il momento della pensione, che è arrivato nel marzo 2013 non senza magagne burocratiche per via di errori nei calcoli. Anche Clara, alla fine degli anni di ammortizzatori pensava di raggiungere la pensione. Poi è intervenuta la riforma Fornero a “complicare” le cose e si è trovata a far parte della categoria degli «esodati non salvaguardati». Lei, 60 anni nel 2016, in Alitalia è entrata nel 1979. «Tramite l’ufficio di collocamento. Allora era ancora possibile», dice. «Cercavano una stenodattilografa con conoscenza dell’inglese. Così ho cominciato facendo la segretaria di un direttore centrale». Poi è passata allo scalo passeggeri di Fiumicino, dove si fa il check in, e al settore cargo, dove ha anche smistato le merci definite “pericolose”, dalle salme ai veleni. «Nel 2008, poi, ci hanno cacciati tutti fuori». Ma quella di Clara non è stata una “vacanza”, nonostante la sua entrata mensile, 1.400 euro circa, non fosse poi così male per una persona in cassa integrazione. «Sono stata in analisi per due anni e mi sono separata da mio marito», dice. «Non mi ha mai chiamato nessuno per fare un corso di formazione o di aggiornamento. Di essere reintegrata in Cai non se ne parlava. In questi anni hanno assunto tanti precari ma nessuno dei vecchi cassintegrati». Per lei quel 2008 è stato come un fulmine a ciel sereno. «Ci hanno dato il contentino, tenendoci calmi, i vari Berlusconi e Benetton sono apparsi come i salvatori della patria, spendendo soldi senza darci alcuna possibilità». Prima ci sono la rabbia e la delusione di ricevere uno stipendio senza far nulla, «poi ci siamo riciclati. Sono entrata a far parte del comitato in difesa degli ex lavoratori Alitalia e in questi anni mi sono dedicata al principale dei miei hobby, il vino, prendendo un diploma da sommelier, facendo qualche collaborazione estemporanea, ma senza alcun pagamento». Un lavoro, continua, «l’ho pure cercato, da sola ovviamente. C’ho provato. Ma sono del ‘56 e alla mia età non mi si fila più nessuno. E certo con una figlia non posso accettare lavoretti a 900 euro al mese». Clara è una di quelle che ha fatto le battaglie negli anni Settanta per l’affermazione delle donne nel mercato del lavoro e proprio non riesce a spiegarselo «come lo Stato abbia inventato una cosa del genere. Per chi non raggiungeva la pensione nei sette anni, bastava prevedere un rientro, qualcosa. Ci sono persone alle quali mancano ancora 15 anni per arrivare alla pensione. Avrebbero tranquillamente accettato un abbassamento dello stipendio». Ora Clara, esodata non salvaguardata, andrà in pensione con 900 euro al mese, 300 euro in meno del previsto. «Me li farò bastare», dice. «In questi anni ci hanno dipinto come approfittatori e privilegiati, ma raccontavano solo le storie dei piloti in cassa a 10mila euro, non quelle come la mia. I primi tempi addirittura mi vergognavo di dire che ero una cassintegrata di Alitalia». Ma se Giuseppe ha raggiunto la pensione negli anni coperti dagli ammortizzatori sociali e Clara ce la fa per un pelo, c’è anche chi dopo sette anni si trova senza un lavoro senza saper fare nulla di nuovo rispetto a prima. «Dopo aver spinto carrellini su e giù per l’aereo», dice Giuseppe, «l’inglese lo dimentichi perché dici sempre le stesse cose. E non puoi neanche riciclarti come barman visto che in aereo distribuisci il cibo di bordo e i cocktail non li sai nemmeno fare».

Chi paga i cassintegrati di lusso. Ricordate la promessa che la cassa integrazione extra-lusso dei dipendenti Alitalia non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani? Non è andata così, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Ricordate la promessa che la cassa integrazione extra-lusso dei dipendenti Alitalia non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani? Non è andata così. Lo denuncia un dossier Inps: il «fondo volo» pesa sulla fiscalità generale addirittura per il 96%. E ancora oggi, sette anni dopo il «salvataggio» della «italianità» della compagnia, i cittadini mantengono tra i quasi diecimila cassintegrati 152 che prendono da dieci a ventimila euro. Più due che sfiorano i trentamila.
Per capire la gravità dell’accusa dell’Istituto presieduto da Tito Boeri, che ha deciso di mettere on-line i dati così che gli italiani possano vedere quanto certi privilegi siano insostenibili, va fatto un passo indietro. E va riletta un’Ansa dell’aprile 2006 dove, con la notizia della operatività del Fondo speciale per il trasporto aereo istituito dal governo Berlusconi nel 2004, si spiegava: questo fondo «opera presso l’Inps senza oneri per la finanza pubblica». Un impegno ribadito, nel corso degli anni, più volte. Ma è così? Basta intendersi sulle parole. Da anni infatti questa «cassa» è alimentata da una specie di pubblico pedaggio pagato da ogni passeggero che tocca un aeroporto nazionale. All’inizio era di un euro. Poi è salito a due. E infine a tre. Soldi che pesano sui biglietti, quindi sui cittadini che volano e in definitiva, dato che chi vola per lavoro da qualche parte scarica poi le spese di viaggio, su tutti gli italiani. Come una vera e propria sovrattassa. Una tabella sulle fonti di finanziamento del «fondo» da 2007 al 2014 dice tutto: la quota dei contributi delle aziende e dei lavoratori del settore cala al 4%, quella della gabella sui biglietti s’impenna fino al 96%. Anzi, nel 2013 addirittura al 98%: «5,4 milioni di euro dalle aziende e dai lavoratori del settore e 217,8 milioni dai “3 euro a biglietto”». Assurdo, accusa l’Inps. Tanto più che questa tassa è caricata «indipendente dal costo del biglietto. Chi viaggia low cost paga tanto quanto chi viaggia in business». Per il resto, il Fondo è «alimentato da un contributo sulle retribuzioni a carico dei datori di lavoro (0,375%) e dei lavoratori (0,125%) del settore» ma questo versamento è calcolato solo su una parte della retribuzione: «Ad esempio, un pilota che percepisce un salario mensile di 10.000 euro, di cui circa 4000 euro di indennità di volo, versa al Fondo un contributo di 7,5 euro mensili». Dopo di che, se resta a spasso, ne prende circa 8000: mille volte di più. Fatti i conti, i costi per contenere il più possibile i disagi dei dipendenti delle compagnie aeree finiti in mobilità e soprattutto dei piloti e del personale di volo che già venivano da una storia di privilegi (si pensi che nel ‘97 il trattamento per piloti e personale di volo prevedeva la pensione a 47 anni e un’età minima contributiva di soli 23 e tutto ciò due anni dopo la riforma Dini!) sono cresciuti e cresciuti, al di là della truffa dei furbi beccati a lavorare per altre compagnie straniere, fino a diventare esorbitanti. Per capirci, dice l’Istituto di previdenza, il fondo «preleva circa 220 milioni all’anno dai contribuenti, più del finanziamento annuo per la lotta alla povertà attraverso il Sostegno di inclusione attiva». Per un totale, dal 2007 al 2014, di quasi un miliardo e 400 milioni di euro. Una somma stratosferica. Servita per pagare ai cassintegrati delle varie compagnie aeree in crisi 80% «della retribuzione comunicata dall’azienda all’Inps al momento della richiesta del trattamento integrativo, fino a un massimo di 7 anni». Il che ha significato il pagamento nel 2012, l’anno di picco, di 4366 assegni mensili superiori ai 2000 euro, 896 superiori ai 5mila, 399 superiori ai 10mila e 35 che sfondavano addirittura i 20 mila euro lordi. Oggi, certo, sono calati. Ma esistono ancora «casi limite in cui la prestazione si avvicina ai 30 mila euro lordi al mese». Cifre da capogiro rispetto al tetto di 1168 euro previsto per la cassa integrazione dei comuni mortali. E non è finita qui. Alla vigilia dell’ultimo Natale, con gli italiani distratti dagli ultimi (magri) acquisti, il ministero del Lavoro nella scia della abrogazione avvenuta nel 2013 della soppressione del «fondo volo» prevista per il 2014, ha prospettato in una nota che questo Fsta possa trasformarsi, dal 1° gennaio 2016, in un fondo di solidarietà. Fosse prorogata anche la sovrattassa sui ticket aerei, dice l’Inps, «il Fsta diverrebbe l’unico fondo di solidarietà alimentato prevalentemente da proventi a carico della fiscalità generale». Di più: «Nell’agosto e nel dicembre del 2014 sono stati raggiunti, per importanti crisi del settore, accordi a livello governativo con le parti sociali, che prevedono una estensione della durata della prestazione di ulteriori due anni, fino ad un massimo di 9 anni». Nove anni! All’80% dell’ultimo stipendio. Più i contributi. E quasi tutto a carico dei cittadini. Ma non basta ancora. Spiega infatti l’Istituto guidato da Boeri che dopodomani, lunedì, «è convocata una riunione del Comitato Amministratore del Fondo per discutere, fra gli altri argomenti, la possibilità di erogare le prestazioni del Fondo anche ad aziende che non hanno la regolarità contributiva». Cioè quelle che, violando le leggi, non erano in regola neppure nel versamento dei contributi dei dipendenti. Una vera ciliegina sulla torta...

Voto di scambio di Grillo: prestiti con i nostri soldi. Il trucco dei Cinque stelle per captare consensi: aiutano le imprese con il microcredito ma dimenticano che il fondo è foraggiato dagli stipendi pubblici dei parlamentari, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. Quando si dice l'allievo che supera il maestro. Il Movimento Cinque stelle è riuscito in un'impresa leggendaria. I grillini sono passati dal vecchio assunto della sinistra cachemire et champagne «abbiamo una banca!», di fassiniana memoria, a «siamo una banca!».  Direttamente. L'idea è ghiotta, non c'è che dire, e anche furbona. Lo slogan efficacissimo: «Possiamo salvare un'impresa al giorno per i prossimi 10 anni, i soldi li mettiamo noi dai nostri stipendi». Nemmeno quel gran ganassa di Matteo Renzi con lo spot elettorale degli 80 euro al mese seppe fare di meglio. I Grillo boys annunciano fino a 25mila euro di finanziamento (con una possibile ulteriore integrazione di 10mila, per un totale di 35mila euro) di cui potranno godere subito duemila imprese. Un fondo di rotazione alimentato dalle rate restituite e dai nuovi stanziamenti che arriveranno dagli stipendi del M5S e dal ministero dello Sviluppo economico. E c'è pure un sito, www.microcredito5stelle.it , che spiega tutto. Il gran capo Beppe specifica sul blog: «Non servono garanzie reali, basta un business plan e un'idea sostenibile di impresa. Il credito viene erogato a tassi molto bassi su un termine fino a 7-10 anni». Tutte le persone che vogliano intraprendere una nuova attività imprenditoriale o che abbiano un'impresa da meno di 5 anni da oggi possono bussare a casa Grillo. Microimprese fino a 5 dipendenti, società a responsabilità limitata semplificata e cooperative fino a 10 dipendenti, lavoratori autonomi e società di professionisti. Un bel consulente del lavoro e il gioco è già fatto. La Banca (nazional) popolare Cinque Stelle ha aperto gli sportelli. Il Movimento dice di avere già 50 milioni di euro disponibili. Soldi che arrivano dai due Restitution day , quando i parlamentari Cinque Stelle hanno versato la metà delle loro indennità insieme alle eccedenze della diaria non rendicontata, compresi i famigerati scontrini. Tradotto: soldi pubblici. L'iniziativa è nobile. I parlamentari grillini hanno deciso di destinare quei soldi a un fondo per le imprese e non al loro conto corrente. Ma va comunque specificato che il loro bel gesto non è stato reso possibile grazie ai fondi personali, ma bensì con parte dei soldi pubblici che gli stimatissimi onorevoli-cittadini ricevono ogni mese da Camera e Senato. La cosa è ben diversa. Tutti coloro che da ora in poi riceveranno soldi dalla Bank of Grillo («40 imprese al mese»), matureranno un enorme debito di riconoscenza nei confronti di chi gli ha fornito quei finanziamenti. Riconoscenza che potrebbe essere sfruttata da Grillo, Casaleggio & Co. al momento più opportuno. Sotto elezioni per esempio. Silvio Berlusconi è stato accusato di voto di scambio per molto meno. Ma, come insegna il nostro presidente del Consiglio, in politica non conta tanto quello che si fa, ma quello che si fa credere di aver fatto. Occhi sgranati, voce tremante, sguardo spiritato, Alessandro Di Battista (che, infatti, da grande aspira a fare il premier) ha pubblicato sul blog di Grillo un video per presentare questo «giorno storico» e invitare tutti al mercato romano del Testaccio insieme al vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio con il quale si è cimentato nello sport preferito dai Cinque Stelle: lo srotolamento dello striscione (con cifra dell'assegno da 10 milioni per il fondo microcredito). Strette di mano al banco del pesce, sorrisi a quello dei formaggi, selfie con gli ambulanti. Passa dall'auto congratulazione («È una cosa buona, datecene atto») alla lezione di filosofia («Un mare è fatto di tante gocce»). Il banchiere Di Battista della Bank of Grillo ora è pronto a incassare.

E poi c'è la Rai. Rai, i giudici assolvono Libero e Oscar Giannino: "E' lottizzata, non è diffamazione", scrive “Libero Quotidiano”. La lottizzazione politica in Rai? E' cosa nota. Con questa motivazione la Corte di Appello di Milano ha assolto dall'accusa di diffamazione Oscar Giannino, il giornalista di Libero Enrico Paoli e l'allora direttore Alessandro Sallusti, portati a processo nel 2008 da viale Mazzini a causa di alcuni articoli pubblicati su Libero nel febbraio 2008. La tesi di quegli articoli, corredati da un diagramma, era chiara: in Rai le 900 poltrone dirigenziali erano spartite a seconda dell'appartenenza politica, seguendo un rigoroso manuale Cencelli che rispettasse le quote riservate a destra, sinistra e tecnici. Gli allora presidente e direttore generale della tv pubblica Claudio Petruccioli e Claudio Cappon non la presero bene e adirono alle vie legali. "Non era sicuramente un documento ufficiale Rai, e non è dunque il prodotto di una illecita schedatura domestica - spiegano i giudici milanesi -, tuttavia deve ritenersi atto informale interno, di provenienza verticistica, perché redatto da soggetto molto ben informato dell'effettivo organigramma". E sulla distribuzione "politica" dei dirigenti, la Corte d'Appello sottolinea come sia "circostanza notoria" che in Rai "anche i soggetti più che meritevoli siano avvantaggiati dalle conoscenze in ambito politico, perché sovente per fare carriera le sole doti personali non bastano e la meritocrazia è concetto di eccezionale applicazione, riservato a quei rari casi che emergono dal coro per peculiari e incontestabili capacità".

"Rai lottizzata", l'articolo di Oscar Giannino su Libero del febbraio 2008. Ripubblichiamo il pezzo di Libero del 7 febbraio 2008 a firma Oscar Giannino. Che l’organico Rai fosse figlio delle lottizzazioni era noto da tempo. Un direttore di Rete a te, una testata a me. Meno nota era l’esatta ripartizione di questa lottizzazione, figlia degli accordi fra maggioranza e opposizione. Del tutto sconosciuta era invece l’entità, più o meno esatta, di quanto fosse vasta e diffusa la presenza del centrosinistra all’interno dell’assetto organizzativo della Rai. La prova di tutto questo è contenuta in un documento ufficioso in cui si dà conto da che parte sta chi occupa posizioni dirigenziali che vanno dal ruolo di direttore a caporedattore. La fotografia che ne esce fuori è una vera onda rossa. Quando parliamo di parte alta dello schema, tanto per esser chiari, facciamo riferimento all’area Staff, limitandoci al Cda, ai direttori e ai vice (tabella di pagina 11). Ebbene su 36 posizioni, 21 sono occupate dal centrosinistra, 13 dal centrodestra e 2 da tecnici. Quante volte gli esponenti di centrosinistra, in questi ultimi due anni, hanno gridato che la politica doveva star fuori dalla Rai, quante volte hanno accusato il centrodestra di voler militarizzare la Rai? Quante volte? Colorando le caselle si scopre un’altra realtà. Volete un altro esempio? Presto fatto. Prendiamo l’area staff e l’area editoriale nella sua parte più ampia. Su 164 posizioni , 95 sono colorate di rosso, 62 di blu e 7 di verde. Più della metà fa massa critica. Scendendo verso il basso il rosso diventa alta marea. Per fare un altro esempio, i deputati e senatori di Forza Italia, nonché membri della commissione di vigilanza sulla Rai, sostengono che i tg regionali «sono troppo sbilanciati a sinistra». Possibile, essendo Rai Tre tradizionalmente di sinistra. Sta di fatto che gli esponenti azzurri, a partire da Paolo Bonaiuti, vice presidente della commissione di vigilanza Rai, hanno chiesto all’azienda i dati dell’osservatorio di Pavia, che si occupa di monitorare quanto spazio viene dato a ogni partito. Certo, osservando la divisione “dei pani e dei pesci” di cui vi diamo conto in questa e nelle pagine successive, qualche dubbio ci viene, e diventa difficile dar torto agli esponenti azzurri. Stando al gioco del “chi sta con chi”, tanto in voga in Rai, si scopre che all’interno della testata giornalistica regionale, su 51 posizioni dirigenziali, ben 32 sono occupate da vice direttori e capiredattori che, per la vulgata interna dell’azienda, sarebbero di centrosinistra. Sarebbero. Perché questo non è un documento ufficiale, ma una variazione sul tema: l’assetto organizzativo corrisponde ai fatti, i colori invece, un po’ come le bandierine di Emilio Fede, sono stati piazzati lì secondo le «voci di dentro», riprendendo le indicazioni dell’editore, cioè la politica. E pensare che i nomi “colorati” sono quelli di professionisti. E non tutti hanno una tessera in tasca. Se poi uno volesse andare sino in fondo, scoprire che alcuni rami dell’albero rosso-blu sono isole completamente rosse, fa un certo effetto. Ribadiamo, si tratta di professionisti dell’informazione, dipendenti della Rai, la cui colorazione dipende da una presunta appartenenza politica. Spesso però da quella presunta appartenenza dipende il ruolo, soprattutto nelle posizioni di vertice, come quelle di direttore e vice direttore. E volendo disquisire sui direttori delle testate giornalistiche, 9 in totale, al centrosinistra ne toccano quattro, altrettante al centrodestra, mentre una è di competenza tecnica. Par condicio rispettata dunque? No, non è esattamente così. Perché secondo il risiko Rai, nel gioco dei vice direttori il rosso fa la parte del leone, finendo così con il controllare la macchina dell’informazione. Seguendo lo schema che trovate in questa pagina, al Tg3 l’unica voce fuori dal coro è quella di Anna La Rosa. Un capo redattore contro tutti. Mica male no? Qualcosa di simile avviene a Rai News 24 e a Radio Uno e Gr Rai, guidati da Antonio Caprarica. Il quale, tanto per dare l’idea di quanto sia flessibile il gioco dei rossi e dei blu, sta puntando ad occupare una casella dell’area televisione. Della radio, l’ex fashion corrispondente da Londra, non ne potrebbe proprio più. Per chi volesse divertirsi un po’, invece, seguendo le regole del gioco enunciate all’inizio di questo pezzo, vi ricordiamo che la Rai e Deborah Bergamini, ex direttore del Marketing Strategico dell’azienda, ieri hanno raggiunto un accordo per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con effetto dal 31 gennaio. Chi prenderà il suo posto? Di che colore diventerà quella casella? Attualmente è verde, si accettano scommesse. Nel frattempo uno dei verdi dell’albero rosso-blu, ieri ha battuto un colpo. Il Consiglio di Amministrazione della Rai infatti ha approvato a maggioranza il piano di produzione 2008 della fiction. Il Cda ha anche avviato l’esame del piano di produzione e trasmissione 2008 delle reti televisive, illustrato dal vice direttore generale per il prodotto, Giancarlo Leone. All’interno del Cda poi è stato affrontato anche il caso di Michele Santoro, che con il suo Annozero è finito nel mirino del garante dell’Agcom. Ma questa è un’altra storia, che non fa parte dei rossi e dei blu in senso stretto, visto che i conduttori sono sì schierati, ma in modo netto, senza dover ricorrere a tabellini o tabelloni. Insomma il gioco della lottizzazione in Rai, alla fine, rischia di essere tutt’altro che una cosa seria, se non fosse che quelli che ci credono di più sono quelli che stanno dentro al gioco. E non fuori. Ma sì, avanti popolo rosso-blu.

Stipendi Rai, la metà dei giornalisti del servizio pubblico guadagna più di 105 mila euro, scrive “Libero Quotidiano”. Dopo decenni di lottizzazione dei partiti sulla Rai, viale Mazzini sembra più un Titanic affollato, eppure fa ancora gola a tanti, soprattutto ai giornalisti. E non c'è da stupirsi se si considera che su 1.581 giornalisti del servizio pubblico, la metà guadagna più di 105 mila euro all'anno. Un'allegra comitiva dove il più sfigato è un caposervizio (in tutto 279), fino a salire con dirigenti giornalisti e capiredattori che (303 fortunati) che incassano stipendi tra i 120 mila e 240 mila euro. Non di più solo grazie all'imposizione del ministero del Tesoro che ha stabilito il tetto massimo per i dirigenti nelle società partecipate. I dati messi insieme dal Fatto quotidiano aggiungono anche i 64 inviati speciali dei tg della Rai che a cranio guadagnano 126 mila euro. E poi ci sono i 150 vice capiredattori che in media portano a casa ciascuno 120mila euro per un totale sul bilancio aziendale di 18 milioni di euro. Se c'è una cosa che non si può contestare all'azienda di viale Mazzini è come sa gratificare economicamente i propri dipendenti. Il buon cuore con i soldi pubblici trova la sua fulgida espressione anche con i 688 redattori ordinari con contratto a tempo indeterminato che in media beccano all'anno 85 mila euro, roba avveniristica per tante altre redazioni. Un po' più sfigati sono i redattori "a scadenza" che incassano ciascuno 54 mila euro annui. I dirigenti in tutta la Rai sono 262. Nonostante le promesse di spending review della gestione Gubitosi, nel 2013 ne sono arrivati altri 13. In 35 sono stati promossi e ovviamente a questi meritevoli manager è stato adeguato lo stipendio, sempre con il tetto massimo di 240 mila euro. C'è poi la pletora degli 8.501 dipendenti, tra impiegati di varie mansioni, quelli di fascia superiore guadagnano in media 67mila euro. C'è un gruppone di 1360 lavoratori a tempo determinato. Di questi 262 sono altri giornalisti, 349 sono operatori di regia. Ma il vero mare magnum dello sfruttamento, continua il Fatto, spunta nella tabella "collaboratori con contratto di lavoro autonomo, a progetto e partite Iva". Un esercito di 10.019 persone che in tutto costano 110 milioni di euro. 31 di questi nel 2013 hanno incassato 310 mila euro a testa, 175 hanno portato a casa tra gli 80 mila e i 240 mila euro. Tutti gli altri, più di 9 mila dipendenti autonomi hanno i compensi più disparati da poche decine di migliaia di euro.

E poi ci sono le province. Gattopardi di provincia: aboliti gli enti, non è cambiato nulla. Doveva essere la grande riforma per tagliare gli sprechi e modernizzare il paese. Ma è ancora tutto bloccato. Tra impiegati che dormono sulle scrivanie e dirigenti che saltano su poltrone migliori, scrive Fabrizio Gatti “”L’Espresso”. Il principe dei Gattopardi è uno come Fabrizio Sala. No, non è un refuso di stampa. Il nome del principe siciliano era Fabrizio Salina, certo, ma solo nel famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il nostro Gattopardo di provincia, quasi omonimo, viene dalla Brianza. «Cambiare adesso con Sala si può», promette il motto sui suoi manifesti con lo stemma del Popolo delle libertà. Non conoscete Fabrizio Sala? Appunto. L’importante è che lo conoscano loro: l’amico Paolo Berlusconi, il fratello Silvio con cui il principe si fa fotografare prima delle elezioni, l’onorevole da aiutare nella ricerca di una casa, insomma tutti quelli che da vent’anni militano nel cambiamento perché l’Italia rimanga com’è. Ed eccolo, da assessore provinciale all’Ambiente e alle bonifiche a Monza, riapparire accanto al governatore della Lombardia, Roberto Maroni: sì, oggi il principe dei Gattopardi è assessore regionale all’Expo e all’immagine delle imprese lombarde nel mondo. È riuscito a svignarsela dalla Provincia. Dal 2013 rappresenta l’esposizione mondiale di Milano per conto della Regione. E chissà se, come eredità, Sala, 43 anni, si è portato anche il mucchio di soldi e il conto aperto con il costruttore che a Monza le bonifiche le aggirava facendo taroccare i documenti. Nessun reato contestato all’assessore, per carità. Solo coincidenze. Mettetevi comodi. Perché questo viaggio nel caos dell’intramontabile Provincia attraversa l’Italia. Da Nord a Sud, isole comprese. Un momento, però. Le Province non dovevano sparire? Già: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», è scritto nell’immortale romanzo. Partiamo. Non ci sono soltanto principi. I Gattopardi hanno pure i loro re. Il titolo va a pari merito ai due dipendenti incontrati nella sede della Protezione civile della Provincia di Napoli: la mattina di lunedì 16 febbraio alle 11.25 fanno beatamente la nanna. Uno accasciato sulla scrivania in ufficio, l’altro stravaccato sulla poltroncina accanto. Meno male che un loro collega è sveglio: sta guardando attentamente un cartone animato alla tv. Almeno non la tengono accesa per nulla. E il capo dov’è? Ah, eccolo in cortile a dire che lui riceve «mille e duecento euro al mese e non riesco nemmeno a vivere... Cioè, mi vai a impegnare a me che sono operaio specializzato con un lavoro che non mi dà allegria, non dà gioia...». Forse il cartone animato non lo faceva ridere. La copertina dell'Espresso Dovrebbero tenere puliti e pronti all’uso il grande capannone e i locali dove ospitare i senzatetto e i materiali di soccorso in caso di calamità: il rischio Vesuvio, terremoti, alluvioni. Questa è una base operativa della Protezione civile. La loro divisa blu è linda come il vestito di uno sposo. Mentre capannone e locali fanno letteralmente schifo. Ridotti in quel modo sono inutilizzabili come rifugio per gli sfollati: spanne di guano di piccione, macerie, rifiuti ovunque, vetrate rotte, cavi elettrici strappati. A Vibo Valentia, quattro ore di autostrada più a Sud, per milleduecento euro al mese farebbero festa: qui i Gattopardi si sono mangiati la cassa, la Provincia è in dissesto e gli impiegati non ricevono lo stipendio da cinque mesi. Per questo a pranzo ci si ritrova in un garage, davanti a una ruspa irreparabile perché non ci sono soldi. Cuociono sulla brace salsicce comprate con la colletta. Solidarietà tra colleghi: anche oggi, chi non può permettersi di fare la spesa ha evitato la fame. La famiglia dei Gattopardi di Provincia costa cara. Ma c’è posto per tutti: assessori, consiglieri, dirigenti, funzionari, amici, operai, assenteisti, dormiglioni e poliziotti, cioè agenti della polizia provinciale, la settima forza pubblica, ultima esosa invenzione del federalismo di quartiere. In questa Italia che cambia per rimanere quella di sempre, trovi anche un famoso procacciatore di spogliarelliste: famoso per i gestori di locali di lap-dance e per i compagni di lavoro che hanno visto il custode timbrare il cartellino in una scuola della Provincia, a Vimercate in Brianza, e poi mettersi al telefono (della scuola) a organizzare spettacoli. La più grande riforma del governo dopo il Senato, avevano detto. Sarebbe questione di mesi, secondo l’ottimistico piano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, e della ministra per la Pubblica amministrazione, Marianna Madia. Il 31 marzo le Province devono presentare le liste dei soprannumerari. Li chiamano come i membri dell’Opus Dei, forse il lapsus di qualche alto burocrate devoto: ma è l’elenco del personale in esubero che sarà trasferito, messo in mobilità o collocato a riposo dal 31 dicembre 2016. Sono quasi ventimila persone sui 54.242 dipendenti provinciali assunti in tutta Italia, di cui 51.968 a tempo indeterminato e 1.200 dirigenti. In contemporanea arrivano i tagli alla spesa: 2,9 miliardi già persi dal 2009, via un altro miliardo nel 2015, via due miliardi nel 2016, via tre miliardi nel 2017. A parità di servizi, però, e quindi di costi: strade (piene di voragini), manutenzione e riscaldamento nelle scuole (al minimo), trasporti (ridotti), assistenza ai disabili (quasi inesistente), stipendi (in ritardo). Le Province di Biella e Vibo Valentia hanno dichiarato il dissesto. Molte altre, come Novara, Verbano, Imperia, Ascoli, Chieti, Potenza, Lecce hanno formalizzato la mancata copertura delle spese. Numeri in pareggio solo in apparenza ad Alessandria, La Spezia, Bologna, Teramo, Isernia, Foggia, Messina, Siracusa: in realtà nell’esame di fine 2014 la Corte dei conti ha rilevato che anche quei bilanci sono fuori equilibrio. E per risparmiare su luce e riscaldamento, da Milano a Bergamo si sta discutendo se introdurre la settimana corta nelle scuole provinciali. Un disastro. Avanti di questo passo la «road map», come hanno definito il programma dandogli lo stesso nome del processo di pace in Palestina, rischia di trasformarsi in una drammatica Intifada: la protesta sta per riunire studenti lasciati al freddo, dipendenti disperati, fornitori non pagati sull’orlo del fallimento. E relative famiglie. Presto sapremo se Matteo Renzi passerà alla storia come il premier delle riforme. Oppure il principe del caos. E per dimostrare di essere sulla strada del risparmio, anche la Provincia di Reggio Calabria è stata promossa città metropolitana. Reggio Calabria una metropoli? Certo, se lo vogliono i Gattopardi, Reggio diventa una metropoli: appena 180 mila abitanti il capoluogo, 550 mila la provincia, conti sottozero e debiti fuori bilancio. Già, i debiti fuori bilancio. Ecco un’altra eredità delle Province. Sono costi dovuti a imprevisti: sentenze di condanna, liti nell’acquisizione di beni, disavanzi nelle aziende controllate. Fanno 186 milioni nel 2013, ultimo rilevamento, suddivisi tra 75 enti: 12 euro per abitante in Sicilia, 7 in Liguria, quasi 6 in Abruzzo. Un aumento medio dell’80 per cento rispetto al 2012. Ma in Basilicata raggiunge il 934 per cento, in Campania il 714, in Sicilia il 584, il Liguria il 492. Una massa consistente «che non compare nelle scritture contabili», denuncia la Corte dei conti, «e rende i bilanci non veritieri». Eppure, questo strangolamento a mani nude delle Province alla fine inciderà soltanto sull’1,26 per cento della spesa pubblica nazionale: dieci miliardi da ridurre a meno della metà. Il grosso, 562 miliardi destinati all’amministrazione centrale e 163 miliardi alle Regioni, non verrà toccato. Resteranno compensi e vitalizi da favola a parlamentari, segretari, sottosegretari e deputati regionali. I Gattopardi, certo, ringraziano. Andiamo avanti. Vimercate, incrocio di superstrade e di clan della ’ndrangheta, è sulla via che da Milano porta ad Arcore. È qui che potete incontrare un dipendente della Provincia di Monza con due lavori: di giorno custode dell’istituto scolastico più grande della zona e sempre di giorno procacciatore di spogliarelliste. Come fa? Lui certo non dorme in ufficio. Le ragazze vanno ingaggiate prima che tramonti il sole. La sera devono essere già pronte per lo spettacolo. A volte succede che davanti alla scuola arrivi l’autocisterna con il gasolio per il riscaldamento. E il custode non si trova. Ha timbrato il cartellino, è vero. Ma lui non c’è, confessano i colleghi. Tanto il suo stipendio lo paga la Provincia. Cioè i cittadini. Sicuramente le spogliarelliste sono meno pericolose dei mafiosi cresciuti in Brianza. Lo ha capito Rosario Perri, primo assessore al Personale della Provincia monzese, costituita soltanto nel 2009. E primo a dimettersi nel giro di un anno: l’hanno tirato in ballo nell’operazione «Infinito» alcune confidenze telefoniche tra boss della ’ndrangheta. Lui dice che straparlavano, ma ha dovuto lasciare. Un viaggio di 740 chilometri e in fondo alla valle appare Isernia, Molise, la seconda provincia più piccola d’Italia: 87 mila abitanti, 22 mila il capoluogo e la metà dei comuni compresa tra i 127 e i 796 residenti. Ciascuno con i suoi sindaci, assessori, consiglieri, segretari, municipi, uffici tecnici, anagrafe, vigili, elezioni, ordinanze. Questa è la cronaca di una giornata qualunque in via Giovanni Berta, sei piani di palazzo grigio, sede dell’amministrazione provinciale e quasi due milioni e mezzo di debiti fuori bilancio. Alle 8.28 un impiegato timbra il cartellino. Poi esce a comprare il giornale. Tre colleghi timbrano alle 8.29, salgono in ufficio. Alle 8.40 camminano tutti insieme verso il bar Sayonara. Caffè, chiacchiere. Alle 8.55 uno va via. Alle 9.02 solo i due rimasti ritornano in ufficio. Oggi l’Ordine dei commercialisti ha organizzato un convegno: l’amministrazione degli enti locali, è l’argomento. Per fare numero hanno invitato quattro scolaresche delle superiori. Ma la sala sotto la biblioteca è troppo piccola. Il magazziniere della Provincia porta le sedie avanti e indietro. Gran baccano e discussione tra funzionari e professori fino alle 9.50. Gli studenti vengono mandati via, mattinata persa. Il convegno può cominciare: tre relatori, otto partecipanti, tre sul balcone a fumare. L’ufficio turistico apre alle 9 tutti i mercoledì, dice il cartello. Sono quasi le 11, è mercoledì. Ufficio turistico chiuso. Roma non è lontana. Dal primo gennaio la Provincia ha lasciato il posto alla Città metropolitana di Roma Capitale. L’eredità comunque resta a carico dei cittadini. A cominciare da un bell’impegno di 263 milioni: l’acquisto della nuova sede unificata, la Torre Parnasi, dal nome della famiglia di costruttori e proprietari dell’area. E i soldi? Arriveranno dalla vendita degli uffici storici: i palazzi di prestigio del centro saranno ceduti per trasferire personale, sportelli e servizi in un’area di estrema periferia all’Eur, lontana dalla metropolitana, tra un centro commerciale e la superstrada. Insomma, per il momento la spesa è certa, le entrate ancora no. I romani devono ringraziare il presidente provinciale Enrico Gasbarra, che ha dato il via all’operazione Parnasi. E il suo successore Nicola Zingaretti, attuale presidente della Regione Lazio, che l’ha portata a termine. Sul suo sito, elencando i meriti della scelta, Zingaretti ammette che «l’idea è stata avviata dalla precedente amministrazione» e che solo così ha potuto evitare «una salatissima penale». Scherzi tra Gattopardi e principi del Pd. Torniamo nell’elegante sede presidenziale di palazzo Valentini, sopra le Domus romane a due passi da piazza Venezia. Piani alti. L’usciere seduto in corridoio si occupa di cose private sul computer portatile. Sì, qui mantengono ancora gli uscieri come ai tempi di Alberto Sordi, Totò e i re di Roma. Ultimo sguardo al piano terra, la sala operativa della polizia provinciale. Porta aperta. Gli affreschi bellissimi e la stanza con il tavolo di faggio e il maxi schermo. La chiamano ancora sala Odevaine, dal nome dell’ex comandante Luca Odevaine arrestato a dicembre con il boss fascista Massimo Carminati per l’operazione «Mafia capitale». Su questo stesso piano, al di là della parete divisoria, c’è anche la sala operativa della prefettura. A un chilometro, la sala operativa del ministero dell’Interno. A un chilometro e cento metri, la sala operativa della questura. La più alta concentrazione europea di monitor, video, personale di turno giorno e notte, telecamere piazzate ovunque. È così che pochi giorni fa, su questi stessi schermi, hanno potuto assistere all’arrivo indisturbato dei tifosi olandesi. E alla devastazione di piazza di Spagna. A Napoli la polizia provinciale, 150 dipendenti, ha addirittura una motovedetta. «Ci tengo a ribadire che in Italia siamo forse l’unica polizia provinciale a possedere un parco nautico così importante», dice Alberto Bouchè, dirigente promosso al grado di comandante della polizia navale della Provincia. A guardarla meglio la presunta motovedetta è un piccolo e comodo yacht cabinato, buono per portare i turisti in gita a Capri. Quella di Napoli è anche l’unica polizia provinciale ad avere una parcheggiatrice abusiva davanti al proprio comando. «Noi siamo riconosciuti come una delle forze più cattive sul territorio rispetto ai reati ambientali», assicura la comandante, Lucia Rea, «questo ce lo riconosce il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza». Magari. Basta scegliere l’entroterra di Pompei, meta mondiale del turismo. Superata la strada panoramica, si sale a piedi lungo una mulattiera. Siamo nel parco nazionale del Vesuvio, un gioiello naturale. C’è soltanto questo stretto passaggio. Non sarebbe difficile bloccare l’accesso di auto e furgoni. Invece vengono qui a scaricare rifiuti industriali, fusti tossici, vecchi mobili, amianto, migliaia di barattoli di olio e pelati, scarti di verniciatura, frigoriferi. Strati di plastica colorata si alternano alla roccia lavica fin sotto la splendida pineta che abbraccia il vulcano. All’ombra del sottobosco appaiono da lontano distese di funghi colorati. Da vicino si trasformano in quello che sono: colli di bottiglia che spuntano dal terreno. È il paesaggio di Marcovaldo inventato da Italo Calvino. Eppure ad appena cinque chilometri la polizia provinciale ha il suo comando distrettuale. Nei fine settimana, quando aziende e artigiani si liberano dei rifiuti, l’ufficio ovviamente è chiuso. Due anni fa la tv della Provincia (sì, hanno anche la tv) ha girato proprio qui un documentario su Lucia Rea e i suoi agenti. Esclusi i tubi di eternit e un’auto abbandonata che hanno fatto rimuovere, dal giorno delle riprese tutto il resto non si è mosso. E molto altro si è aggiunto. «Chiediamo a questo punto anche l’intervento delle altre forze, come i carabinieri, come la polizia», dice Andrea Valente, comandante del distretto di Nola. Pure loro alla fine devono chiamare la polizia. Quella vera. E che ne sarà delle migliaia di agenti provinciali sparsi per l’Italia? Il viaggio di Fabrizio Gatti fra i Gattopardi di provincia. Fra sprechi, scandali e degrado. Come a Napoli: dove i dipendenti dormono nell'ufficio della Protezione civile provinciale e la struttura che dovrebbe ospitare i senzatetto in caso di calamità è ridotta a una discarica. Molti nuclei hanno dato ottimi risultati. Quindi resteranno. E forse si occuperanno di Protezione civile. Come gli operatori della base di via Cupa del Principe, periferia di Napoli. Con la trasformazione della Provincia in città metropolitana, i dipendenti della Protezione civile sono già passati al Comune. C’è adesso il dirigente? «No, pare che non è venuto», risponde il caposquadra degli addetti alle pulizie e alla manutenzione. Due dei suoi uomini continuano a dormire in ufficio, il terzo guarda i cartoni animati in tv. Dovrebbero andare a rimuovere la sporcizia, le bottiglie, i rifiuti, gli anni di guano di piccione accumulati sulle scale. E magari anche riparare, dove è possibile, i buchi nel tetto, le finestre sfondate. Napoli è una delle città italiane più a rischio. Una base della Protezione civile non può essere ridotta a questo schifo. Si fa avanti il più alto in grado. Stavo vedendo in quali condizioni tenete la sede... Lui ride: «Infatti è meglio non vederla». Lei è il responsabile? «Il responsabile sta in ferie. E poi il dirigente sta a San Giacomo, la direzione. Qui c’è solo la struttura operativa per Napoli». Dovrebbero fare tutti un pellegrinaggio a Vibo Valentia. I dipendenti pubblici non hanno cassa integrazione. Luca Greco, 52 anni, ufficio concessioni della Provincia di Vibo, Bruno Schipano, 47, ufficio ragioneria, Ornella Zappiato, 50, avvocato dell’ufficio legale, e tutti i loro colleghi non vedono soldi da novembre. Fanno i turni per le pulizie degli uffici. Lavorano al freddo. Oppure si raccolgono nell’aula del consiglio. È l’ora di pranzo. Adesso ci si sposta nel garage dei mezzi. Anche oggi salsicce, pane e formaggio. Un bicchiere di vino. Fuori piove, vengono tutti qui. Non solo per mangiare: in tutta la sede, l’unica fonte di calore è la brace sotto la griglia.

Province, lo spreco resiste. Viaggio fra Gattopardi e privilegi. Alla Protezione Civile di Napoli i dipendenti dormono in ufficio mentre la struttura è una discarica. A Roma e Monza si mantengono palazzi inutili. E gli assessori si riciclano con nuovi incarichi. Anche dopo la soppressione, gli enti continuano a macinare debiti, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Napoli, i due dipendenti della Protezione civile della Provincia dormono in ufficio E le Province? Sono state ridotte soltanto sulla carta. Nella realtà continuano a generare potere, favori e sprechi. L'inchiesta di copertina che lancia il nuovo «Espresso» in edicola e online su Espresso racconta il viaggio da Nord a Sud dell'inviato Fabrizio Gatti attraverso l'Italia dei Gattopardi di Provincia: politici, assessori, consiglieri, dirigenti, funzionari ma anche impiegati e operai che hanno sfruttato e sfruttano gli enti pubblici per i propri privilegi. Tante storie di piccolo e grande degrado. C'è l'assessore all'Ambiente della Provincia di Monza che parla al telefono con un costruttore, poi condannato per alcune finte bonifiche: « Devo darti un mucchio di soldi per quel conto che mi avevi aperto lì», dice il costruttore. «Hai ragione», risponde il politico del Pdl che, riformata la Provincia, ha fatto carriera: oggi Fabrizio Sala è assessore all'Expo per la Regione Lombardia. Ecco la telefonata tra l'attuale assessore all'Expo della Regione Lombardia, Fabrizio Sala, e il costruttore brianzolo Angelo Narducci, condannato a gennaio in primo grado per alcune bonifiche fasulle. La conversazione risale al 2010 quando Sala era assessore all'Ambiente della Provincia di Monza. «Devo darti un mucchio di soldi per quel conto che mi avevi aperto lì», dice il costruttore. «Aaaahhh», risponde l'assessore Sala e ripete sei volte: «Hai ragione». L'attuale assessore all'Expo risponde così alle domande dell'Espresso: «Dal 1997 svolgo l'attività professionale di promotore finanziario. Sono quindi tenuto al rispetto del segreto professionale, bancario e al rispetto della privacy». C'è la casa con lo «sconto amico» al figlio del senatore Paolo Romani , anche lui consigliere provinciale. Ci sono i dipendenti nella base operativa della Protezione civile della Provincia di Napoli filmati mentre dormono in ufficio o guardano la tv : intanto intorno a loro la struttura, che dovrebbe ospitare i senzatetto in caso di calamità, è sommersa dai rifiuti. C'è la polizia provinciale che ha addirittura uno yacht mentre vicino al comando di Pompei nessuno controlla le discariche di rifiuti tossici che hanno invaso il parco nazionale del Vesuvio. Rifiuti, abbandono e sporcizia nel parco del Vesuvio. Mentre la polizia provinciale ha pure uno yacht. Ma ecco anche lo spreco della sala operativa degli agenti provinciali di Roma, dove ancora esiste la «sala Odevaine», dal nome dell'ex comandante arrestato nell'inchiesta «Mafia capitale». E le spese folli per la nuova sede della Provincia romana: 263 milioni che due presidenti Pd hanno lasciato in eredità ai cittadini, mentre l'eliminazione delle Province era già in discussione. O la nuova sede in Brianza: oltre 24 milioni di costo e gran parte dei locali vuoti. L'analisi economica mette a nudo conti sottozero e debiti fuori bilancio. I tagli del governo azzerano i servizi, ma non le furbizie. In Sardegna le quattro Province più piccole d'Italia sono state abolite nel 2012, ma continuano a produrre spese: ora si chiamano «ex Province». A Vibo Valentia, una delle Province che ha dichiarato il dissesto, i dipendenti, senza stipendio da cinque mesi, cuociono sulla brace in garage le salsicce comprate con la colletta: così anche chi non può più permettersi di fare la spesa, ha da mangiare.

Roma, la Città dello sport di Calatrava già costata 200 milioni e che forse non sarà mai terminata. Per completare l’opera avveniristica, che si trova a Tor Vergata, servirebbero altri 426 milioni. Sei volte la stima fatta quando venne ideata, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Chi crede che la Città dello sport di Tor Vergata, nella landa desolata della periferia a Sud Est di Roma, sia un’opera incompiuta fra le tante, sbaglia di grosso. Perché è assolutamente unica. Non per le sue dimensioni: la copertura reticolare a forma di vela che l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti avrà potuto ammirare chissà quante volte dallo spazio è alta 75 metri e per tirarla su c’è voluto tanto ferro quanto nella Tour Eiffel. Per questo gigantesco monumento allo spreco i contribuenti hanno speso finora 201 milioni, Iva esclusa. E per completarla ne servirebbero altri 426. Per un costo totale pari a sei volte la stima fatta quando l’idea, una decina d’anni fa, venne partorita. Numeri che portano realisticamente a escludere che il progetto concepito dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava possa mai vedere la luce, almeno in quella forma. L’unicità di una questa incompiuta, la cui costruzione è paradossalmente cominciata quando già erano stati versati fiumi d’inchiostro sullo scandalo delle opere pubbliche non finite, consiste nel fatto che non si sa nemmeno chi ne sia il padrone. Il terreno sul quale sono stati costruiti gli scheletri delle gradinate degli stadi del nuoto e del basket sono di proprietà dell’Università statale Tor Vergata. Ma ciò non significa che tutto quel meraviglioso cemento e la vela che sormonta le tribune del nuoto (il progetto di Calatrava ne prevede una seconda identica sopra quelle del basket) siano di proprietà dell’Ateneo. I soldi sono statali, certo. Dunque quel mostro è certamente dello Stato. Ma di quale pezzo, nessuno lo sa. E forse non era chiaro nemmeno all’inizio. Già, l’inizio. Vale la pena di ricordare com’è andata. Quando nasce l’idea di realizzare alcuni impianti sportivi sui terreni dell’università di Tor Vergata (600 ettari!) il sindaco di Roma è ancora Walter Veltroni. Si tratta di un’area immensa accerchiata da un’edilizia disordinata e orribile, e priva di collegamenti: anche se a pochissima distanza passano le linee A e C della metropolitana. Per il progetto iniziale viene prevista una spesa di 60 milioni, che subito però raddoppiano. Anche perché nel frattempo Roma si è vista assegnare i mondiali di nuoto del 2009. E siccome salta fuori l’idea di farli nel nuovissimo impianto che si sta costruendo, le operazioni passano nelle mani della Protezione civile di Guido Bertolaso. I mondiali di nuoto non sono forse un Grande evento, e dal 2001 i Grandi eventi non sono sempre stati gestiti da palazzo Chigi con un commissario ad hoc? Ecco allora spuntare anche qui Angelo Balducci, l’ex provveditore delle opere pubbliche protagonista delle inchieste sulla Cricca. Ma sarebbe ancora niente, se l’opera avveniristica progettata da Santiago Calatrava e la cui realizzazione è affidata al gruppo Caltagirone, venisse conclusa per tempo. Peccato però che già quando si comincia a lavorare allo stadio del nuoto è chiaro che difficilmente sarà pronto per i mondiali. E allora? Succede tutto quello che non dovrebbe succedere. A palazzo Chigi c’è Silvio Berlusconi e al Comune di Roma s’è insediato Gianni Alemanno. La figuraccia internazionale incombe: ma anziché cercare di evitarla si pensa di risolvere la faccenda spostando le gare nel vecchio impianto del Foro Italico. Quanto alla città dello sport, tornerà buona per le prossime olimpiadi. Per i giochi olimpici, però, non bastano le piscine. Ci vuole anche uno stadio da 15 mila posti per il basket, la pallavolo, il tennis e gli sport al coperto. Che prontamente viene messo in cantiere. Ci sono soltanto un paio di problemini. Il primo è che ci sono soldi soltanto per uno stadio, quello del nuoto: per due impianti non bastano di certo, ma di questo nessuno si cura. Il secondo è che le Olimpiadi a Roma sono ancora nel mondo dei sogni: e quando arriva il governo di Mario Monti anche il sogno svanisce. Un suicidio in piena regola. Non fosse bastato, nel disperato tentativo di dare un senso a quella storia c’era chi aveva pensato di coinvolgere alcuni privati non meglio identificati. Ma l’idea di una trasformazione “commerciale” è per fortuna abortita subito, tanto era balzana. Andateci adesso, alla città dello sport. Vedrete fino a che punto possa arrivare il dilettantismo e l’irresponsabilità di certi politici. E come si possano buttare allegramente dalla finestra duecento milioni dei cittadini. Ora si sta cercando di salvare il salvabile, ma non è certo facile. Un anno fa, durante una riunione di commissione al Comune di Roma, il nuovo rettore Giuseppe Novelli ha fatto intravedere la possibilità di adattare il progetto con “ampliamento della destinazione alla Scienza”, naturalmente “salvo il benestare dell’architetto Calatrava”. Mentre la delegata per l’Ambiente dell’Ateneo, Antonella Canini, si è spinta a ipotizzare, è riportato nel verbale della commissione la realizzazione di “una serra che diventerebbe la più grande d’Europa e potrebbe ospitare piante, farfalle e altri percorsi dell’evoluzione, spaziando come tematiche dall’informatica alla natura. Potrebbe divenire, con il benestare dell’architetto Calatrava, un enorme polo di interesse turistico”. Nascerà allora una facoltà universitaria nello stadio delle piscine? O quella gigantesca serra? Comprensibile che almeno la vittima di questa assurdità, l’Università di Tor Vergata, si faccia venire qualche idea. Ammesso però che qualcuna di queste ipotesi abbia un senso, ed è tutto da dimostrare, servirebbe sempre una somma compresa fra i 60 e i 150 milioni. Si potrebbero ricavare dai fondi europei, pensa Novelli. Ma per il momento non ci sono, anche se sono molti meno dei 426 necessari al completamento della città dello sport. Una cifra che da sola rappresenta il 24,3 per cento dei soldi (un miliardo 751 milioni) che servirebbero per finire le 683 opere pubbliche incompiute censite dal ministero delle Infrastrutture e dall’Ance: 83 delle quali nel Lazio, la regione in assoluto più funestata dal fenomeno.E non possiamo nemmeno immaginare dove il premer Matteo Renzi troverà tutti quei soldi se davvero, come ha detto, pensa di utilizzare gli impianti per le Olimpiadi del 2024: ma questo ci sembra un film purtroppo già visto. Ogni giorno che passa, nel frattempo, corrono il degrado e i costi che si devono sopportare per questo stato di cose, dalla vigilanza alle manutenzioni. Ed è davvero inaccettabile che nessuno dei responsabili di questa follia ai danni dei contribuenti finora abbia pagato.

Città dello Sport, cronaca degli sperperi. Dieci anni di lavori stop and go, già spesi almeno 240 milioni, ma ne mancano 400 per terminare le opere, scrive Paolo Foschi Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”.

2005: Veltroni annuncia il progetto da 60 milioni. Il progetto della Città dello Sport di Tor Vergata viene annunciato l’8 febbraio del 2005 dalla giunta guidata da Walter Veltroni con una conferenza stampa in Campidoglio. Secondo il piano originario, il costo stimato dell’opera è di 60 milioni di euro a carico del Comune grazie ai fondi di Roma Capitale. La consegna del cantiere ultimata è prevista per la primavera del 2008, un anno e mezzo prima dei Mondiali di Nuoto di Roma del 2009.

2006: affidati i lavori, i costi subito raddoppiano. Il 9 maggio del 2006 in Campidoglio l’architetto Santiago Calatrava illustra il plastico del progetto della Citta dello Sport. E il costo stimato è più che raddoppiato rispetto alle prime stime: si parla infatti di 120 milioni di euro. I lavori sono affidati alla Vianini (gruppo Caltagirone), mentre la gestione dei fondi è affidata alla Protezione civile, all’epoca guidata da Guido Bertolaso, che chiama Angelo Balducci (che sarà poi travolto dagli scandali giudiziari legati agli appalti del G8 alla Maddalena), che a sua volta sarà sostituito da Claudio Rinaldi.

2007: Veltroni promette la fine dei lavori in 24 mesi. Il 21 marzo 2007, con i lavori già avviati da qualche mese per la preparazione dell’area, si svolge la cerimonia di posa della prima pietra della Città dello Sport, alla presenza del sindaco Walter Veltroni, del presidente Coni Gianni Petrucci e del progettista Santiago Calatrava. Il sindaco garantisce che entro 24 mesi i lavori saranno terminati.

2008: i costi lievitano ancora, 240 milioni di euro. Il 2008 è l’anno più tormentato per la storia della Città dello Sport di Calatrava. Il preventivo dei costi balza a 120 milioni, le spese lievitano e i tempi sembrano allungarsi, mentre i Mondiali di Nuoto si avvicinano. Gianni Alemanno, da poco eletto sindaco, a ottobre visita il cantiere, si dice ottimista. A dicembre però dopo una frenetica consultazione con direzione lavori, comitato organizzatore dei Mondiali di Nuoto e vari enti interessati, viene issata la bandiera bianca: la rassegna iridata non potrà svolgersi a Tor Vergata.

2009: fine dei soldi, bloccati i lavori. Sfumati i Mondiali di Nuoto, i lavori vengono bloccati dopo che sono stati spesi quasi 250 milioni di euro. Scoppiano polemiche e si assiste al solito rimpallo di responsabilità, mentre Calatrava continua a difendere la validità del progetto.

2011: i lavori ripartono ma senza date di consegna. Nel 2011, con la candidatura (poi sfumata) di Roma per le Olimpiadi del 2020, viene riaperto il cantiere, ma non viene fissata una data certa per la consegna, anche perché intanto la stima complessiva delle spese per il completamento dell’opera arriva a 660 milioni di euro, cioè esattamente 11 volte il prezzo iniziale annunciato nel 2005.

2012: Alemanno annuncia l’arrivo di fondi privati. Il cantiere ufficialmente è di nuovo aperto, ma i lavori procedono al rallentatore. A novembre però il sindaco Alemanno annuncia che le opere saranno completate con fondi privati. A oggi, promessa non ancora mantenuta.

2014: ipotesi orto botanico al posto di una delle «vele». A gennaio l’università di Tor Vergata propone di cambiare la destinazione d’uso della «vela» incompleta: è cioè coprirla (costo stimato 60 milioni) e realizzare un orto botanico al posto dello stadio del nuoto, lasciando aperta comunque la possibilità di utilizzare lo spazio anche per eventi sportivi e eventi vari.

2014: il Codacons propone la demolizione della grande incompiuta. Nell’ottobre del 2014 il Codacons, associazione di consumatori, con una proposta dal sapore anche provocatorio propone la demolizione delle opere incompiute della Città dello Sport di Tor Vergata, perché la struttura lasciata a metà «danneggia il paesaggio e la collettività».

2015: le ipotesi in ballo per completare l’opera. Il 13 gennaio, nel corso del convegno a Roma intitolato «Opere incompiute, quale futuro?», tenuto proprio a Tor Vergata, si è parlato proprio del caso della Città dello Sport. «Sono convinto - ha detto l’architetto Calatrava - che le Vele saranno terminate, non mi è mai capitato in 30 anni di professione che una mia opera iniziata non sia mai stata conclusa. L’avanzamento dei lavori è attualmente al 70-75%». Mancano circa 400 milioni. Il Campidoglio non ha la possibilità di finanziare il completamento delle opere. L’università di Tor Vergata, proprietaria dei terreni, propone di utilizzare fondi europei, il rettore, Giuseppe Novelli, è perentorio: «La Città dello Sport va completata».

Ritratto della Roma mafiosa che fingiamo di non vedere. Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo è una spietata fotografia della Capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità criminali nella città, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Questo libro è dedicato a chi ha fatto finta di niente e ha preferito voltarsi dall'altra parte. Leggetelo, almeno sfogliate qualche pagina, cercate un nome, controllate se  - per caso -  sotto casa vostra o dentro al ristorante dove di solito andate a mangiare con i vostri amici c'è puzza. Puzza di mafia. Potete mostrare meraviglia, restare a bocca aperta, balbettare qualche scusa, ma d'ora in poi nessuno vi crederà più. Nella migliore delle ipotesi qualcuno vi dirà che siete dei fessi, che avete frequentazioni poco raccomandabili, che pur mostrandovi sempre e ovunque molto politicamente corretti siete stati trascinati in una zona di confine molto scivolosa, "terra di mezzo" la chiama un fascio-boss che tutti conoscono come "Er Cecato". Non ve n'eravate accorti? La mafia c'è davvero anche a Roma? Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo, reporter allenati a inseguire indizi e a metterli sapientemente uno dietro l'altro, è una spietata fotografia della capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità   -  politica di destra e di sinistra, soubrette, calciatori famosi, attori, cantanti, ultras, "padroni" di cooperative rosse e rispettabilissimi professionisti al di sotto di ogni sospetto  -  con un sistema criminale che per troppo tempo è stato protetto dal silenzio. Prima di anticipare cosa concedono i capitoli, riportiamo subito uno dei tanti dettagli inediti contenuti in quest'indagine giornalistica, che comprende sì una ricostruzione giudiziaria, ma che ha la sua origine sul campo, dal mestiere di chi racconta la realtà che ha intorno. Il dettaglio da segnalare riguarda un'elargizione di 5 milioni di euro spalmata in sei anni in favore dell'Immobiliare Ten, amministrata dal 2009 da Riccardo Totti, fratello di Francesco, il capitano della Roma che di quell'immobiliare controlla l'83 per cento. Nulla di illecito, niente di penalmente rilevante  -  e infatti i personaggi di questa vicenda affiorano appena fra le pieghe dell'inchiesta  -  ma molto significativa per capire Roma e i suoi gironi con protagonisti e comparse tutti allacciati fra loro in affettuosa confidenza. È l'affare dei Caat (Centri di assistenza abitativa temporanea), 43 milioni all'anno da spendere e quel Luca Odevaine che è stato vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni prima e a capo della polizia municipale con Zingaretti poi, che "segue" la pratica per l'affitto di 35 appartamenti arredati a Tor Tre Teste intestati all'Immobiliare Ten. Quasi tremila euro al mese per ogni appartamento nell'estrema periferia romana, "una beneficenza al calciatore più ricco di Roma". Il libro di Abbate e di Lillo sulla mafia che sporca la capitale d'Italia, oltre alla mole di informazioni che ci offre e alla chiarezza dell'esposizione, ha un pregio particolare: parla di un crimine "attuale". È cronaca in diretta, accade tutto sotto il nostro naso. Merito anche dei magistrati che quest'inchiesta hanno sviluppato (da Pignatone a Prestipino, da Ielo a Tescaroli a Cascini) insieme ai carabinieri del Ros, un'inchiesta che può considerarsi a pieno titolo "apripista". Questo libro, ecco il valore, guarda dentro un "laboratorio" criminale. Si comincia dal racconto di come è nata una copertina dell'Espresso e si arriva "al Comune agli ordini di Massimo Carminati", si passa dall'esercito degli "impresentabili" dell'ex sindaco Alemanno e dalla "santa alleanza" fra i rossi e i neri. All'ultima pagina manca il respiro. Però, d'ora in poi, sarà più difficile dire: io non ne sapevo nulla.

Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?

E poi c'è Pompei. La maledizione di Pompei: sequestrati 6 milioni all'ex commissario. Da Legambiente alla corte di Berlusconi: la parabola del manager sedotto dal potere, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Quella di Marcello Fiori è la paradigmatica storia italiana del promettente manager di Stato corrotto dalla politica, un destino di mala pianta pubblica maledettamente simile a Luca Odevaine, quello che "ancora adesso non riesco a crederci" disse Veltroni. Fiori e Odevaine hanno infatti la stessa bella origine da Legambiente. E fu capo di gabinetto di Veltroni l'Odevaine; e capo di gabinetto di Rutelli il Marcello Fiori. L'uno è finito in mafia capitale. L'altro è un rovinatore di rovine, con un solo grande rimpianto, a Pompei avrebbe voluto spendere di più: "È uno scandalo che l'insieme dei siti archeologi italiani incassi appena il dieci per cento di quanto da solo incassa da solo il Louvre". Mannaggia! Di sé dice, ed è vero: "Sono figlio di un muratore e di una mondina". Ma è invece raccontato come la macchietta degli sprechi questo fondatore dei crepuscolari club "Forza Silvio". Infatti la Finanza gli vorrebbe sequestrare la casa (intestata al figlio), oltre ai conti correnti e la macchina perché secondo la Corte dei conti deve risarcire almeno 6 milioni di euro alla martoriata Pompei. Ma Fiori, per la verità, fa una vita modesta, non gli si conoscono lussi privati, né aragoste né club massaggi, ha sposato una segretaria e ha un figlio di 17 anni. E del suo maestro Bertolaso ha preso l'idea che solo i proconsoli risolvono le emergenze nazionali e che i codici vanno azzerati perché "in Italia a volte ci vuole un'intelligenza militare" ripete. Ma di Bertolaso non ha la comicità di tutti quei giubbotti, scarponcini, cappellini da baseball, caschetti di plastica dura, insomma la muta dell'operaio di Junger, la divisa del milite della fatica. E dunque Fiori ha sicuramente sperperato i soldi ma per cementificare il teatro di Pompei dove poi si esibì un virtuosissimo Riccardo Muti con la quinta sinfonia. E spese addirittura dieci milioni per gli impianti telefonici, centomila euro per spostare 19 pali della luce, 90mila per accogliere Berlusconi che neppure venne, centomila per cacciare 55 cani randagi "perché erano rabbiosi". E diecimila per autocelebrarsi con un libro a tiratura limitata: 50 copie. E ora "rifarei tutto" dice. La spavalderia è come si vede, quella del "pulisco Napoli in dienizzati ci giorni", del "fatemi intervenire prima che ci scappi il morto", e ancora "a Pompei sto facendo miracoli". La stessa sbruffoneria appunto di Bertolaso che è "il modello della mia vita, il più grande e straordinario manager che l'Italia abbia mai avuto nella gestione della cosa pubblica, il servitore dello stato che ha unito efficienza, velocità e umanità". E invece l'Italia ricorda Bertolaso come l'imperatore di tutti gli appalti sporchi, lo sciacallo della protezione incivile che imponeva costi maggiorati e senza controllo e si affidava a imprese che lucravano in nome della fretta e della furia. Un passo dietro lui, il mite e discreto Fiori ad ogni uscita si esibiva un po' di più sulle macerie dell'Aquila mentre organizzavano il G8. Finché come Bertolaso si mise a parlare da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso: "Non ho paura dei tribunali. Venissero loro a lavorare". Il diavolo piegava la testa e seguiva il suo comandante. Era un profilo, una sagoma, un esecutore d'ombra che diventava a poco a poco un altro uomo, un altro Bertolaso. Per 12 anni Fiori è rimasto alla Protezione civile dei Grandi Eventi e dei disastri, delle risate degli speculatori e dello strazio delle vittime, degli show sulla morte orga- per Berlusconi. Finché un giorno Giovanni Minoli a Radio 24 gli chiese: qual è il difetto di Berlusconi? "È troppo buono" rispose lasciando allibiti quelli che lo avevano conosciuto da ragazzo. Io stesso lo ricordo giovane cronista a Montecitorio, preciso e stimato collaboratore della Dire, l'agenzia fondata da Antonio Tatò, il segretario di Berlinguer. Veniva da Legambiente appunto, nemico di quelle discariche di cui sarebbe diventato il Signore. Riccioluto, occhi chiari, belloccio, il suo intercalare in escalation romanesca era ed è ancora: "ciccio, ti dico che se fa così. Fidate!" Il mondo era quello di Mattioli e Scalia, Chicco Testa, Ermete Realacci, Enzo Tiezzi, Giovanna Melandri con Odevaine al seguito, Michele Anzaldi, Renata Ingrao. Qualcuno dice che aiutò Valerio Calzolaio a scrivere la legge sull'inquinamento acustico, di sicuro Renato Strada gli passava i documenti della commissione Ambiente. Fiori si occupava di consumatori. Ed era amico di Della Seta e di Francesco Ferrante. Dunque nessuno si meravigliò quando il sindaco Rutelli gli chiese di aiutarlo nel restituire il "decoro urbano" a Roma. Tutti lo ricordano "informatissimo, sempre attivo, l'uomo dei dati, delle carte, delle leggi, della soluzione geniale ai problemi disperati". Sul decoro urbano disse subito: "C'è un rapporto tra la bruttezza e il malaffare e l'indecenza estetica è la forza d'urto di interessi organizzati ". Poi si mise al lavoro e sfornò uno studio articolato di bonifica, quartiere per quartiere, piazza per piazza: insegne, bancarelle, marciapiedi. Quando fu eletto Sergio Mattarella, Rutelli, non solo per vanità, elencò i suoi ragazzi:, Renzi, Gentiloni, Giachetti, Franceschini, Filippo Sensi, Linda Lanzillotta... E poi: "Sono affezionato a Marcello Fiori che guida i club di Forza Italia". Adesso infatti Fiori vuole rifondare il berlusconismo "nel nome di Einaudi, Benedetto Croce, John Stuart Mill, ma anche Borges, Vittorini, Calvino e Leopardi". E ha lasciato il ruolo di dirigente dello Stato per intrupparsi con gli irriducibili di Salò, come un Toti qualsiasi. Dunque Fiori è lo Smeagol del Signore degli Anelli, un hobitt che, inserito nello Stato, anno dopo anno si è lasciato guastare dall'anello della Forza. E come nell'Epica di Tolkien, gli si annerivano i denti mentre contava i miliardi del Giubileo accanto a Roberto Giachetti che,  -  come nel caso di Odevaine,  -  "ancora non riesco a crederci". Poi mentre seguiva Bertolaso tra i disgraziati dell'Aquila gli esplosero i ponfi e le pustole del potere. E ovviamente, prima di mostrificarsi definitivamente nel Gollom, passò per Sandro Bondi che lo spedì Commissario a Pompei, ma soprattutto divenne, anche lui, un cocco di Gianni Letta, come Bertolaso appunto, e come Scelli e Bisignani. Letta è anche il referente politico della cricca, di Angelo Balducci ma è soprattutto il capo, anzi l'amico composto di quella brutta Italia che, come nel caso di Fiori, ogni tanto ancora viene fuori da quel Vaticano dei corridoi che è il mondo dei funzionari, dei dirigenti, dei soprintendenti e dei Commissari Supereroi con pieni poteri. C'è ancora in Italia un bertolasismo diffuso che pervade tutto, come un blob che attraversa le fessure e si impossessa dei grandi eventi, delle feste nazionali, delle ristrutturazioni, delle ricostruzioni, dei rifacimenti, degli ammodernamenti, da Pompei sino all'Expo. Abbiamo un commissario persino all'anticorruzione. Dunque quella di Fiori non è solo la storia drammatica di una grande speranza del management pubblico rovinata dalla politica. È anche il sintomo di una brutta infezione della democrazia italiana.

E poi c'è l'Eterna Incompiuta. A3: morte per l’operaio, milioni per il manager, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se leggete il sito “Viaggiare informati”, i dati che riguardano la Salerno-Reggio Calabria sembrano un bollettino di guerra e se trovate i punti esclamativi (quattro), insieme all’indeterminatezza della scadenza, dovrebbero mettervi sull’allarme. Per chi viaggia sulla Salerno-Reggio Calabria non c’è bisogno di punti esclamativi: uno sta già in allarme di suo. Guidare un Hammer, uno dei veicoli americani usati negli scenari di guerra, capaci di resistere anche a un Ied, Improvised explosive device, che so un’autobomba o un ordigno collocato in una buca sul terreno, piuttosto che la vostra automobile vi sarebbe di conforto, vi darebbe un po’ di sicurezza. Quella coi quattro punti esclamativi è la disposizione dopo l’incidente – il quarto mortale negli ultimi due anni – sul viadotto Italia, 1160 metri di lunghezza, 225 di altezza, con 19 campate, il più alto della Penisola e il secondo in Europa. La campata stradale ha ceduto di schianto. Nel crollo è morto un operaio, un venticinquenne, Adrian Miholca, rumeno. Miholca era alle prese con la demolizione della quinta campata del viadotto, direzione Reggio Calabria, quando c’è stato il crollo che ha fatto sprofondare la fetta di asfalto su cui stava spostandosi il trattorino guidato dall’operaio. Ottanta metri di volo. Adesso hanno chiuso tutto, anche perché precipitando la campata è andata a sbattere su un altro pilone rendendo instabile tutta la struttura. I lavori sul viadotto sono stati appaltati nel 2005. Poi, tra contenziosi vari, il cantiere è stato aperto un paio d’anni fa. Il progetto prevede la messa in sicurezza del collegamento, con una parziale demolizione «dell’impalcato del vecchio viadotto», per stare alle parole ufficiali dell’Anas. Cioè, su una carreggiata si viaggia in doppia corsia e sull’altra si facevano quelle che l’Anas ha definito «prove di demolizione». Poteva essere una tragedia. Che la giungla di appalti e subappalti, costringendo a lavorare anche dodici ore al giorno in condizioni di precarietà di contratti a termine, sia la causa principale della mancanza di sicurezza appare talmente scontato da ritenere irritanti le parole del sottosegretario alla presidenza Delrio: «Fatto indegno di un Paese civile». Già, lo si scopre solo quando muore qualcuno. Una lunghezza di 443 chilometri. Nel 1962, l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani prevedeva la pratica risolta in due anni e invece n’è venuto fuori un cantiere lungo più di cinquant’anni. Solo le profezie sono rimaste incessanti. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro Nerio Nesi (governo Prodi). «Finiremo nel 2004- 2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché nel settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Nel 2011 Giulio Tremonti, ministro all’Economia in carica, fece un blitz a sorpresa sulla Salerno-Reggio Calabria e scoprì che tanti cantieri erano aperti, ma senza uomini al lavoro. Se sulla A3 «ci sono molti cantieri, vuol dire che qualcosa è in atto però serve l’autostrada». Qualcuno chiese: bisogna finire questi cantieri? «Infatti. Prima è meglio è», rispose Tremonti. Entro il 2013? «Vediamo, vediamo». Sì, ciao. Tutto era iniziato con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione che quella strada rappresentava dopo un secolo «il compimento dell’Unità d’Italia». Craxi, nel 1987, allora premier, assicurò: la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata sistemata con mille miliardi di lire, ovvero 983 milioni di euro di oggi. Cinque anni più tardi i miliardi erano diventati già cinquemila. Altri cinque anni e il preventivo salì a seimila. E ancora: su a 6,9 miliardi di euro nel 2004, a nove nel 2008, a nove miliardi e 698 milioni nel 2010. In un articolo del 2007, sul Corriere della Sera Sergio Rizzo scrive che ogni chilometro dell’A3 è costato 20,3 milioni di euro. Una cosa senza possibilità di paragone nel mondo. L’Europa a un certo punto s’è stufata. Nel 2012, dopo le ripetute testimonianze riguardanti pizzo e mazzette accertate nei tribunali, l’Unione europea ha ingiunto all’Italia di dirottare su altri progetti i 388 milioni di euro di fondi europei destinati al tratto autostradale. Certo, la Salerno-Reggio Calabria non è solo una storia di mazzette, pizzo, sprechi, errori, morti. D’altronde, la pessima condizione dei viadotti e delle strade è dappertutto in Italia. In Sicilia, l’ultimo viadotto a crollare, lo Scorciavacche sulla statale 121 tra Palermo e Agrigento, ha battuto tutti i record restando transitabile appena una settimana: inaugurato alla vigilia di Natale del 2014 è stato chiuso alla fine dell’anno. All’inizio di luglio 2014 collassò il viadotto Petrulla sulla statale 123 tra Licata a Ravanusa. Subito dopo si accorsero che il vicino ponte Ficili era a rischio e lo chiusero. Nella stessa estate fu sprangato il ponte Gurrieri a Modica e quello della Balata Baida sulla statale 187 a Castellammare in provincia di Trapani. Poco più di un anno prima, febbraio 2013, s’era ammosciato il Verdura sulla statale 115 tra Trapani e Siracusa e il 28 maggio 2009 nella provincia di Caltanissetta venne giù un pezzo del ponte Geremia II. Succede anche al Nord: il caso più grave, con un autista di camion morto, risale a una decina d’anni fa sulla statale 42 in provincia di Brescia dove si spezzò il viadotto Capodiponte. L’incidente più clamoroso è però quello del ponte sul Po tra San Rocco al Porto e Piacenza. Lì la mattina del 29 aprile 2009 sprofondò nel fiume un’intera arcata trasformando la strada in una botola. Nello stesso anno si verificarono due crolli sulla Teramo-Mare mentre il 2 marzo 2011 le impalcature del ponte sulla statale 407 Basentana a Calciano in provincia di Matera si abbassarono all’improvviso di 2 metri. Nello stesso periodo sempre in Basilicata chiusero il ponte di Baragiano. Otto giorni dopo in Puglia crollò una parte del ponte tra Vieste e Peschici sulla statale 89. L’11 maggio di due anni fa toccò a un ponte Anas in Abruzzo sulla linea ferroviaria tra Terni e Rieti all’altezza di Scoppito. Però, come dire, la Salerno-Reggio Calabria è ormai una metafora del paese. Quando i lavori dell’Autostrada del Sole ebbero inizio, nel 1956, il boom economico era dietro l’angolo e quello era inizio di un sogno. Doveva unire Nord e Sud, velocizzare i trasporti, dunque il mercato, e la mobilità degli uomini. Doveva rappresentare una prova concreta di quello che era, almeno a quei tempi, lo spirito italiano. Il terminale dell’infrastruttura doveva essere la Calabria, fino allora considerata la terza isola, proprio per la scarsità di collegamenti con il resto del Paese. Però, invece di raggiungere l’estremo sud, si fermò a Napoli. È così che nasce la Salerno-Reggio Calabria, declassificata nel piano dell’Iri tra le cosiddette autostrade aperte, quelle cioè che non potevano essere soggette a un pedaggio per le particolari condizioni di sottosviluppo dei territori attraversati, e la si affida all’Anas. Così, il sistema autostradale del centro nord, gestito da Società Autostrade per conto dell’Iri, cresce fino a far raggiungere all’Italia il primo posto in Europa quanto a dotazione autostradale, mentre al Sud inizia il calvario. La scelta di abbandonare l’iniziale progetto sulla litoranea tirrenica e di addentrarsi nel cuore della montagna calabrese, sulle pendici del massiccio della Sila, orograficamente molto complessa, per acconsentire il passaggio a Cosenza voluto da Mancini e Misasi – allungando il suo percorso di 40 km, entrando per 22 km in galleria e dispiegandosi per 45 km su viadotti -, fu determinante: opere di ingegneria colossale, viadotti su viadotti, il trenta per cento del percorso dentro gallerie. Quasi trent’anni dopo il termine del percorso, nel 2001, il Piano generale dei trasporti e della logistica pronuncia una sentenza inequivocabile: «L’A3, la Salerno-Reggio Calabria non ha caratteristiche autostradali, anche se è classificata come tale». Non ci sono gli standard minimi richiesti per un’autostrada. Dal 1997 in avanti l’A3 diventa un enorme cantiere senza soluzione di continuità che attraversa tutto il tracciato dell’Autostrada, montagne comprese. Le condizioni  difficili permangono. L’autostrada più difficile da costruire adesso è ovviamente la più difficile da ammodernare. Di fatto, ha raggiunto l’obiettivo opposto per il quale era stata pensata, voluta, progettata, costruita: separare il Nord dal Sud, isolando logisticamente il Meridione. La Calabria rimane la terza isola d’Italia. Dopo l’incidente mortale al rumeno Adrian Miholca sul viadotto Italia, il presidente dell’Anas Pietro Ciucci ha pensato di mandare un telegramma di condoglianze. Pochi giorni prima, è stata presentata un’interpellanza urgente alla Camera per chiarire la questione dei compensi percepiti da Ciucci. Succede che nel 2013 l’attuale presidente e amministratore dell’Anas Pietro Ciucci decida di non fare più il direttore generale. Forse un uomo e tre cariche erano davvero troppe. Così, si autolicenzia, cioè il Ciucci presidente e il Ciucci amministratore delegato licenziano il Ciucci direttore generale. Risoluzione consensuale. Succede pure però che lo stesso Ciucci direttore generale avanzi al Ciucci presidente e al Ciucci amministratore delegato riconoscimento “dell’indennità di risoluzione senza preavviso”. Questa vale circa ottocentomila euro, e quella, la risoluzione consensuale, vale circa un milione.  Totale un milione e ottocentomila euro. Una somma che non potrebbe sommarsi, dato che delle due l’una, o è consensuale o è senza preavviso. Ovviamente, aspettiamo tutti di sapere quanto varrà la buonuscita del Ciucci presidente e anche quella del Ciucci amministratore delegato. Ora, certo, l’A3 è stata una gruviera, la ‘ndrangheta ci ha bagnato il pizzo per decenni e le cosche hanno fatto affari di lusso, la follia della scelta del percorso più complesso è stata il male dell’origine e strologate dei politici succedutesi e le porcate di appalti e subappalti hanno fatto il resto. Però, ecco, almeno i soldi del telegramma di condoglianze sentite se li poteva risparmiare Ciucci.

QUOTE LATTE E DEFERIMENTO DI STATO.

Quote latte, Italia deferita a Corte Ue. Multe non pagate per 1,3 miliardi. «Ora Salvini chieda scusa», dice il ministro Martina. La questione riguarda il superamento delle quote da parte di alcuni produttori italiani tra il 1995 e il 2009, scrive “Il Corriere della Sera”. La Commissione europea ha annunciato la decisione di deferire l’Italia alla Corte di giustizia Ue per il mancato recupero dei prelievi dovuti dai produttori italiani per la sovrapproduzione di latte. Secondo una nota della Commissione di Bruxelles, l’Italia deve recuperare ancora sanzioni per 1,343 miliardi di euro. La questione riguarda il superamento delle quote da parte di alcuni produttori italiani tra il 1995 e il 2009, che ha dato origine a una serie di multe e poi a una procedura d’infrazione contro Roma. Bruxelles aveva già inviato una lettera di messa in mora sulla vicenda del recupero dei prelievi nel giugno del 2013, poi un parere motivato nel luglio dello scorso anno. Ora il terzo passo, quello del deferimento ai giudici Ue, visto che per la Commissione l’Italia non ha mostrato «alcun progresso significativo nel recupero». Secondo i dati della Commissione, su un importo complessivo di multe per 2,305 miliardi, circa 1,752 non sono stati ancore recuperati dalle autorità italiane. Ma «parte di questo importo sembra considerato perso o rientra in un piano a tappe di 14 anni», dunque la somma finale è pari a 1,343 miliardi di euro. Ma secondo la stima della Corte dei conti non tutti i soldi potranno essere incassati: ce ne sono 832 esigibili, sui quali il governo sta lavorando per la riscossione, mentre 507 milioni sono al momento non esigibili a causa dei processi in corso. Il sistema delle quote è stato istituito nel 1984 per evitare distorsioni del mercato dovute alla cronica sovrapproduzione di latte, ed è basato su quote di produzione nazionale. Quando uno stato membro eccede la propria quota, i produttori responsabili devono pagare una multa. Secondo la Commissione europea a rimetterci sono anche i contribuenti italiani, perché le somme da recuperare vanno iscritte nel bilancio italiano. «La notizia di oggi conferma che tutti quelli che hanno spiegato agli allevatori che non si doveva pagare le multe e che qualcuno sarebbe arrivato al posto loro, hanno fatto un grosso danno al Paese. Salvini si dovrebbe mettere una felpa con scritto "scusa"», commenta il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, annunciando che da marzo partiranno le cartelle per quei mille che non hanno pagato. Piccata la risposta della Lega, con i senatori Stefano Candiani e Paolo Arrigoni: «Invece di impartire lezioni, il ministro Martina si faccia un esame di coscienza e pensi alla realtà, visto che l’Imu agricola, vera e propria patrimoniale, preleverà 270 milioni di euro in tasse dal comparto agricolo». «La vicenda assume i contorni della beffa. Una coda pesante che chiama a responsabilità gli urlatori leghisti», incalza il presidente della commissione Agricoltura Luca Sani, deputato Pd. «Un nuovo e grave colpo al primario e alla morale del nostro paese», sottolinea il presidente di Confeuro, Rocco Tiso. «Paghi chi deve a questo punto, tutto e subito», chiede Confagri a cui fa eco la Cia, secondo cui «gli agricoltori e i cittadini onesti non devono pagare il conto pregresso dei `furbetti´, e il Governo deve trovare soluzioni per l’anno 2014». Per la Coldiretti si tratta infatti di una «pesante eredità delle troppe incertezze e disattenzioni del passato», mentre c’è ancora «il rischio di nuove multe quest’anno».

Quote latte, l’Italia dovrà risponderne alla Corte di Giustizia europea, per decisione della Commissione Europea, e rischia quindi un’altra pesante multa in materia, scrive “Blitz Quotidiano”. “Per colpa della Lega”, dice il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina. Giovedì la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia per il mancato recupero di 1,75 miliardi di prelievi dai produttori per l’eccesso di produzione rispetto alle quote latte tra il 1995 ed il 2009. Gli allevatori dei Paesi europei possono produrre e vendere latte entro certe quote, per l’eccedenza è previsto un prelievo finanziario: questa regola vale fino all’1 aprile 2015. Ma per anni la Lega ha fatto una campagna perchè gli allevatori non pagassero. E infatti molti non hanno pagato e ora l’Italia rischia di pagare 1,7 miliardi di multa, oltre ai 4,5 già pagati. Una nota della Commissione europea dice: Ogni anno, dal 1995 al 2009, l’Italia ha superato la quota nazionale e lo Stato italiano ha versato alla Commissione gli importi del prelievo supplementare dovuti per il periodo in questione (2,305 miliardi di euro). Tuttavia – prosegue la nota – nonostante le ripetute richieste della Commissione, risulta evidente che le autorità italiane non hanno preso le misure opportune per recuperare il prelievo dovuto dai singoli produttori e caseifici. Ciò compromette il regime delle quote e crea distorsioni della concorrenza nei confronti dei produttori che hanno rispettato le quote e di quelli che hanno preso provvedimenti per pagare gli importi individuali del prelievo supplementare. Come sottolineato dalla Corte dei conti italiana, questa situazione è iniqua anche nei confronti dei contribuenti italiani. La Commissione Ue stima che, sull’importo complessivo di 2,305 miliardi di euro, circa 1,752 miliardi non siano ancora stati recuperati. Parte di questo importo sembra considerato perso o rientra in un piano a tappe di 14 anni, ma la Commissione stima che siano tuttora dovute sanzioni per un importo pari a 1,343 miliardi di euro. Nell’ambito delle procedure di infrazione dell’UE, il deferimento alla Corte di giustizia costituisce la terza e ultima fase della procedura. La Commissione ha inviato all’Italia una lettera di costituzione in mora su questo caso nel giugno 2013 e un parere motivato nel luglio 2014. Dato che l’Italia non ha mostrato alcun progresso significativo nel recupero, il caso è ora deferito. Come dire, fino a oggi non vi siete mossi: ora pagate. Il ministro Martina, nel governo da un anno, punta il dito contro la Legge a Giuliano Balestreri di Repubblica dice: “Salvini dovrebbe mettersi una bella felpa con scritto ‘scusate’. Scusate a tutti gli italiani per le prese in giro della Lega Nord: hanno pontificato per anni e questo è il risultato. Un settore in sofferenze dove i furbi spalleggiati dalla Lega hanno messo i difficoltà gli onesti. Ci risiamo, ci tocca gestire questa nuova grana, mentre il segretario della Lega pontifica sull’agricoltura che lui, a differenza di altri proteggerebbe. Farebbe meglio a chiedere scusa, e in fretta”. “Loro sulla storia delle quote latte hanno sempre speculato, hanno costruito anni di campagne elettorale sulle bugie che sono già costate agli italiani 4,5 miliardi di euro, 75 euro per ogni cittadino. E ora rischiamo di pagare ancora solo perché nessuno, prima di noi ha voluto gestire e risolvere il problema preferendo marciarci sopra. Dovrebbero chiedere scusa perché questa è la tassa padana, la tasse leghista”.

Quote latte, costo infinito: punita la «grazia» agli allevatori multati. Deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori, che avrebbero sforato le quote latte imposte dall’Europa, multe per 1,3 miliardi, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Non serviva certo la palla di vetro per sapere come andava a finire. Era scontato il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori che avrebbero sforato le quote della produzione di latte imposte dall’Europa multe per 1,3 miliardi già pagate dallo Stato. La melina era andata avanti per anni, confidando che la patata bollente sarebbe toccata al prossimo governo, o al successivo ancora. Nonostante richiami sempre più severi: due lettere di messa in mora avevano preceduto il deferimento annunciato ieri da Bruxelles dopo aver riscontrato la mancanza di «alcun progresso significativo nel recupero». La ragione, fin troppo facile da comprendere: pretendere quelle multe era impopolare. Tanto più pretenderle da coloro ritenuti i più fedeli fra i propri elettori. Fedeli al punto che il leader dei Cobas del latte Giovanni Robusti, inguaiato pure con i giudici ordinari e contabili, era stato senatore della Lega Nord nel 1994 ed europarlamentare nel 2008. E se il Carroccio si metteva di traverso, non è che gli altri partiti si stracciassero le vesti perché non si chiedevano i soldi agli allevatori. Poco importa se l’inerzia dettata dal tornaconto politico caricava sulla collettività un peso finanziario immane e il rischio di una sanzione europea salatissima. Pagheranno i contribuenti, come sempre. Anche perché per questo genere di faccende, a differenza di quanto spesso accade qui, la prescrizione non opera. Solo che questa volta il destino ha giocato uno scherzo beffardo, facendo scattare il deferimento quando è in carica un governo che quelle multe si è mostrato deciso a farle pagare. Il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, secondo cui il segretario leghista Matteo Salvini ora dovrebbe mettersi una felpa con su scritto «scusa», dice che in questi giorni sono partite le cartelle indirizzate a 1.300 allevatori che dovrebbero all’erario 832 milioni. Altri 507 milioni sono invece incagliati nella solita giungla di ricorsi: e lì allarga le braccia. Ma temiamo che non basti per impietosire Bruxelles. Meglio prepararsi al peggio.

ANTROPOLOGIA CRIMINALE ED I PREGIUDIZI DELLA SINISTRA.

I pregiudizi che si alimentano a sinistra.

Cosa sono i radical chic? Si chiede Luca Sofri su “Il Post”. In teoria non "sono": abbiamo trasformato noi un'espressione inventata da Tom Wolfe nel 1970 e che ormai è usata lontanissimo dal suo senso. Nella rituale e un po’ ammuffita terminologia del dibattito pubblico italiano prospera da decenni con minore o maggiore frequenza l’espressione “radical chic”, usata prevalentemente in modo offensivo e dispregiativo, per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune anacronistico attribuirebbe ai militanti di sinistra. Proprio perché il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni aggressive, la coerenza del suo uso non è di solito rilevante: è diventato un insulto come un altro. Ma la sua storia è interessante, così come quella della nebbia semantica in cui è poi finito ora che viene usato spesso a caso e per mille cose diverse tra loro. Il termine “Radical chic” è formato dalla parola inglese “radical” – che vuol dire “radicale” nel senso dell’intensità dell’attivismo e degli obiettivi politici – e da quella francese “chic”, “raffinato”. Nella definizione del dizionario Treccani è sia un aggettivo che un sostantivo, e indica: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». L’Oxford Dictionary precisa (in inglese “radical chic” è un concetto, non una persona): si tratta «dell’ostentazione», molto alla moda, di idee e visioni «radicali e di sinistra». Radicale, per moda. Wikipedia esplicita un terzo elemento: al concetto di “radical chic” è associata anche la ricchezza. Il “radical chic” appartiene «alla ricca borghesia» o proviene «dalla classe media» e «per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (come il comunismo) o comunque opposte al suo vero ceto di appartenenza». Spiegazione che si può sbrigativamente riassumere nella frase “fai il comunista con il maglione di cachemire” (sinistra in cachemire è una delle diverse varianti usate per concetti simili, come gauche-caviar o champagne socialist). La versione inglese di Wikipedia dice che il “radical chic” è un esponente della società, dell’alta società e della mondanità impegnato a dare di sé un’immagine basata su due pratiche: da una parte quella di definire sé stesso attraverso la fedeltà e l’impegno ad una causa, dall’altra a esibire questa fedeltà perché quella stessa causa è alla moda e qualcosa di cui si preoccupa (anche tra i ricchi). Per il termine “Champagne socialist” Wikipedia spiega una cosa uguale e simmetrica: non un ricco che si atteggia artificiosamente a persona di sinistra, ma uno di sinistra che è ricco e ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri. Nell’uso comune, in italiano, “radical chic” è usato per definire entrambi i casi. L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort. Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo. L’espressione fu ripresa sul Corriere della Sera il 21 marzo del 1972 da Indro Montanelli in un famoso articolo intitolato “Lettera a Camilla” e rivolto a Camilla Cederna, la giornalista italiana che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato innocente dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969. Montanelli descrisse Cederna così. «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza [...]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga». Montanelli, con la sua sgradevole descrizione contribuì già allora in realtà a far scivolare il concetto originario di “radical chic” verso la confusione condivisa che sta oggi intorno a questa espressione. Che rapidamente fu fatta propria da chi a destra voleva accusare qualcuno di sinistra di scarsa coerenza e successivamente adottata nelle polemiche interne alla sinistra quando il mondo cominciò a cambiare e gli elettori di sinistra smisero di essere prevalentemente “proletariato” in senso stretto. Negli ultimi anni, con lo sviluppo di maggiori contraddizioni nella sinistra italiana di fronte a grossi cambiamenti, ma anche legata a tradizioni radicate, l’accusa è tornata a essere usata molto proprio a sinistra come contraltare di tutti i richiami alla “vicinanza al territorio”, “ai problemi della gente”, stimolata dai fallimenti delle dirigenze politiche della sinistra in questo periodo. E un generale antintellettualismo in grande crescita è stato un altro fattore che ha alleato nell’uso del termine sia leader della sinistra radicale che politici e stampa di destra, per attaccare da parti opposte gli esponenti della sinistra più riformista. Così oggi “radicalscìc” è diventato un insulto di uso comunissimo e destinato a persone dai redditi più vari e dalle posizioni più articolate. Con la contraddizione che oggi i principali destinatari dell’epiteto sono persone che hanno posizioni niente affatto radicali, anzi sono gli oppositori della sinistra radicale: l’uso più convincente del termine negli anni passati è stato quello destinato a Fausto Bertinotti, un uomo in effetti elegante e di modi garbati, coi pullover di cachemire e posizioni di estrema sinistra; mentre quando lo si dice per esempio a persone come Matteo Renzi, per niente radical e nemmeno straordinariamente chic, il senso è definitivamente stravolto.

E una carrellata di alcune espressioni di Radical-chic li troviamo nella  puntata del 26 febbraio 2015-02-27 di Virus condotto da Nicola Porro. Dal minuto 51:

“Ma vi rendete conto che siete impresentabili?” Lucia Annunziata 17 marzo 2013 intervistando Angelino Alfano;

“Se Berlusconi vince vivremo nell’Italia dell’abuso. Un giorno ho definito Forza Italia il partito di quelli che vogliono parcheggiare in seconda fila.” Romano Prodi 7 aprile 2006;

“Berlusconi ottiene ancora 10 milioni di voti . E di chi sono questi voti? O di gente che aspetta ancora di vedere volare gli asino, cioè gonzi. O che si aspetta di ottenere qualcosa da chi può offrirgli molto, cioè i furbi”. Eugenio Scalfari maggio 2013;

“Che senso ha parlare a questi elettori di offshore? Che senso ha parlare a questi elettori quando ignorano anche il titolo di molti giornali italiani e non sanno di che tendenza siano. E salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purche’ ci sia un sedere in copertina”. Umberto Eco 2001;

“La maggior parte dei votanti del PDL sono persone con scarso livello di istruzione. Persone con titolo di studio medio o medio-basso. Persone disinteressate o disinformate, che attingono le loro informazioni dalla televisione e soprattutto dalle tre reti Mediaset”. Piero Ignazi 7 maggio 2008;

“Il voto di scambio è, a mio parere, la forza più grande di quella parte politica”. Roberto Saviano 10 dicembre 2012;

“Il pubblico ideale di Porro è il ceto medio non riflessivo”. Aldo Grasso 20 settembre 2014.

Evadere sarà roba di destra ma gli evasori sono di sinistra. Visco spara sui moderati, ma dovrebbe guardare in casa propria. In quanti hanno avuto guai con le tasse, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. «Le tasse servono a finanziare i servizi pubblici e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». L'ex ministro dell'economia, Vincenzo Visco, in un'intervista concessa a Virus giovedì scorso, ha riproposto la propria personale teoria sociologica (che poi è la stessa di tutti coloro che hanno il cuore a sinistra e il portafogli dall'altra parte): «l'evasione è di destra». Senza se e senza ma, per Bacco. A sentir queste parole parrebbe di capire che la propensione a evadere sia un correlato genetico dell'uomo di destra. Esempio fulgido ne sarebbero i veneti. «Un popolo per natura antistatalista», ebbe a dire nel 2007 l'inventore del Grande Fratello fiscale che ficca il naso nel nostro conto in banca e in tutte i meandri della nostra vita. Ma il social-moralismo di Visco e dei suoi fans è una brutta bestia: l'etica e l'estetica (come la fisica) si fondano su schemi e tesi soggettive che l'esperienza spesso si incarica di smentire. E questo è il caso del nostro ex ministro che ha parlato proprio nel giorno nel quale a Gino Paoli è stata contestata una presunta evasione fiscale di 800mila euro per aver trasferito 2 milioni di euro in Svizzera senza dichiararlo. Le ironie sul web si sono sprecate (tipo «Il cielo in una banca, quattro amici al bar e due milioni in Svizzera») nei confronti dell'attuale presidente della Siae nonché ex deputato Pci che poi s'è giustificato pure affermando «alle feste dell'Unità ero costretto a prendere i soldi in nero» e, dunque, voleva rimpatriare i capitali non scudati in maniera regolare. Ecco, basterebbe già questo forse per dimostrare che un'icona della musica italiana e santino della sinistra (come tutta la scuola cantautorale genovese) non sia poi moralmente e geneticamente diverso da tutti gli altri. Però, se si analizzano alcuni fatti di cronaca più o meno recenti, non è che nelle citazioni si ritrovino solo personaggi con la tessera di Forza Italia o della Lega Nord negli elenchi, come Visco vorrebbe darci a intendere. Tornando indietro di qualche giorno, nelle dichiarazioni dell'inventore del Premio Grinzane Cavour, Giuliano Soria, emerge uno spaccato non proprio edificante del rapporto tra sinistra politico-intellettuale e il vil danaro. «Ho sostenuto l'allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha dichiarato ai giudici della Corte d'Appello aggiungendo che la ex presidente della Regione Mercedes Bresso «lo usava per le sue attività». Soldi per tutti giornalisti, attori e artisti. «Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace», ha aggiunto specificando che «partivo per Stresa con 100mila euro per gli attori», tra i quali viene citata Stefania Sandrelli, oltre che ex compagna di Gino Paoli nonché attiva partecipante ad alcune iniziative di Ds e Margherita. Tutti coloro che sono stati citati da Soria hanno respinto al mittente le accuse definendole calunnie. Sarà il magistrato a stabilire e ad accertare. Ma non si può non rilevare come il governatore piemontese, Sergio Chiamparino, abbia una storia tutta interna alla sinistra. E così pure per Corrado Augias che ogni giorno su Repubblica offre ai lettori la sua Weltanschauung. A proposito di Repubblica . Al gruppo Espresso, del quale è presidente la tessera numero uno del Pd Carlo de Benedetti, è stata contestata una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Un po' troppo per un editore che in tutti questi anni ha imputato a Silvio Berlusconi di aver corrotto la morale degli italiani. Ma, si sa, in Italia c'è chi è «inagibile» e chi invece ha la fortuna di battere strade meno impervie. Eppure per lanciare una fatwa bisognerebbe essere sopraffini esegeti, ma probabilmente nei testi sacri dell'Ingegnere manca qualche pagina. Idem per il direttore del quotidiano di Largo Fochetti, Ezio Mauro, «pizzicato» qualche anno fa a pagare parzialmente in nero (circostanza mai smentita) un immobile a Roma. Anche il noto giornalista utilizza spesso toni moraleggianti. Più che di etica della sinistra si potrebbe parlare di etica luterana. Pecca fortiter sed crede fortius , diceva l'eretico tedesco, ossia «Pecca fortemente, ma credi con ancora maggior vigore». Basta strologare sulla destra e si è perdonati. Qualche atto di contrizione in più dovrà recitarlo l'ex governatore sardo ed europarlamentare piddino, Renato Soru, alias Mister Tiscali. All'imprenditore, in quanto presidente del gruppo tlc, è stata attribuita una presunta evasione su un'operazione di prestito con una controllata britannica. Il dibattimento inizia il 6 marzo, ma intanto sul buon Soru pende una cartella Equitalia da 9 milioni dopo aver disatteso un accordo con il fisco. Lo dicevamo all'inizio, essere di «sinistra» in Italia è come avere uno speciale passaporto per l'oblio di tutto ciò che non è bellezza, rigore, solidarietà, misura, amore per il prossimo, impegno. Vale per Lorenzo «Jovanotti» Cherubini, referente ideologico del veltronismo che nel 1999 patteggiò una condanna per il reato di frode fiscale con un'ammenda di 1,2 milioni di vecchie lire: meno di 600 euro per chiuderla con un'omessa dichiarazione di circa ventimila euro. «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo». Chissà se l'avrà cantata anche Pierino Tulli, imprenditore romano a capo di un gruppo di cooperative al quale è stata contestata 7una maxievasione da 1,7 miliardi. E dire che Veltroni lo voleva presidente della Lazio al posto di Claudio Lotito.

Da Bandiera rossa ai fondi neri, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. La Guardia di finanza ha appurato, dicono, che Gino Paoli ha portato in Svizzera due milioni di euro: evasione fiscale della più bella specie. In parte queste entrate occultate a Lugano, ripetono, si riferiscono a pagamenti in nero per esibizioni alle Feste dell'Unità. La nostra solidarietà va a Gino Paoli e alle Feste dell'Unità. Perché? Lo ha spiegato giovedì sera a Virus , intervistato da Nicola Porro, Vincenzo Visco, il famoso ministro delle Finanze di Romano Prodi. Ha detto Visco: «L'evasione fiscale è chiaramente di destra, perché le tasse servono a finanziare i servizi pubblici, e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». Chiaramente, il ragionamento non fa una grinza, anzi un Grinzane. Per questo solidarizziamo: Gino Paoli e il giornale fondato da Antonio Gramsci, con relativa festa, sono dei nostri, quinte colonne in territorio nemico, pronti a sacrificarsi agli ideali dell'evasione fiscale, che com'è notorio sono la nostra bandiera, espressione della nostra civiltà. Avevo a dire il vero già vissuto un'esperienza personalmente molto istruttiva un paio di decenni fa, andando per una sera a bere birra al Leonkavallo, il centro sociale guidato allora dal mio quasi omonimo Daniele Farina, attuale deputato anti-evasione di Sel. La bionda era buona, la scura meno, ma con il cavolo che vidi l'ombra di uno scontrino fiscale. Sono cose borghesi. Imparai allora una legge molto semplice e che è confermata dalle testimonianze di questi giorni: l'evasione fiscale è di destra, per dirla come Visco, «chiaramente di destra», ma gli evasori sono chiaramente di sinistra. Sono arrivato a maturare l'idea che sia una perfida astuzia dei (...)(...) compagni. Si noti: l'evasione di Gino Paoli e della Festa dell'Unità è del 2008. Chi andò allora al governo? Berlusconi. Dunque una forma di lotta politica antiberlusconiana poteva benissimo essere quella di incrementare l'evasione fiscale per darne la colpa a Silvio. Questa è pura dialettica marxista. O forse, andando alle purissime origini del marxismo-leninismo, bisogna risalire alla fase svizzera del bolscevismo. Quando Parvus e Stalin, al tempo in cui Lenin risiedeva lì, accumularono fondi neri per la rivoluzione nei forzieri delle banche di Zurigo, grazie a rapine, grassazioni finanziarie e matrimoni con ricche ereditiere. Così forse Gino Paoli, di cui si ricorda l'esperienza di deputato comunista, naturalmente indipendente. Esperienza che lo ha accomunato a Corrado Augias, ora anche lui - sia chiaro, da presunto innocente - accusato di essere golosissimo di prebende in nero dall'organizzatore del premio Grinzane-Cavour. Il rosso ama molto il nero, specie se è un artista, ed è una buona premessa per la riconciliazione nazionale. Ci resta una domanda. Chi sono stati, dagli anni dei Ds a quelli del Pd e fino al 2008 (anno del presunto transito di talleri da Genova alla Svizzera), i direttori dell' Unità la quale dava il suo bel nome alle sobrie feste dove girava allegro il nero tra le bandiere rosse? Ce ne sono tre: Furio Colombo fino al 2004, poi Antonio Padellaro fino ad agosto del 2008, quindi Concita De Gregorio. Idea: siete giornalisti ancora più famosi di allora. Mettete su una bella inchiesta su come si è costruito e occultato il falso in bilancio, sfruttando come testimonial le vostre facce di certo pulitissime? Domandatevi come mai quello che secondo Gino Paoli era un sistema a cui era impossibile sottrarsi è invece sfuggito persino al fiuto sgamatissimo dei vostri reporter così abili a prendersela con gli idraulici, i commercianti e i piccoli imprenditori. Un mito intoccabile, le Feste dell'Unità. Quando dopo la fine dei Ds e la nascita del Pd qualcuno minacciò di sopprimerle, cambiandone il nome, intervenne proprio Antonio Padellaro. Scrisse un memorabile panegirico in difesa della loro purezza, condita proletariamente di grasso e sudore colanti da salsicce e da militanti. Dopo aver ovviamente citato come minimo un premio Nobel, nel nostro caso per la precisione Elias Canetti, sentenziò: «Le Feste dell'Unità sono le Feste dell'Unità». Una delle poche verità, si suppone, apparse su quelle pagine dalla fondazione gramsciana. Aggiunse che non si può «cancellare qualcosa che resta comunque nel cuore di milioni di persone». Qualcosa resta nel cuore di milioni di persone; qualche milione resta nel conto svizzero di alcuni più persone degli altri. Ecco, Visco parla anche di falso in bilancio a Virus . Sostiene che «era preoccupatissimo fino all'altro ieri», ma poi con «l'allentamento del Patto del Nazareno» è più tranquillo. In che senso, scusi? Qualcuno lo informi: evasione è ideale di destra, ma falso ed evasione sono pratiche di sinistra. La morale? Come scrisse Montanelli: «Ho conosciuto molti mascalzoni che non erano moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse un mascalzone».

Lello Liguori a Virus: "Vi dico come Grillo guadagnava in nero". Imbarazzo in casa 5 Stelle. Liguori racconta tutto a Virus: "Per uno spettacolo da 70 milioni ne prendeva 10 con un assegno e 60 in nero. I soldi li ho consegnati a lui personalmente", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "Ho pagato Grillo per i suoi spettacoli, voleva i soldi in nero". A puntare il dito contro il comico e leader del Movimento Cinque Stelle è Lello Liguori, un impresario, che intervistato da Virus, il talk di Nicola Porro su Rai Due, ha deciso di raccontare la sua verità. "Io ho dato 300 milioni di lire a Beppe Grillo in nero, me l'ha chiesto lui, cinque spettacoli se li è fatti pagare in nero". E ancora: "Io con Grillo ho trattato direttamente quando non lo conosceva nessuno e l'ho fatto conoscere come cabarettista. Con lui all'inizio si facevano 10-20 milioni. Poi crescendo anche 70 milioni di lire a serata". A questo punto Liguori parla dei metodi di pagamento: "Gli davo dieci milioni in assegno e 60 milioni in nero. Io i soldi li ho dati a lui. 54 milioni a Milano li ho consegnati nelle sue mani e disse pure voglio 10 milioni in più altrimenti non faccio lo spettacolo. Lo abbiamo strattonato un pò perché era nervoso. Poi si è convinto e ha fatto lo spettacolo. Lo fanno tutti, ma molte persone sono oneste come Aldo, Giovanni e Giacomo, o magari Crozza e tanti altri. Dieci chiedevano e dieci avevano con tanto di fattura. Grillo era invece tra quelli che preferiva il pagamento in nero". Le dichiarazioni di Liguori di certo faranno discutere e hanno suscitato qualche imbarazzo in casa 5 Stelle. Chissà se qualcuno avrà voglia di indagare su quanto dichiarato da Liguori e accertare se Grillo ha davvero preso dei compensi in nero...

La doppia morale (sinistra) sul fisco. Da una parte sbandiera la purezza, dall’altra inciampa nei guai con l’erario Ecco l’album dei «perfetti»: da De Benedetti a Sabina Guzzanti a Riondino, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. A leggerlo quasi cinquant’anni dopo, appare come un piccolo inno etico il testo di una canzonetta, che Umberto Eco compose negli anni sessanta per l’amico cabarettista Franco Nebbia. Faceva così: «Hai trasferito i capitali in Svizzera per me (…) hai dichiarato il reddito come pareva a te (…) hai finanziato anche le destre storiche». In poche strofe, si condensavano gli autoincensamenti morali di cui la sinistra si è cosparsa il capo per anni. Da sempre, infatti, c’è stata una legge prevalente a quella dei codici ed è quella dei luoghi comuni e dei tabù culturali. L’estetica del Quarto Stato, infatti, non si può sposare con chi «chi trasferisce i capitali in Svizzera» o anche chi è in odore di evasore fiscale. E poco importa se poi, magari, le montagne partoriscono topolini o, ancor peggio, flatulenze. La legge morale è legge morale. Solo che spesso la purezza è un boomerang, ti arriva addosso e può far molto male. Lo vediamo in questi giorni, scorrendo la cosiddetta Lista Falciani, composta dagli intestatari dei conti della banca Hsbc. In quella lista sono finiti due volti noti della sinistra italiana. Il primo è Pippo Civati, che appartiene all’opposizione interna al Pd, noto per le sue posizioni intransigenti in termini di giustizia. L’altro è Davide Serra, che non è un politico, ma un finanziere, ma appartiene lo stesso all’argenteria del Pd renziano, essendo amico e finanziatore del leader. Oltre che nel cast delle kermesse della Leopolda. Ora, se il semplice fatto di finire in una lista come quella, di per sé non vuol dire nulla, che ne è del tribunale morale della sinistra? Un tribunale che, è bene ricordarlo, quanto a indulgenza domestica non fa invidia nemmeno alle monarchie assolute. Implacabile con i nemici, chiude gli occhi quando si tratta dell’album di famiglia. Dove troviamo molti altri casi. A partire da Carlo De Benedetti, finito nei guai per una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Il 25 maggio 2012, quando fu condannato in appello dal tribunale tributario del Lazio, il portavoce ne diffuse la posizione sulla sentenza, definita «irricevibile, manifestamente infondata e palesemente illegittima». Parola di editore di Repubblica, la Bibbia del giustizialismo antiberlusconiano e del dogma delle sentenze che non si possono commentare (quelle degli altri). E ancora, Daniele Luttazzi. Tra i protagonisti di quella stagione luminosa del girotondismo, dove primeggiava il trio dei martiri perseguitati dal feroce dittatore di Arcore: Biagi, Santoro e appunto lui, Luttazzi. Eroi civili senza macchia e senza paura. Però qualche mese fa su Luttazzi si sono accesi i fari della procura di Civitavecchia in merito ad una presunta evasione di 140 mila euro di Irpef. Sempre nel mondo dello spettacolo, va ricordato il caso di Sabina Guzzanti e David Riondino. Anche loro colonne di quella comicità «de sinistra» che rimanda agli anni d’oro dell’Ambra Jovinelli. Entrambi, finirono nelle grinfie di Gianfranco Lande, meglio noto come il Madoff dei Parioli condannato di recente a 7 anni in Cassazione. Secondo le ricostruzioni della Procura, Lande e i suoi accoliti avevano truffato investitori in buona fede creando un «articolato e sofisticato meccanismo truffaldino che ha consentito di gestire un portafoglio stimabile in un ammontare non inferiore a 300 milioni di euro, investito in parte in obbligazioni, fondi di investimento creati ad hoc, strumenti derivati e liquidità negli stati delle Bahamas, del Lussemburgo, della Gran Bretagna e del Belgio, fuori dal circuito dei controlli legali». Tra i clienti vip, c’erano appunto anche Riondino e la Guzzanti. Parti lese, certo. Ma che avevano affidato i loro risparmi ad un «mago della finanza» nella speranza di plusvalenze a seguito di investimento all’estero. Tra l’altro, parlando della vicenda a Radio 24, proprio Riondino ammise: «sono un evasore pentito, me ne dispiaccio. Questo denaro, scudato nel 2009, per una decina d’anni ha prodotto un presunto guadagno sul quale sarebbe stato doveroso pagare allo Stato il 12% di tasse». E il tribunale morale robespierriano? Chiuso per ferie. Come lo è anche nel caso di Renato Soru, ora europarlamentare del Pd, sotto processo per una presunta evasione fiscale di svariati milioni di euro. E come lo è, infine, nel caso di Alessandro Profumo, Presidente della Monte dei Paschi di Siena, anche lui caro al Pd. Lo scorso 22 gennaio la Procura di Roma ha rinnovato nei confronti suoi, in quanto ex ad Unicredit, di altri 16 manager dello stesso istituto e di tre di Barclays, la richiesta di un processo in relazione ad una presunta frode fiscale di 245 milioni di euro. «Hai trasferito i capitali in Svizzera per me. Non potrò dimenticarlo mai», faceva quella canzone. Non è esatto. In qualche caso, si può far anche finta di non vedere.

PERCHE’ L’EVASORE LA FA FRANCA?

Perché l’evasore la fa franca. Processi affidati a dilettanti. Che impiegano anni per decidere su cause che potrebbero portare all’erario 52 miliardi di euro, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La lotta alla grande evasione fiscale rischia di fermarsi in tribunale. Un tribunale molto speciale, formato in maggioranza da privati. Pagati pochissimo: 26 euro lordi a sentenza. Ed esposti a gravi tentazioni. Perché le loro decisioni valgono una fortuna: più di 52 miliardi di euro, in teoria. In pratica, l’erario incasserà molto meno. Perché nei processi fiscali, in sei casi su dieci, lo Stato perde. Mentre la nostra Costituzione stabilisce che «tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge», per cui le persone nella stessa situazione dovrebbero essere giudicate allo stesso modo, la giustizia tributaria è un ramo del diritto dove regna l’incertezza. Al caos fiscale non sfugge la lista Falciani, l’ormai famoso archivio della banca Hsbc di Ginevra, con i nomi di 7.499 italiani con il conto in Svizzera. La lista, consegnata dal tecnico Hervé Falciani ai magistrati spagnoli e francesi, è stata trasmessa alle autorità italiane nel 2009. Da allora la Guardia di Finanza ha concluso oltre 3.200 ispezioni. Ma lo Stato finora ha riscosso solo 30 milioni. In Spagna, per fare un confronto, l’evasore più ricco ha dovuto sborsare da solo oltre 200 milioni. In Italia invece ben 1.246 clienti della Hsbc hanno annientato ogni accusa grazie allo scudo fiscale varato nel 2009-2010 dal governo di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti: hanno sanato 1,7 miliardi di nero versando appena 83 milioni. E per tutti gli altri, quelli che non hanno pagato neppure quel condono, finora il fisco ha potuto soltanto minacciare super-multe, che verranno applicate solo se e quando lo Stato avrà vinto i processi tributari. Il primo problema è la durata di queste cause: in media passano 1.558 giorni tra primo e secondo grado, che diventano otto anni con il verdetto finale della Cassazione. Solo nell’aprile 2015, ad esempio, la nostra Corte Suprema pronuncerà la prima sentenza definitiva nel processo numero uno (il più veloce) sulla lista Falciani, avviato nel 2009 contro un giocatore professionista di poker con 41 mila dollari in Svizzera. Il verdetto della Cassazione è destinato a fare scuola per tutti gli altri clienti della Hsbc, che avevano depositi complessivi per 7,5 miliardi: la lista Falciani è utilizzabile dal fisco come prova? A questa domanda, che si ripete identica in tutti i processi, i giudici di primo e secondo grado hanno finora dato risposte contraddittorie. Tutto dipende dalla posizione geografica. Gli evasori di Genova, Pisa, Treviso o Verbania sono stati stangati. Chi abita a Pinerolo, Como o Avellino, invece, ha stravinto: lista inutilizzabile, fisco sconfitto. L’incertezza e quindi l’imprevedibilità delle sentenze sulle tasse, secondo alcuni economisti, è uno dei problemi strutturali che tengono lontani gli investimenti stranieri. «In Italia i processi fiscali vengono decisi da giudici part-time, non professionisti», lamentano gli studiosi Giuseppe e Nicola Persico in un recente articolo su “lavoce.info”, «e solo in Cassazione da giudici specializzati, ma oberati da cause di modesto valore». I ricorsi contro il fisco, infatti, non vengono decisi dai normali tribunali, ma da organi particolari. Si chiamano commissioni tributarie, provinciali (in primo grado) e regionali (in secondo), e sono formate da volontari, in maggioranza privati: avvocati, commercialisti, professori, funzionari in pensione, geometri, ragionieri, agronomi. Su un totale di 3.419 componenti, i magistrati professionisti sono 1.543. Gli altri 1.876 sono privati che fanno i giudici come secondo lavoro, nei ritagli di tempo, con paghe bassissime: in media tra 200 e 400 euro al mese. Eppure davanti alle commissioni pendono 570 mila processi, per un valore totale di 52,6 miliardi di euro. Affidare a privati sottopagati il potere di arbitrare cause milionarie è un sistema all’origine di infiniti scandali. L’ultima retata di giudici fiscali corrotti, a Bari, è partita da un’assurdità statistica: lo Stato perdeva il 98 per cento dei processi. Dagli affari privati di un giudice-geometra è nata, tra le tante, l’inchiesta sulla cosiddetta P3, che pilotava procedimenti a tutti i livelli. Nei fascicoli disciplinari del Consiglio di giustizia tributaria (una specie di Csm creato nel 1992), “l’Espresso” ha trovato casi di giudici tributari che erano contemporaneamente imputati di corruzione, bancarotta, prostituzione e, ironia della sorte, evasione fiscale. Per frenare il malcostume, negli ultimi anni il Consiglio ha radiato decine di avvocati e commercialisti che, mentre vestivano i panni di giudici imparziali, intascavano ricche parcelle dagli evasori, spesso attraverso mogli, amanti o soci di studio. Piercamillo Davigo Consapevoli di queste anomalie, autorevoli giudici propongono di cambiare sistema. «La mia opinione è che le commissioni andrebbero soppresse», spiega il magistrato Piercamillo Davigo, che fa anche il giudice tributario dal 1979: «Affidare i processi fiscali ai magistrati ordinari o amministrativi offrirebbe più garanzie sia allo Stato sia ai contribuenti onesti. Naturalmente c’è il solito problema: per non paralizzare i tribunali già oberati di cause, bisognerebbe fare i concorsi e assumere nuovi magistrati». L’attuale sistema delle commissioni aggrava anche le disuguaglianze economiche: gli evasori più ricchi possono pagarsi avvocati e consulenti in grado di schiacciare i funzionari che rappresentano lo Stato; mentre i contribuenti tartassati da un fisco forte con i deboli rischiano di non potersi permettere una difesa decente. Uno squilibrio aggravato dal «contributo unificato», imposto dall’ex ministro Tremonti per ridurre il numero di cause minori o inutili: nel 2014 sono stati presentati “solo” 181 mila ricorsi, 21 mila in meno del 2013. Secondo Davigo e altri giuristi, però, «invece di tassare chi chiede giustizia, forse sarebbe più sensato colpire con sentenze rapide e severe chi fa ricorsi pretestuosi». Altri giudici, pur confermando i limiti delle commissioni, difendono «un sistema che sta migliorando». Il magistrato milanese Gaetano Santamaria, già presidente del Consiglio di giustizia tributaria, spiega che «gli abusi vanno stroncati, ma sarebbe sbagliato buttare via i collegi misti: anche nei processi ordinari, se c’è un minimo di complessità tecnica, i giudici si affidano alle perizie, cioè a privati lautamente remunerati. La commissione tributaria invece ha già al suo interno il revisore dei conti che sa leggere i bilanci, il ragioniere che fa gli estimi, il geometra che conosce i dati catastali...». Fatto sta che, con tutti questi giudici privati, lo Stato perde. Secondo uno studio del “Sole24Ore” sulle sentenze emesse dalle commissioni provinciali tra il 1996 e il 2010, il fisco ha vinto solo quattro processi su dieci: l’accusa di evasione è stata cancellata totalmente in quasi due milioni di cause (45 per cento del totale), parzialmente in altre 642 mila (15 per cento). «Ma il vero problema è se le sentenze sono giuste o sbagliate», replica Santamaria: «Il calcolo va fatto sulle decisioni annullate in Cassazione: nei processi civili sono il 33,5 per cento, in quelli tributari il 33. Quindi le commissioni sbagliano come i giudici ordinari, anzi un po’ meno». Ma perché in 60 casi su cento ha torto lo Stato? Con queste percentuali, nei processi in corso il fisco rischia di perdere più di 31 miliardi. «Alcuni uffici fiscali reclamano tasse esagerate o non dovute, costringendoci ad annullamenti sistematici», risponde Santamaria. «E spesso lo Stato non sa difendersi neppure quando avrebbe ragione». Su questo concorda anche Davigo: «Succede che il funzionario non si presenta, o porta il fascicolo sbagliato, o non parla perché era un caso seguito da un collega. Per fortuna, nei centri più importanti, ora l’amministrazione sta creando veri uffici legali, dove lavorano molti giovani preparati, anche se spesso precari». In attesa delle riforme annunciate dal governo Renzi, che prevedono ad esempio un solo giudice per le cause di minor valore, il sistema resta caratterizzato da sentenze discutibili e contrastanti. Per tornare alla lista Falciani, alcuni verdetti l’hanno dichiarata «inutilizzabile» in quanto «sottratta illegalmente violando il segreto bancario svizzero». Per altri invece vale, perché è autentica e fu trasmessa ai magistrati di Torino con tutti i crismi delle rogatorie. A risolvere l’incertezza sarà la Cassazione con la sentenzaspartiacque di metà aprile. Come anticipato da “l’Espresso”, il fisco ha grandi probabilità di vittoria: il giudice incaricato di proporre la sentenza-pilota ai colleghi, infatti, ha spiegato nella relazione ufficiale che pagare le tasse è un «inderogabile dovere costituzionale», che vale più della privacy dei presunti evasori. Mentre il segreto bancario svizzero in Italia non esiste. Per cui il fisco può usare la lista Falciani «anche come unica prova». Una tesi in linea con la giustizia europea: la Corte Costituzionale tedesca, il 9 novembre 2010, aveva convalidato la «lista di Vaduz», cioè un altro elenco di evasori che fu comprato nel 2007 dai servizi segreti tedeschi. E poi usato perfino dalla Svizzera, ovviamente contro i propri evasori. In Italia invece pochissimi dei 394 clienti della banca di Vaduz hanno avuto problemi con la giustizia. E alcuni fortunati hanno già dribblato anche la lista Falciani: il 4 ottobre 2011 un giudice di Pinerolo, poi imitato da altri, non si è limitato ad assolvere un accusato di evasione, ma ha ordinato addirittura la «distruzione» della sua fetta di lista. Comunque decida la Cassazione, dunque, per il plotone dei miracolati sulla scia di Pinerolo la prova non c’è più. «In Italia c’è un’evasione che non ha paragoni nel mondo civile e non è vero che sia impossibile ridurla», conclude Davigo: «Basterebbe applicare a tutti le leggi antimafia, che permettono di confiscare le ricchezze sproporzionate rispetto ai redditi dichiarati». Un esempio pratico? «Se un tizio che si dichiara nullatenente viene fermato su una Ferrari, lo si fa scendere gentilmente. E la Ferrari se la tiene la Guardia di Finanza». 

I TESORI DELL'ARTE NELLE MANI DELLA MAFIA. 

I tesori dell'arte nelle mani della mafia. In Svizzera c'erano cinque depositi pieni di reperti archeologici di grandissimo valore. A breve, dopo una battaglia burocratica, saranno presentati in Italia. Ma il vero patrimonio ritrovato dagli inquirenti è l'archivio segreto dei trafficanti. Migliaia di foto e documenti che riportano provenienza, valore, destinazione e acquirenti di capolavori scomparsi da anni. Il dossier, cercato a lungo dai carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio e dall'Fbi, permette di ricostruire decenni di razzie. E il primo risultato è stato chiarire la provenienza della "Bella Addormentata", splendido sarcofago romano recuperato negli Stati Uniti. Tutto questo all'ombra di Matteo Messina Denaro, l'ultimo boss di Cosa Nostra ancora latitante, scrivono Veleria Ferrante, Valeria Teodonio, e Elis Viettone con un commento di Tomaso Montanari su “La Repubblica”.

Migliaia di reperti recuperati dalla Svizzera scrive Valeria Ferrante. C'è un tesoro di valore inestimabile nascosto a lungo in Svizzera che fra poche settimane sarà ufficialmente restituito all'Italia con tanto di presentazione. Lo avevano scovato, nel 2001, i Carabineri del Nucleo tutela patrimonio culturale (Tpc) dopo anni di indagini, seguendo le labili tracce che partivano dalla Sicilia nord occidentale, da Castelvetrano, comune in provincia di Trapani. Territorio dove si trova il parco archeologico più grande d'Europa, Selinunte, e non lontano, verso Mazara del Vallo, il tratto di mare più ricco di relitti e opere d'arte inabissate. Lì è passata la storia, a bordo di navi cariche di bottini di guerra strappati dai romani alla distrutta Cartagine, o di tesori depredati dai barbari con la caduta dell'Impero romano. In questo scenario si muovono conoscitori, amanti dell'arte e tombaroli, invischiati nel traffico di reperti archeologici, armi e droga. Un intreccio di interessi che vale miliardi di euro: quello dell'arte è il quarto mercato più redditizio del crimine internazionale. A volte sostituisce persino la classica bustarella come tangente per accaparrarsi appalti e lavori. Un filo invisibile si dipana in quest'area della Sicilia, una linea sottile che sembrerebbe unire il super latitante Matteo Messina Denaro a Giuseppe Fontana (oggi detenuto), a insospettabili antiquari, uomini d'affari, alcuni curatori dei maggiori musei d'arte del mondo. Fra questi spunta, sulla base di un'indagine in corso da parte dei carabinieri, anche il nome di Gianfranco Becchina, noto mercante d'arte di Castelvetrano e oggi proprietario di due cementifici e dell'etichetta "Olio Verde", con cui commercializza l'extra vergine che produce nelle sue campagne. Considerato dalle forze dell'ordine un personaggio importante nel traffico di opere d'arte, mai condannato perché - come spiega il maggiore dei carabinieri Antonio Coppola - "il suo reato è finito in prescrizione". A Becchina sono stati confiscati, dopo una lunga querelle con la Svizzera, i cinque magazzini stracolmi di opere d'arte. Veri e propri scrigni dove erano custoditi 5mila reperti archeologici, tesori dal valore inestimabile. Molti, sempre secondo i carabinieri Tpc, "provenivano da scavi clandestini e adesso potranno finalmente rientrare in Italia". Questo patrimonio unico poteva contare, come quartier generale, sulla Galleria Palladio Antique Kunstdi Basilea, il cui proprietario era proprio Gianfranco Becchina. Ma c'è di più: nei cinque magazzini è stato trovato un gigantesco archivio, quello che l'Fbi chiamava il "Becchina dossier", di cui  i carabinieri sono finalmente entrati in possesso. Con più di 13mila documenti, fatture, trasporti, lettere indirizzate agli acquirenti, migliaia di immagini polaroid, suddivise in 140 raccoglitori, questa enorme e dettagliata documentazione sembrerebbe ridisegnare alcuni dei passaggi più controversi della storia del commercio illegale delle opere d'arte. Lì, secondo gli inquirenti, Becchina annotava tutto, compreso il salario di un tombarolo tra i più conosciuti in Puglia, che lavorava alle sue dipendenze. A lui venivano fatturati, sotto la voce "pulizia monete", 15mila euro ogni 12 mesi. Nel registro si legge anche dei 25 crateri apuli posseduti da un ingegnere palermitano, di cui Becchina mandò le foto al museo di Princeton, nel New Jersey, assicurando che provenivano "da una raccolta privata svizzera". "Nel dossier Becchina risultano molti più oggetti fotografati e registrati, rispetto a quelli trovati nei depositi - spiegano ancora al Nucleo tutela patrimonio culturale - Ciò significa che sono ancora tante le opere che devono essere ritrovate". Chi è Gianfranco Becchina? Lui si definisce così: "Un mecenate, un collezionista, estraneo a ogni tipo di vendita illegale di oggetti d'arte. Prima, su di me, indagò Paolo Borsellino, dopo la sua uccisione, il procuratore Gian Carlo Caselli, fu un'indagine sprecata, soldi dello Stato gettati al vento, ho smesso di essere un mercante d'arte dal 1994, e nel 1996 mi sono anche cancellato dal registro dei commercianti". Conosciuto da tutti a Castelvetrano, Becchina è proprietario di diversi edifici di grande interesse storico e artistico, come il Palazzo ducale dei principi Pigantelli Aragona Cortes Tagliavia. Situato nel cuore del centro storico di Castelvetrano, il palazzo era in realtà l'antico castello "Bellumvider" realizzato nel 1239 per accogliere Federico II. Becchina è pure in possesso di un bellissimo feudo dove oggi vive, a suo tempo appannaggio, anche questo, dei principi Pignatelli Cortes. Un parco di 25 ettari non lontano dai templi greci dell'area archeologica di Selinunte, con tremila ulivi dai quali produce il suo olio. "Non è un olio qualsiasi - spiega l'archeologo Tsao Cevoli, presidente dell'Osservatorio internazionale archeomafie e direttore del master in Archeologia Giudiziaria e Crimini contro il Patrimonio Culturale - Con il suo olio hanno condito l'insalata Clinton e Bush, perché è accreditato nientedimeno che come fornitore della Casa Bianca. Inoltre ha due grosse aziende produttrici di cemento: la Heracles in Grecia e la Atlas srl in Sicilia". Una condizione di prestigio e privilegio insidiata però dalle continue indagini svolte a carico di Becchina. L'ultima, circa due mesi fa, è stata condotta in team dall'Fbi e dai carabinieri. Le autorità federali hanno sequestrato il coperchio di un sarcofago d'epoca romana dal valore di 4 milioni di dollari, nascosto in un magazzino nel Queens, a New York. Per più di trent'anni si erano perse le tracce di questo splendido manufatto in marmo di Carrara, realizzato circa 1.800 anni fa, dove è scolpita l'immagine di una donna distesa e dormiente, che gli agenti dell'Homeland Security hanno soprannominato "La Bella Addormentata". Riposta dentro a una cassa, stava per essere spedita al suo acquirente giapponese, quando è stata intercettata dal procuratore federale di New York che ne ha chiesto il sequestro e la restituzione all'Italia. Il compratore del sarcofago, che lo aveva pagato 3 milioni di dollari, era Noriyoshi Horiuchi, famoso mercante di antichità in stretti legami con Gianfranco Becchina. È stato grazie all'esame da parte degli investigatori italiani del prezioso archivio fotografico proveniente dal "Becchina Dossier" che si è potuta identificare e sequestrare "La Bella Addormentata". Una serie di polaroid mostrava il coperchio del sarcofago rotto in due parti, prima di essere restaurato e venduto. "Ma Becchina ha trattato affari con i maggiori musei del mondo, tra cui il Louvre, il Museo di Monaco, il Metropolitan di New York, il museo di Boston, il Ninagawa di Hurashiki in Giappone, l'Ashmolean di Oxford, il museo di Utrecht, il Museo di Toledo nell'Ohio e molti altri - dice ancora l'archeologo Cevoli - E ha rifornito persino università prestigiose come la Columbia, quella di Washington, di Kassel, di Princeton e di Yale. Tra le sue vendite più celebri c'è il Cratere di Asteas, pagato 500mila dollari e dopo molti anni tornato in Italia. Fu scavato nel 1974 a Sant'Agata dei Goti, in Campania. Le indagini partirono da una foto del reperto trovata sull'auto di un ex ufficiale della Finanza passato con i trafficanti, morto misteriosamente sull'Autostrada del Sole nel 1995. Tra i suoi acquirenti figurano anche i coniugi Shelby White e Leon Levy, miliardari americani ai quali è intitolata un'ala greco-romana del Metropolitan Museum, finanziata con 20 milioni di dollari. White e Levy hanno pure sovvenzionato con milioni di dollari diverse università, tra cui Cambridge, Harvard e Princeton. La loro enorme collezione privata di antichità è in gran parte frutto di scavi clandestini, come ha dimostrato il libro-inchiesta di Peter Watson e Cecilia Todeschini". Dietro molti saccheggi, affari, traffici d'arte, si intravede l'ombra di Matteo Messina Denaro. Il super latitante che ama l'arte, come rivelano alcuni pizzini in cui sostiene che con il traffico d'opere "ci manteneva la famiglia". Proprio lui aveva ordinato di rubare il Satiro Danzante, operazione caduta nel vuoto a causa dell'arresto di due boss committenti, i fratelli Giacomo e Tommaso Amato, e la morte del terzo, detto "il Gangitano". Questa passione per l'arte il capo di cosa nostra l'avrebbe ereditata dal padre: Francesco Messina Denaro, uno dei primi tombaroli del Parco Archeologico di Selinunte. Preziosi reperti archeologici furono da lui depredati in quel sito o nelle Cave di Cusa, a Campobello di Mazara. Tesori di cui si sono perse le tracce, esportati in Svizzera per essere poi rivenduti, come un'anfora d'oro dal valore di un miliardo e mezzo di vecchie lire. Nella rete era coinvolto persino un collezionista sacerdote, che avrebbe poi garantito la latitanza del vecchio boss. Fu sempre Francesco Messina Denaro, a organizzare il furto dell'Efebo di Selinunte, nel 1962. La piccola statua greca (alta circa 85 centimetri) era detta "u pupu" e tenuta sul tavolo dell'ufficio del sindaco di Castelvetrano. Una volta trafugata per essere venduta, venne portata in America, poi in Svizzera, infine tornò di nuovo in Sicilia quando si capì che nessuno l'avrebbe acquistata. Al Comune di Castelvetrano giunse allora una richiesta di riscatto di 30 milioni di lire, che nessuno pagò. Il 14 marzo del 1968 l'Efebo venne recuperato dalla polizia a Foligno, in Umbria. Fra gli amici intenditori d'arte di Matteo Messina Denaro, c'è Giuseppe Fontana, "un anarchico", come si autodefinisce, finito in carcere nel 1994 per traffico di stupefacenti, di armi, e associazione mafiosa. Nel 1988 Fontana, come il "Bancario anarchico" di Pessoa, conduceva una vita da nababbo. In Svizzera possedeva un deposito "con una partita di pezzi d'antiquariato che ingiustamente i poliziotti mi sequestrarono", come scrive in una lunga lettera firmandosi "Prigioniero di Stato". Era lui a viaggiare continuamente dalla Svizzera, alla Yugoslavia con il suo bottino di reperti archeologici trovati negli scavi di frodo commissionati dalla mafia. Ma Fontana aveva anche un'altra missione: rifornire Castelvetrano con armi di ogni genere, per arricchire l'arsenale di Matteo Messina Denaro. Il boss che nel '93, l'anno delle bombe, aveva scelto sui manuali di storia dell'arte i monumenti da far saltare per aria a Roma, Milano, Firenze. Perché nulla, in quegli attentati, venisse lasciato al caso.

Sicilia, l'isola dei predatori, scrive Valeria Ferrante. Con il più alto tasso di scavi clandestini accertati, è la Sicilia la regione d'Italia maggiormente razziata. Secondo il rapporto 2013 stilato dai carabinieri ci sono stati il 32 per cento di scavi in più rispetto al 2012. "Le zone maggiormente a rischio - dice Luigi Mancuso capitano dei carabinieri Tpc Palermo - sono la parte centrale e quella occidentale dell'Isola. L'attività investigativa del 2013 ha permesso di sequestrare 7.858 reperti archeologici per un ammontare stimato in oltre 2 milioni di euro. Tra i reperti sequestrati - spiega Mancuso - ci sono vasi, crateri di epoca greco-romana (V e VI sececolo avanti Cristo); 500 monete bizantine, greche e romane; vari elementi metallici (fibule-punte di freccia) per un valore complessivo di oltre 300mila euro. Inoltre una rarissima moneta antica, un tetradracma del maestro incisore Eukleidas (attivo tra il 413 ed il 399 avanti Cristo), illecitamente detenuta da un privato collezionista che stava tentando di venderla via web". Colletti bianchi e boss mafiosi sono parte attiva di un intreccio d'interessi che vale miliardi di euro. Così i "piccioli" sporchi si trasformano in nuova moneta sonante e beni rifugio. E la Sicilia si collega alla Svizzera, al Nord America, alla Gran Bretagna, passando per caveau, magazzini isolati, case d'asta o gallerie d'arte di mezzo mondo. In questo modo si nascondono le partite di droga e le armi, in furgoni anonimi che nottetempo partono dalle campagne siciliane per superare i confini italiani carichi di casse colme di reperti. Secondo l'Istituto per i beni archeologici e monumentali del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibam-Cnr), "questa emorragia del patrimonio culturale ci costa circa un punto percentuale del Pil". "Non è possibile - continua il capitano Mancuso - avere una stima reale del fenomeno criminale, i nostri sono comunque dati sottostimati ottenuti operando un confronto con i reperti recuperati e sequestrati".

Selinunte, il supermarket dei tombaroli, scrive Valeria Ferrante."Per i Beni Culturali, gli scavi clandestini rimangono la maggiore forma di aggressione: in Sicilia come in Italia - spiegano i carabinieri del Tpc - Il problema principale risiede nella scarsa vigilanza nei confronti di un patrimonio ricchissimo e soprattutto vastissimo". Oggi, per esempio, come si presenta agli occhi di un visitatore il Parco Archeologico di Selinunte? Incuria, discariche di rifiuti, quasi nessun controllo, una recinzione valicabile e semi distrutta. Con la nostra telecamera abbiamo filmato la deriva dell'area archeologica più grande d'Europa (come si legge nella home page del Parco). 270 ettari di un antico passato riemerso dalla terra con le sue necropoli, i suoi templi, le mura, le torri, una grande acropoli a strapiombo sul mare. Questa zona dal 1960 è stata continuamente predata dai tombaroli, gente comune, pescatori, abitanti dei paesi vicini, che conoscevano bene i tesori nascosti nel sottosuolo e che con essi per anni hanno arrotondato i loro redditi. "Un castigo di Dio", li definì Vincenzo Tusa, soprintendente ai Beni Culturali della Sicilia occidentale dal 1963, che però come soluzione al problema pensò bene di assumerli: "Andai dal presidente del Banco di Sicilia, che era Carlo Bazan, e gli chiesi i soldi per assumerli. Lui mi promise tre milioni di lire di allora. Il venerdì seguente, di primo mattino, vidi una dozzina di tombaroli clandestini che tornavano dagli scavi. Dissi che sarebbero stati tutti assunti a partire dal lunedì successivo e così fu". "Non mi risulta alcun furto da quando sono direttore del Parco Archeologico - dice Giovanni Leto Barone - né mi pare vi sia una situazione di incuria, di immondizie. Il Parco è interamente protetto da una recinzione, e a guardia, nei luoghi più strategici, sono dislocati 70 custodi. In realtà avremmo bisogno di 120 sorveglianti, ma le nostre risorse economiche attualmente non ce lo permettono". In prossimità della costa, lungo la spiaggia di Marinella di Selinunte, la recinzione del Parco non esiste affatto. In parte è completamente distrutta. In parte è stata inghiottita dalle dune di sabbia. Chiunque da lì può accedere all'area archeologica, e di custodi non se ne vede nemmeno l'ombra. Non si vede nessuno neppure nella zona di accesso all'acropoli, dove un cartello abbattuto avverte i visitatori che prima di entrare "bisogna esibire il biglietto". E così un gruppo di turisti inglesi un po' frastornati entra lanciando un'occhiata alla guardiola assolutamente vuota. "Dall'aprile 2013 il parco di Selinunte è diventato autonomo - spiega ancora il direttore Giovanni Leto Barone - È stato nominato un comitato scientifico, composto da me, dai sindaci di Castelvetrano e Campobello di Mazara, dal soprintendente di Trapani Paola Misuraca, da Maurizio Carta, ordinario di urbanistica del Dipartimento di Architettura dell'Università di Palermo, dall'architetto Giuseppe Saluzzo, rappresentante Legambiente, e dal dottor Nicolò Miceli del club Unesco di Castelvetrano. Attraverso un bilancio e un programma di attività che stiamo producendo, dovremmo gestire direttamente i proventi ottenuti con la vendita dei biglietti. Tutto questo a partire, speriamo, dal 2015". Qual è il bilancio del Parco? "Nel 2013 abbiamo incassato 870mila euro - dice con un certo orgoglio il direttore - in tutto abbiamo avuto 260mila visitatori. Per l'anno corrente si registra già un trend positivo di crescita del 5-6 per cento". Ma i progetti che coinvolgeranno l'area archeologica di Selinunte sono tanti. Grazie a un finanziamento europeo  di 2 milioni 850mila euro, si stanno ristrutturando e consolidando i templi, fra tutti quello C, che è a rischio crollo: "Le malte erano ammalorate - continua il direttore - e c'era un reale problema di sicurezza per i visitatori. Il Baglio Florio diverrà un museo, mentre nella collina orientale, in prossimità del tempio G, sarà costruito un teatro da 600 posti, con una struttura di metallo e vetro. Verrà poggiato sul suolo archeologico ma ci siamo preoccupati che fosse rimovibile in caso si dovesse avviare una campagna di scavi".

Cava d'Ispica - Un itinerario tra i rifiuti attende i curiosi che decidono di visitare Cava d'Ispica, in provincia di Ragusa. È qui, tra materassi e bidoni della spazzatura abbandonati, che si trovano i resti di una chiesa bizantina scavata nella roccia. All'interno gli affreschi cadono a pezzi e le pareti sono ricoperte di muschio. Poco più in là, c'è anche una tomba preistorica ma è quasi totalmente coperta dall'erba.

Area archeologica del Monte Jato - Un teatro greco, tombe arabe uniche al mondo, reperti che risalgono al Neolitico. Il parco archeologico del Monte Jato, in provincia di Palermo, custodisce frammenti di storia che dal mondo arcaico arrivano all'età ellenistica. L'area fu attaccata da Pirro nel 275 a.C. e poi nel Medioevo dall'imperatore Federico II di Svevia. Oggi a minacciarla sono l'incuria e la scarsa manutenzione. Le erbacce circondano i resti archeologici e a settembre il sito è stato lambito dalle fiamme di un incendio.

Montagna di Marzo - Degrado e abbandono circondano i reperti archeologici ritrovati sulla Montagna di Marzo in provincia di Enna. L'area si trova poco lontano da Piazza Armerina e dalla più famosa Villa Romana del Casale ma il sito è poco conosciuto. Secondo gli archeologi qui sorgeva una città pre-greca e romana rimasta attiva fino al Medioevo.  Nelle tombe scampate ai saccheggi dei tombaroli sono stati ritrovati guerrieri con tanto di spada e anello al dito.

Necropoli rupestre di Pantalica - Murales e scritte ricoprono le tombe millenarie di Pantalica. La necropoli rupestre si trova all'interno della Riserva Orientata di Pantalica, un territorio incontaminato fatto di boschi e canyon naturali. Il sito, a due passi da Siracusa, nel 2005 è stato inserito tra i patrimoni dell'Unesco per il suo valore naturalistico e archeologico. Al suo interno si trovano necropoli del XIII sec a. C ma anche chiese e villaggi di epoca Bizantina.

Area rupestre di Castelluccio -  Famosa per le sue tombe "a grotticella", è considerata una delle aree più importanti dell'Alta Età del Bronzo. Il sito è abbandonato e per visitarlo bisogna lottare contro la macchia mediterranea. L'area archeologica di Castelluccio è poco lontana da Noto (Ragusa) ma non è inserita nei circuiti del turismo tradizionale e i pochi visitatori che riescono ad arrivarci sono addetti ai lavori o avventurosi escursionisti.

Sito archeologico di Entella - Si trova nel Belice, all'interno della Riserva di Rocca Entella. La città, di fondazione arcaica, è sopravvissuta fino al Medioevo quando divenne una roccaforte degli arabi. Qui negli anni '70 furono rubati e immessi illecitamente nel mercato antiquario i "decreti di Entella", tavolette bronzee con iscrizioni che testimoniano l'ellenizzazione della città. I decreti sono stati ritrovati ma Entella è ancora una meta ambita per i ladri di reperti archeologici.

Area archeologica di Solunto - Sistema antincendio a pezzi, cartellonistica rovinata e illuminazione notturna quasi inesistente. Sono solo alcuni dei problemi dell'area archeologica di Solunto. Il sito si trova a pochi chilometri da Palermo eppure le indicazioni per raggiungerlo sono pochissime. La cartellonistica è erosa dal sole e in alcune aree dell'area l'erba impedisce di vedere bene edifici e costruzioni di età ellenistico-romana.

Grotte dell'Addaura a Palermo - Dietro ai cancelli chiusi delle tre grotte dell'Addaura si nascondono graffiti risalenti al Paleolitico e considerati dagli esperti come un unicum nel panorama dell'arte preistorica. Il sito è ufficialmente chiuso da più di dieci anni ma entrare non è difficile. All'interno le pareti sono ricoperte di scritte con pennarelli e vernice spray. Fuori, invece, erba e rifiuti circondano la via di accesso alle grotte.

Necropoli di Thapsos - Più  che un'area archeologica, quella di Thapsos sta diventando una zona tossica da cui stare alla larga. Si trova sulla penisola di Magnisi a Priolo Gargallo, in provincia di Siracusa. Le sue "tombe a grotticella" risalgono al periodo protostorico ma non sono visitabili. Il sito è chiuso. A circondarlo non ci sono solo erbacce e spazzatura ma anche scarti di lavorazione delle raffinerie. Una montagna di rifiuti tossici depositati  a due passi da una zona archeologica considerata tra le più antiche della Sicilia.

Tomba rupestre di Rocca Pizzicata - Erba alta e spine ricoprono le tombe rupestri del complesso megalitico di Rocca Pizzicata nella Valle dell'Alcantara. L'area, che si trova tra Catania e Messina, è ricca di resti archeologici che vanno dall'Età del Bronzo al periodo ellenistico. Nel cuore del bosco si trovano affreschi del Cinquecento e sulle alture svettano costruzioni che ricordano le pietre di Stonehenge. I siti archeologici, però, sono totalmente abbandonati.

Storia di Mario, tombarolo per necessità, scrive Valeria Teodonio. All'alba Mario è già sui campi. Deve potare la vigna, sistemare il trattore, seminare il grano. Mario (il nome è di fantasia) ha occhi scuri e braccia forti. Le mani callose e un sorriso buono. Da 30 anni fa il contadino nella sua Maremma. E fino a poco tempo fa la terra dava da mangiare a lui e alla sua famiglia. Oggi non ce la fa più. Così, quando un suo amico gli propone un lavoretto, accetta. Lo deve aiutare a scavare, di notte. Lo deve aiutare a profanare sepolcri etruschi vecchi di 2500 anni. Mario è diventato un tombarolo. Tombarolo per arrivare a fine mese. Mario non è il solo. I nuovi saccheggiatori di tesori sepolti sono quasi tutti agricoltori, allevatori. E sono in aumento. Anche se sono ancora molti meno di quelli che depredavano l'Italia negli anni '80 e '90, quando il fenomeno era al suo massimo. All'epoca si spostavano in "batteria": quattro o cinque squadre formate da 12-15 persone. Il mercato era fiorente, c'erano compratori dall'Europa e dagli Stati Uniti: collezionisti privati, ma anche grandi musei. Uno scempio stroncato da carabinieri e Guardia di finanza all'inizio degli anni Duemila. Ma oggi il fenomeno è di nuovo in ripresa. I tombaroli figli della crisi, però, non sono più professionisti organizzati, ma persone comuni, che agiscono in piccoli gruppi. Prendono tutto quello che possono e lo svendono al primo acquirente. Così, quello che vent'anni fa sul mercato nero valeva 100, oggi viene pagato 30. In Italia le regioni più colpite sono Lazio, Campania, Calabria e Sicilia. Gli scavi clandestini scoperti sono stati 37 nel 2012, 49 nel 2013: un aumento del 32 per cento. E i numeri provvisori elaborati dai carabinieri del Comando tutela del patrimonio culturale parlano di un'ulteriore lieve crescita per il 2014. Ma questi numeri raccontano solo degli scavi clandestini individuati, l'ipotesi è che in realtà ce ne siano molti altri. In generale, il traffico di opere d'arte e beni archeologici è stimato, nel mondo, in sei miliardi di euro all'anno. I tombaroli scavano spesso vicino alle aree archeologiche, dove hanno più probabilità di trovare sepolcri nascosti. Portano via anfore, vasi in ceramica, spille, oggetti in bronzo. Un pezzo può valere qualche centinaia di euro, ma anche centinaia di migliaia. O anche niente. I nuovi saccheggiatori vanno a caccia di reperti anche in tombe già svuotate, operazione che in gergo si chiama "ripulitura". Nel Lazio accade soprattutto nelle zone di Tarquinia e Cerveteri, area in cui è particolarmente severo il controllo dei carabinieri della sezione archeologica per la Tutela del patrimonio, guidati dal capitano Massimo Maresca. "Oggi ci sono anche i tombaroli della domenica - spiega Maresca - impiegati, liberi professionisti, perfino appartenenti alle forze armate che hanno la passione per l'arte e gli scavi e che, armati di metal detector, vanno a caccia. In alcune zone di Ostia basta rivoltare la terra per trovare reperti. Non servono neanche pala e piccone". E c'è ancora tantissimo da saccheggiare: secondo il Cnr, il 70 per cento delle ricchezze sepolte è ancora lì. Ma chi viene sorpreso a scavare rischia fino a un anno di carcere. Chi si impossessa di reperti fino a tre anni. Mario torna a casa, ha gli stivali infangati, la faccia sporca di terra. Ha nascosto due anfore nel magazzino sotto casa. Domani le deve consegnare a un corriere, che le porterà all'estero. In cambio gli daranno 300 euro. Non è contento, quel lavoro non gli piace. Pensa che i morti vadano lasciati in pace. Ma ora è meglio non pensarci. E' meglio andare a dormire. Tra due ore suona la sveglia.

I biglietti di Ostia all'azienda sotto processo, scrive Elis Viettone. Un parcheggio in terra battuta, i bagni semi abbandonati in un container e un piccolo chioschetto per i biglietti: è questo il primo impatto per un visitatore che arriva a Ostia scavi, uno dei cinque siti archeologici più grandi al mondo, con i suoi 88 ettari di estensione e un passato glorioso. Attraversando le sue strade nel I secolo dopo Cristo avremmo osservato gente di ogni colore e religione, assistito a spettacoli teatrali e speso giornate tra terme e biblioteche. Così era la città di Ostium (bocca del fiume): il porto che serviva la Capitale dell'impero romano. Difficile oggi percepire questi fasti: intere aree giacciono sotto strati di terra e le parti scavate sono spesso sovrastate da radici e erbacce che ne sgretolano pareti - a volte  affrescate - e fondamenta. Un percorso che riesca a evidenziare le diverse zone della vita cittadina di un tempo non è facilmente individuabile: i cartelli non ci sono, o sono illeggibili, o senza collegamenti tra di loro. Le audioguide non sono più disponibili da oltre 2 anni nonostante siano ovunque ancora presenti i cartelli con i numeri da digitare. Per prenotare le visite guidate bisogna mandare un fax "almeno due-tre settimane prima" - come si legge sul sito  - ma è necessario raggiungere un gruppo di 30 persone. Al costo di due euro, è tuttavia possibile comprare una piccola mappa per tentare di orientarsi. Eppure gli ingressi a questo sito sono in aumento: con 330mila biglietti venduti, il 2013 ha registrato un incremento quasi del 20% rispetto al 2012. Numerosi i cantieri permanenti, oltre a diverse aree chiuse al pubblico. Accanto a quello che era il Decumano Maximo si erige una transenna che alterna metallo e plastica, lunga qualche decina di metri, con due cartelli, uno che riporta la scritta "Lavori di interventi urgenti delle aree archeologiche", e uno subito accanto, dove sono riportate le informazioni su quel cantiere: "Cifra stanziata, 500mila euro, responsabile del procedimento: dottoressa Cinzia Morelli (direttore del sito archeologico di Ostia antica, ndr), inizio lavori 24 luglio 2013". La data di fine lavori non è presente. E non è l'unico cartello di questo genere all'interno del sito. In tutta l'area non è stato possibile vedere un custode, anche se quelli assunti sono 49, divisi su tre turni, mentre nemmeno nelle zone principali è previsto un sistema di video sorveglianza. Raro anche incontrare giardinieri e spazzini: ci sono solo visitatori, ruderi e campagna. "Il bello di Ostia è proprio questa sintesi tra natura e archeologia", si giustifica Cinzia Morelli, che spiega: "Le visite guidate? Ci sono, basta prenotarle. Le audioguide? In un'area così vasta non sono molto utili. Brochure più complete? Sì, si potrebbero fare. Maggior pubblicità per portare anche i romani qui? Non serve, vengono lo stesso - prosegue il direttore - Una app da scaricare? Troppo complicato, bisognerebbe dotare di una rete internet l'intero parco. Fondi europei? Purtroppo non abbiamo nessuno che se ne occupi". La gara d'appalto per la gestione dei servizi aggiuntivi - caffetteria, tavola calda, bookshop, parcheggio e biglietteria - (bando indetto dalla direzione regionale nel 2009, registrato dalla Sovrintendenza di Roma nel 2010), è stata vinta dal consorzio di imprese Gelmar Novamusa Lazio Scarl. Il presidente del consiglio d'amministrazione è Emilio Giannelli, che con il gruppo Giannelli gestisce anche la caffetteria del Museo nazionale di arte contemporanea e la libreria dell'Auditorium di Roma. La Novamusa invece è stata condannata nella primavera dello scorso anno della Corte dei conti (596 del 6 maggio 2014) a rimborsare 19 milioni di euro, che secondo i magistrati contabili sono stati indebitamente intascati sui biglietti di alcune delle aree archeologiche più importanti della Sicilia. Per questa vicenda nel 2012 l'allora amministratore della società, Gaetano Mercadante, aveva collezionato anche un arresto per peculato. Oggi il processo è stato spostato a Civitavecchia ed è ancora in corso.

I cimeli salvati sono trofei da esibire, scrive Tomaso Montanari. Cosa Nostra ha capito ciò che lo Stato ancora non ha capito: che il patrimonio culturale è il territorio, e che governare il patrimonio vuol dire esercitare la sovranità anche sul piano simbolico. Chi controlla le viscere della terra e i suoi tesori comanda anche sopra quella terra. Non si tratta solo di soldi, né tantomeno di cultura: è un fatto che attiene al potere e alla sua rappresentazione. Per questo l'unico antidoto a questa ennesima eclissi di Stato è costruire più Stato. Per esempio avendo il coraggio di ripensare radicalmente la folle autonomia del patrimonio culturale siciliano: che è l'unico che non dipende dal governo nazionale, ma dalla Regione Sicilia. Un regime disastroso, che significa soprintendenti sottoposti agli assessori, tutela del territorio asservita agli interessi del cemento e giacimenti archeologici abbandonati alla piena disponibilità della mafia. Mai come in questo caso un livello decisionale lontano dal territorio e dai suoi grumi di interesse potrebbe fare la differenza. E poi bisogna decidersi a spettacolarizzare gli importanti risultati del duro lavoro del Nucleo di Tutela del Patrimonio artistico dei Carabinieri. Perché è sacrosanto restituire i reperti recuperati ai singoli musei, o ai singoli territori: ma se poi quei reperti finiscono in deposito, condannati al silenzio, tutto questo rischia di sembrare, o perfino di essere, inutile. In un Paese che ha deciso di conteggiare l'economia delle mafie nel Pil, è urgente far capire che nel prodotto interno lordo della democrazia quei reperti recuperati possono giocare un ruolo importante: creando lavoro, consapevolezza, dignità. Bisogna cominciare a tessere una narrazione della sconfitta di Cosa Nostra sul terreno dell'arte e dell'archeologia. Come le terre sottratte alla mafia vengono rimesse a reddito democratico, così anche il patrimonio sottratto alla mafia deve poter parlare con una lingua riconoscibile. Alla bandiera nera del Caravaggio rubato dalla mafia in una chiesa di Palermo nel 1969, e mai più recuperato, bisogna opporre un progetto in cui il patrimonio generi liberazione culturale e aumenti la qualità della vita dei cittadini. Sarebbe importante costruire, in Sicilia, un centro di ricerca sui furti d'arte dotato di un grande museo che esponga le opere e i reperti recuperati. Bisognerebbe affidare questo centro e questo museo ad una cooperativa di giovani archeologi e storici dell'arte capaci di mettere la conoscenza e la ricerca al servizio di un progetto di cittadinanza. Una Libera dell'arte, insomma: nella quale fare l'archeologo al servizio della comunità sia più redditizio (in termini di economia, di dignità, di libertà) che fare il tombarolo al servizio di Cosa Nostra. Perché finché sarà vero il contrario la partita sarà, nonostante tutto, perduta.

PERCHE' I DETENUTI NON LAVORANO?

Perché i detenuti non lavorano? Anche se un detenuto volesse riverniciare gratis il muro del carcere non può farlo . Se il detenuto lavora la legge impone di pagargli lo stipendio, solo che non ce n’è per tutti, scrive Milena Gabanelli su “Il Corriere della Sera”. Visiti un carcere e misuri il grado di civiltà di un Paese. Rispetto a tutto il mondo occidentale l’Italia, “a parole”, ha maggior sensibilità per il disagio umano, salvo poi infilare 6 detenuti in uno spazio dove ce ne dovrebbero stare 2. Quando la situazione si fa calda, si rimedia velocemente con indulti e decreti svuotacarceri. Il risultato è che il 70% dei condannati, una volta scontata la pena, torna a delinquere. Se la funzione del carcere è quella di restituire alla società un individuo riabilitato, è evidente che qualcosa non va. Eppure, già nel 1975, siamo stati fra i primi ad introdurre le misure alternative al carcere con l’affidamento in prova al servizio sociale. Oggi gli affidati sono circa 12.000, ma è difficile sapere se chi ha evitato il carcere, poi mantenga un comportamento corretto (non spacciare droga, fare il lavoro che gli è stato assegnato...). Questo perché l’assistente sociale, che dovrebbe incontrare l’affidato una volta la settimana, sia a casa che al lavoro, lo vede se va bene 1 volta ogni 2 mesi. Del resto, a Padova, sono in 8 a seguire più di 1000 casi; a Roma in 36 con 3000 casi. In tutta Europa e negli Stati Uniti, come vi abbiamo mostrato nell’inchiesta di Report “Il risarcimento” andata in onda il 30 novembre 2014, attorno alle misure alternative sono stati organizzati progetti controllati e coordinati. Per esempio a Portland (Usa), i detenuti tengono in vita uno dei parchi urbani più prestigiosi al mondo, quello delle rose, con 600.000 visitatori l’anno. I dati Usa dicono che chi passa da questa “misura” torna a delinquere nel 10% dei casi, rispetto al 25% di chi va in carcere. Poi c’è l’aspetto economico: un detenuto in cella costa 170$ al giorno, ai servizi sociali ne costa 1,43. In Olanda ormai le pene alternative hanno superato quelle detentive, sono in media 40.000 l’anno: vengono mandati a lavorare negli ospedali e nei centri anziani. Ovunque però il grosso della partita si gioca dentro alle carceri. La nostra legge prevede di occupare i detenuti non pericolosi con i lavori di pubblica utilità su base volontaria a titolo gratuito, ma buona parte dei sindaci nemmeno sa che può farne richiesta per ridipingere i muri dai graffiti o pulire gli argini dei fiumi. È previsto anche l’obbligo per l’amministrazione carceraria di dare un’occupazione al condannato in via definitiva, poiché il lavoro è lo strumento principale per il reinserimento nella società. Il problema è che il detenuto se lavora, per legge, va pagato. Giusto. Solo che i soldi per pagare i 54.000 detenuti non ci sono. Quindi alla fine lavorano in pochi, e a rotazione, e solo l’1% si occupa di manutenzione ordinaria. Intanto 4000 posti nelle carceri sono diventati inagibili e sono in corso appalti per decine di milioni di euro. Se fossero i carcerati a intonacare o riparare i rubinetti, invece di spendere 500 milioni di euro per il piano carceri, spenderemmo meno e lavorerebbero tutti. È sempre una questione di soldi: il sistema penitenziario costa complessivamente 2 miliardi e 800 milioni euro l’anno, che vuol dire circa 4000 euro al mese a detenuto. Si può uscire da questa spirale di inefficienza colpevole guardando anche come fanno gli altri?

Nelle carceri irlandesi praticamente tutti i detenuti fanno qualcosa. Quelli che lavorano a tempo pieno in cucina, in lavanderia e nella manutenzione arrivano a 18 euro la settimana e hanno diritto alla cella singola con doccia in camera e a volte anche col computer. Si chiamano superior deluxe rooms. Ce ne sono 140.

In Austria per ogni ora di lavoro riconoscono dai 7 ai 10 euro, ma il 75% rimane all’amministrazione per le spese di mantenimento. In carcere il detenuto impara a fare il falegname o il panettiere, e spesso succede che, quando ha finito di scontare la pena, viene assunto. Nel carcere americano di Portland lavora il 60% dei detenuti. Lo stipendio viene calcolato, ma l’amministrazione se lo tiene a compensazione del costi di mantenimento e dà al detenuto circa 50 dollari al mese per le piccole spese. Non è obbligatorio lavorare, ma se lo fai, anche qui c’è uno sconto di pena e dei benefits.

Noi, al contrario, tratteniamo dallo stipendio 50 euro per le spese di mantenimento. Così a lavorare sono in pochi, perché i soldi non ci sono. E quei pochi lavorano pure in condizione di disparità. Chi si occupa della mensa per conto dell’amministrazione penitenziaria per esempio prende uno stipendio di 400 euro al mese, se invece lavora per le cooperative prende fino a 1200 euro. Proprio domani scade la convenzione con un decina di cooperative che gestiscono le mense dentro le carceri. Era una sperimentazione, sicuramente conveniente per le coop: la cucina e le derrate le compra il ministero, mentre la coop deve provvedere a pagare lo stipendio a quei 6 0 7 che preparano i pasti. Come vengono scelti quei pochi “fortunati?”. Chi lo sa. Certo è che alle cooperative abbiamo delegato molto in cambio di sgravi fiscali: 16 milioni di euro solo l’anno scorso. Molte fanno attività nobilissime, ma se parliamo di “lavoro”, a parte l’eccellenza di Bollate (che impegna quasi il 50% dei detenuti ), è quasi il nulla. Al femminile di Rebibbia lavorano in 10. Al Regina Coeli invece c’è solo una lavanderia, lavorano in 2, tra i fondatori della coop l’ex brigatista Anna Laura Braghetti, la carceriera di Aldo Moro. A Secondigliano su 1300 detenuti solo una ventina lavorano, fra cui alcuni ergastolani con storie da 41 bis (condannati per mafia, omicidi, traffico di droga). Loro coltivano le zucchine pagati dalla cooperativa di turno, mentre gli altri, quelli che scontano pene meno gravi e certamente usciranno, guardano il soffitto.

L’alternativa è continuare a difendere il principio che il lavoro va remunerato e se non ci sono risorse, pazienza… oppure cambiare strada, organizzarsi in modo da rendere le carceri autosufficienti, far lavorare tutti quelli che lo vogliono, insegnare loro un lavoro, calcolare lo stipendio, ma trattenere le spese di mantenimento, lasciando al detenuto quel che gli serve per le piccole esigenze, concedergli sconti di pena, permessi, celle decenti. È una proposta che evoca “il lavoro forzato” o è una soluzione pragmatica e civile?

LE SPESE DEI MUNICIPI.

Roma, il grande spreco del trasporto disabili: quattro milioni per un servizio che non funziona. Il Campidoglio spende 367 mila euro al mese per portare coi minibus 350 persone al lavoro. Ora una metà di loro ha scelto il taxi. Il Campidoglio spenderebbe meno ma Pd e Forza Italia, in totale sintonia, sono contrari, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Muoversi nella capitale, a detta degli stessi romani, è ogni giorno un'impresa. Farlo se sei disabile può rivelarsi una iattura. Specialmente se alla tua mobilità ci pensa il comune. E non certo perché il Campidoglio voglia risparmiare, anzi. La società Meditral, che svolge il servizio di trasporto collettivo, percepisce 4 milioni per accompagnare al lavoro, all'università o alle terapie circa 350 disabili. Al mese (iva inclusa) fanno 367 mila euro. Se almeno funzionasse, non ci sarebbe alcun problema. Il punto è che non solo il servizio è salatissimo ma - come testimoniano le lamentele di utenti e associazioni raccolte dall'Osservatorio sul trasporto delle persone con disabilità - anche di qualità scadente: assenza del servizio (38%), forte ritardo nell'arrivo dei pullmini (25%), sporcizia e mancanza di sicurezza a bordo, scortesia e via dicendo. Come la ragazza non vedente che denuncia di essere stata lasciata per strada con tre quarti d’ora di anticipo, senza la possibilità di entrare al lavoro, o il dipendente ripreso dall’azienda e costretto a chiedere continui giustificativi per i ritardi. Per capire come si è arrivati a tutto questo occorre tornare al 24 dicembre 2012. Mentre i romani sono alle prese con gli ultimi preparativi per il cenone, il dipartimento Politiche sociali avvia “una indagine di mercato finalizzata all'affidamento del servizio di trasporto per persone disabili”. A firmare la determina è l’allora direttore Angelo Scozzafava, finito nelle scorse settimane nell’inchiesta su Mafia Capitale e nei confronti del quale il gip ipotizza “l’ipotesi di una remunerazione dell’attività funzionale” da parte di Salvatore Buzzi, che lo definiva amichevolmente “Scozzi”: a quanto emerso il re delle coop era disposto a comprargli un piccolo appartamento mentre la sorella Annamaria, dg del ministero dei Beni culturali, gli avrebbe regalato un rolex da 5 mila euro come ringraziamento per aver favorito sua figlia in un concorso indetto del Comune. La scadenza che Scozzafava fissa per presentare le domande di partecipazione è sorprendente: il 28 dicembre alle 12. Ovvero dopo appena quattro giorni, di cui due festivi. E l’unica società che risponde - malgrado le appena 96 ore di tempo a disposizione e le feste natalizie di mezzo - è la Meditral, specializzata nella mobilità in ambito sanitario e sociale. E così, in attesa di una gara pubblica, le affida temporaneamente il servizio: 2,2 milioni per un semestre. Una decisione con cui la giunta Alemanno, constatati “i notevoli disagi alle persone trasportate con i mezzi Atac”, mette fine a un braccio di ferro durato mesi con l’azienda di trasporto pubblico, che pochi giorni prima aveva comunicato l'intenzione di interrompere il servizio. Anche a causa della ristrettezza dei tempi, però, i primi mesi del 2013 sono assai travagliati e il Campidoglio deve correre ai ripari chiedendo ai privati di integrare il servizio. Si scopre così che proprio i taxi, oltre ad assicurare un trasporto ad personam e quindi più aderente alle esigenze personali, permettono anche di contenere i costi in maniera considerevole. I dati dell'Osservatorio parlano chiaro: per chi usa il taxi nel 2013 si spendono mediamente 480 euro, per chi fa ricorso ai pullmini più del doppio: 1.091. E ad agosto, quando gli spostamenti sono assai limitati e il traffico è minore, la forbice è ancora più evidente: 102 euro a disabile da una parte, 1.490 dall’altra. Quasi quindici volte tanto. La ragione? Per effetto del contratto “a corpo”, alla Meditral vanno sempre e comunque 367 mila euro al mese, mentre ai taxi solo quelli del consumo effettivo. Il 1° febbraio 2013, pochi mesi prima delle elezioni, la giunta Alemanno proroga in via sperimentale il servizio per un anno. Il clou arriva però il 24 giugno, due giorni prima che Marino presenti la nuova giunta, con la pubblicazione di un bando europeo per affidare definitivamente il servizio. Costo: 8 milioni più Iva per la durata di 24 mesi. Il risultato però non cambia: anche in questo caso risponde la Meditral, stavolta in collaborazione con la Tundo, un'altra società di trasporto. In attesa di riorganizzare il trasporto per renderlo più efficiente ma anche economico, la gara viene però sospesa dal nuovo direttore del Dipartimento, Gabriella Acerbi (la stessa che Buzzi riuscì poi a far rimuovere perché per nulla disponibile nei suoi confronti) e la fine della sperimentazione prorogata fino a settembre 2014. Così - dopo mesi di monitoraggio, proiezioni e studi - si decide alla fine di optare per una delibera che lascia ai disabili la libertà di scegliere, assegnando a ciascuno un budget fino a un massimo di 1.100 euro al mese a seconda della frequenza e della lunghezza degli spostamenti. Nelle settimane scorse al sondaggio hanno partecipato in 351: il 52% ha optato per i taxi, gli altri per i pullmini collettivi. Tutto risolto? Macché. La decisione della giunta non riscuote grande successo in Aula Giulio Cesare. Nemmeno tra le fila del Pd. Anzi. Il più attivo nel contestare la decisione e nella difesa del trasporto collettivo affidato alla Meditral è proprio il capogruppo democratico Francesco D'Ausilio. Tra lui e il sindaco Marino non corre buon sangue e il consigliere è convinto che la delibera “non centrerà i risultati che si è prefissa” e, anche se dalle cifre ufficiali dell'Osservatorio non risulta, prefigura che il trasporto coi taxi “prenderà piede con un forte dispendio di risorse pubbliche”. L’esponente dem però non è solo. Al contrario, ha una perfetta identità di vedute col forzista Giordano Tredicine: «I costi complessivi e i vantaggi per l'utenza della sperimentazione risultano tutt'altro che chiari». Ma è soprattutto nel Pd che si chiede una ulteriore proroga dell'affidamento, come fa la presidente della commissione Politiche sociali, Erica Battaglia. È contraria perfino la deputata Ileana Argentin, nonostante la delibera ricalchi sostanzialmente quanto previsto da un regolamento adottato nel 2004, quando lei stessa era delegata all'handicap del sindaco Veltroni. Fin qui la politica. Resta ora da vedere se il servizio migliorerà, la spesa diminuirà o, con quasi 500 disabili in lista d’attesa, si potrà quanto meno aumentare il numero degli assistiti. Nonostante il fuoco “amico” del Pd sulla giunta. Ma forse nemmeno poi troppo amico.

Il Comune che investe in matite e quello che sperpera per le liti. Un sito web mette a confronto i bilanci delle amministrazioni: il paese più piccolo d’Italia, Pedesina (Sondrio) conta 12 consiglieri su 33 abitanti. Micigliano spende 356 euro pro capite in parcelle di avvocati, scrivono Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Varie, eventuali e generiche». Manca solo questa dicitura, nelle voci dei bilanci dei Comuni italiani. Per il resto c'è tutto. Con legende così fumose che ti chiedi: cosa diavolo c'è sotto? Esempio: «Rimborso anticipazioni di cassa». Cioè? Boh... Quattro miliardi e mezzo di euro. Come l'Imu sulla prima casa. Lo rivela un nuovo sito da oggi online. Dove i cittadini possono, finalmente, confrontare quanto spendono per le stesse cose, dal materiale di cancelleria alle piante da vivaio, gli oltre ottomila municipi italiani. Alleluia! Purché questo lavoro straordinario venga aggiustato con l'obbligo, su troppe voci, di uscire dall'indefinito. È un pozzo senza fondo di informazioni fondamentali, numeri assurdi e curiosità, il sito soldipubblici.mgpf.it. Navighi un po’ e ti poni domande bizzarre: con chi sono in guerra a Micigliano, in provincia di Rieti, per spendere in «liti e patrocinio legale» 356 euro pro capite contro il miserabile centesimo (un cent!) del comune di Pisa o gli zero (zero carbonella) centesimi di altre migliaia di municipi? Oppure: quali animali si sono comprati a Barengo, in provincia di Novara, per spendere 26 euro abbondanti a testa contro i 2 centesimi di Nocera Inferiore? E cos’è questo «global service» che ha fatto scucire al Comune di Spoleto quasi 217 euro per ogni cittadino se a Pavia non hanno tirato fuori una sola monetina? In realtà, molti dati vanno presi con le pinze. È ovvio, ad esempio, che il Comune di Longarone non spende un milione e mezzo di soldi pubblici per ogni cittadino: il guaio è che la banca dati originaria, il Siope (Sistema Informativo Operazioni Enti Pubblici) di Bankitalia, non è stato ancora aggiornato di recenti ritocchi. Vedi appunto Longarone, che dopo la fusione con Castellavazzo risulta avere 6 abitanti invece di 5.433. Peggio, la nuova realtà comunale conserva il nome di prima ma con due codici Istat, due codici fiscali... E pasticci simili sono segnalati per altri sei Comuni: Montoro, Fabbriche di Vergemoli, Scarperia, San Piero, Tremezzina e Val Brembilla. Un peccato, certo. Ma secondario rispetto alla massa enorme di numeri che consentono per la prima volta agli abitanti di Portofino o Bergolo, Marsala o Luserna, come dicevamo, di fare dei paragoni. E capire se il loro municipio, rispetto per esempio ai Comuni vicini, è amministrato bene o male. Per poterne poi chiedere conto. Una trasparenza che, rimossi i piccoli errori iniziali grazie alle inevitabili precisazioni di questo o quel municipio, dovrebbe consentire poi un maggiore controllo pubblico dei conti. E di conseguenza non solo contenere le spese ma arginare la corruzione che conta proprio, per prosperare, sul caos totale dei bilanci. E dunque evviva Riccardo Luna, il giornalista esperto di startup innovative pubblicamente ringraziato per questo lavoro anche da Matteo Renzi. Evviva l’ équipe di Giovanni Menduni del Politecnico di Milano che basandosi sui dati del Siope ha battezzato il sito soldipubblici.gov.it segnalando con onestà le iniziali discrepanze. Ed evviva Matteo Flora, della «Thefool» di Milano (Monitoraggio, Moderazione, Gestione e Tutela Legale della Reputazione Online) che ha fatto il passo successivo costruendo il portale soldipubblici.mgpf.it per dare la possibilità a tutti di vedere le classifiche generali e pro capite delle varie spese. Certo, il sistema zoppica sulle varie voci dei bilanci. Che differenza c’è tra gli «incarichi professionali esterni» e gli «incarichi professionali»? Peggio ancora, certe caselle sono così generiche, come scrivevamo, da lasciare spazio a ogni interpretazione: «altre spese per servizi», «altri tributi», «altre infrastrutture» e così via. Prova provata della necessità di cambiare le regole definendo una volta per tutte per ministeri, Regioni, Province (finché ci saranno) e Comuni le diciture che possono essere utilizzate. Così da permettere di capire se sotto la dicitura «altri contratti di servizio» c’è una serata di fuochi artificiali, un cenone clientelare o l’appalto per le fognature. Torniamo ai 4 miliardi e mezzo dei «Rimborsi anticipazioni di cassa», metà di quanto i Comuni hanno speso nel 2014 per gli stipendi del personale, nove miliardi. Come sono stati impiegati? Non lo sa nessuno, tranne i cassieri municipali. Si tratta infatti di somme loro affidate per pagamenti in contanti dei quali non esistono riscontri immediati. Ci saranno magari il mese successivo, quando si scoprirà se sono stati usati ad esempio per viaggi o formazione professionale. O si capirà, per intuizione, dal rendiconto del bilancio. Ma la classificazione Siope non dice nulla di più. Una follia: la trasparenza esclude zone grigie. Per non dire di altre sovrapposizioni e intrighi che appaiono studiati apposta per non far capire nulla. Ci sono «trasferimenti correnti ad imprese di pubblici servizi» (253 milioni) e poi «trasferimenti correnti ad aziende speciali» (220 milioni), e poi «trasferimenti correnti ad altri enti del settore pubblico» (1,3 miliardi!) e «trasferimenti correnti ad altri» e «trasferimenti in conto capitale ad altri» e «trasferimenti correnti a imprese pubbliche»... Di cosa parliamo? Di cosa? E cosa distingue i soldi per «Beni di valore culturale, storico, archeologico e artistico» e quelli per le «opere artistiche»? E come vanno distinti i denari spesi per «fabbricati civili a uso abitativo, commerciale e istituzionale» (1,3 miliardi!) e le «locazioni» (389 milioni) e gli «altri beni immobili» (un miliardo e 552 milioni!) e la «manutenzione ordinaria e riparazione di immobili» (752 milioni!) e le «altre spese di manutenzione ordinaria e riparazioni» pari a 571,6 milioni? E che differenza c’è fra «beni di rappresentanza» e i «servizi di rappresentanza»? Non esiste nemmeno la certezza che in quelle voci i Comuni mettano tutti le stesse cose. L’addetto che materialmente compila i mandati ha sì l’obbligo di metterci un codice: ma lo sceglie lui. Lui! E il tesoriere che stacca l’assegno non è tenuto a controllare che sia giusto, ma solo che un codice ci sia. E così sarà fino al prossimo 15 marzo, quando l’obbligo di fattura elettronica per le pubbliche amministrazioni almeno questo problema, Deo gratias , dovrebbe risolverlo. Eppure, nonostante il guazzabuglio, qualcosa di come gli enti locali spendono i soldi si riesce finalmente a capire, grazie soprattutto al numeretto che gli «hacker» hanno messo accanto a ogni cifra: il valore pro capite, appunto. Quel numeretto dice, ad esempio, che certe dimensioni lillipuziane dei municipi non hanno senso. Il Comune più piccolo d’Italia, Pedesina in Provincia di Sondrio, paga per le indennità del sindaco e dei consiglieri comunali 9.358 euro: tanto quando spende (9.679 euro) alla voce «competenze per il personale a tempo indeterminato», forse un unico impiegato part-time. Fanno 283 euro a testa. Ovvio, con 33 abitanti, un sindaco e 11 consiglieri comunali... Moncenisio di consiglieri ne ha 11 per 34 abitanti, e spende ancora di più: 15.449 euro. Sono 454 euro a persona, che fanno di quel paese torinese il posto dove si stanziano più soldi pro capite per mantenere i pubblici amministratori. E anche per le consulenze: sempre che per «incarichi professionali» si intendano quelle. La spesa pro capite nell’ultimo anno è stata di 955 euro. Per un totale di 32.495 euro. Una cifra modesta, in assoluto. Neppure paragonabile con i 75,1 milioni (28 euro pro capite) di una città come Roma. Ma la dice lunga su quanto l’accorpamento dei Comuni minuscoli, pur nel rispetto delle tradizioni storiche e del diritto di rappresentanza, sia indispensabile per mettere sotto controllo la spesa. I confronti, sul pro capite, possono essere micidiali. Gli amministratori locali a Roma costano 7,8 milioni: due euro per abitante. Che salgono a 3 a Milano, 5 a Napoli, 6 a Palermo, 11 a Cosenza, 12 a Siracusa e Caserta, 13 euro a Bolzano, 14 a Messina, 15 a Chieti, 22 a Vibo Valentia, 24 ad Aosta... Per carità, è chiaro che più piccola è una realtà e più lo stesso identico servizio costa. Ma una regolamentazione fissa sui gettoni di presenza decisi a livello nazionale in rapporto anche agli abitanti appare indispensabile: i 498 milioni stanziati nel 2014 per le indennità e i gettoni alle giunte e ai consiglieri comunali potrebbero essere spesi più equamente. Prendiamo una delle voci più grosse? Lo smaltimento dei rifiuti, che costa agli italiani quasi 8 miliardi e mezzo l’anno. Il Comune di Napoli nel 2014 ha sborsato 305 euro per ogni cittadino, Venezia 318: ovvio, in una città dove i turisti sono quotidianamente il triplo degli abitanti la raccolta differenziata è complicatissima. Ma si possono spendere 684 euro pro capite a Porto Cesareo, 760 a Capri, 802 a Caorle? Fermo restando, si capisce, che non sempre un’alta spesa pro capite denuncia una mancanza di efficienza. Prendiamo il trasporto pubblico locale: il Comune dove il costo è più elevato è Milano: 621 euro per abitante, contro i 265 di Roma, i 230 di Napoli, i 263 di Brescia e addirittura gli 85 di Palermo. La qualità del servizio di trasporto nel capoluogo lombardo non è minimamente paragonabile, però, non solo con quella dei capoluoghi siciliano o campano, ma neppure quella di Roma. Dove l’incasso dei biglietti è la metà rispetto a Milano e una società come l’Atac, fosse privata, sarebbe già fallita. E i servizi scolastici? A Milano si spendono 33 euro per abitante. Niente, in confronto ai 118 di Basiglio, il Comune più ricco d’Italia, o ai 108 di Maranello, il paese della Ferrari. In confronto ai 21 di Potenza, però, si tratta di un’enormità. Ma anche in rapporto ai 17 di Firenze, agli 11 di Livorno, agli 8 di Catania e Latina, ai 7 di Cagliari, ai 6 di Catanzaro... Onestamente: siamo sicuri che i servizi milanesi, in questo settore, valgano tre volte quelli livornesi? È qui che servono, i confronti. Com’è possibile che Milano nel 2014 per la voce «servizi ausiliari e pulizie» abbia speso 23 euro per abitante e Roma solo 7? Risponderete: la differenza si vede. Ma come la mettiamo con Potenza, che ne ha spesi 103? E Salerno: 120? E Muggia, che di euro ne ha investiti 138, può davvero dimostrare che valeva la pena di stanziare il triplo pro capite di Trieste (44 euro) con la quale confina? È così abissale, la differenza, o c’è qualcosa che non torna? Della serie «varie e generiche»: a cosa si riferisce la voce «altri materiali di consumo» che assorbe in totale 518 milioni e vede in testa per numeri assoluti Ragusa e nel pro capite il borgo sudtirolese di Tires? Pennarelli, fotocopiatrici o sci? E come mai alla voce «Mezzi di trasporto» Roma risulta avere speso nell’ultimo anno 77,1 milioni contro 4,2 di Milano? Spese improvvise e non previste? Una cosa è certa. Una volta messa a punto la banca dati online con le precisazioni e le contestazioni di questo e quel Comune, nulla sarà più come prima. Già oggi i cittadini di Pomezia, per dire, hanno il diritto di chiedere: come mai per «carta, cancelleria e stampati» la città spende 1,4 milioni e cioè più di Milano (988 mila), Catania (971 mila) o Roma (769 mila)? E perché, si interrogheranno a Roio del Sangro, il loro Comune per «pubblicazioni, giornali e riviste» sborsa 53 euro pro capite contro i 2 di Trento? E come mai Cittareale ha speso 186 euro pro capite di «derrate alimentari»? Tempi duri, per gli amministratori spendaccioni. Purché non ci si accontenti di questo primo assaggio di trasparenza e si metta mano infine al modo insensato di fare i bilanci. E purché, dopo quelli comunali, vengano messi online, con la stessa chiarezza, i bilanci delle Regioni e dei ministeri. Che al momento, però, sembrano un po’ sordi...

L'ITALIA DELLA DILAPIDAZIONE. DAL BASSO DEI COMUNI ALL'ALTO DELLA CORTE COSTITUZIONALE, PASSANDO PER LA OMESSA SPESA DEI FONDI COMUNITARI.

Vigili, asili, strade: tutti gli sprechi dei Comuni italiani. I dati elaborati da una società del Tesoro. Milano ha il record di contravvenzioni. Al sud sprechi per la burocrazia. Inchiesta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Com’è possibile che Roma, proprietaria di un immenso patrimonio edilizio comunale, spenda per le sedi dei vigili canoni d’affitto 117 volte superiori a quelli di Milano? Eccolo qui, un esempio clamoroso per capire quanto servano le tabelle sui «fabbisogni standard»: i cittadini possono vedere, confrontare, rendersi conto. E decidere chi premiare e chi punire. Era ora, che qualcosa cominciasse a filtrare, di quella massa enorme di dati. Eppure sono così tante, per ora, le contraddizioni che occorre prendere quei numeri con le molle. Sennò si rischia di spacciare Casal di Principe, per decenni regno dei Casalesi, udite udite, per un municipio virtuoso. Son passati 32 anni da quando il pci Lucio Libertini, parlando dei trasporti, propose di fissare dei «costi standard»: trentadue. E da allora l’invocazione è stata ripresa da tutti. A destra e sinistra. Un tormentone. Finché nel 2010 la Sose, una società per l’89% del Tesoro e per l’11 della Banca d’Italia, ha cominciato a raccogliere a tappeto, con l’aiuto dell’Ifel (il centro studi dell’Anci) una miriade di numeri su sei comparti dei bilanci comunali: burocrazia interna, polizia locale, istruzione pubblica, territorio e viabilità, ambiente e rifiuti e politiche sociali, compresi gli asili nido. I risultati ufficiali saranno messi a disposizione fra un mese. Potete scommetterci: scoppierà un putiferio. Tanto più se il governo decidesse di tagliare o premiare sulla base delle cifre nude e crude. Piero Fassino, presidente dell’Anci, l’ha già detto: «I dati sono del 2010, mentre l’incidenza maggiore sulla spending review arriva dal triennio 2011-2013 segnato da drastici tagli: raccomando al governo di non prendere provvedimenti in base a quelle tabelle». Ci abbiamo messo il naso in quel rapporto stilato, è bene precisarlo, su numeri forniti dagli stessi Comuni. Trovando dati che gridano vendetta. Ma anche incoerenze che danno ragione alla tesi su lavoce.info di Massimo Bordignon e Gilberto Turati: «Usare questi numeri per separare gli “spendaccioni” dai “risparmiosi”, senza tenere conto di quantità e qualità dei servizi offerti, può generare disastri. Si rischia cioè di identificare tra i risparmiosi quelli che non offrono i servizi e tra gli spendaccioni quelli che invece i servizi li offrono». Un solo esempio: possibile che la Calabria, che secondo uno studio di Stefano Pozzoli in quel 2010 aveva, rispetto agli abitanti, un quattordicesimo dei posti negli asili rispetto all’Emilia possa essere considerata «risparmiosa» perché mancano le scuole materne e le maestre? Di più: è inaccettabile che da questo «pattugliamento» a tappeto sui conti dei Comuni siano stati esclusi quelli delle Regioni speciali. Hanno diritto a gestire i soldi in autonomia? D’accordo. Ma possiamo sapere «come» li spendono, i soldi degli italiani? Detto questo, evviva: il monitoraggio capillare, da completare con la definizione di alcuni servizi minimi, è un passo avanti enorme. Che comincia a far chiarezza sull’anarchia dei bilanci. La prima cosa che balza all’occhio è il presunto record di virtuosità dei Comuni calabresi, che spendono il 10,65% in meno del fabbisogno standard complessivo al quale avrebbero diritto. Cioè della somma che, tenendo conto di un mucchio di fattori più o meno penalizzanti (esempio: solo chi sta in montagna può capire il peso sociale, scolastico, economico di certe nevicate) viene indicata come necessaria perché tutti i cittadini siano sullo stesso piano. Per contro, la peggiore risulta essere, nonostante un livello dei servizi superiore, la rossissima Umbria, dove i Comuni spendono il 9,71% più del fabbisogno calcolato. Di più: la Calabria sembra addirittura meno sprecona del Veneto, del Piemonte e delle Marche. Dice tutto il confronto fra Perugia e Lamezia Terme. La prima, bella, dolce e benestante, è la città con oltre 70 mila abitanti che ha la peggiore performance in assoluto, con una spesa che nel 2010 ha superato del 31% il fabbisogno standard. La seconda batte tutti sul fronte opposto: nel 2010 ha speso il 41% in meno. Come mai? Forse perché spendeva pochissimo per funzioni essenziali quali la riscossione dei tributi (35 mila euro contro un fabbisogno di 446 mila), gli asili nido (641 mila euro contro 930 mila) e il «sociale»: 2 milioni 522 mila contro 7 milioni 439 mila. Scelte imposte dal peso esorbitante di servizi burocratici come l’anagrafe, lo stato civile e il servizio elettorale: 1.162 mila contro un fabbisogno tre volte più basso, 468 mila. Il contrario di Perugia, più parsimoniosa nelle spese per la burocrazia ma assai più esposta sul fronte dell’ambiente (36,2 milioni contro i 6,2 stimati come fabbisogno standard), dello smaltimento dei rifiuti (31,7 milioni contro 22,5) e dei trasporti pubblici (25,3 milioni contro 4). Numeri in linea con una tendenza generale: le regioni meridionali, spiega la Sose, «da un lato risultano spendere più dello standard nel settore dei servizi generali di amministrazione e controllo», cioè per i burocrati e i dipendenti in genere, «e dall’altro spendere meno dello standard nel settore dei servizi sociali». Bologna, ad esempio, figura sì in «zona rossa» con una spesa 2010 superiore del 4,76% allo standard, ma si tratta di una scelta precisa: investe nell’istruzione 60,4 milioni, contro i 37,5 previsti da Sose. Giusto? Sbagliato? I risultati, scommettono gli emiliani, si vedranno più in là. Così come scommettono su se stessi i Comuni veneti (Vicenza su tutti), che a dispetto dei servizi buoni e a volte eccellenti riescono a spendere, come notava Albino Salmaso sul Mattino di Padova , il 7% in meno della media italiana. Un dato lusinghiero. Purché, in attesa della seconda parte del monitoraggio sul livello dei servizi, venga preso comunque con le pinze: i numeri possono essere bugiardi. Avete presente Casal di Principe, la cittadina della «Terra dei fuochi» tenuta in ostaggio per decenni dai Casalesi ed espugnata a giugno dal sindaco antimafia Renato Natale? Risulta tra i municipi più virtuosi della Campania. Basta dire che la sua spesa 2010 era inferiore al fabbisogno standard del 41,6%. Ma se andiamo a vedere come spendeva quell’anno i denari pubblici, scopriamo che per gli uffici preposti a raccogliere le tasse comunali, c’erano briciole. Fabbisogno stimato da Sose: 113.242 euro. Euro impiegati: 167. Cioè 678 volte di meno: perché mai infastidire i compaesani chiedendo loro le tasse? Quanto all’ambiente, devastato dai veleni scaricati perfino nel cortile della ludoteca, il fabbisogno stimato era di 445.949: ne spesero un quarto. I denari servivano per la burocrazia municipale. Costosissima. Assurdo. Certo è che la Provincia di Caserta, la più avvelenata dagli scarichi industriali di tutta l’Italia, dimostra una volta di più come gli stessi «fabbisogni standard» abbiano sì un senso, ma debbano tener conto del contesto. Nel 2010 l’ente provinciale casertano spese il 35% in più del previsto investendo nel settore ambientale 57 milioni: cinque volte più del fabbisogno standard calcolato da Sose: 11 milioni 581.147 euro. Spreconi? Dipende da come sono stati investiti soldi. Ma che quella terra sventurata abbia bisogno di più quattrini per il risanamento di ogni ipotetica media nazionale è fuori discussione. Così come è complicato calcolare lo «standard» per località turistiche che a seconda delle stagioni possono moltiplicare la popolazione di tre, cinque, dieci volte. Al Nord e al Sud. Il fabbisogno finanziario teorico di Cortina d’Ampezzo sarebbe inferiore del 52% alla spesa reale, quello di Capri del 39,6, di Ischia del 42,6, del Sestrière del 52,4, di Gallipoli del 38,6. Spreconi? O piuttosto inchiodati dall’obbligo a mantenere dei servizi decenti? Non mancano, nelle realtà più piccole, esempi di virtuosità stupefacente. Il record spetta a un paesino bergamasco, Blello, che ha un fabbisogno teorico del 108,9% superiore a quello che il municipio spende in realtà: i 79 abitanti si sanno accontentare. O si sono rassegnati. Così a Cartignano, 180 residenti, nel cuneese, dove il differenziale è del 108,4%. O nella salernitana Omignano, dove lo «standard» sarebbe più alto del 97,2. Ma sono tutti «risparmiosi» o costretti a far buon viso a cattiva sorte a causa della marginalità?
Risultati simili, nelle metropoli, sono impensabili. A Roma nel 2010 ogni cittadino spendeva per i servizi fondamentali 1.695 euro, dei quali 400 per mantenere i dipendenti municipali. A Milano 1.830: 441 per il personale. A Napoli 1.416 euro: per i «comunali» 477. Ma quanto valgono questi numeri se non si tiene conto del divario, qua e là abissale, dei servizi forniti? I tre Comuni allo specchio dicono tutto delle differenze fra i diversi pezzi d’Italia. Basti prendere il costo della funzione forse più sensibile per un Comune, quello della polizia locale. Il fabbisogno standard di Roma è fissato in 323 milioni: nel 2010 spese il 14,5% in più. All’opposto Milano, che sborsò per i vigili il 38,3% in meno ma anche Napoli, che «risparmiò» il 29%. Eppure il Campidoglio, in quel 2010 preso in esame, fornisce ai cittadini in qualità e quantità molto meno di Palazzo Marino. Per carità, le multe stradali sono forse un indicatore anomalo, ma i dati sono interessanti: i 5.998 vigili di Roma elevavano manualmente 929.442 contravvenzioni (154 a testa: tre a settimana), i 3.179 colleghi milanesi 1.178.780: 370 pro capite, più di una al giorno. Per non parlare delle 79.870 sanzioni di diverso genere fatte a Milano contro le 27.990 di Roma e le appena 963 di Napoli. O dei 255 arresti effettuati dai «ghisa» ambrosiani a fronte dei 110 dei «pizzardoni» capitolini e dei 64 dei «caschi bianchi» partenopei. Per non dire degli affitti di cui scrivevamo. Nonostante fosse proprietario di 59mila immobili, storicamente gestiti assai male, il Comune di Roma in mano alla destra dopo anni di giunte di sinistra, pagava nel 2010 per i locali occupati dalla polizia municipale canoni per tre milioni e mezzo contro i 30.017 euro di Milano: 117 volte di più. Una spesa mostruosa. Che costringeva il Campidoglio a risparmiare su tutto il resto. Comprese le tecnologie indispensabili per amministrare meglio una realtà complicata quale quella capitolina. Solo 2,9 milioni di euro investiti contro i 6,4 di Palazzo Marino. Con riflessi clamorosi sul controllo territoriale. I questionari compilati dai rispettivi Comuni e aggiornati al primo agosto di quest’anno dicono che a Milano la polizia locale dispone, per un territorio di 181 chilometri quadri, di 1.359 telecamere. A Napoli, dove i chilometri quadrati comunali sono 1.117, i vigili ne hanno 100. E a Roma? Il Comune con la superficie più vasta d’Italia, 1.285 kmq, di telecamere ne ha solo 45. Cioè una ogni 48 chilometri.

La casta della ricerca agricola, che stipendi. La castarella, nascosta, si aumenta le prebende alla faccia della spending review nazionale. Anche la castarella nascosta, in arretramento quantitativo in verità rispetto alle burocrazie fameliche delle stagioni passate, dovrebbe fare risparmio collettivo, ma riesce a girare le richieste di spending del governo in aumenti di stipendio, scrive Corrado Zunino su “La Repubblica”. Ecco il Cra, il più grande ente italiano di studio nell’agricoltura. Ce ne occupiamo in questa rubrica perché si parla, appunto, di ricerca e ricercatori. Il Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura il 18 marzo 2013 ha inglobato l’Inran, ente controllore dell’alimentazione, soppresso dal governo Monti per risparmi necessari a salvare il paese. Il Cra non ha fatto altro che aprire una nuova branca, chiamarla Cra Nut (sta per nutrizione), affidargli una direttrice, Elena Orban, già dirigente di ricerca nella vecchia struttura e iniziare a lamentarsi con il ministero dell’Agricoltura, il controllore. Già, il presidente Giuseppe Alonzo a “Il Fatto alimentare” a operazione realizzata disse: «L’Inran ci è stato attribuito per legge, il Cra ha assorbito l’intero gruppo dei ricercatori e i precari che lavorano nell’istituto da lungo tempo. Il bilancio in rosso dell’istituto, però, presentava grosse lacune ed è necessario che il ministero delle Politiche agricole adegui il fondo destinato a noi per poter fare fronte al nuovo organico e garantire le ricerche in corso». In attesa che il ministero adeguasse il fondo, Alonzo si è adeguato lo stipendio. Già. L’Anpri, associazione che racchiude ricercatori scientifici e tecnologici, sindacato combattivo, nel frattempo ha segnalato che «l’intero gruppo dei ricercatori e i precari dell’ex Inran» non è stato assorbito sul serio. Il sindacato ha denunciato: «L’amministrazione del Cra continua a sostenere che non ci sono soldi per l’applicazione dello scorrimento delle graduatorie e per l’assunzione dei precari storici, ma i soldi per la dirigenza si è scoperto che ci sono». Il Consiglio di amministrazione del Cra con la delibera 10 del 2014 aveva infatti disposto un aumento del compenso spettante ai suoi quattro membri. Il presidente Alonzo, dopo neppure due stagioni di lavoro, era salito a 206.000 euro l’anno (la delibera non specifica partendo da quale quota). Lo stipendio dei tre consiglieri è stato “rideterminato” a 44.000 euro l’anno: sono Rita Clementi,  vicepresidente, Francesco Adornato e Salvatore Tudisca. L’aumentino, perché Alonzo ha una sua generosità, è toccato anche al presidente del Collegio dei revisori dei conti (39.000 euro per lui, ora) e ai quattro componenti (32.000 euro a testa). Per tutti sono rimasti, ça va san dire, i gettoni di presenza. È interessante notare come le altre novanta delibere Cra dell’anno 2014 abbiano un titolo, il provvedimento dell’autoaumento “no”. L’hanno gettato nel calderone dei “visto, considerato, si delibera” con il cifrato riferimento “Art. 4, comma 6, D. Lgs. 29 ottobre 1999, n. 454”. Nascosto bene, probabilmente suscitava negli autori un po’ di vergogna. Non è finita. Cinque delibere dopo è arrivato anche l’aumento per il direttore generale del Consiglio per la ricerca in agricoltura. Ida Mirandola da due anni e tre mesi — dai tempi dell’arresto del predecessore Giuseppe Ambrosio per corruzione — era una facente funzioni, e lo scorso marzo il cda le ha riconosciuto lo stipendio pieno: 277.000 euro complessivi, 97.0000 euro in più della precedente busta paga. Se gli aumenti del cda erano giustificati dai nuovi carichi di lavoro dovuti all’arrivo del personale dell’ex Inran, per il direttore generale non c’è stato bisogno di giustificare nulla: aumentone, pronta cassa. Quattro mesi dopo Alonzo e il suo cda si sono accorti che quella cifra violava i tetti massimi degli stipendi pubblici fissati dal governo Renzi — 240.000 euro — e frettolosamente lo hanno riportato “secundum legem”: 239.957,03 euro. L’Anpri, che sostiene di aver ottenuto a fatica questa documentazione (ora visibile sul sito del Cra), ha chiesto al Consiglio di amministrazione «che sembra preoccuparsi solo dei propri interessi» di revocare le tre delibere di aumento visto che «nell’attuale situazione di grave difficoltà economica di tutto il paese (il governo sta cercando di diminuire la spesa pubblica, i dipendenti pubblici subiscono dal 2009 il blocco del contratto e di ogni aumento stipendiale, il blocco del turnover limita fortemente le nuove assunzioni, progressioni di carriera incluse, e le possibilità di assorbimento del precariato) il comportamento dei vertici del Cra è stato irresponsabile e inaccettabile». Il segretario generale dell’Anpri si è quindi rivolto al ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina. Che, a “La scuola siamo noi”, assicura che non firmerà i decreti attuativi degli aumenti. «Stiamo controllando se quegli stipendi siano stati operativi dal mese di marzo. Nel caso, i beneficiari restituiranno la parte non spettante». La delibera silenziosa degli alti funzionari agricoli ai tempi della spending review, promette, non passerà. 

La Consulta è d'oro: 30 mila euro al mese e un mare di benefit per la Corte dei privilegi. Stipendio da favola. Liquidazione a cinque zeri. Immunità totale. Pensioni d'oro. Auto blu con due chauffeur personali. Appartamenti di servizio. Previdenza sanitaria deluxe. Ecco i vantaggi che si celano dietro la battaglia che da mesi oppone i partiti in Parlamento, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso” À la guerre comme à la guerre. Accordi sottobanco, imboscate, dissidi. Passi indietro, conciliaboli. Numeri da segnare col pallottoliere, innumerevoli fumate nere . La snervante e feroce battaglia che si consuma da giugno per l’elezione di due giudici della Consulta si può capire soltanto alla luce del ruolo che le assegna la Costituzione: stabilire la legittimità delle leggi, dirimere i conflitti fra i poteri dello Stato, giudicare il presidente della Repubblica se viene messo sotto accusa dalle Camere, valutare l’ammissibilità dei referendum. Un potere tale da rendere assai appetibile poltrona dei 5 componenti di nomina parlamentare. Non a caso i partiti da sempre si scontrano per piazzarvi i loro accoliti o quanto meno personalità di area. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque. Se il prestigio che se ne ricava è indubitabile, a rendere ancora più aspra la contesa sono anche i benefici di cui i 15 alti magistrati godono nei nove anni del loro mandato. A cominciare dallo stipendio extra lusso, il più alto previsto per tutta la categoria: 30 mila euro al mese (lordi), che diventano 36 mila per il presidente. Tradotto su base annua, fanno rispettivamente 360 mila e 432 mila euro. Troppo? Eppure questo è il risultato dei tagli fatti per venire incontro alla richiesta del premier Matteo Renzi, che ha fissato un tetto alle retribuzioni statali prendendo come parametro l’emolumento del Capo dello Stato (240 mila euro). Fino allo scorso aprile, infatti, la retribuzione dei giudici costituzionali era assai più alta: 466 mila euro l’anno per i togati “semplici” (39 mila al mese) e 560 mila per il presidente (47 mila al mese). Costo complessivo per le casse dello Stato nel 2013: 9 milioni. E il paradosso è che a rendere tanto pesante il trattamento economico è stato uno storico avversario delle toghe: Silvio Berlusconi, il cui governo a Natale 2002 inserì in finanziaria una norma per aumentare del 50 per cento lo stipendio, fino ad allora uguale a quello del primo presidente di Cassazione (311 mila euro attualmente). Una strenna faraonica pensata, secondo i maligni, per ingraziarsi i giudici in vista di eventuali ricorsi contro le leggi ad personam. Il regalo non ha prodotto grandi risultati, visto l’esito del lodo Schifani, lo scudo giudiziario varato pochi mesi dopo e dichiarato incostituzionale nel 2004. In compenso l’omaggio in busta paga è rimasto. La cospicua elargizione berlusconiana, fra l’altro, si rivela ancora più importante al momento dell’addio, visto che la buonuscita è calcolata sull’ultimo stipendio moltiplicato per il numero di anni di servizio. Ed è anche per questo che per il ruolo di presidente - che frutta un 20 per cento in più (72 mila euro l’anno) come “indennità di rappresentanza” - viene quasi sempre scelto il giudice con la maggiore anzianità di carica: così tutti possono aspirare, un giorno, al massimo titolo. Risultato: la carica, per legge fissata in massimo tre anni, spesso dura pochi mesi. Come mostrano tutti i casi degli ultimi anni: Gaetano Silvestri (9 mesi e 9 giorni), Franco Gallo (7 mesi e 18 giorni), Ugo De Siervo (4 mesi e 19 giorni), Giovanni Maria Flick (3 mesi e 4 giorni). Fino al caso limite di Vincenzo Caianiello, che nel 1995 fu presidente per appena 44 giorni. Il presidente attuale, l’ex numero uno dell’Antitrust Giuseppe Tesauro, non fa eccezione: è stato eletto presidente il 30 luglio malgrado coi suoi 72 anni sia uno dei più giovani del collegio e termini il suo mandato il prossimo 9 novembre. Resterà dunque in sella tre mesi appena: sufficienti però a far lievitare la buonuscita, che in questo modo dovrebbe aggirarsi attorno ai 300 mila euro lordi (anziché 250 mila). «La brevità della mia presidenza non costerà una lira in più rispetto ad una lunga» ha rassicurato lui . Verissimo: fosse rimasto in carica un triennio, non sarebbe cambiato nulla. Solo che a dicembre sarà già necessario eleggere il suo successore e i costi aumentano anche per le super-liquidazioni dei presidenti a raffica. A ogni modo non c’è da temere: quando i nove anni finiscono, si può contare su una pensione più che dignitosa. L’anno scorso per erogarne 31 (22 giudici emeriti e 9 vedove), la Consulta ci sono voluti oltre 5 milioni e mezzo: una media da 180 mila euro l’una. E l’anno prossimo, per effetto della scadenza dei mandati (l’ex presidente Silvestri, quello attuale Tesauro, Luigi Mazzella e Sabino Cassese), la spesa salirà ancora e supererà i 6 milioni. Insomma, diventare giudice costituzionale - concesso a magistrati, giuristi e avvocati con almeno 20 venti anni di attività - è comprensibilmente un incarico ambitissimo. Perché è vero che il mandato è incompatibile con qualsiasi altra attività retribuita (tranne la riscossione dei diritti d'autore) ma permette il cumulo coi trattamenti pensionistici. Così, se ce la farà a scalare la Consulta, Luciano Violante potrà continuare a beneficiare del vitalizio da 5.631 euro (netti) al mese che percepisce dal 2008, dopo 29 anni passati a Montecitorio. Mentre Donato Bruno, avendo maturato i requisiti, fuori dal Parlamento potrebbe iniziare a riscuoterlo ma dovrebbe accontentarsi di un po’ meno: circa 4 mila euro al mese per 18 anni di versamenti. Un po’ come già accade all’ex premier Giuliano Amato, nominato giudice costituzionale da Giorgio Napolitano giusto un anno fa e percettore di oltre 11 mila euro al mese come docente universitario in pensione ed ex presidente dell’Antitrust, cui si aggiunge un vitalizio parlamentare da 5.170 euro (che però, assicura il Dottor Sottile, va tutto in beneficienza). Non c’è dunque da meravigliarsi se, forse per le massicce pareti del palazzo settecentesco progettato da Ferdinando Fuga, l’eco della crisi è arrivata assai attutita a Corte. Tanto che mentre l’economia lentamente affondava, il contributo dello Stato cresceva, passando dai 46 milioni del 2007 ai 52,7 milioni del 2013: una enormità, se si calcola che alla Consulta lavorano appena 330 persone, fra personale di ruolo e distaccato. Soldi che se ne vanno in gran parte, oltre che per i giudici, per pagare gli stipendi dei 204 dipendenti interni (20 milioni: in media 100 mila euro ciascuno) e 235 pensioni (19,3 milioni). Un piccolo mondo a sé in cui risultano di stanza perfino 44 carabinieri (erano 42 nel 2012) e dove tutti i giudici dispongono, in base a un regolamento interno, di un’auto blu con due chauffeur “personali”. Solo per noleggiare le vetture e pagare assicurazione, telepass, viacard, parcheggi e manutenzione l’anno scorso sono stati spesi quasi 50 mila euro al mese. Più altri 10 mila (sempre al mese) di benzina. Troppo? La Consulta, essendo un organo costituzionale, può decidere in totale autonomia e senza alcuna interferenza esterna tutte le spese, nemmeno a fini di controllo. E comunque, anche in questo caso, bisognerebbe ringraziare. Una spending review, per quanto mini, è infatti arrivata anche a Corte: prima i giudici avevano diritto all’auto blu (e agli autisti) per tutta la vita. Dal 2011, invece, gli ex ne hanno diritto solo per il primo anno dopo aver finito il mandato. Il cellulare invece è rimasto, così come il rimborso dell’utenza domestica. Se il privilegio sembra eccessivo, però, si può rinunciare a farsi pagare anche le bollette del telefono di casa. Un'isola dorata in cui anche la salute è un bene primario. Tanto che con un prelievo volontario di 160 euro al mese si ha diritto a una assistenza sanitaria integrativa di tutto rispetto. Un welfare che non copre solo gli esami di alta diagnostica ma entra fino in sala parto: nel 2012, ad esempio, la Consulta ha rimborsato perfino 5200 euro per un parto cesareo e 2600 euro nel 2013 per uno naturale. Oltre a 91 prestazioni ambulatoriali costate mediamente 700 euro l’una. Ma non è finita. Oltre alla gratuità dei viaggi in treno e i rimborsi per trasferte, voli e taxi (costati altri 10 mila euro al mese lo scorso anno), c'è la ciliegina sulla torta: gli appartamenti di servizio, pensati anche per le toghe che vivono nella capitale: bilocali e trilocali con servizi e cucinino, ubicati al quinto piano del palazzo della Consulta o nell’attigua via della Cordonata. Una sistemazione casa e bottega per alleviare le giornate lavorative durante la pausa pomeridiana (dalle 13 alle 16) ma di cui si può usufruire anche durante la cosiddetta “settimana libera”, ovvero quella in cui i giudici costituzionali non lavorano. Già, perché non si può dire che alla Consulta ci sia da spaccarsi la schiena, dato che la Corte si riunisce ogni due settimane: in udienza pubblica il martedì e in Camera di consiglio il mercoledì per discutere le cause, dedicando il giovedì (raramente anche il venerdì) per redigere le sentenze. Poi se ne riparla dopo 15 giorni. Un calendario inflessibile, tanto che quando si accavallano due settimane lavorative consecutive, come accaduto lo scorso aprile, si “recupera” fissando quella seguente a distanza di 20 giorni. E con vacanze che solitamente vanno dal 10 luglio al 20 settembre. Quasi come ai tempi della scuola.

L'ITALIA CERVELLOTICA DEGLI SPRECHI ASSURDI.

Toh, la burocrazia ci costa più dell'evasione. Gli sprechi della Pa valgono quasi 150 miliardi contro i 110 sottratti alle imposte, scrive Gian Maria De Francesco, Martedì 15/08/2017, su "Il Giornale". Gli sprechi e le inefficienze della pubblica amministrazione costano ai cittadini quasi 150 miliardi di euro all'anno, ben più dei 110 miliardi a cui, secondo le stime, ammonterebbe l'evasione fiscale. È quanto sostiene l'Ufficio studi della Cgia di Mestre che ha cercato di aggregare tutti i dati relativi al malfunzionamento della macchina burocratica valutandone l'impatto negativo sull'economia del nostro Paese. L'analisi si basa sugli effetti prodotti da talune criticità sul sistema-Italia. In primo luogo, il deficit logistico-infrastrutturale incide per un importo di 42 miliardi di euro l'anno. È la stima contenuta in uno studio Confcommercio-Isfort del 2015 sul maggiore valore aggiunto che genererebbe l'Italia se vantasse lo stesso indice di performance della Germania. I debiti della pa nei confronti dei fornitori, desumibili dalle ultima relazione annuale di Bankitalia, ammontano a 64 miliardi di euro dei quali 34 miliardi ascrivibili ai ritardi nei pagamenti. Il peso della burocrazia grava sulle pmi per un importo di oltre 30 miliardi di euro l'anno, cifra certificata sia da una relazione del 2013 del dipartimento Funzione pubblica che da un più recente studio del Cer del 2015. Sprechi e corruzione nella sanità pesano per 23,6 miliardi l'anno (secondo le stime dell'Ispe del 2014), mentre tanto Bankitalia quanto altre basi di dati imputano nelle lentezze della giustizia tanto penale quanto civile quanto amministrative un effetto negativo pari a circa un punto di Pil (16-17 miliardi). Sommando questi valori relativi a diversi sottoinsiemi (che in alcuni casi potrebbero intersecarsi tra loro) si ottiene un valore lordo di circa 146,6 miliardi. Eventuali elisioni interne, però, dovrebbero comunque restituire una cifra superiore al mancato gettito determinato dall'evasione fiscale e contributiva, stimato appunto in 110 miliardi dalla Commissione per la redazione della Relazione annuale sull'economia non osservata, presieduta dall'ex ministro Enrico Giovannini. Questa «cattiva coscienza» dello Stato nei confronti della pubblica amministrazione è testimoniata anche dai dati di bilancio. Il segretario della Cgia, Renato Mason, ha ricordato che «al netto degli interessi sul debito, nel 2017 la spesa pubblica dovrebbe attestarsi sui 773 miliardi di euro» e che «i risultati della spending review, seppur importanti, ma non ancora sufficienti» perché «a fronte di risparmi strutturali per 30,4 miliardi di euro, la spesa corrente al netto degli interessi è aumentata di 31,8 miliardi». È in massima parte il Nord a scontare gli effetti negativi della cattiva gestione della pa, sottolinea il coordinatore dell'Ufficio studi degli artigiani mestrini, Paolo Zabeo, in quanto «avendo un'economia orientata all'export, questi territori avrebbero bisogno di contare su servizi e infrastrutture migliori per competere con maggiore successo nei mercati internazionali». La seconda, perché la propensione all'evasione fiscale del settentrione è nettamente inferiore che nel resto del Paese. In secondo luogo, il ministero dell'Economia aveva osservato come le regioni del Sud registrino livelli di intensità di evasione che sfiorano il 60%, mentre la media del Nord è del 27 per cento. Nei rapporti tra Stato e contribuente, prosegue la Cgia, appare evidente che i dati riportati più sopra dimostrano che il soggetto maggiormente leso non è il primo, ma il secondo. «Se si recuperasse buona parte dell'evasione, la macchina pubblica funzionerebbe meglio e costerebbe meno», ha concluso Zabeo, ma questo non esime coloro che hanno responsabilità di governo dall'imperativo ormai categorico di riuscire «a tagliare sensibilmente la spesa pubblica».

Porno, calcio e scommesse online: lo scandalo dei telefonini di Stato. Dai cellulari in dotazione alle amministrazioni pubbliche sono partite migliaia di chiamate verso numeri ben poco istituzionali. Con un danno di quasi 8 milioni di euro. Lo studio sul traffico di oltre 400 mila sim card Coppola (Pd): "Molte potrebbero essere truffe". Donazioni via sms a carico del contribuente, biglietti per eventi e abbonamenti a oroscopi, scrive Fabio Tonacci il 7 agosto 2017 su "La Repubblica". Siamo sicuri che tra gli 840 dipendenti pubblici che hanno attivato l'abbonamento a "SexyLand" sul telefono di servizio, pagato coi soldi degli italiani, ci sia qualcuno che lo ha fatto per sbaglio. E siamo anche ragionevolmente certi che tra i 665 funzionari, assessori e dirigenti statali che risultano abbonati a "Le porno Erasmus", ci sia chi è soltanto vittima di una truffa telefonica. Così come se andiamo a frugare tra i 564 abbonamenti attivati tra aprile e giugno di quest'anno a "Video hard casalinghi", i 12.000 abbonamenti a "Serie A Tim", i 630 a "Dillo alle Stelle" e i 260 a "Pronto a tavola", troveremo certamente chi ignora di avere questa roba nelle bollette. Ma che c'entra il televoto con l'uso del cellulare "per ragioni di servizio"? Cosa c'entrano le telefonate ai call center per i biglietti dei concerti, o le donazioni via sms addebitate allo Stato? Quel che ha scoperto la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla digitalizzazione (e gli sprechi) dell'Amministrazione pubblica analizzando i 401.839 cellulari a carico dello Stato è un quadro assai poco edificante, di sciatteria e di consapevole sperpero. Tanto, appunto, paga lo Stato. La Commissione si è fatta mandare da Telecom Italia il prospetto con il traffico - telefonate, sms e dati Internet - di tutte le sim dei cellulari consegnati ai dipendenti pubblici. Rientrano nelle due distinte convenzioni Consip (Telefonia mobile 5 e Telefonia mobile 6) che hanno rifornito circa 4.400 amministrazioni centrali e locali. L'obiettivo era capire quanto si può risparmiare se si eliminano i consumi che niente hanno a che fare con il lavoro di un sindaco, di un assessore, di un funzionario ministeriale, di un dirigente statale. Sono quindi andati a vedere quanto è stato speso, dal 2012 al 2017, per chiamate a numeri speciali con addebito (i call center), per servizi di intrattenimento via sms e mms, per i servizi interattivi sulla Rete. Risultato: 7,7 milioni di euro sprecati. Una media di quasi due milioni all'anno, con picchi tra il 2013 e il 2015. Non sono cifre che sconvolgono il bilancio di un Paese, ma dicono molto dei suoi costumi. "Basterebbe fare i controlli sulle bollette, smettendola di complicare le norme, e non ci troveremmo di fronte a questo spreco", osserva il deputato del Pd Paolo Coppola, presidente della Commissione.

Andiamo con ordine. Per avere un'indicazione statistica dei consumi abusivi è stato chiesto alla Tim il dettaglio del traffico di tutte le sim pubbliche nei mesi tra aprile e giugno 2017. In numeri speciali spendiamo 39mila euro non dovuti per colpa di 1.382 chiamate al call center di Trenitalia (11.500 euro), 1.108 a quello di Alitalia (8.754 euro), 267 al desk di Ticketone per avere informazioni su biglietti e concerti (1.907 euro), 120 telefonate al call center di Sky (293 euro) e altro. Piccole cifre, ma che non dovrebbero esistere visto che l'uso del cellulare è consentito solo nell'ambito dell'incarico svolto.

Un po' di più, 132 mila euro, è stato buttato via con gli sms per comprare prodotti bancari e promozioni di natura sociali. Si contano 15.000 messaggini (costati 52.390 euro) ricevuti da Banca Intesa per le comunicazioni di home banking che, ovviamente, non dovrebbero essere attivate col telefono di servizio. Facendolo, furbescamente il possessore carica la commissione della banca su una bolletta non sua. Ci sono anche alcune voci che si riferiscono ad acquisti con Mediaset e altre televisioni. Pure un migliaio di euro in sms di beneficenza, perché è facile essere generosi con i soldi di tutti. Per non parlare di chi ha entusiasticamente partecipato con gli sms (altri 1.000 euro) al televoto di Sanremo e Miss Italia. Ripetiamo: piccole cifre, ma esemplari.

Arriviamo al tasto più doloroso e oneroso, da mezzo milione di euro in tre mesi: le transazioni sulla Rete per contratti con strani provider. Qui, a voler stare al prospetto della Tim, si entra nella fiera del futile. Dunque: 6.976 abbonamenti mobilepay a Beengo Tuk Tuk (in Rete si trovano decine di utenti che si lamentano per l'attivazione non voluta); 9.176 a Mobando; 6.438 a TimGames, 12.000 circa a Serie A Tim, migliaia e migliaia di servizi per entrare nelle chat erotiche e ricevere e materiale pornografico, oroscopi, ricette, scommesse sportive. "Credo che la maggior parte di questi abbonamenti siano stati attivati involontariamente, frutto di truffe telefoniche", sostiene Paolo Coppola. "Se chi lavora nella pubblica amministrazione ci casca così facilmente, chissà quanti utenti privati vengono fregati".

Rimangono però un paio di punti da chiarire. Pure in presenza di truffe, c'è da chiedersi perché non vengano rilevate da chi controlla i bilanci di comuni, province, regioni, ministeri. Basterebbe avvertire il dipendente, disattivando il servizio, e risparmieremmo tutti. Non solo. Gli sms per il televoto a San Remo, le chiamate ai call center a pagamento, l'home banking, la beneficenza farlocca: tutto ciò assomiglia più al reato di peculato che a un inconsapevole errore. "Ci penserà la procura, nel caso", dichiara Coppola. "Più avanti consegneremo la relazione finale complessiva al Parlamento, e immagino che i magistrati saranno interessati. Sull'immediato, come commissione di inchiesta, daremo l'indicazione perché nella convenzione Consip sia inserita una clausola per mettere automaticamente nella black list questo tipo di servizi".

I tagli mai fatti: ogni giorno una società pubblica in più. Lo studio Ires-Cgil: sono quasi 9mila, 5mila nate solo tra il 2000 e il 2014. Gli enti locali assumono beffando le leggi. Record in Val d’Aosta con una partecipata ogni 1.929 cittadini. E una su 5 è inattiva, scrive Sergio Rizzo il 13 luglio 2017 su "La Repubblica". La società delle Terme di Salsomaggiore è in rosso dal 2008. La pioggia delle società pubbliche, indifferente al clima politico e ai rovesci dell’economia, non si è mai fermata. Una al giorno, ne è nata. Per anni e anni, fino ad allagare Regioni, Province, Comuni. La fotografia scattata dalla Cgil con il suo centro studi Ires in un approfondito studio di 60 pagine, ci consegna oggi un’immagine mostruosa. Uno scenario popolato da 8.893 società partecipate dalle pubbliche finanze e cresciute a un ritmo impressionante: circa 5mila nel solo periodo compreso fra il 2000 e il 2014, fino a raggiungere uno spettacolare rapporto di una ogni 6.821 abitanti. Con i suoi amministratori, i suoi revisori, i suoi dirigenti: spesso soltanto quelli. E punte inarrivabili. Come nel Trentino Alto Adige, dove si sono contate 498 scatole societarie create con i soldi dei contribuenti. Ovvero, una ogni 2.126 residenti. Ma ancor più in Valle D’Aosta, la Regione più piccola d’Italia che detiene il record di società pubbliche in rapporto ai propri residenti. Una per ogni 1.929 valdostani. La riforma delle autonomie La Cgil dice che l’inondazione è cominciata negli anni Novanta con la riforma delle autonomie locali. Da lì è partita la febbre che sempre più rapidamente ha contagiato gli enti locali, con la scusa di rendere più efficienti i servizi pubblici vestendoli con un abito privatistico. Ma è dal decennio successivo che il termometro ha preso a salire senza più controllo, complici i vari blocchi delle assunzioni di personale pubblico. E grazie pure ad alcune mosse legislative a dir poco discutibili, come la famosa riforma del titolo V della Costituzione voluta da un centrosinistra all’inseguimento forsennato della Lega Nord, che ha ampliato a dismisura le prerogative della politica locale alimentandone le tentazioni più inconfessabili. Le poltrone ai trombati Le società pubbliche sono così diventate un comodo strumento per aggirare i divieti a gonfiare gli organici delle amministrazioni, per giunta senza dover fare i concorsi: con il risultato che oggi il numero dei loro dipendenti ha raggiunto 783.974 unità, più degli abitanti di Bologna e Firenze messi insieme. Non soltanto. Soprattutto questo sistema ha consentito di dare una poltrona a politici trombati o in pensione, onorare impegni elettorali, garantire segretaria e auto di servizio agli amici. Qualche anno fa la Corte dei conti ha stimato in 38 mila il numero delle figure apicali in quelle società. Talvolta in proporzione perfino superiore a quello degli stessi dipendenti. Questo spiega perché risultano inattive ben 1.663 delle 8.893 società partecipate. Il 18,7 per cento di scatole vuote. Con vette in Molise (31 per cento), Calabria (38 per cento) e Sicilia, dove si supera il 40 per cento. Persino in Trentino Alto-Adige è inattiva una su dieci. Per non parlare di quante, pur apparendo formalmente attive, non hanno neppure un dipendente. Sono 1.214 di cui, precisa il documento, 1.136 partecipate esclusivamente dagli enti locali, con una concentrazione nelle Regioni a guida leghista, quali Veneto (106) e Lombardia (136), ma anche in quelle considerate tradizionalmente rosse come Toscana (114) ed Emilia Romagna (122). Ce ne sono poi 274 con più amministratori che dipendenti, 234 che nei quattro anni compresi fra il 2011 me il 2014 hanno chiuso i conti in perdita e 1.369 che hanno un fatturato inferiore a 500 milioni. La proliferazione del fenomeno. La giungla ha tratti geografici assai variegati, capaci anche di sovvertire alcuni luoghi comuni. Per esempio, non è affatto vero che la densità di società sia maggiore al Sud, come la qualità di certe amministrazioni lascerebbe immaginare: in Campania se ne trova una ogni 14.554 abitanti, il valore minimo in assoluto. Circa metà rispetto alla Lombardia, dove è possibile contarne una ogni 7.419 residenti. Va detto che neppure la crisi, né i vari provvedimenti presi a partire dal 2007 e tesi a scoraggiare la proliferazione di questo fenomeno l’hanno potuta frenare. Perché se è vero, come argomenta la Cgil in questo dettagliato dossier, che fra le società non attive bisogna considerare le 828 congelate o messe in liquidazione a partire dal 2010, è anche vero che da quell’anno e fino a tutto il 2014 ne sono state costituite 1.173 nuove di zecca. E il ritmo delle nascite si è appena rallentato. Eppure è da molti anni che nella normativa i governi di turno cercano di infilare qualche pillola avvelenata. La quale subisce però sempre il medesimo destino, quello di venire immediatamente sterilizzata. Le ragioni sono facilmente intuibili. La politica locale rischia di dover rinunciare a muovere potenti leve clientelari. Pratica, ahinoi, assai diffusa. Qualche anno fa si scoprì che presso i gruppi politici del consiglio regionale della Campania erano distaccati 150 dipendenti di società pubbliche. Pagati dai contribuenti ma al servizio di partiti e loro capicorrente. La mancata spending review Come stupirsi, allora, del fatto che qualunque tentativo di cambiare finisca nelle sabbie mobili? La legge 190 del dicembre 2014 prevedeva che gli enti locali predisponessero piani di razionalizzazione delle partecipate entro il marzo dell’anno seguente: ebbene, la Corte dei conti ha rilevato che due mesi dopo quella scadenza soltanto 3.570 soggetti sugli 8.186 interessati dalla disposizione l’avevano osservata. Quanto agli affondi della spending review, il processo di revisione della spesa pubblica avviato formalmente ormai da tempo, sono rimasti del tutto inefficaci. A questo proposito bisogna ricordare che l’ex commissario Carlo Cottarelli nel suo rapporto presentato all’inizio del 2014 aveva stimato in 2 miliardi l’anno i possibili risparmi derivanti dal disboscamento di tale giungla. Auspicando una strage: il numero delle partecipate si sarebbe dovuto ridurre a non più di mille. Né minori difficoltà ha avuto la riforma di Marianna Madia, ideata per mettere in funzione finalmente una tagliola efficace. Ma prima si è incagliata alla Corte Costituzionale, quindi è finita nel tritacarne di una estenuante trattativa fra governo e poteri locali. Mentre i sindacati l’aspettano al varco insieme alle regole per la mobilità del personale. Un’altra rogna in vista della partita che si apre a settembre, quando vedremo se ancora una volta la realtà avrà più forza della legge. Dopo almeno dieci anni di indecente melina. Il miraggio del Ponte sullo Stretto Avendo ben chiaro un particolare non indifferente, che se pure tutto dovesse andare per il verso giusto mettere mano al taglio delle società partecipate sarà un’opera immane. La durata delle liquidazioni nel nostro Paese, da questo punto di vista, parla chiaro. Le procedure possono durare decenni, e anche quando è la legge a fissare i paletti, quelli servono davvero a poco o nulla. Valga per tutti l’esempio della società pubblica Stretto di Messina, controllata dall’Anas, che avrebbe dovuto gestire la realizzazione del ponte fra Scilla e Cariddi opera miseramente archiviata da un lustro. Il governo di Enrico Letta aveva fissato il 15 aprile 2013, per la sua liquidazione affidata all’ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato, il limite massimo di un anno. Di anni ne sono passati invece già più di quattro e siamo ancora a carissimo amico. Con il conto già arrivato a 13 milioni.

I giornali di partito ci sono costati 238 milioni di euro (e sono falliti lo stesso). Un'analisi di OpenPolis svela quanti soldi lo Stato ha investito per sovvenzionare le testate dei diversi movimenti. Ma nonostante le cifre spese, solo due sono ancora in attività, scrive il 17 luglio 2017 "L'Espresso". Finanziare i giornali di partito non è servito a mantenerli in vita. Lo rivela un’analisi di Openpolis sulle dieci testate di partito che hanno avuto più soldi dallo Stato nel periodo dal 2003 al 2015: solo due di esse continuano a uscire in edizione cartacea (La Discussione, che appartiene a una delle tante diaspore democristiane, e Zukunft in Südtirol della Svp), mentre il Secolo d’Italia di Italo Bocchino sopravvive solo su internet. Di tutte le altre non c’è più traccia: dall’Unità alla Padania, da Europa a Liberazione. Complessivamente, nel periodo preso in considerazione sono stati spesi 238 milioni di euro pubblici per 19 quotidiani. Al primo posto per incassi proprio l'Unità, che ha ricevuto oltre 62 milioni, seguita dalla Padania con 38 milioni.

Il ritorno delle auto blu: in un anno novemila in più, il primato va a Oristano. Nonostante gli annunci riprendono ad aumentare, in particolare nei Comuni delle regioni meridionali, scrive Roberto Petrini il 6 luglio 2017 su "La Repubblica". La valanga delle auto di Stato non si arresta. Anni di polemiche e denunce hanno solo scalfito un sistema che continua a proliferare nonostante la spending review e la necessità di moralizzare la vita pubblica. A conti fatti parlare di riduzione è stato un bluff. I dati sono pubblici, ma nessuno ha fatto le somme: l'ultimo censimento sulle auto della Pubblica Amministrazione, concluso il 28 febbraio del 2017, ha prodotto un immenso tabellone in pdf. Repubblica ha chiesto alla società di data management Twig, guidata da Aldo Cristadoro, di trattare e confrontare le cifre con il precedente censimento chiuso nel febbraio dell'anno scorso. Ebbene: il risultato è che nel 2016 sono emerse 8.791 auto di servizio in più, si è passati da quota 20.891 a 29.682. L'emersione di circa 9.000 auto in più dipende per buona parte dalla maggiore accuratezza del censimento e dal numero di risposte pervenute dove si dichiara il possesso di almeno una auto di servizio: ciò significa che basta fare una rilevazione più approfondita per scoprire che le auto di servizio in Italia sono molte di più di quanto si pensi. Eppure, nel comunicare i dati del 2016, il governo sottolineò una riduzione di 1.049 auto, pari al 3,3 per cento rispetto al 2015. Invece secondo la rielaborazione e il riallineamento dei dati fatta da Twig per quei due anni, anche per via della maggiore partecipazione al censimento delle amministrazioni, sarebbero emersi quasi 2.000 veicoli in più. Ma la vicenda delle auto di servizio, per le quali lo Stato spende una cifra considerevole ogni anno, e che si tenta di prendere di petto dal 2012, quando fu varato il primo decreto di contenimento, si presta ad altre sorprese. Quando Matteo Renzi annunciò, nei primi mesi del 2015 di voler vendere su eBay le Maserati blindate di Stato, la mastodontica platea delle auto di servizio italiane era già stata più che dimezzata. Peccato che era avvenuto solo sulla carta: alla fine del 2014 un decreto del ministero della Funzione pubblica aveva infatti cambiato i criteri del censimento, cancellando dall'insieme delle auto censibili circa 40 mila veicoli con un colpo di bacchetta magica. Il decreto infatti eliminava le auto destinate al contrasto delle frodi alimentari, alla manutenzione della rete stradale Anas, alla difesa, alla pubblica sicurezza e ai servizi sociali e sanitari. Così si è scesi da quota 60 mila a quota 20 mila sulla quale oggi ragioniamo: cambiando i criteri del censimento sono sparite circa 20 mila auto delle Asl e in genere della sanità regionale. La domanda è: ma se si tratta di semplici auto al servizio della collettività e non di scandalose auto blu con autista, perché non censirle? Contare non vuol dire, mettere all'indice. Il vero boom delle auto di servizio e blu è nei Comuni: si moltiplicano man mano che i censimenti si fanno più approfonditi. Nel 2016 siamo arrivati a quota 16 mila, quasi il doppio rispetto all'anno precedente e al numero dei municipi che sono circa 8 mila. Senza contare che il panorama dell'auto di servizio non è ancora tutto delineato perché i municipi sono riluttanti e quelli che hanno denunciato il numero delle proprie auto è ancora solo il 60,6 per cento. La posizione di testa nella classifica dei Comuni che denunciano il maggior numero di auto blu (cioè con annesso autista) è occupata da Oristano: ce ne sono 20 (il che significa 63,2 ogni 100 mila abitanti). Seguono - con netta prevalenza del Sud - Trapani, Brindisi, Messina, Cosenza e Matera. In termini assoluti, e con riferimento alle semplici auto di servizio (cioè senza autista dedicato), in testa c'è Torino con 294 auto, seguita da Roma con 146 auto. Spicca Sassari con 106 auto (83,1 ogni 100 mila abitanti). Paradossali i casi di Roccasecca dei Volsci (Latina) che denuncia 10 veicoli con autista (sarebbero 872,6 auto su una ipotetica platea di 100 mila abitanti). E delle tre regine dell'auto di servizio: Roseto degli Abruzzi (Teramo), Monopoli (Bari) e Bagheria (Palermo), Comuni con più di 50 vetture a disposizione. A Pietracamela (Teramo) invece, con 271 abitanti, ci sono 4 auto di cui 3 con autista. Forse l'unico settore dove qualche sforzo è stato fatto è quello dei ministeri. La ministra della Funzione Pubblica, Marianna Madia, disse la verità quando nel febbraio 2016 affermò che le auto delle amministrazioni dello Stato l'anno precedente si erano dimezzate scendendo, come risulta, a quota 274. I conteggi di Twig dicono che il processo è andato avanti e nel 2016 siamo scesi a quota 212. Ma anche in questo caso ci sono problemi di rilevazione statistica che possono trarre in inganno. L'ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che aveva avviato un serio intervento di riduzione, nel suo libro "La lista della spesa", le valutava prima del decreto di riduzione in 1.800, tenendo conto che mancano all'appello del censimento le auto del ministero dell'Interno e le auto fornite ai vari dicasteri dai cinque principali corpi di polizia. Tanto per fare un esempio: il "car pool" britannico per i dicasteri conta di solo 80-90 auto. Ma noi siamo lontani.

Ponte di Messina, beffa infinita. Ora lo Stato fa causa allo Stato. La concessionaria, controllata dall’Anas, chiede al ministero delle Infrastrutture un indennizzo di 325 milioni di euro (più eventuale risarcimento). E i soldi chiesti sono già stati abbondantemente pagati per mantenimento della società e progettazione, scrive Sergio Rizzo il 22 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Ci dev’essere un virus che infetta la nostra burocrazia. Così potente da arrivare a mettere lo Stato contro lo Stato davanti a un giudice dello Stato. Per averne la prova è sufficiente leggere l’ultima relazione della Corte dei conti sulla vicenda forse più incredibile che abbia attraversato gli ultimi quarant’anni di storia italiana: quella del ponte sullo Stretto di Messina. Morto, sepolto e resuscitato a più riprese, era stato riesumato da Matteo Renzi. Uscito di scena lui, è tornato serenamente nel sepolcro nel quale l’aveva spedito Mario Monti. Ma il cadavere continua a puzzare. Si racconta, infatti, nelle 67 pagine di quella relazione che descrive il groviglio dei contenziosi in cui siamo precipitati, perfino di una causa giudiziaria che oppone la società Stretto di Messina allo Stato italiano. Nella quale la concessionaria già incaricata della realizzazione del ponte, chiede un indennizzo di 325 milioni 750.660 euro. Più un eventuale risarcimento. La ragione? «Il pregiudizio — sottolinea la stessa società — scaturente dalla mancata realizzazione dell’opera, indotta dal venir meno della convenzione di concessione». La richiesta di indennizzo è stata presentata al ministero delle Infrastrutture, sottolinea la Corte dei conti, ancor prima della messa in liquidazione della Stretto di Messina. E da allora non c’è stato verso di farle cambiare idea. A quanto pare, anzi, non ci hanno nemmeno provato. Scrivono i giudici contabili: «Non risultano iniziative intraprese dal ministero, oltre quelle di resistenza in sede giudiziaria, al fine di superare il contrasto con la concessionaria. Nell’adunanza del 24 novembre 2016 la posizione conflittuale delle parti si è confermata ancora una volta». Sarebbe uno dei tanti episodi legali in cui l’amministrazione pubblica finisce invischiata per non aver rispettato i patti. Se non fosse per un particolare: che la società Stretto di Messina è dello Stato italiano, esattamente come il ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Il suo capitale è per l’81,85% in mano all’Anas, la società pubblica delle strade, e il restante 18,15% è suddiviso fra le Ferrovie dello Stato italiane (13%), la Regione Calabria (2,575%) e la Regione siciliana (2,575%). Dunque è lo Stato che fa causa allo Stato. Ma c’è di più. E cioè che la Stretto di Messina è già costata per il suo mantenimento in vita e le progettazioni, i 300 e passa milioni richiesti ora come indennizzo. Denari, precisa la Corte dei conti, versati con «gli aumenti di capitale deliberati nei precedenti esercizi e finanziati esclusivamente con risorse pubbliche». I soldi chiesti, dunque, sono stati già abbondantemente pagati. E pagarli di nuovo costituirebbe quindi «una mera duplicazione di costi, con ulteriore aggravio sui saldi di finanza pubblica». Una situazione surreale, nella quale com’è del tutto evidente, i contribuenti possono soltanto rimetterci ancora più soldi. Oltre a quelli chiesti dal general contractor Eurolink: circa 700 milioni, di cui 301 per le spese sostenute e 329 per danni. C’è poi la causa con il project management consulting, l’americana Parsons Transportation, che rivendica 90 milioni. Quindi quella con il monitore ambientale, per cifre più modeste (dell’ordine del milione). Già ballano, dunque, 800 milioni. Senza contare, ovviamente, spese legali che immaginiamo astronomiche, il tempo perso, il costo delle insidie burocratiche e i denari necessari per mantenere la liquidazione in vita. E qui si apre un altro bel capitolo. La società Stretto di Messina è stata messa infatti in liquidazione il 15 aprile 2013 dal governo di Enrico Letta, affidando l’incarico a un pezzo da novanta della burocrazia: Vincenzo Fortunato, ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti. Ma con una legge che stabiliva una durata tassativa della procedura. Un anno preciso. Questo per evitare le lungaggini che sempre accompagnano le liquidazioni con l’obiettivo di mantenerle in vita più a lungo possibile. Ebbene, quell’anno è scaduto da quasi tre e siamo ancora a carissimo amico. Con la società che dal 2013 al 2015 è costata poco meno di 13 milioni. Considerando i tempi con cui procedono le liquidazioni in questo Paese, il rischio che la faccenda vada avanti ancora per svariati anni è molto consistente. Tanto che la Corte dei conti, nell’evidenziare questa anomalia, non può fare a meno di sollecitare a darsi una mossa. Senza trascurare la necessità di «un’incisiva iniziativa da parte delle strutture ministeriali affinché si riapproprino delle proprie competenze». Già, perché è stata eliminata anche la struttura del ministero che seguiva l’operazione. Il risultato è che ora si naviga a vista. Mentre gli unici che ci vedono bene sono coloro che hanno tutto l’interesse a incassare e quelli che vorrebbero far durare il più possibile questa assurda agonia.

IL PAESE DEI COMUNI FALLITI.

Comuni, in 5 anni triplicati i dissesti. Il record nelle piccole città del Sud. De Caro (Anci): sempre meno risorse dallo Stato. L’allarme della Fondazione commercialisti, scrive Isidoro Trovato il 15 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Fine crisi mai. I Comuni italiani non vedono la luce in fondo al tunnel e da 27 anni vivono sull’orlo del baratro economico. A certificarlo è un’indagine della Fondazione nazionale dei commercialisti che ha raccolto i dati dal 1989 al 2016: ne viene fuori un’istantanea sconfortante di un’Italia a due velocità in cui dei 556 dissesti complessivi, 450 si sono verificati nel Meridione. In pratica, più del 70 % dei fallimenti registrati dagli enti locali si registra al Sud, con un numero di default dichiarati negli anni 2011-2015 quasi triplicato rispetto agli anni precedenti. «Uno scenario inevitabile – commenta Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci –, il Meridione da anni è dotato di minori risorse, ha meno gettito fiscale e quindi meno Irpef e adesso ha una percentuale altissima di morosi che non pagano le tasse locali. Come se non bastasse, i Comuni del Sud hanno fatto da ammortizzatori sociali assumendo precari e Lsu che hanno pesato sui bilanci. Abbiamo subìto i tagli dello Stato e non siamo in condizione di riscuotere abbastanza dai nostri cittadini». Qualcuno potrebbe obiettare che, se esiste tanta differenza tra Nord e Sud, è anche perché c’è stato qualcuno più virtuoso e qualche altro meno. «Ma ormai parliamo di danni procurati venti o trent’anni fa – protesta il presidente dell’Associazione dei Comuni italiani –, con i controlli attuali nessuno potrebbe tornare agli sprechi del passato, pensi che io, in un Comune come Bari, ho a bilancio un’unica consulenza da 25 mila euro l’anno. Adesso la missione è portar fuori dal pantano i Comuni in difficoltà per non penalizzare i cittadini a cui si tagliano i servizi. Lo Stato dovrebbe concedere tassi praticabili ai Comuni che chiedono mutui per uscire dalla crisi». L’identikit dei commercialisti va più nello specifico e rileva che più del 60%degli enti in situazioni di deficitarietà è concentrato dove la popolazione è inferiore a 5.000 abitanti, si tratta dunque per la maggioranza di Comuni di piccole dimensioni (di cui circa il 40% sono enti con popolazione fino a 2.000 abitanti). Il restante 40% è concentrato nelle classi demografiche tra i 5.000 e 60.000 abitanti. «In questo caso – continua De Caro – bisognerebbe chiedersi il perché dei tagli dei fondi anche a Comuni così piccoli: si tratta di realtà che incidono in maniera infinitesimale sulla spesa pubblica ma che sono finiti subito in difficoltà a causa di un gettito ridotto che non riescono più a compensare, specie se si trovano su un tessuto sociale impoverito». E allora come vedere la fine del tunnel? Secondo i commercialisti (che svolgono funzione di revisori dei conti) servirebbero controlli più stringenti e un monitoraggio più efficace sulle realtà più a rischio e già in regime di sofferenza o predissesto. «Non credo serva altro controllo – obietta il sindaco di Bari –, servirebbero strumenti più efficaci: il nuovo ordinamento contabile risulta troppo complesso e poco incisivo. Sarebbe auspicabile una riforma della riscossione locale: noi sindaci fronteggiamo una morosità crescente e non abbiamo gli strumenti adatti per riscuotere il dovuto. Non si può pensare a fare solo perequazione orizzontale, così lo scenario può solo peggiorare». E infatti la Fondazione dei commercialisti segnala che la curva dei dissesti è di nuovo in crescita. «Alle Regioni - ricorda De Caro - sono state concesse condizioni economiche favorevoli per sanare bilanci altrettanto disastrati, i Comuni devono fronteggiare la crisi senza poter aumentare le tasse, per effetto del blocco della leva fiscale, senza condizioni di credito favorevoli. Come scalare una montagna a mani nude».

Province in lotta per la sopravvivenza ma è boom degli enti intermedi. Mancano i soldi per garantire servizi essenziali su strade e scuole, mentre è esploso il numero di consorzi, autorità, ambiti territoriali. Dopo la vittoria del No al referendum che doveva abolirle la situazione è peggiorata, scrive Antonio Fraschilla il 16 luglio 2017 su "La Repubblica". Una riforma rimasta a metà e impantanata nelle sabbie mobili dopo l’esito del referendum costituzionale. La legge Delrio che doveva semplificare il Paese, riducendo gli organismi intermedi tra Regioni e Comuni e ridisegnando le ex Province, si sta trasformando in un boomerang. Gli organismi intermedi sono cresciuti: la norma ne prevedeva al massimo una novantina, oggi sono quasi cinquecento. Perché da un lato non sono stati aboliti gli ambiti territoriali, dall’altro le Regioni a Statuto speciale invece di applicare la riforma hanno fatto di testa loro: ad esempio Sardegna e Friuli Venezia Giulia hanno sì ridotto le Province, salvo creare e tenere in vita insieme 60 Unioni comunali, mentre la Sicilia sta tornando al passato rimettendo anche i gettoni d’oro. Ma c’è di più. Nel caos adesso sono anche le regioni a statuto ordinario, che rivendicano aiuti perché non riescono a garantire i servizi essenziali su strade e scuole. Dalla semplificazione alla complicazione. Più di enti e più burocrazia In Italia oggi sono in vita 76 Province, 10 città metropolitane e 350 organismi intermedi tra Ato (ossia Ambito territoriale ottimale) rifiuti, Ato idrici, autorità di bacino e consorzi di bonifica. La Delrio prevedeva al massimo una novantina di organismi intermedi, mentre conti alla mano questi enti sono aumentati addirittura a quota 496 considerando le regioni autonome, con costi di milioni di euro tra spese di funzionamento e stipendi per revisori contabili e dipendenti. Ecco così che una riforma nata con buoni intenti ma rimasta inapplicata rischia di aumentare le spese e di andare contro qualsiasi semplificazione: «Chiediamo al governo di applicare subito la parte della legge che dava alle Province le competenze di tutti gli ambiti territoriali e delle stazioni appaltanti – dice il presidente dell’Unione province italiane, Achille Variati – e dobbiamo evitare la proliferazione degli enti come avviene nelle regioni a statuto autonomo». Le Regioni speciali sprecone La bocciatura del referendum costituzionale in Sicilia è stata vista come una grande occasione per tornare al passato e rimettere in piedi le vecchie Province. Così in commissione affari istituzionali è passata una norma che reintroduce l’elezione diretta e lo stipendio per i futuri consiglieri provinciali. «Ma non potevamo fare altrimenti, se prevediamo l’elezione diretta non possiamo poi non pagare gli eletti, lo prevede la legge nazionale», dice il presidente della commissione Salvatore Cascio. Nell’Isola del tesoro dei costi della politica la legge nazionale Delrio non si applica ma per dare i gettoni ci si appella alle norme statali: costo dell’operazione, 10 milioni di euro in più all’anno se sarà votata dall’aula. In Friuli Venezia Giulia la Delrio nemmeno l’hanno presa in considerazione e hanno colto la palla al balzo per quintuplicare gli organismi intermedi. Da un lato hanno abolito le Province, ma subito hanno istituito 18 unioni comunali: solo per i revisori contabili la spesa è di oltre 26 mila euro all’anno che, moltiplicata per 18, fa 500 mila euro all’anno. La Sardegna dieci anni fa aveva raddoppiato le Province da 4 a 8. Lo scorso anno ha applicato la riforma: le Province sono scese a cinque, con quella di Cagliari che però si è sdoppiata in Città metropolitana e Provincia Sud Sardegna. Tutto bene? Certo, se non si considera che nell’Isola vi sono ben 42 Unioni dei Comuni che ricevono ogni anno 20 milioni di euro per servizi e spese di funzionamento. «Abbiamo un territorio e una cultura molto particolari – dice l’assessore agli Enti locali, Cristiano Erriu – con la riforma abbiamo risparmiato eliminando elezioni e gettoni nelle Province». Le Province abbandonate Nel frattempo nel resto del Paese la riforma Delrio è stata applicata e oggi vi sono 76 Province e 10 città metropolitane che rivendicano risorse perché, nonostante abbiano trasferito il 50 per cento del personale a Regioni e Comuni, hanno ancora in gestione 130 mila chilometri di strade e 5.200 scuole nelle quali studiano 2 milioni di ragazzi. Nelle Finanziarie del 2015 e del 2016 hanno subìto un taglio di risorse pari a due miliardi, ma adesso chiedono aiuto: «Abbiamo applicato la riforma ma con questi tagli come possiamo garantire la manutenzione delle strade e delle scuole?», dice Variati. Il governo Gentiloni per il 2017 ha bloccato il taglio e stanziato 350 milioni. Ma i fondi non bastano: la Provincia di Piacenza sta vendendo gli immobili pur di fare cassa. «Il problema vero è l’applicazione definitiva della legge – ripete Variati – che prevedeva l’accorpamento nelle Province di tutte le funzioni degli ambiti territoriali e anche delle stazioni appaltanti». La riforma a metà della Delrio ha invece aumentato gli enti: oggi abbiamo le Province e centinaia di organismi intermedi che si occupano di rifiuti, acque e bonifiche. Per non parlare dei circa 3 mila enti tra consorzi e partecipate e delle 30 mila stazioni appaltanti. Altro che riduzione della burocrazia e spending review.

Ben 84 amministrazioni in dissesto finanziario, altri 146 enti locali a un passo dal crack. E' la mappa drammatica delle amministrazioni pubbliche rimaste con le casse vuote. Sindaci che per decenni hanno messo a bilancio entrate virtuali, perché impossibili da riscuotere. O che hanno creato società dello sperpero. Una gestione allegra che si è spenta con la spending review e le regole imposte da Bruxelles un anno fa. Ma cosa accade quando un municipio fallisce?  E davvero potrebbe fare default una metropoli come Roma, dove il disavanzo, malgrado tutti gli aiuti ricevuti in passato, è cresciuto di 853 milioni in 8 anni? Inchiesta de "La Repubblica" del 12 ottobre 2016.

Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico, scrive Alberto Custodero. "Too big to fail", dicono gli americani a proposito delle banche talmente grandi che possono farsi beffe della solidità dei bilanci grazie al fatto che un salvataggio sarà comunque sempre più conveniente di un devastante crack. Una massima che si può applicare all'infinito anche a enti pubblici strategici come, ad esempio, il comune di Roma? Davvero la Capitale, già al centro di una operazione di salvataggio, e destinataria di eccezioni, misure ad hoc e finanziamenti extra, rischia ora di fallire, come ci raccontano le ultime cronache dal Campidoglio? Un crack della Capitale, con tutto il danno di immagine che questo comporterebbe per il Paese, è già stato evitato una volta otto anni fa, grazie all’escamotage di commissariare il debito (13,7 miliardi, 20 compresi gli interessi, che pagheranno tutti gli italiani per trent'anni) anziché il Comune, come avrebbe dovuto succedere. Ma ora lo spettro di un default dell'ente amministrato da Virginia Raggi riappare a un orizzonte neppure tanto lontano con un deficit che, crescendo dal 2008 a una media di 125 milioni l'anno, è già arrivato a sfiorare il miliardo. Se a Roma lo Stato ha risparmiato l'onta del dissesto (incapacità di pagare i debiti con le entrate correnti e di assicurare l’erogazione dei servizi pubblici), per ovvi motivi di realpolitik in quanto il fallimento della Capitale sarebbe stato una figuraccia internazionale, ben 84 Comuni italiani - stando ai dati aggiornati all'8 giugno 2016 - quell'onta l'hanno amaramente subita. Una questione meridionale. I problemi della finanza allegra interessano i Comuni in quanto sono gli unici, tra gli enti pubblici, ad essere dotati di autonomia finanziaria contabile. Da un'analisi della distribuzione geografica sul territorio nazionale delle amministrazioni dissestate realizzata da Ifel, l'Istituto per la Finanza locale dell'Anci, emerge con prepotenza una "questione meridionale" 2.0. Su 84 Comuni in crisi finanziaria, infatti, ben oltre la metà (60,7%) si concentra in due Regioni, Calabria (25 enti) e Campania (24 enti, di cui 16 nella sola provincia di Caserta). Ancora più significativa in termini numerici è la questione degli enti che hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale. Al 28 giugno 2016, risultano infatti in pre-dissesto 146 enti locali, di cui 10 Province. Anche nel caso del pre-dissesto, gli enti che hanno fatto ricorso alla procedura sono concentrati prevalentemente nelle regioni meridionali, con picchi in Calabria (29), Sicilia (25) e Campania (18). Ma il Settentrione non ne è certo immune: le regioni interessate da casi di pre-dissesto sono infatti 15, a fronte delle 11 in cui sono localizzati gli enti dissestati. Il caso Sicilia e il Nordest virtuoso. Con 16 casi, la Sicilia sembra vivere una preoccupante situazione a sé. Non solo per le dimensioni demografiche degli enti coinvolti, ma anche alla luce di una situazione di squilibrio finanziario di lungo corso e che sembra essersi cronicizzata nel corso degli anni. Tra i Comuni siciliani con i conti in rosso, figura perfino Taormina, la ‘perla dello Ionio’ scelta dal governo Renzi per il G7 del prossimo maggio, che sta sprofondando verso il dissesto sotto il peso di 13 milioni di euro di debiti. Diverso il quadro al Settentrione. Secondo i dati dell'Ifel, i Comuni più virtuosi si trovano nel Nordest. In Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Veneto non risulta neppure un caso di dissesto, mentre due crack sono avvenuti in Piemonte. Ammettere il dissesto non basta. Nonostante la legge preveda che la procedura del dissesto si completi entro cinque anni dalla dichiarazione didefault, sono ben 16, secondo l'Ifel, i casi di enti che hanno deliberato il dissesto prima del 2011. Tra questi, due Comuni risultano non aver ancora terminato il risanamento, nonostante sia trascorso addirittura un quarto di secolo dalla dichiarazione di fallimento. E il trend è in crescita. Dal 2011 al 2014, il numero degli enti che hanno deliberato il dissesto finanziario è costantemente aumentato: dai 3 che l'hanno dichiarato nel 2011 si è arrivati ai 21 nel 2014, passando per i 14 nel 2012 e i 20 nel 2013. Deficit tra tagli e malagestione. Negli anni passati il debito è stato la grande leva che ha permesso ai sindaci di poter disporre di notevoli entrate aggiuntive per finanziare, tra l'altro, propagande elettorali e clientelismi. Disponibilità di cassa – priva di reali coperture - che ha consentito di presentare ai propri elettori, di volta in volta, bilanci allegri e immaginifici, lasciando in eredità alle amministrazioni successive l'onere di dover far fronte ai deficit che man mano si accumulavano. A onor del vero, ma non certo a difesa dei tanti casi di malagestione amministrativa, va ricordato che i Comuni italiani hanno subito pesanti tagli alle entrate da parte dei governi durante gli anni dell'austerity. Nel periodo 2010-2015 la sforbiciata alle loro entrate è stata pari complessivamente a 8,6 miliardi di euro. Un'ulteriore riduzione della capacità di spesa per 2,5 miliardi è stata determinata poi dall'istituzione del "Fondo crediti di dubbia esigibilità". Una coppia diabolica. Bilanci gonfiati da crediti di dubbia esigibilità e tagli alle entrate: poggia su questo combinato disposto dall'effetto tutto negativo lo scenario politico amministrativo nel quale è maturata la crisi contabile dei Comuni italiani. Il dissesto, per un municipio, è l'equivalente, per un'impresa, del fallimento. Poiché, però, non è pensabile che l'ente territoriale in stato di insolvenza interrompa l'erogazione di servizi pubblici ai cittadini (le imprese invece portano i libri in tribunale e fermano la produzione), il governo lo commissaria per sottrarlo alle mani dei politici e dei funzionari locali che non hanno saputo amministrarlo. Questa è la regola. Ma la storia della contabilità allegra dei Comuni italiani è un'altra e sembra ispirata al motto "fatta la legge, trovato l'inganno", in un clima di mancanza di controlli, di complicità istituzionali e di indifferenza generale. Chi lo paga il conto? Per tanti, troppi anni, gli enti locali hanno potuto redigere bilanci inserendo tra le entrate delle voci inesigibili (o quantomeno di dubbia esigibilità) che servivano a coprire le uscite. Soprattutto ricchi incassi da multe che in realtà era evidente l'amministrazione non avrebbe mai avuto la capacità di riscuotere. E così, approfittando di una normativa ambigua sui bilanci, tanti Comuni – Roma compresa - hanno potuto accumulare nel tempo una montagna di deficit. Per capire ancora meglio il meccanismo che permetteva di gonfiare i bilanci è possibile fare un esempio: cento euro di crediti per multe – secondo la norma in vigore prima del 2015 - erano considerati dai Comuni, nei bilanci preventivi, come se fossero tutti incassabili nell'esercizio in corso. Era quella voce di 100 nell'attivo a dare loro la copertura necessaria per poter sostenere spese di pari importo. Un padre di famiglia non spenderebbe mai dei soldi senza averli sul conto corrente, ma solo sulla base di un credito che sa benissimo che non riscuoterà se non in minima parte. I sindaci, invece, per decenni hanno speso soldi senza averli effettivamente in cassa. In altre parole, pur sapendo che a fronte di ogni 100 euro di credito per le multe solo 20 sarebbero entrati davvero, gli amministratori hanno continuato a spenderne cento. Generando, di fatto, ogni anno un buco di bilancio legalizzato. Con buona pace di chi avrebbe dovuto controllare: revisori dei conti, Corte dei conti, prefetture, ministro dell'Economia, ministro dell'Interno. La svolta del 2015. I nodi ad un certo punto sono venuti però al pettine. Dal 2015 il ministero dell'Economia, che fino a quel momento aveva tollerato il fenomeno, ha deciso, anche su pressione dell'Unione Europea, di porre fine al sistema dei falsi in bilancio legalizzati e ha imposto ai Comuni un'operazione di ripulitura dei conti. Il nuovo regime ha introdotto in particolare il principio della "competenza finanziaria potenziata o a scadenza", un istituto molto simile al bilancio di cassa, che obbliga l'ente a spendere solo quei soldi che hanno effettivamente incassato. Se riscuote contanti, può spenderli. Se vanta crediti, no. I crediti non esigibili vengono sterilizzati in un fondo svalutazione crediti e ora l'equilibrio di bilancio è dato dal pareggio tra tutte le entrate reali e tutte le spese. Se malgrado ciò le uscite sono maggiori di quanto si riscuote e di conseguenza si viene a creare uno stato di dissesto, sindaco, assessore al Bilancio e ragioniere capo vanno incontro a sanzioni penali, tra cui il falso in bilancio e il falso ideologico. E, sanzione ancor più temuta dai politici nel caso in cui la Corte dei Conti accerti la loro responsabilità nel dissesto, all'ineleggibilità per cinque anni. La giustizia contabile, infatti, non dovrà più dimostrare come accadeva prima che il dissesto ha provocato un danno erariale attraverso un faticoso procedimento giudiziario. La nuova norma prevede che il dissesto sia di per sé sufficiente ad infliggere le sanzioni. I salvataggi di Roma e Reggio Calabria. Cosa sarebbe successo se, sotto il peso di quasi 13 miliardi di debito accumulato durante le giunte di centrosinistra Rutelli (assessore al Bilancio Linda Lanzillotta) e Veltroni (assessore al Bilancio Marco Causi), fosse stato dichiarato lo stato di dissesto di Roma? La Corte dei conti (all'epoca era in vigore la vecchia normativa), avrebbe dovuto accertare un eventuale danno erariale e contestarlo ai politici e agli amministratori individuati come responsabili del dissesto. La storia, però, è andata diversamente: anzichè il Comune, s'è preferito commissariare il debito. E così il problema di un eventuale danno erariale contestato a carico di qualche politico non s'è posto. Diverso ancora il caso di Reggio Calabria - sciolto nell'ottobre del 2012 quando era già in vigore la nuova normativa sulla ineleggibilità in vigore dal 2011 - comune infiltrato dalla 'ndrangheta ma soprattutto devastato da bilanci in rosso. "In questo caso specifico - spiega il sociologo Vittorio Mete, studioso del fenomeno dei Comuni commissariati per mafia - il governo ha optato per la più facile soluzione dello scioglimento per infiltrazioni mafiose che, essendo un provvedimento di natura preventiva, riguarda solo l'amministrazione in carica. Per Reggio Calabria il governo evitò dunque di avventurarsi lungo la strada del dissesto che avrebbe portato a conseguenze diverse e più devastanti per il ceto politico locale, visto che la responsabilità della malagestione era stata attribuita anche alla precedente amministrazione guidata da Giuseppe Scopelliti, all'epoca governatore della Regione". A Reggio Calabria, insomma, si è verificato uno strano paradosso: anche se in piazza si stracciavano le vesti, lo scioglimento per mafia potrebbe aver salvato – temporaneamente, come poi si è visto - la carriera a più di un politico. Il disavanzo tecnico. Poiché non sarebbe stato possibile passare da un anno all'altro a un diverso sistema di contabilizzazione, nel 2015 è stata prevista un'operazione ponte. L'anno scorso gli enti pubblici hanno redatto due bilanci, uno secondo le vecchie regole, l'altro secondo quelle riformate per far sì che a partire dal 2016 entrassero in vigore i nuovi bilanci. Nell'anno ponte 2015, dunque, ai Comuni è stato imposto di redigere due contabilità: una autorizzativa (vecchio sistema) e l'altra conoscitiva (nuovo sistema). L'anno seguente la conoscitiva è diventata autorizzativa, e da quel momento è partito il nuovo regime. Ma non tutto è filato liscio. Riscrivendo i bilanci secondo le nuove regole (e non considerando più i crediti inesigibili alla stregua di veri e propri attivi), moltissimi Comuni hanno evidenziato un disavanzo che, per l'occasione, è stato chiamato "tecnico". Tecnico in quanto risultato di una nuova normativa. Poiché questo passaggio è stato incentivato dalla circostanza che un eventuale deficit non avrebbe comportato responsabilità di alcun tipo, di fatto da molti la normativa del 2015 è stata considerata una vera e propria sanatoria contabile. Con le nuove regole quasi tutti gli enti hanno dichiarato due bilanci con numeri diversi (uno dei due, in teoria, falso). Una rivisitazione contabile che ha fatto emergere un buco complessivo nazionale compreso tra i 12 e i 15 miliardi di cui per ben 853 milioni è responsabile la sola Roma. A tanto è risultato infatti ammontare il disavanzo tecnico della Capitale dove il bilancio è passato da 6,5 miliardi a 5,7, con una variazione di poco inferiore al 10%, in linea con la media nazionale. Rate trentennali. Poiché, però, il legislatore si è reso conto che quel disavanzo tecnico non è stato (questa volta) colpa degli amministratori, ma imposto dalla legge (una sorta di buco legalizzato?), è stato deciso di scorporarlo dai bilanci consentendo ai Comuni di rimborsarlo in 30 anni, imputando nel passivo corrente di ogni anno soltanto una quota fissa di un trentesimo. Roma, ad esempio, per un trentennio dovrà rimborsare una rata di circa 26 milioni. La speranza è che con la nuova normativa, che rende più difficile e rischioso per gli amministratori truccare i conti, sindaci e assessori procedano ad una maggiore programmazione, gestendo il denaro pubblico con una cautela sino ad oggi spesso ignorata. In teoria, dovrebbe essere stato quindi scongiurato il rischio di nuovi e futuri dissesti. Ma, visto l’andamento della politica italiana, si tratta appunto di speranze e teoria. La gravità delle difficoltà in cui si trovano i bilanci di Comuni e Province è indicata con due termini diversi: pre-dissesto e dissesto. Qualcuno, utilizzando un termine mediato dal linguaggio finanziario internazionale, sostituisce alla parola dissesto il termine default, ma la sostanza non cambia. "Sono da considerarsi in condizioni strutturalmente deficitarie gli enti locali che presentano gravi ed incontrovertibili condizioni di squilibrio", dice il Testo unico degli Enti locali (Tuel). Se il deficit è in qualche modo recuperabile con un piano di sacrifici che la Corte dei conti approva si può accedere alla "procedura di riequilibrio finanziario pluriennale", il pre dissesto. Ma se "l'ente non può garantire l'assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili" o se i creditori vantano crediti cui non si può far fronte con mutui o entrate proprie, allora scatta il dissesto, come il Tuel indica all'articolo 244.

L'unica cura: meno servizi al massimo prezzo, scrive Alessandro Cecioni. Se le parole chiave nel linguaggio tecnico dei traballanti bilanci comunali sono dissesto e pre-dissesto, due termini che corrispondono a fasi diverse della crisi la cui differenza non è di semplice comprensione per i non addetti ai lavori, molto più facili da capire sono le due parole che segneranno la vita di tutti i giorni dei residenti nei municipi con i conti in rosso: tagli e tasse. In entrambi i casi, pre-dissesto o dissesto, la strada che si apre davanti agli amministratori, siano il sindaco o il presidente della Provincia, per ben cinque anni non prevede infatti alternative: da una parte risparmi sulla spesa corrente, sui servizi, sulla manutenzione delle strade, sugli asili, sull'illuminazione, sul personale negli uffici, con una conseguente riduzione negli orari di apertura al pubblico e vari altri disagi. E poi ancora: dismissione degli scuolabus, meno servizi sociali, meno acquisti di libri della biblioteca. Sul fronte delle tasse ecco invece una tariffa rifiuti alle stelle, addizionale Irpef all'aliquota massima consentita, tasse comunali sulla casa al massimo. Obbligo per la tassa rifiuti di coprire completamente il costo del servizio, così come per quanto riguarda l'acquedotto. Aumento anche delle rette della mensa scolastica e di quelle dell'asilo perché deve essere completamente coperta l'aliquota prevista per legge, che può variare di anno in anno ma che certo non è mai inferiore a un terzo del costo del servizio. Lacrime e sangue insomma, ma anche debiti che si accumulano sulla testa di ogni cittadino da qui a trent'anni. Basti pensare che il "Fondo rotativo a cui Comuni e Province" possono attingere per far fronte ai debiti in scadenza da subito, prevedono 300 euro di prestito per ogni abitante del Comune (diventano 20 se a chiedere i soldi è una Provincia) che si devono restituire in 30 anni con gli interessi. Già, gli interessi. Oltre a questi ci sono quelli dei mutui che sono stati accesi con la Cassa depositi e prestiti e con le banche. Altre centinaia di euro che gravano su ogni abitante insieme ai debiti con i fornitori che non sono stati onorati, siano imprese di pulizia, compagnie telefoniche, imprese petrolifere che hanno fornito il carburante per le auto o metano per il riscaldamento delle scuole, degli asili, o le società elettriche che fornivano l’energia per le strade e ancora per le scuole, gli asili, gli uffici. Altri debiti che si sommano a cui si farà fronte cercando prestiti, magari per coprire quel disavanzo cronico fra previsioni di entrate e incassi reali. Rinegoziare i mutui è la parola d’ordine per gli amministratori, ma la legge qui è tutta a favore delle banche e non dei cittadini. Perché i mutui con gli istituti di credito non si possono rinegoziare, mentre quelli con la Cassa depositi e prestiti sì. L'auspicio è che a partire dalla prossima legge di stabilità le cose possano cambiare, ma per ora gli interessi corrono e spesso sono pesanti. Gli unici che possono sperare di ottenere un vantaggio dal riconoscimento dello stato di crisi, sia pre-dissesto o dissesto vero e proprio, sono i creditori. Nel primo caso possono finalmente incassare i soldi delle loro fatture e, magari come a Pescara, ottenere il saldo con tempi più umani (nel capoluogo abruzzese in un anno si è passati da 146 giorni di attesa a circa la metà). Nel secondo, invece, se la dovranno vedere con l’Organo straordinario di liquidazione (Osl), struttura nominata dal presidente della Repubblica, cui fanno capo tutti i debiti dell’ente in dissesto. L'Osl invierà ai creditori delle proposte di transizione per chiedere di rinunciare a una parte dei soldi in cambio di un pronto pagamento: "pochi, maledetti e subito", diceva un vecchio film. Qui pare che il "pochi", una volta che l'ente è tornato in pareggio, possa essere rimesso in discussione, evitando la rinuncia tombale. Ma dopo cinque anni, tanti ne sono previsti per il salvataggio, chi ha voglia di tornare a mettere in mezzo gli avvocati?

Alessandria, 1000 euro a testa il conto del crack, scrive Paolo Griseri. Vittorio racconta che il momento più difficile "è stato nel 2013, quando le persone entravano nel mio negozio di abbigliamento e si sfogavano: ‘Non ce la faccio più non ho nemmeno i soldi per fallire'". Storie che sembrano ormai di un'altra epoca e certamente di un'altra parte d'Italia. Alessandria è l’unico comune del Nord ad aver alzato bandiera bianca. Ha dichiarato il dissesto nel 2012: "Abbiamo percorso una lunga strada di sacrifici. In questi quattro anni ogni alessandrino ha dovuto pagare in media mille euro per uscire dal pozzo del debito", riassume Rita Rossa, sindaco del Pd, eletta tre settimane prima della certificazione della bancarotta comunale. Nessuno pensava che una città di grande tradizione industriale sarebbe stata costretta a quattro anni di calvario. Oggi la crisi è superata: "Nell’ultimo anno il vento è cambiato", sospira Vittorio. Da cinque mesi Vittorio Ferrari è il nuovo presidente dell’associazione commercianti: "Vuole sapere quando è iniziata la riscossa? Ce ne siamo accorti seguendo la favola calcistica dell'Alessandria fino alla semifinale di coppa Italia contro il Milan". Destini incrociati: da giovane nella squadra locale aveva giocato Gianni Rivera, uno degli alessandrini più noti insieme a Umberto Eco e Giuseppe Borsalino. Nessuno in realtà è così matto da pensare che si possa uscire dal dissesto con una semifinale di coppa Italia. Nel 2012 la situazione era difficilissima: "Quando siamo entrati in municipio – dice l'attuale sindaco – ci siamo trovati con un buco di 300 milioni. E dopo tre settimane ci è arrivata la lettera della Corte dei Conti che imponeva di dichiarare lo stato di dissesto. Così abbiamo fatto". Come si è arrivati alla voragine? "Drammaticamente semplice: ogni anno e per molto tempo il Comune ha speso 110 milioni e ne incassava 95. Il bilancio era come un lavandino da cui esce più acqua di quella che entra". Gestione irresponsabile? Il principale accusato è il penultimo sindaco, Piercarlo Fabbio, Forza Italia, recentemente condannato in appello per falso ideologico. È colpevole di aver aggiustato il bilancio consuntivo 2010 per farlo rientrare nel Patto di stabilità. Mette i puntini sulle "i": "Il buco non era di 300 milioni ma di 80-90". Non un bel vedere, in ogni caso. Nell'aneddottica locale ci sono le rose comperate in Croazia per i giardini pubblici e un tartufo regalato a Berlusconi. Le accuse più di sostanza riguardano gli introiti delle società partecipate contabilizzati tutti nello stesso anno: "Mettere a bilancio cinque anni di tassa raccolta rifiuti prima di vedere il denaro non è stata una grande idea", dice Rossa. Fabbio replica: "Avevo dei consulenti e hanno presentato delle perizie prima di compiere certe scelte. La decisione di dichiarare il dissesto non era per nulla obbligatoria". Il risultato è stato comunque deprimente. Lo dice il commerciante e lo confermano i sindacalisti. "Lo stato di dissesto è arrivato insieme alla crisi finanziaria mondiale, una tempesta perfetta. Per tre anni la gente ha comperato solo il pane e pochi generi di prima necessità", racconta Ferrari. Tonino Paparatto è il segretario generale della Cgil alessandrina: "Difficile distinguere gli effetti delle due crisi nella perdita dei posti di lavoro. Ma il rapporto con l’attuale amministrazione non è stato semplice. Tagliare nelle partecipate è stata una tentazione che abbiamo cercato in tutti i modi di contrastare. C'erano a rischio 400 posti di lavoro che alla fine siamo riusciti a salvare". Il lieto fine è nella grande festa del 9 settembre scorso, casualmente coincidente con la fine dello stato di dissesto: cene in piazza, lo slogan "Alessandria è viva" e la decisione di decorare i negozi ancora vuoti con opere e installazioni degli artisti locali. Perché il grosso della crisi è passato ma qualche cicatrice si vede ancora.

"Fondi scarsi, ma i sindaci facciano mea culpa", scrive Alessandro Cecioni. Marco Alessandrini, 46 anni, avvocato, è sindaco di Pescara dal 2014. Appena insediato ha dovuto chiedere di poter accedere alla "procedura di riequilibrio finanziario pluriennale" che il "Testo unico degli enti locali prevede" per i Comuni in pre default, quelli che stanno andando verso il fallimento, ma possono ancora sperare di salvarsi. Per dare un'idea della drammaticità della situazione cita il titolo di un'opera di Rimbaud, "Il battello ubriaco" ("Le bateau ivre"), ma dice anche che l'ideogramma cinese di crisi è lo stesso di opportunità. E comunque aggiunge, "la ristrutturazione del debito è per i nostri figli" perché le scelte di oggi hanno un orizzonte di 10 anni per certi aspetti e di 30 per altri.

Sindaco, bisognerà spiegarlo però ai cittadini che pagheranno l’aliquota massima di Imu, Tasi e Tari, che le buche per strada non saranno coperte e che i servizi sociali saranno tagliati...

"Noi i servizi alla persona non li abbiamo toccati, è stato un impegno preciso. Con la crisi che c'è non potevamo eliminare la nostra funzione nel sociale, abbiamo anche pensato esenzioni per le fasce più deboli. Certo il cittadino che protesta perché c'è una buca per strada, o perché il giardino pubblico è devastato può sentirsi rispondere che le priorità sono altre. Bisogna comunicare bene cosa sta accadendo. Sono andato molto in televisione, sui giornali, alle assemblee, agli incontri. Ma il vergogna, vergogna non me lo ha risparmiato nessuno. Nemmeno in consiglio comunale, dove me lo gridano quelli che fino al 2014 hanno speso senza ritegno e poi non hanno voluto approvare il loro stesso bilancio".

Aveva un’altra scelta? I sindaci che si trovano con il comune sull'orlo del fallimento che possono fare?

"Se la situazione è irrecuperabile si va alla procedura di dissesto. Si tira una linea: di qua c’è la nuova amministrazione, senza debiti, con tagli, blocco del turnover, tasse aumentate, zero investimenti. Di là la bad company, il Comune fallito con tutti i suoi debiti e una commissione di nomina ministeriale che la gestisce, come si farebbe in un fallimento, quindi con offerte ai creditori, transazioni".

Se la situazione è recuperabile, invece?

"Dal 2012 c'è l'altra possibilità: programma pluriennale di riequilibrio. L'amministrazione cambia strada, aumenta le tasse, taglia la spesa, blocca il turnover, non fa investimenti, ma può rifondere tutti i soldi ai debitori. E dato che questi sono nella maggior parte dei casi imprese del territorio non uccidi l'economia, il tessuto produttivo del tuo Comune. Io ho scelto questa strada per questo motivo, non potevamo tradire le nostre imprese. Alzare Imu, Tasi e Tarsi all’aliquota massima è doloroso, ma permette di accedere subito al fondo di rotazione che dà fino a 300 euro per abitante da restituire in 30 anni, soldi che permettono di pagare i creditori. Noi abbiamo preso 33 milioni e 480mila euro. Poi c'è l’opportunità".

L’opportunità?

"Certo, la crisi come momento delle scelte coraggiose, del cambio repentino di strada. I cinesi hanno un ideogramma solo per crisi e opportunità. Le faccio due esempi di cui vado orgoglioso. Abbiamo aumentato la Tari, tariffa rifiuti, ma già il secondo anno è calata dell'8% perché la differenziata è passata dal 30 al 34% (arriveremo al 57% nel 2019) facendo calare i costi di smaltimento, inoltre paghiamo quanto dovuto alla partecipata in anticipo così non chiede soldi in banca e risparmia 1,9 milioni di interessi. Secondo esempio, l'efficienza dell'illuminazione. Nelle scuole abbiamo messo le lampadine intelligenti che non significa solo che si accendono quando entri in classe, tipo le toilette dei ristoranti, ma che a seconda della luce che entra dalla finestra abbassano o alzano l'intensità. Sa quanto si risparmia? Il 75% delle spese di illuminazione. Per me è eccezionale".

Una bolletta della luce più leggera non può bastare però a risanare il bilancio.

"No, aiuta, ma i risparmi si fanno altrove. Nelle gare d'appalto unificate per le mense degli asili, con i dieci milioni in meno di spesa corrente: auto blu, cancelleria, pulizia. E poi il personale che diminuisce. Mille dipendenti dieci anni fa che oggi, col blocco del turn over, sono meno di 800. Ah, la telefonia. Non si possono più fare chiamate intercontinentali dall'ufficio, perché succedeva, mi creda".

Lei il disastro lo ha toccato con mano nel 2014. Il 9 giugno viene eletto, apre la porta del Comune e non c’è il pavimento.

"Non è che non conoscessi cosa mi aspettava, ma una cosa è immaginarlo, una cosa è vederlo. Ho passato il mio primo pomeriggio a guardare le carte. Non c'è voluto molto per scoprire che la situazione era gravissima. C'erano oltre 32 milioni di fatture da pagare, con mandato già firmato ma niente soldi; 13 milioni e 300mila euro di fondi vincolati agli investimenti erano stati destinati alla spesa corrente, mentre la banca ci aveva già anticipato 26 milioni e 400mila euro su cui pagavamo un interesse annuo del 4%. In cassa c'era un milione, nemmeno i soldi per gli stipendi".

Come può accadere che un Comune si ritrovi in una situazione del genere?

"Intanto – mi scusi il francese – i Comuni italiani hanno tutti o quasi le pezze al culo. Dal 2010 al 2015 i trasferimenti dallo Stato sono stati quasi azzerati. A Pescara, per esempio, sono passati da 30 a 3 milioni. Ma il problema è un altro. Vista questa situazione si sarebbero dovute prendere le contromisure, razionalizzare la spesa, pensare a risparmi strutturali. Invece si è continuato a spendere e a far quadrare i conti con una previsione gonfiata di entrate. E qui è arrivata la nuova disciplina di bilancio che prevede che tu debba togliere dalla spesa quei crediti che dubiti di incassare".

Pescara avrebbe dovuto gestire il bilancio con i nuovi criteri fin dal 2013, era un’amministrazione pilota.

"Il teatro dell'assurdo. Non solo non lo ha fatto, ma sa quando ha approvato il bilancio preventivo del 2013? A dicembre, ovvero quando il preventivo era di fatto un consuntivo".

Il dissesto dei Comuni arriva solo da previsioni sbagliate e mancati trasferimenti?

"No, certo, arriva da spese fuori controllo, da lavori pubblici gonfiati perché si avvicinano le elezioni, dalla pletora dei consulenti, dalle spese correnti per stipendi, luce, acqua, telefoni, auto blu. E dalla incapacità dei Comuni di esigere i crediti, far pagare le tasse e i servizi, si arriva anche al 50-60% in meno. Poi ci sono i mutui accesi con le banche che non sono rinegoziabili, mentre quelli con la Cassa depositi e prestiti sì. Per noi averlo fatto vuol dire un risparmio di 20 milioni di euro di interessi in 5 anni. Ma, ripeto, occorre che la spesa sia razionalizzata, tagliata, e le tasse incassate. Noi siamo riusciti a incrementare del 20% la riscossione. E poi ci sono le trappole".

Le trappole?

"Vai a vedere bene i crediti che hai in bilancio, le somme che pensi di riscuotere, e ti accorgi che quei soldi non li avrai mai. Debitori morti, aziende fallite, scomparse. Noi a Pescara abbiamo dovuto portare il fondo per i crediti di dubbia esigibilità da 7 milioni a 51, adeguandolo alla realtà. Per avere un'idea la Soget, la società di riscossione, ha cancellato 36 milioni prescritti. A questo si aggiunge il monte di nostri debiti per i quali non c'è nulla da fare se non pagare. Quelli, come si dice in linguaggio da avvocati, dove siamo soccombenti. Anche lì fondo da istituire per prepararci al peggio: altri 12 milioni".

E ora?

"Il cammino è segnato, i frutti già si vedono. La somma fra residui attivi e passivi, quel parametro che il cuore della nuova contabilità nel 2014 era 300 milioni, oggi siamo arrivati a 140. Oltre la metà dei 160 milioni di differenza sono stati pagati o riscossi. Il piano di riequilibrio funziona. In cassa ci sono 6 milioni e mezzo di euro e se prima i creditori incassavano in 6-7 mesi oggi avviene in 75 giorni. Il debito per abitante era 1344 euro nel 2013, oggi è 1134 euro. Altra strada non c'era. Non c'è futuro senza solidità ed equilibrio finanziario".

In Sicilia i debiti scatenano l'incubo precari, scrive Claudio Reale. Nel precipizio, in fondo al baratro del default, ce ne sono già 17. Ma a rischiare sono molti di più: i Comuni siciliani non riescono più a far quadrare i propri conti, tanto che all’inizio di settembre erano 250 quelli che ancora non avevano approvato il bilancio del 2015. Effetto del braccio di ferro fra Regione e amministrazioni locali sui finanziamenti, ma anche delle nuove regole contabili entrate in vigore da quest’anno: adesso, infatti, i sindaci sono costretti a ripulire i documenti finanziari dagli artifici usati negli anni scorsi, e uno dopo l’altro stanno scoprendo buchi impossibili da coprire. Voragini le cui radici affondano nella storia. Ad Agrigento, ad esempio, la giunta che si è insediata quest’anno ha trovato un extra-deficit da 34 milioni: nel bilancio, secondo l’amministrazione guidata da Lillo Firetto, c'erano vecchi crediti che non è più realistico tenere in considerazione. Soldi che il Comune attende anche dal 1989, e che a questo punto non arriveranno più. Così, da gennaio ad agosto di quest’anno, gli enti locali siciliani sono caduti uno dietro l’altro, e all’elenco di undici centri già in default si sono aggiunti Acate, Barrafranca, Carini, Casteltermini, Mussomeli e Scaletta Zanclea. Sei fallimenti in otto mesi. La lista, però, è destinata a crescere. Anche perché almeno tre centri sono davvero sull'orlo del precipizio: oltre ad Agrigento, a rischio ci sono due cittadine vicine, Porto Empedocle e Favara. Proprio quest'ultima è il teatro della storia più curiosa: la giunta a "5 Stelle" guidata da Anna Alba, subito dopo le elezioni di giugno, ha avviato la procedura per il dissesto a causa di un buco da 40 milioni, ma quando ha ricevuto dal ministero degli Interni un piano con venti punti per evitare la bancarotta ha risposto "picche". "Un programma del genere – ha detto l’assessora al Bilancio Concetta Maida – sarebbe peggio del default". Il fallimento di Favara, però, "regalerebbe" alla Regione un pacchetto da 205 precari. Ed è qui che si innesta il sospetto. Agitato da un deputato della maggioranza che sostiene Rosario Crocetta: "Proclamare il dissesto – spiega il democrat Giovanni Panepinto, che è anche sindaco di un piccolo centro dell’Agrigentino, Bivona – per alcuni amministratori è liberatorio, un rito quasi tribale che scarica il peso dei lavoratori sulla Regione". Già, perché se i Comuni vanno in default il costo dei lavoratori a contratto passa a carico della giunta Crocetta. Che all'inizio di settembre ha dovuto trovare in fretta e furia tre milioni per pagarne 779. Ma che potrebbe trovarsi sul groppone un pacchetto più consistente: i precari degli enti locali, in Sicilia, sono in tutto 13.787 e costano ogni anno 187,5 milioni di euro. Una bomba a orologeria per i già risicati conti della Regione.

FONDI EUROPEI MAI USATI.

Fondi europei, il grande spreco: così rischiamo di pagare il prezzo di scandali ed errori. La Ue ha destinato 43 miliardi di euro all’Italia tra l 214 e il 2020. Ma finora ne abbiamo usati solo poco più del 2 per cento. Di cui buona parte in consulenze. E sul passato e sul futuro degli aiuti pesano tagli e inchieste, scrive Francesca Sironi l'11 dicembre 2017 su "L'Espresso". Giovani, integrazione, inquinamento, povertà. Ogni problema irrisolto diventa occasione per invocare un “Piano Marshall”, una regia di aiuti come quella con cui gli Stati Uniti finanziarono la ricostruzione nel Dopoguerra. A essere chiamata in causa oggi è Bruxelles. Ma l’Europa di fondi sull’Italia ne ha puntati. E tanti. Per il periodo 2014-2020 la commissione ha assegnato a Roma quasi 43 miliardi di euro: un volume di aiuti secondo solo a quello della Polonia. Aggiungendo il co-finanziamento statale, si arriva a 73 miliardi di fondi per lo sviluppo in sette anni. Sono cifre da Piano Marshall, appunto. Ma senza nessuna ricostruzione in vista. Anche perché l’Italia è riuscita a liquidare solo il 2,4 per cento della cifra e a impegnarne il 32 per cento. La programmazione precedente, avviata nel 2007, si è definitivamente chiusa quest’anno. Grazie a uno sforzo titanico, avvenuto rimodulando molti dei desiderata iniziali, l’Italia è riuscita negli ultimi tre anni a far quadrare, più o meno, i conti. Metropolitane, restauri, centri d’accoglienza: la Ue ha pagato. Più o meno, però. Nelle conclusioni definitive si parla infatti dell’evaporazione definitiva di circa duecento milioni di euro. Persi. E restano ancora in bilico i contributi per la Ricerca, dove è in discussione un ulteriore rosso da quasi un miliardo. Ma se il passato pesa, è sul futuro che il Paese è in forse: con gli Stati forti dell’Unione sempre più insofferenti agli sprechi, i commissari stanno mettendo in discussione l’attuale modello di aiuti. Sul tavolo ci sono i tagli che saranno necessari dopo la Brexit e l’impatto non sempre cristallino delle sovvenzioni su alcune delle regioni più sussidiate, come quelle del Sud. Il banchetto potrebbe insomma concludersi mentre noi siamo ancora all’antipasto. Ora i funzionari italiani, terminati i bilanci, spazzati i cocci, stanno riprendendo in mano le calcolatrici per verificare l’andamento del new deal. E a correre, per adesso, c’è soprattutto un carico di contratti e consulenze. Il 31 marzo il cielo è nuvoloso sopra Bolzano. Nel palazzo comunale intitolato a una famiglia nobiliare della Carinzia si tiene un convegno, con traduzione simultanea in tedesco. Titolo: "Integrazione o disintegrazione? Nuove sfide per le regioni in Europa". Il Tirolo vuole difendere la propria identità. Lo stesso giorno, Roma certifica a Bruxelles la fine dei contributi per il periodo 2007-2013. Ciò che è dato è dato; il resto è perso. E Bolzano ha risultati sorprendenti. In negativo. Le cifre riguardano il “Fondo sociale europeo”, i contributi destinati a sostenere l’occupazione. La provincia autonoma aveva previsto corsi e tirocini per 51 milioni di euro. Il prospetto finale segnala che ne sono stati utilizzati 36. Quindici in meno. Ma non basta. «Dentro ce ne sono altri 12 che rischiano di andare in fumo», spiega un dirigente sudtirolese. Il buco arriverebbe così a 27 milioni di euro. Possibile nella terra delle eccellenze ordinarie quanto i gerani ai balconi? La risposta sta negli atti di una commissione d’inchiesta istituita dopo la visita di alcuni tecnici europei, terminata allora con osservazioni durissime sulla gestione delle risorse, tali da bloccarle. L’ultimo manager chiamato a gestire il fardello, Claudio Spadon, riassumeva così: non si era capito che i fondi non andavano distribuiti a pioggia. La relazione finale dei consiglieri affronta la questione per perifrasi, definendo «pragmatico» e «fluido» lo stile con cui erano stati amministrati i contributi dalla responsabile Barbara Repetto (Pd), sostituita dopo il 2008 da un’alternarsi di manager che avrebbero dimostrato una guida «spesso più rigorosa, più complicata, a volte rigida e timorosa rispetto alle regole, che ha rallentato le procedure e probabilmente allentato gli importanti contatti con le autorità europee». Insomma, secondo la relazione la questione sarebbe riassumibile in un bivio obbligato: essere «fluidi» e spendere, o rispettare le regole e finire nel pantano.

BUON GOVERNO? Il bivio porta a un termine adorato dalle burocrazie pubbliche e private europee: “governance”. «Consolidare la governance» è l’obiettivo pass-partout, la priorità centrale. Tanto che Roma ci ha investito in questa stagione un intero “Piano operativo nazionale” (Pon). Con un budget da ben 827 milioni di euro. Gli eurocommissari hanno richiamato l’Italia più volte: gli aiuti non possono rimanere incagliati negli uffici, insistono. Devono portare sviluppo reale. Ecco allora il “Pon governance”. In teoria, il piano dovrebbe servire ad aumentare la capacità degli amministratori pubblici nell’affrontare appalti e progetti. In pratica, a 17 anni dall’introduzione dei rubinetti europei, sembra tradursi ancora in affidamenti esterni, consulenze, contratti di collaborazione. In spendere per capire come spendere. È il paradosso che si legge almeno in un esposto presentato al Nucleo speciale anticorruzione della Guardia di finanza e alla procura della Corte dei conti dai Cobas dell’Agenzia per la coesione, l’ente creato nel 2013 dal governo Letta proprio per rendere più produttivo l’uso delle risorse europee. Non bastandole evidentemente i 200 dipendenti che ha in dote, l’Agenzia ha già firmato oltre 100 contratti di collaborazione: 140, nella denuncia; 114, secondo quanto ha dichiarato a settembre lo stesso ministro della Coesione, Claudio De Vincenti, rispondendo a un’interrogazione parlamentare sulla vicenda. Si tratta di «esperti altamente specializzati», ha spiegato il politico. Che prenderanno dai 30 agli 85 mila euro all’anno - provenienti proprio da quel Pon Governance - per sette anni: un’unicum, viene segnalato, per un’istituzione pubblica, giustificato dai vertici con la durata della programmazione europea (settennale, appunto). L’impressione che la semplificazione diventi burocrazia sotto forma di nuovi contratti aumenta. L’ente guidato da Maria Ludovica Agrò nel frattempo ha avviato attività per 48 milioni di euro su quel Piano di supporto al buon governo. E in questi mesi ha appaltato altri «servizi professionali», a Kpmg (per 879 mila euro) e di «informazione e comunicazione», a Fpa srl (per 141 mila euro).

RICERCA AL MACERO. All’esterno cerca aiuto anche il ministero dell’Istruzione. Per governare i nuovi flussi di denaro Ue ha ingaggiato infatti 34 esperti, che insieme a un protocollo d’intesa con la Guardia di finanza dovrebbero impedire il ripetersi dei guai. La distribuzione dei finanziamenti europei per la Ricerca è stato infatti uno dei capitoli più pulp della scorsa programmazione, con dossier anonimi, ispezioni della Ragioneria di Stato, indagini ancora in corso in diverse procure. A oggi, fra archiviazioni e procedimenti in itinere, l’unica responsabilità accertata dalla Corte dei conti è stata a carico di Fabrizio Cobis, dirigente tutt’ora al ministero (in altro ufficio), condannato a risarcire 500 mila euro per le fasi di un appalto lievitato da 26 a 47 milioni di euro. A preoccupare i vertici è soprattutto il confronto con la commissione Ue per la sorte dei 729 milioni di euro di contributi (972 se si comprende il co-finanziamento nazionale) sospesi per via delle irregolarità trasversali riscontrate nella distribuzione dei premi. Sui fondi per l’innovazione si era scatenata infatti una corsa all’oro, lasciata senza argine per la fretta di spendere il budget prima della scadenza. Le antologie d’inchiesta raccontano di aziende di Modena, Padova e Milano che aprivano uffici fantasma attivi per un pomeriggio o dagli indirizzi inesistenti, necessari unicamente a dimostrare la presenza nelle regioni del Sud (dove erano destinati gli aiuti); di comitati di valutazione in cui sedevano gli stessi professori che beneficiavano degli aiuti; di banche che certificavano la solidità di società in fallimento la mattina dopo. Il pool di investigatori del “Nucleo speciale spesa pubblica e repressione frodi comunitarie” della Guardia di finanza ha sommato sprechi e irregolarità per 578 milioni di euro. Che ora toccherà al ministero recuperare, per evitare che sia lo Stato a dover rimborsare il bottino alla Ue.

POTERI TERRENI. Molti di quei progetti erano perfetti, formalmente. Approvati per questo senza indugi di burocrazia in burocrazia. Una delle missioni dei finanzieri guidati dal generale Rosario Massino è allora capire cosa accade dopo. Cosa resta sul territorio di quegli aiuti. Quando hanno controllato ad esempio le sovvenzioni date ai pescatori in crisi ne hanno individuati quattro in regola su 200. Avevano ricevuto tutti 40 mila euro per trovare entro due anni un nuovo impiego. Continuavano invece a pescare, ma in nero. Anziché risolvere il problema, l’aiuto comunitario l’aveva insomma aggravato. E che il danno complessivo sia una goccia (due milioni e 900 mila euro) nella marea dei fondi Ue, rispetto allo sforzo necessario a intercettarlo, è un problema costante per i cacciatori di frodi. Solo setacciare gli aiuti per l’agricoltura, ad esempio (un capitolo che varrà 10 miliardi di euro da qui al 2020), significa scrutinare centinaia di migliaia di pagamenti. Nell’ultima operazione, su 500 mila posizioni analizzate, 35 mila sono risultate irregolari. Il mercato dei titoli per le sovvenzioni agricole ha d’altronde zone d’ombra molto estese. Sotto cui le mafie riposano benissimo. Non solo in Sicilia. L’attenzione degli inquirenti si sta concentrando su altre regioni: Puglia, Calabria. E il Nord. Un’indagine dei Carabinieri e della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha seguito l’aratro delle ’ndrine dalle terre calabresi al Lazio, alla Toscana, alla Liguria. Dal momento che basta dimostrare la proprietà per ricevere gli aiuti, la faccenda è piuttosto semplice. E anche nella Bassa la voglia di approfittarne cresce: da inizio anno i Carabinieri di Parma hanno denunciato 12 persone. Ma se gli appetiti aumentano, con loro anche gli strumenti di controllo. Il 12 ottobre è stato approvato il regolamento che istituisce “l’Eppo”, la procura europea. Sarà un organismo centrale che potrà indagare e perseguire penalmente chi viola gli interessi finanziari dell’Unione. Quindi anche i truffatori, in tutti i Paesi al di fuori di Danimarca, Irlanda, Malta, Olanda, Polonia, Svezia, Ungheria (e ovviamente Regno Unito). Ci sono voluti 20 anni di proposte e quattro di negoziati. E sarà operativa soltanto nel 2021. Ma intanto, esiste.

Garanzia giovani è un flop clamoroso. Come sta andando il pacchetto di aiuti destinati ai Neet? Non certo bene, a leggere i dati. Solo un quarto dei ragazzi registrati ha trovato un'occupazione grazie ai centri, scrive Francesca Sironi il 7 dicembre 2017 su "L'Espresso". Il ministro Poletti presenta i risultati della Garanzia Giovani alla Leopolda di due anni faIn un Paese che ha sempre meno giovani, lasciarli alla deriva è uno spreco ancora più grave. Per questo l’Italia ha puntato molto sulla “Garanzia Giovani” il sistema di aiuti - pagati quasi del tutto dalla Ue - destinati a scuotere i Neet, a dare prospettive ai ventenni che non studiano né lavorano, popolazione di cui deteniamo il record continentale. Bruxelles e Roma hanno deciso di investire sul piano per l’occupazione degli under trenta un miliardo e mezzo di fondi da qui al 2020. Ma la fotografia di quanto realizzato è decisamente meno incisiva delle premesse. Le ultime relazioni, sparpagliate fra pagine di istituti diversi, raccontano infatti di grandi sforzi per magri risultati. Al 30 giugno del 2017 si festeggiavano un milione e 185 mila registrazioni. Evviva. I giovani hanno iniziato a rispondere al servizio, pare. Ma il servizio come risponde a loro? I percorsi completati dal 2014 sono meno della metà. Per un ragazzo su due che si è iscritto alla Garanzia i fondi spesi per aiutarlo a trovare un’occupazione, a spezzare l’abulia in cui rischia di cadere, sono rimasti lì, incagliati negli uffici. Non sono diventati possibilità concrete. Solo al 47,9 per cento dei registrati, infatti, circa 400 mila ventenni, è stata offerta una soluzione reale: un tirocinio, un inserimento in azienda, un bonus per aprire un’attività. Le occasioni non ci sono? O gli uffici non sono capaci di trovarle? E si tratta pur sempre di mezzo milione di giovani che hanno trovato lavoro grazie all’iniziativa, no? No. Perché solo un’altra metà di quella metà, a conclusione del percorso pagato dalla Ue, è poi riuscita ad assicurarsi effettivamente un’occupazione. Con qualche percentuale in più segnalata in quota «ha avuto comunque un’esperienza lavorativa successivamente alla conclusione». L’arretratezza delle politiche attive per l’impiego, in Italia, è un problema che L’Espresso denuncia da tempo: dai centri per l’impiego senza linea telefonica alle offerte che mancano, alla lentezza della macchina amministrativa. Con i soldi europei è stato creato di recente un fondo dal titolo innovativo, “Selfiemployment”, per favorire l’impresa. In tutto, ha validato 378 domande. Gli auto-imprenditori sostenuti? 10. La fetta più grande dei finanziamenti viene utilizzata ancora in tirocini extracurriculari, che da soli arrivano a totalizzare il 70 per cento delle iniziative registrate. Seguiti a distanza dai bonus, dai corsi di formazione e dagli incentivi per il servizio civile (rientra nella Garanzia). Vengono distribuiti milioni in un sistema che arranca a intercettare giovani e imprese. Quando riesce a spenderli. Le regioni, titolari della gestione della quasi totalità degli aiuti, passano da un’efficienza del 27,7 per cento (Calabria) al 46 della Lombardia, agli sforzi di Piemonte e Sicilia, che superano l’80 per cento delle risorse spese rispetto a quelle programmate. La Commissione dice che si vedono però «progressi significativi», almeno rispetto al quadro ancor più magro degli esordi.

Centri per l'impiego, che flop: a rischio anche i fondi europei. Solo il 3 per cento di chi si rivolge ai servizi degli ex uffici di collocamento trova lavoro. E mentre i disoccupati restano, le strutture pubbliche si ingrossano di dipendenti. Il caso estremo è la Sicilia, con 1582 funzionari in 65 strutture. Ecco cosa dice l'ultimo rapporto del ministero del Lavoro. E perché preoccupa Bruxelles, scrive Gloria Guida il 27 febbraio 2014 su "L'Espresso". Dovrebbero essere il trampolino di ri-lancio dell'occupazione, moli sicuri da cui far ripartire la vita, e la carriera, di milioni di disoccupati. Ma gli attuali centri per l'impiego, gli ex uffici di collocamento, sono diventati piuttosto dei carrozzoni di inamovibili: soprattutto al Sud, le agenzie locali sostenute con i soldi delle regioni sembrano servire più ad ingrossare le fila dei dipendenti pubblici che non ad agganciare nuove aziende disposte ad assumere. I risultati (scadenti) si vedono: solo il tre per cento degli iscritti riesce a trovare un posto grazie ai loro servizi. L'ultima – ed ennesima – critica al sistema dei centri per l'impiego arriva dal ministero del Lavoro, che ha condotto un'indagine approfondita per preparare l'arrivo dei fondi europei destinati al contrasto della disoccupazione giovanile, quelli dell'atteso progetto “European Youth Guarantee”. Per spronare gli inattivi, ma soprattutto i “neet”, i ragazzi che non studiano e non lavorano, a rimettersi in gioco, i tecnici del governo avevano intenzione di puntare molto sulle agenzie pubbliche per l'impiego, diffuse e radicate su tutto il territorio. Ma dopo aver concluso il monitoraggio, anche i burocrati di Roma si sono resi conto che i denari europei rischierebbero di finire sprecati, se inviati a pioggia nel sistema già traballante dei centri. La causa del ritardo non è certo imputabile alla mancanza di forze. Le persone all'opera per trovare opportunità a chi è senza lavoro non mancano. Anzi, abbondano: il caso estremo è la Sicilia, che per i suoi 65 uffici ha 1582 dipendenti. In tutta Italia sono 8713: significa che uno su cinque lavora sull'isola. E il rapporto fra funzionari e richieste è completamente sbilanciato: gli oltre 1500 impiegati siciliani si devono infatti occupare di 181mila iscritti al servizio. In Lombardia invece 323mila disoccupati sono serviti in tutto da 577 addetti: significa che un dipendente dei centri per il collocamento lombardi aiuta da solo più di due persone al giorno, mentre nella regione di Rosario Crocetta il funzionario medio ne aiuta uno ogni due giorni. Non è tutto. L’indagine diffusa dal ministero rivela anche che la Sicilia ha la quota più alta di personale dedicato al back-office (51 per cento rispetto a una media nazionale del 29), ovvero di dipendenti che non lavorano a diretto contatto con i disoccupati in difficoltà. E quale sia il loro compito, in un centro che serve proprio a favorire il rapporto tra chi cerca e offre lavoro, non è chiaro. A pesare, sull'efficienza delle strutture isolane, c'è infine anche il basso livello di scolarizzazione: solo il nove per cento degli impiegati ha una laurea. Quello siciliano è indubbiamente un caso estremo, ma la situazione non è molto diversa in altre zone. Ne sa qualcosaRomano Benini, esperto di servizi e consulente del ministero del Lavoro, che a proposito di disoccupazione ha da poco scritto il libro “Nella tela del ragno”: «Il sistema dei centri per l’impiego è talmente debole e sbrindellato che difficilmente riuscirà a dare qualche buon risultato», spiega Benini. Questo perché ogni regione adotta una propria politica a favore dell’occupazione e non tutte funzionano. Esistono realtà locali, come Trentino Alto Adige, Lombardia, Piemonte, Toscana, Liguria, Veneto ed Emilia Romagna che si sono date da fare con progetti e iniziative a favore della formazione e della ricerca attiva di nuove occasioni di lavoro, mentre nel resto d’Italia regna l’immobilismo. Attraverso la European Youth Guarantee in Italia arriveranno 1,4 miliardi di fondi per far ripartire l’occupazione: «In realtà solo 300 milioni saranno destinati ai servizi per l’impiego nel 2014, che si sommeranno ai 500 milioni che già ci mette lo Stato», commenta Benini. Circa 700 milioni in tutto, dunque, mentre la Germania spende 9 miliardi per evitare che i tedeschi restino nel limbo dell’inoccupazione, senza un lavoro e senza un percorso di formazione per cercare una nuova via d’accesso al mondo del lavoro. Eppure, secondo Benini, non è solo di una questione di quattrini, ma si tratta soprattutto di una reale mancanza di servizi: «Al Sud i soldi ci sono, ma mancano gli strumenti. Non c’è un progetto serio per rilanciare l’occupazione e neppure un piano per sollecitare le persone a cercare un nuovo impiego, magari anche sperimentando nuove strade, come quella del tirocinio, dell’apprendistato, o dell’auto imprenditorialità», sostiene l'esperto: «I servizi sono affidati a personale vecchio e con scarso livello di scolarizzazione. I risultati sono ovviamente deludenti e si rischia di aggravare ulteriormente la situazione in quelle aree già depresse, come il Sud Italia, dove i centri per l’impiego fanno acqua». Così, anche se i fondi europei sono in viaggio per l’Italia, potrebbero restare inutilizzati, perché se le Regioni non saranno in grado di dimostrare di saperli usare bene, l’Europa se li riprenderà. Ecco perché alcune amministrazioni, come quella del Lazio, anziché affidarsi ai suoi 600 operatori, sta pensando di rivolgersi alle più efficienti agenzie esterne.

Così l'Italia regala i fondi europei ai big delle consulenze. Le multinazionali Ernst & Young e PricewaterhouseCoopers fanno il pieno di fondi strutturali. Con risultati spesso non all'altezza delle parcelle da record, scrive Stefano Vergine l'1 ottobre 2015 su "L'Espresso". L’Italia, si sa, non è brava a spendere i fondi strutturali europei. È però bravissima a utilizzarli per pagare consulenze, a volte con procedure che riducono al minimo la concorrenza e fanno felici quasi sempre le stesse aziende. Due, per la precisione: Ernst & Young e Pricewaterhouse Coopers. I numeri aiutano a comprendere il fenomeno. Di tutti i fondi strutturali ricevuti dall’Unione europea per lo sviluppo del Mezzogiorno, ne abbiamo spesi più in consulenze che per settori cruciali come il turismo e la cultura. Il dato emerge dai documenti della Ragioneria dello Stato sui fondi europei assegnati
a Roma dal 2007 al 2013, l’unico periodo su cui finora sono state pubblicate cifre definitive. Dei 31,4 miliardi da spendere in questi sette anni con l’obiettivo ufficiale di sviluppare il Sud, il 3,3 per cento  è andato a quella che viene definita “assistenza tecnica”. Tradotto dal burocratese: la consulenza è costata un miliardo di euro. Spesa che, in teoria, un senso ce l’avrebbe. Per usare al meglio gli aiuti europei, regioni e ministeri si possono infatti affidare a società esterne che hanno competenza in materia. Nella pratica non funziona sempre così. Lo dicono i risultati ottenuti finora. E lo fanno capire ancora meglio due bandi di gara recenti. Uno, pubblicato a maggio dal ministero dell’Interno, cerca consulenti per migliorare il sistema di accoglimento dei richiedenti asilo. Vale 13,4 milioni di euro, quasi l’equivalente di quello che l’Unione europea spende in cinque mesi per l’operazione di pattugliamento del Mediterraneo chiamata Triton. L’altro bando per la consulenza, aperto a luglio dal ministero dell’Istruzione, promette 48 milioni di euro, che possono salire a 81,6 milioni senza ulteriore gara, per un progetto di innovazione scolastica. Di strano c’è che nessuna delle due offerte richiede esperienza specifica nella gestione del problema oggetto di gara. Entrambi i bandi impongono però come condizione necessaria un “fatturato specifico”. Cifre alte: nel primo caso dev’essere pari a quasi 10 milioni di euro, nel secondo addirittura a 24 milioni. L’anomalia sta proprio qui. Significa che può vincere la commessa solo chi ha già fatto soldi (e tanti) con la consulenza sui programmi finanziati dall’Ue, e poco importa se quella consulenza non aveva nulla a che fare con i migranti o la scuola. Una stranezza italiana, dimostra uno studio della Confindustria: il fatturato specifico è richiesto nel 90 per cento delle gare bandite da noi, mentre nel Vecchio Continente la media è del 18 per cento. Il risultato è che i possibili vincitori dei ricchi contratti appena offerti dai ministeri guidati da Angelino Alfano e Stefania Giannini sono, appunto, due: Ernst & Young e PricewaterhouseCoopers. Si tratta di colossi del settore, multinazionali con base a Londra e sedi in ogni angolo del globo. L’alta probabilità che siano loro a vincere dipende
dai numeri. Solo queste due società possono infatti vantare fatturati specifici del genere. Perché sono loro ad aver fatto finora la parte del leone nella spartizione delle consulenze sui fondi europei destinati all’Italia. Lo dicono i dati pubblicati dal governo sul sito opencoesione.gov.it. Si legge che PricewaterhouseCoopers ha incassato dal 2007 al 2013 circa 42 milioni di euro, Ernst & Young è arrivata a fatturare più di 44 milioni. Cifre enormi, rispetto a quelle incamerate dai concorrenti (a cui non rimane che consorziarsi per cercare di raggiungere le soglie di fatturato richieste). E il merito non è solo dei concorsi tagliati su misura, a volte è anche dei continui rigonfiamenti dei costi. Come nel caso di una gara bandita nel 2009 dal ministero dell’Istruzione, il cui valore è passato in meno di tre anni da 26 a 47 milioni di euro. Praticamente raddoppiato grazie ai ritocchi decisi da alcuni dirigenti di Stato. Ad aggiudicarsi l’appalto, sul quale la Procura di Roma ha avviato un’indagine, è stato un consorzio di cui fa parte Ernst & Young. Sulla vicenda dovranno fare chiarezza i magistrati romani, ma di certo i dati dimostrano che in Italia vale una regola particolare: consulente che vince non si cambia. Un sistema che ostacola la concorrenza. E non aiuta a risparmiare fondi pubblici, né a usare bene i pochi soldi che otteniamo dall’Europa per la crescita del malandato Sud.

Lobby e consulenze, il record europeo di Soru. I numeri dell'Integrity Watch di Transparency International fotografano lo stato del lobbismo in Europa. E nella lista nera finisce l'ex presidente della regione Sardegna, scrive l'1 ottobre 2015 l'Espresso". E le aziende italiane come fanno lobby in Europa? L’unico modo per tentare una radiografia sono i dati sugli incontri condotti dai lobbisti con commissari e alti dirigenti della Ue, che vengono censiti dallo scorso dicembre. Il monitoraggio è possibile grazie al sito Integrity Watch di Transparency International. Che spiega come fino a luglio la più attiva sia stata Confindustria, con 14 meeting nel carniere e 12 rappresentanti autorizzati a entrare in Parlamento mentre i dipendenti schierati nella capitale sono solo 9. Più tesserini che persone? Forse i badge sono stati richiesti per i vertici italiani dell’associazione industriali o forse per consulenti tecnici. Nella hit parade troviamo società di energia, acciaio e banche assieme a Mediaset. Fiat Chrysler ha avuto solo due colloqui di alto livello europeo e schiera due addetti a Bruxelles. Una pattuglia ridotta. Ma la compagnia di Sergio Marchionne, che si presenta come registrata a Londra, ha un cuore che batte negli Usa, nonostante solo due anni fa abbia ottenuto sei milioni dalla Ue per un programma di ricerca. Tra gli europarlamentari, invece, lo stesso osservatorio punta un faro su Renato Soru, ex presidente sardo e fondatore di Tiscali, che è al quinto posto assoluto per mole di incarichi esterni. È stato incluso in una lista nera di nove deputati contestati per i rapporti economici con compagnie di pubbliche relazioni o associazioni industriali. Il polacco Michal Boni per esempio ha omesso di dichiarare le sue consulenze per il colosso della lobby dal nome evocativo di Lewiatan. Ma chi tace non corre rischi. L’ex ministra francese Rachida Dati viene attaccata per il silenzio sui nomi dei clienti che arricchiscono il suo studio legale mentre siede in Parlamento. E uno degli eletti in Belgio si è scordato  di rendere nota la proprietà di stock option per cinque milioni di euro: un vero sbadato.

Bruxelles corrotta, Europa infetta. Tangenti. Sprechi. Inefficienza. Istituzioni al servizio di lobby potenti e occulte. Ecco tutti i pubblici vizi della capitale. Che affossano la fiducia nell’Unione, scrive Gianluca De Feo l'1 ottobre 2015 su "L'Espresso". Bandiere davanti alla Commissione Europea a BruxellesÈ un tour tra gli edifici più importanti della città: dalla residenza reale al museo di belle arti, dagli uffici ministeriali alle carceri, dall’osservatorio astronomico al palazzo di giustizia. Sono maestosi, coperti di marmi e statue a testimoniare la solidità della virtù pubblica. Eppure per dieci anni a gestirli è stata una cricca: ogni appalto una mazzetta, altrimenti non si lavorava. Tutti sapevano, nessuno ha mai denunciato la rete criminale che ha trasformato il cuore del Paese in una vera Tangentopoli. Non stiamo parlando delle gang romana di Mafia Capitale, questa è Bruxelles: due volte capitale, del Belgio e dell’Europa. E due volte corrotta, nell’intreccio d’affari tra poteri locali e autorità continentali. Qui non si decide soltanto la vita di una nazione lacerata dalle tensioni tra valloni e fiamminghi, ma il destino di mezzo miliardo di persone, cittadini di un’Unione che mai come in questo momento si mostra debole e inconcludente. Dall’inizio del millennio la fiducia degli italiani, come evidenzia il sondaggio Demopolis, è crollata e solo uno su quattro crede ancora nell’Europa. Bruxelles però è anche il laboratorio in cui la corruzione si sta evolvendo. La mutazione genetica delle vecchie bustarelle in un virus capace di intaccare in profondità la reputazione delle istituzioni europee, diffuso silenziosamente da quei soggetti chiamati lobby. Realtà estranee alla tradizione democratica dei nostri Stati nazionali e molto diverse dai modelli statunitensi, perché qui non ci sono leggi che le regolino, né sanzioni che le spaventino: le lobby sono invisibili e allo stesso tempo appaiono onnipotenti.

LA GIUSTIZIA IMPRIGIONATA. Il simbolo è Place Poelaert, la grande piazza panoramica affacciata sul centro storico di Bruxelles. Da un lato c’è il palazzo di giustizia, con la cupola dorata che svetta sull’intera città: una muraglia di impalcature lo imprigiona da cima a fondo, soffocando le colonne dietro un gigantesco castello di assi che marciscono tristemente. Il cantiere dei restauri è abbandonato da otto anni, da quando i titolari sono stati arrestati, assieme ad altri 33 tra imprenditori e funzionari accusati di avere depredato l’intero patrimonio immobiliare statale. Proprio di fronte al palazzo della giustizia impacchettato c’è uno splendido complesso rinascimentale, con un giardino impeccabile. È la sede del Cercle de Lorraine, “the business club”, come recita la targa: l’associazione che raccoglie gli industriali più prestigiosi del Paese, baroni e visconti da sempre padroni del vapore assieme ai manager rampanti della new economy. Lì, tra sale affrescate e camerieri in livrea, promuovono i loro interessi. Insomma, sono una lobby. Una delle oltre seimila che presidiano la capitale europea, con più di 15 mila dipendenti censiti mentre altrettanti si muovono nell’oscurità. A Bruxelles il colore degli affari rispecchia il cielo perennemente coperto: si va dal grigio al nero. Non a caso, la frase magica della cricca degli appalti era «bisogna che il sole splenda per tutti».

IL CANTIERE INFINITO. Oggi la città è tutta un cantiere. Sono centinaia. Dall’aeroporto al quartiere generale della Nato, dalla periferia al centro storico si vedono ovunque gru e ruspe all’opera. Per non essere da meno, anche il Parlamento europeo vuole abbattere l’edificio dedicato a Paul-Henri Spaak, completato nel 1993 con un miliardo di spesa: il progetto prevede altri 750 uffici per i deputati del presente e del futuro, rappresentanti delle nazioni che aderiranno all’Unione negli anni a venire. Se però dal Palazzo di Giustizia si va verso il Parlamento percorrendo la chaussée d’Ixelles, la frenesia cementizia si mostra in una luce diversa. La lunga arteria è stata completamente rifatta nel 2013, solo che al momento dell’inaugurazione c’è stata una sorpresa: i marciapiedi erano troppo larghi e gli autobus finivano per incastrarsi l’un contro l’altro. Hanno ricominciato da capo, di corsa. Appena riaperta al traffico, però, la pavimentazione allargata non ha retto al peso dei pulmann e si è riempita di buche, manco fosse Roma. E giù con la terza ondata di lavori: ora la strada sembra una chilometrica sciarpa rattoppata. Ixelles è un comune autonomo, perché Bruxelles in realtà è un insieme di diciannove piccoli municipi indipendenti, ciascuno con il suo borgomastro. In questo periodo il meno sereno è il sindaco di Uccle, che per undici anni è stato pure presidente del Senato belga. Come avvocato ha difeso una masnada di magnati kazaki, ottenendone l’assoluzione. In cambio ha ricevuto 800 mila euro. «Compensi professionali», ha spiegato Armand De Decker. Il sospetto invece è che la scarcerazione degli oligarchi sia il tassello di un intrigo internazionale: una clausola del patto segreto tra il presidente kazako Nazarbayev e l’allora collega francese Sarkozy per la vendita di elicotteri, in cui era previsto anche «di fare pressione sul senato di Bruxelles». Un’accusa formulata dagli inquirenti parigini, perché le procure locali si guardano bene dall’indagare. Gli investigatori belgi non hanno fama di efficienza né di indipendenza. La storia recente del Paese è costellata di scandali che si perdono nel nulla, tra trame occulte e massoneria: i parallelismi con l’Italia sono forti e anche qui prospera una cultura del sospetto, che porta i cittadini a diffidare della giustizia. L’inchiesta sulla tangentopoli capitale è partita nel 2005, le sentenze di primo grado ci sono state solo quattro mesi fa. I dieci dirigenti della Régie des Batiments, che per un decennio hanno intascato almeno un milione e 700 mila euro, se la sono cavata con condanne irrisorie. «I fatti sono gravi, ma ormai antichi», ha riconosciuto la corte.

IL BAROMETRO DELL’ONESTÀ. Questa giustizia lenta e spesso inefficace è anche arbitro di parecchi dei misfatti che avvengono nei palazzi della Ue. Sono le magistrature nazionali a procedere penalmente contro i corrotti, perché le agenzie europee possono minacciare soltanto sanzioni amministrative: la punizione massima è il licenziamento, una rarità, mentre più frequenti sono le retrocessioni di grado e soprattuto le lettere di richiamo. Di certo, non un grande deterrente per rinsaldare la moralità dei commissari, dei 751 deputati e dei 43 mila funzionari che gestiscono ogni anno oltre 140 miliardi di euro e scrivono leggi vincolanti per 28 Paesi. Mentre anche dalla loro onestà dipende la credibilità di un organismo sempre meno rispettato. L’istituto statistico più autorevole, Eurobarometro, due anni fa ha lanciato l’allarme: il 70 per cento dei cittadini ritiene che la corruzione sia entrata nelle istituzioni europee. Lo credono 27.786 persone, selezionate scientificamente per rappresentare l’intera popolazione dell’Unione. È un dato choc. La Commissione ha reagito annunciato una crociata contro le tangenti in tutto il Continente. Ovunque, tranne che nei suoi uffici: nel 2014 il primo rapporto anti-corruzione nella storia della Ue ha sezionato i vizi di ogni Paese, senza però fare cenno ai peccati dentro casa: quella che la Corte dei Conti europea ha definito nero su bianco «un’infelice e inspiegabile omissione». D’altronde la presidenza di Jean-Claude Juncker è cominciata nel peggiore dei modi. Le rivelazioni di LuxLeaks - pubblicate in Italia da “l’Espresso” - hanno messo a nudo il suo ruolo nel trasformare il Lussemburgo nel Bengodi delle aziende in cerca di tasse irrisorie. Per riscattarsi, Juncker ha promesso una sterzata contro l’iniquità fiscale legalizzata. «Ma finora la Commissione è stata passiva su questa materia», sottolinea Eva Joly, per anni il giudice istruttore più famoso di Francia, che ha portato alla sbarra i crimini delle grandi aziende, ed ora è eurodeputato verde: «La follia è che abbiamo al vertice dell’Europa l’uomo che ha arricchito il Lussemburgo grazie alle tasse rubate agli altri, con guadagni che continuano a crescere. Nel Parlamento i verdi hanno imposto la creazione di un comitato speciale: il primo rapporto sarà pronto tra un mese e sarà molto duro. Anche i conservatori ora hanno capito e c’è la volontà di piegare i paradisi fiscali: sono convinta che il Lussemburgo dovrà adeguarsi o uscire dall’Unione».

IL GRANDE CIRCO. Quello che Juncker costruito in Lussemburgo, a Malta lo ha realizzato John Dalli, il ministro che ha fatto dell’isoletta una piazzaforte finanziaria, graditissima agli investitori italiani più spregiudicati e ai miliardi rapidi delle scommesse. Poi nel 2010 Dalli è entrato nel governo dell’Unione: come commissario per la salute ha avuto in mano dossier fondamentali, incluso il via libera alle coltivazioni ogm. Finché la sua carriera non si è trasformata in circo. Letteralmente. Il suo vecchio amico Silvio Zammit, pizzaiolo e impresario circense part-time, è andato in giro chiedendo soldi per conto del «boss». Ha prospettato a una holding svedese la possibilità di spalancare il mercato europeo a un prodotto che piace molto agli scandinavi: lo snus, il tabacco da masticare. Una passione da pirati e cowboy, finora proibita nel resto della Ue, con potenzialità miliardarie: rimpiazza le sigarette anche dove il fumo è vietato. In cambio Zammit ha chiesto una somma niente male: 60 milioni di euro, poco meno della storica tangentona Enimont. La questione è arrivata sul tavolo dei detective dell’Olaf, l’unità antifrode europea guidata dall’italiano Giovanni Kessler. Con investigatori provenienti dalla Guardia di Finanza, perquisendo di notte l’ufficio del commissario, sono stati trovati «indizi plurimi» del coinvolgimento personale di Dalli. Nell’ottobre 2012 l’allora presidente Barroso ha obbligato il maltese alle dimissioni, firmate molto controvoglia. Tant’è che quando, dopo la sostituzione del capo della polizia, l’indagine penale nell’isola è stata archiviata, Dalli ha cominciato a sparare denunce dichiarandosi vittima di un’ingiustizia. E il parlamento ha criticato l’azione dell’Olaf: «Dal rapporto dei supervisori emergono molti dubbi sui metodi del nostro istituto antifrode più importante, che nei resoconti manipola le statistiche per presentare risultati migliori del reale», sancisce l’eurodeputato verde Bart Staes, membro di spicco del comitato che vigila sul budget, altro caposaldo del sistema di controllo. L’Olaf si è trovata ai ferri corti pure con la Corte dei conti, a cui ha contestato appalti oscuri. Che a sua volta ha rimandato le accuse al mittente. Insomma, un tutti contro tutti, con esiti abbastanza deprimenti per l’affidabilità dei custodi di Bruxelles. Oggi l’Europa sembra avere tanti cani da guardia litigiosi. E tutti con la museruola: abbaiano, ma non mordono. Il loro compito infatti si limita a suggerire provvedimenti. Fuori dai palazzi della Commissione, non hanno poteri e devono invocare l’aiuto delle polizie nazionali. Che - tra interessi patronali e differenze normative - non sempre collaborano. I detective europei hanno bisogno di un’autorizzazione pure per ascoltare i testimoni. All’Olaf ogni indagine è affidata a una coppia di ispettori, senza assistenti: si fanno da soli pure le fotocopie e passano più tempo a difendersi da tiro incrociato delle altre autorità che non a investigare. Il feeling che si respira è negativo, come se la lotta alla corruzione interna non fosse una priorità, anzi.

EMENDAMENTI CASH. Eppure i campanelli d’allarme non mancano, anche in Parlamento. L’ultimo a essere condannato due mesi fa è stato un ex deputato inglese, Ashley Mote, che ha rubato 355 mila euro grazie a rimborsi gonfiati. È stato uno dei primi eletti del movimento anti-europeo inglese: nei comizi urlava contro il malaffare di Bruxelles, poi falsificava le note spese. Janice Atkinson, sempre dell’Ukip, a marzo si è fatta triplicare la ricevuta dopo il cocktail con la moglie del leader Nigel Farage - 4350 euro invece di 1350 - mentre la sua assistente si vantava: «È un modo di riportare a casa i nostri soldi». E quando nel 2011 un reporter del “Sunday Times” si è finto lobbista, offrendo denaro in cambio di emendamenti a sostegno della sua società, tre deputati hanno abboccato subito. Due - un austriaco e uno sloveno - si sono dimessi e sono stati condannati in patria. Il terzo, l’ex ministro degli Esteri romeno Severin, è ancora al suo posto mentre l’istruttoria a Bucarest langue. Distinguere tra lobbisti veri e falsi non è facile. A Bruxelles è stato istituito un registro per queste figure, senza vincoli né sanzioni: chi vuole si accredita. L’attivissima sezione europea di Transparency International un mese fa ha dimostrato che metà delle 7821 dichiarazioni ufficiali delle lobby erano «incomplete o addirittura insensate». E in tanti si sottraggono al censimento, a partire dagli studi legali: un’armata che esercita un’influenza nascosta. La soluzione? «Rendere obbligatoria l’iscrizione al registro», spiega Carl Dolan di Transparency. «E bisogna vietare ogni contatto con chi non è iscritto», aggiunge Staes: «Devo ammettere però che in Parlamento non esiste una maggioranza favorevole al registro obbligatorio. Noi verdi, come i 5stelle italiani e alcuni esponenti socialdemocratici, ci stiamo battendo, molti invece sono contrari».

PORTE GIREVOLI. Tra i palazzi delle istituzioni e quelli dei potentati economici ci sono tante porte girevoli. Si passa dagli uffici della Commissione a quelli delle corporation e viceversa. Figure come Lord Jonathan Hill, con trascorsi in società di lobby della City, imposto dal governo Cameron al vertice della struttura Ue che si occupa di mercati finanziari. O il caso sensazionale di Michele Petite, il direttore europeo degli affari legali che si tramuta in consigliere della Philip Morris e poi rientra come presidente del comitato etico che dirime i conflitti d’interesse nella Ue. Ma queste sono le pedine sullo scacchiere di una partita più complessa. Le manovre dei lobbisti intrecciano network che possono seguire la geopolitica dei governi, dei partiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti, spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore. Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso. L’Ombudsman europeo, l’autorità etica più piccola e dinamica, apre un’istruttoria dietro l’altra. Senza spezzare la cortina di ferro che protegge gli intrallazzi. «Bisogna incrementare al massimo la trasparenza, deve esserci sempre una traccia scritta di chi interviene nelle discussioni interne», sintetizza Carl Dolan. I conflitti di interessi pullulano: nel 2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti europei con incarichi extra. Quelli sanzionati sono una ventina, quasi sempre con reprimende scritte o verbali. L’impunità è pressoché certa. Per anni il funzionario Karel Brus ha fatto sapere in anticipo agli emissari di due colossi dei cereali, l’olandese Glencore e la francese Univivo, i prezzi stabiliti dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie d’oro, che permettevano di investire a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che abbia incassato almeno 700 mila euro. Prima della condanna penale però sono passati dieci anni e il travet è sparito in Sudamerica. E per le due società c’è stata solo una multa: mezzo milione, un’inezie rispetto ai profitti.

LA NUOVA CORRUZIONE. La Commissione ha in mano un’arma micidiale: può bandire le aziende corruttrici da tutti i contratti europei. Misura applicata solo due volte negli ultimi anni. Perché la volontà di fare pulizia sembra labile. Prendiamo il dieselgate di Volskwagen: gli uffici tecnici dell’Unione avevano segnalato i trucchi della casa tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia è rimasta lettera morta fino all’intervento delle autorità statunitensi. «Questa è la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo, in cui si agisce tramite logaritmi che falsificano i dati dei computer: la realtà si riduce a schermate digitali, mentre Volskwagen otteneva fondi per produrre auto ecologiche e contribuiva ad aumentare l’inquinamento che uccide migliaia di persone», tuona Eva Joly: «Ma la portata dello scandalo è ancora più grave, perché dimostra che il rispetto delle regole non è più un valore. La Germania, il Paese della legge e dell’ordine, ha ingannato tutti; la loro azienda simbolo ha mentito per anni. Le nazioni che hanno costruito questa Unione stanno perdendo credibilità e non capiscono quanto ciò peserà sul futuro delle nostre istituzioni». In quello choccante 70 per cento di cittadini che percepisce un’Europa corrotta si proietta una sfiducia più vasta. «È un dato che nasce dallo sconcerto per la debolezza della reazione davanti ai problemi: la crisi economica, il tracollo greco e adesso l’esodo dei migranti», commenta Bart Staes: «La gente sente i racconti sulle pressioni delle lobby, si diffonde il sospetto che l’Unione serva più per tutelare gli interessi economici che i cittadini. C’è la necessità di riforme profonde, che non sono nell’agenda di Juncker. Ma soprattutto bisogna dare risposte concrete: fatti, non storytelling. Partiamo dalla Volskwagen: quasi tutti i produttori di auto sfruttano i buchi nella legislazione per alterare i test, noi verdi abbiamo proposto di cambiare le regole e punire chi mente. Se agisci e la gente vede che i guasti vengono risolti, allora avrà di nuovo fiducia».

CORSI E RICORSI STORICI. Un professore dal cognome altisonante, David Engels, in un saggio ha paragonato il declino dell’Unione al crollo della repubblica nella Roma antica. Oggi come allora, l’allargamento troppo rapido dei confini, il confronto con un’economia globalizzata, la crisi dei modelli religiosi - all’epoca i nuovi culti importati nell’Urbe, adesso l’Europa cristiana alle prese con l’Islam - e il contrasto tra i privilegi dei patrizi e l’impoverimento dei ceti popolari, logorano le istituzioni democratiche. Un’analisi che riecheggia le parole scritte da Altiero Spinelli nel 1941, in quel manifesto di Ventotene che ha partorito l’idea di Europa unita. «La formazione di giganteschi complessi industriali e bancari... che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo Stato stesso. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi». Era la situazione che ha fatto trionfare le dittature e spinto il continente nel baratro della guerra. L’Europa unita è nata da questa lezione, che ora sta dimenticando.

I Fondi Europei non spesi. "L'Italia ha avuto una storia di aiuti europei straordinaria". Lo afferma il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, che in un'intervista al Mattino sottolinea che il problema è "che noi non li spendiamo. In Lituania dove siamo stati recentemente hanno fatto cose meravigliose con i fondi europei". Visco aggiunge che le difficoltà a utilizzare i fondi Ue sono "un problema amministrativo di veti, di incapacità di prendere decisioni, di dire chi è responsabile di cosa". Per quanto riguarda la possibilità di togliere dal patto di stabilità il cofinanziamento ai fondi Ue, Visco precisa che "a mio parere, come italiani, dobbiamo essere più umili e presentare i casi. Se c'è una posizione intelligente bisogna portarla alla Commissione Ue. Oggi c'è la presunzione che quando si va lì si punta a ottenere qualcosa a spese di altri, come per fare i furbi". Visco aggiunge che "bisogna fare investimenti affinchè la politica monetaria non sia l'unica politica in campo, anche perchè noi abbiamo un trattato che dobbiamo rispettare".

Eurispes, l'Italia non spende i fondi Ue. A rischio contributi per 14,4 miliardi, scrive “La Repubblica”. Solo Croazia e Romania fanno peggio. Il tasso di attuazione è appena al disopra del 45% contro la media europea del 60,8%. I migliori sono i lituani. In Italia la Campania è la regione peggiore. Puglia e Basilicata i migliori. L'Italia "si distingue per la sua, tutt'altro che lusinghiera, incapacità nello spendere i fondi comunitari", con "un ritardo cronico nei confronti degli altri Paesi membri". E' l'allarme che rilancia oggi l'Eurispes sul fronte del programma di spesa dei fondi strutturali 2007-2013. Dai dati aggiornati ad aprile 2014 - indica una nota dell'istituto di ricerca -  il tasso di attuazione in Italia è "poco al di sopra del 45%, ben al di sotto della media Ue (60,81%), e del Paese che ha registrato la performance più lusinghiera, la Lituania (80,1%). Dei 27,92 miliardi di euro stanziati dalla Ue nel settennato 2007-2013, la spesa certificata operata dall'Italia e dai suoi enti locali (tramite i Pon e i Por, rispettivamente) ammonta a 13,53 miliardi di euro, e questo significa che ben 14,39 miliardi di euro, devono essere spesi entro la data limite, pena il disimpegno automatico di tali risorse. Solo due Paesi "sono riusciti a fare peggio di noi: la Croazia (22%) che non ha avuto il tempo materiale (è stata ammessa nell'Ue nel 2013) e la Romania, fanalino di coda con il 37%". Dei fondi europei 2007-2013, ancora "ben 14,39 miliardi devono essere spesi entro la data limite" di fine 2015. "Ad oggi è stato speso meno della metà delle risorse disponibili". Sul fronte delle Regioni, il tasso di attuazione medio dei programmi operativi regionali (Por) relativi all'obiettivo "convergenza" vede "due velocità: i virtuosi,  Basilicata ed in minor misura la Puglia, con valori chiaramente superiori alla media del Sud Italia; dall'altro lato i ritardatari - rileva ancora il rapporto Eurispes - che esibiscono livelli di attuazione dei programmi operativi particolarmente modesti, soprattutto in relazione alla spesa dei fondi Fesr. Il 33,3% della Campania spicca negativamente". In termini relativi, emerge chiaramente il robusto finanziamento a favore dei paesi dell'Est. In molti di questi paesi, spiega Eurispes, l'entità delle risorse allocate durante il settennato 2007-2013 è prossima, e spesso superiore (è il caso di Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria, Paesi baltici) al 10% del Pil nell'anno di riferimento 2007, mentre tra i paesi dell'Europa a 15, tale percentuale, escludendo Grecia e Portogallo, varia tra lo 0,13% per il Lussemburgo e il 2,55% per la Spagna. Il bilancio preventivo del periodo 2014-2020 si muove sulla falsariga del settennato precedente, anche se l'entità dei finanziamenti erogati in direzione di Varsavia è aumentata sia in termini assoluti, oltre 77 miliardi di euro, che relativi, oltre il 22%. L'Italia, probabilmente a causa delle notevoli difficoltà nell'assorbire i contraccolpi della crisi, ha sopravanzato la Spagna come secondo beneficiario della politica di coesione, seppur ricevendo un ammontare di risorse (32,823 miliardi) nettamente inferiore alla metà degli stanziamenti a favore della Polonia (77,567 mld). La Romania, un paese che analogamente alla Polonia è al contempo popoloso ed economicamente sviluppato, balza al 4° posto della graduatoria dei beneficiari, mentre i piccoli e facoltosi stati nord-occidentali (Danimarca, Svezia, Austria, Finlandia, Paesi Bassi), prevedibilmente, languono in fondo alla classifica in entrambi i periodi presi in considerazione.

Perché l'Italia non usa i fondi europei? Sono troppi. O meglio: non usiamo i miliardi messi a disposizione dall'Europa perché nessuno viene a investire in Italia, scrive Marco Cobianchi  su “Panorama”. Bisognerà pur dirlo: l’Italia non spende i fondi europei perché nessuno viene a investire in Italia. Un esempio: lo stabilimento Fiat di Termini Imerese è chiuso dal 31 dicembre 2011 e da allora i tentativi di attirare altre aziende che lo rilevassero sono tutti falliti. Ora Matteo Renzi ha annunciato l’arrivo di un produttore automobilistico cinese, mettendogli a disposizione 750 milioni di euro di fondi europei sia nazionali che regionali, ma sono gli stessi che da tre anni non si riescono ad assegnare per la mancanza di progetti. Se quindi la Sicilia ha speso (al 31 maggio 2014) solo il 40 per cento del fondo destinato alle imprese, non è solo colpa della inadeguatezza dei politici locali e delle procedure opache (eufemismo), ma del fatto che la Sicilia non è capaci di attrarre imprese, così come non lo sono ampie zone del Paese, anche al Nord, per l’inospitalità verso gli investimenti esteri. In un convegno del 2009 l’allora governatore della Banca d’Italia Mario Draghi pronunciò parole profetiche: «I sussidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci (...). Un’indicazione statistica fondamentale è che è più proficuo investire le risorse pubbliche nell’effettiva applicazione delle leggi piuttosto che nell’erogazione di sussidi». Purtroppo le rigide (e stupide) regole europee impongono di usare una parte dei soldi provenienti da Bruxelles per sussidiare imprese invece di destinarli a garantire la legalità. Il risultato è che le regioni si trovano spesso a gestire troppi soldi e, piuttosto che vederseli confiscare perché inutilizzati, finanziano imprenditori «mordi e fuggi» che fanno fallire le imprese dopo il termine del periodo di erogazione. È successo alla Nordmende di Anagni (Frosinone), alla Necchi Compressori di Pavia, alla Alcoa in Sardegna e gli esempi sono migliaia: appena finiscono i soldi pubblici le imprese chiudono perché, senza sussidi, produrre in Italia non gli conviene. Ecco perché credere che con i fondi europei si possa fare impresa sana è spesso una pia illusione se non si modifica l’ambiente circostante investendo nel contrasto alla criminalità, snellendo la burocrazia, velocizzando la giustizia e tagliando le tasse. Questi sono gli obiettivi verso i quali dovrebbero essere indirizzati i fondi comunitari. Ma l’Europa, si sa, è stupida e non lo capisce.

Quei fondi europei che l'Italia non spende, scrive Stefano Pasta “Famiglia Cristiana”. Matteo Renzi, visitando i cantieri dell’Expo, ha detto: «Sì, i fondi Ue sono spesi male, ma ora il meccanismo cambierà». Che ci sia bisogno di un’inversione l’ha detto con toni fermi anche Bruxelles, in una lettera spedita al Governo. Chiedendo varie modifiche, ha rimandato a settembre l’Accordo di partenariato presentato ad aprile, il piano che ogni paese è chiamato a redigere per indicare le priorità nella spesa dei fondi. Una partita che vale 41 miliardi e mezzo da oggi al 2020. Secondo la Commissione, nel progetto italiano manca una strategia e si rischia di ripetere ancora una volta interventi inefficaci, simboleggiati dagli incentivi a pioggia a sagre e biscottifici, corsi di formazione di dubbia utilità e feste, come i 720mila euro a Elton John per cantare a quella di Piedigrotta. Ma da dove arrivano questi fondi? Da Bruxelles ovvio, ma prim’ancora dalle casse di tutti gli Stati europei. Anzi, l’Italia nel 2013 è stata il quarto finanziatore del bilancio comunitario, dopo Germania, Francia e Regno Unito. E allora è sbagliato sottostare alla cattiva bacchetta europea che ci dà i voti? Nel caso dei fondi, il problema non sembra venire da Bruxelles, ma ben più vicino a noi. Non serve una laurea alla Bocconi per capirlo: nel passato settennato (2007-2013), l’Italia è stata uno dei principali beneficiari, ricevendo 27,92 miliardi di euro. Peccato che ne abbia spesi solo 13,53, meno della metà (48,8%); per i restanti, ha tempo fino al dicembre 2015, altrimenti saranno automaticamente congelati. In questo caso, la cifra a cui rinunceremmo vale oltre l’1% del Pil del 2013. Come nota lo studio dell’Eurispes “L’Italia a metà: le occasioni perdute”, «emerge un ritardo cronico nei confronti degli altri paesi». Considerando il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), che dovrebbe servire a correggere gli squilibri tra le diverse zone e che in Italia interessa soprattutto il Meridione, il nostro tasso di realizzazione dei progetti scende al 45%, al di sotto della media europea (60,81%). Peggio di noi hanno fatto solo la Croazia, semplicemente perché, essendo stata ammessa nell’Ue soltanto nel 2013, non ha avuto il tempo materiale di spendere le risorse, e la Romania, fanalino di coda con il 37%. La maggior parte dei soldi non spesi, e quindi a rischio disimpegno, dovrebbero finanziare le regioni economicamente disagiate, quelle del Sud (ricevono oltre il 70%); Sicilia, Calabria e Campania spiccano come ritardatarie, mentre Puglia e Basilicata come virtuose. Le ragioni del nostro ritardo? Se ne potrebbero elencare varie: incapacità di presentare progetti appropriati, mancata esecuzione di quelli approvati, tempi lunghi, burocrazia, incapacità organizzativa, pochi controlli, infiltrazioni della criminalità. La Commissione, bocciando l’ultimo piano, ha chiesto al Governo di migliorare la sua “capacità amministrativa” e di introdurre “strategie di specializzazione intelligente”, linguaggio tecnico che vuol dire agire sulla pubblica amministrazione, sull’incomunicabilità tra centro e periferia e concentrare le spese su interventi strutturali piuttosto che in mille rivoli. La lettera da 249 punti dà varie indicazioni; per esempio, il Fesr non deve finanziare «eventi culturali a basso valore aggiunto», con buona pace della Festa di Piedigrotta, ma «solo interventi che possono avere un impatto strutturale». Si potrebbe partire da un’azione concreta sollecitata dall’Ue: a Pompei, dei 105 milioni di fondi stanziati, ad oggi ne è stato utilizzato solo l’1%. Ecco, meno lamenti e più operatività, cercando di salvare i 14,39 miliardi non spesi e di evitare nuovi crolli, a Pompei e in Italia.

SPRECOPOLI. L’ITALIA DEGLI SPRECHI.

“Sprecopoli. L’Italia degli sprechi”. Il libro di Antonio Giangrande.

Ed io pagooooo!!!......E’ la parafrasi di Totò. Frase detta nel film “47 morto che parla!” e ripresa da Striscia la Notizia. Ed è quello che ci diciamo ogni giorno quando ci rapportiamo con la vera faccia dello Stato. A fronte di un fabbisogno sempre crescente di risorse finanziarie che alimenta il debito pubblico e la pressione fiscale, di pari passo aumentano i tagli dei servizi pubblici ed i disservizi dei pochi rimasti, tanto da farci chiedere: dove cazzo vanno a finire i nostri soldi estorti in balzelli?

Ogni tanto qualcuno parla, a spizzichi e morsi, di quella o questa fonte di spreco, creando un momentaneo stato di indignazione e di rabbia, per poi ripiombare nell’indifferenza generale dell’italica ignavia. Salvo essere oggetto di strali dei buontemponi leghisti contro i soliti spreconi meridionali. Dicevo, questi qualcuno dalla penna facile scrivono dello spreco altrui, stando ben attenti, però, a non intaccare la propria fonte. Provate a pensare se tutte queste fonti di spreco fossero raccolte tutte insieme. Tutte, veramente tutte. Farebbero accapponare la pelle. Ed è quello che si fa con il saggio “Sprecopoli. L’Italia degli sprechi”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

Sprechi che non si esauriranno mai perché, tra stipendi da dare agli amici, clientele da alimentare, eredità da dare ai figli ed ai parenti, privilegi da difendere, è un cane che si morde la coda e fa comodo alla politica ed al sistema di potere. Alla faccia del povero fesso…Pantalone.

LA SPRECOPOLI DELLE PARTECIPATE.

Il mistero delle partecipate con più manager che dipendenti: «Sprecato il denaro dei contribuenti». I giudici contabili al Parlamento: negli enti locali «spese fuori bilancio e senza controllo, svuotate le competenze dei Consigli regionali». I casi di Lombardia e Liguria, scrive Marco Galluzzo il 15 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Hanno un cda, di tre o cinque membri, ma hanno in media un solo dipendente. Per la precisione 1,5. Un’anomalia? Per la Corte dei Conti qualcosa di più, anche perché le 455 società che hanno più manager che dipendenti sono partecipate dagli enti pubblici, dunque con soldi dei contribuente, interamente o per una quota di rilievo.

Le anomalie. È una delle tante anomalie che emerge dall’ultima relazione dei giudici contabili al Parlamento. Un’analisi di un anno, su tutte le società partecipate da Regioni, Comuni e Province, dalle municipalizzate agli organismi che forniscono servizi d’interesse pubblico. Da alcuni anni la Corte cerca di monitorare, e di accompagnare, un processo di razionalizzazione previsto per legge. Ma con risultati altalenanti: Matteo Renzi, appena arrivato al governo, diceva che le avrebbe portate a 1000, ma le partecipate sembrano sopravvivere ad ogni sforzo legislativo, o di spending review. Oggi sono ancora 7300, di cui 1400 spa, e oltre 4000 interamente pubbliche.

Fondi fuori bilancio. Segnala la Corte, ad un Parlamento in questi giorni impegnato su altre materie, che esistono diversi campanelli di allarme, per usare un eufemismo: in Lombardia, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Veneto e Campania, praticamente in mezzo Paese, ed anche nella sua parte più ricca, «la concentrazione di funzioni in capo ad una o massimo due società di indirizzo e controllo» è tale «da far assumere alla società un ruolo gestionale alternativo alla stessa Regione, con utilizzo fuori bilancio di rilevanti risorse e sostanziale svuotamento delle competenze del Consiglio regionale». È il caso di società in house totalmente partecipate che di fatto sono diventate «tesoriere della Pubblica amministrazione, ma ponendosi fuori dalla disciplina di finanza pubblica», con l’«uso diretto e spesso privo di controllo, di ingenti risorse anche legislativamente destinate ad altri scopi».

I casi di Liguria e Lombardia. Insomma è come se in queste Regioni società che gestiscono «fondi strategici, provenienti anche da programmi nazionali e comunitari, capaci di incidere in interi settori economici e di governare la quasi totalità del bilancio regionale non sanitario» non rispondano più al Consiglio regionale, dunque alla regola basilare del controllo. «Intaccando le competenze, anche programmatorie, della Regione». La Corte si sofferma fra gli altri sui casi di Finlombarda spa e Filse spa, in Liguria, segnala anche i progressi, lenti, del processo di razionalizzazione deciso dal governo nel 2014, ma in un contesto di inefficienze e persino di anarchia istituzionale, con 1658 enti pubblici che non hanno nemmeno risposto alle richieste di presentare un piano di razionalizzazione delle partecipate. Un esempio sui tanti citati dai giudici: la Valle d’Aosta «aveva programmato 71 milioni di risparmi e la dismissione di 10 società», ma «ha finora realizzato solo 539 euro»!.

Senza gara 9 casi su 10. Ma non è finita: il contesto è anche quello di una concorrenza inesistente. Grazie anche, e per una volta purtroppo, verrebbe da dire, alle norme della Ue, che lo consentono, il 94% degli affidamenti di incarichi è in house, cioè diretto, senza gara. Ma l’affidamento di un servizio senza gara deve essere a favore di società interamente pubbliche, controllate dall’ente, segnale la Corte, e invece la normativa verrebbe aggirata a valle «con l’uso di collaborazione esterne». In oltre 350 pagine di analisi appaiono anche, in Campania, «gravissime carenze informative», mentre nella stessa Regione si pagano società partecipate per «fatturazioni che non compaiono nel bilancio regionale», che a loro volta generano debiti e poi contenzioso. Mentre solo in Sicilia, nel 2017, il 93% dei Comuni delle province di Enna, Siracusa, Trapani, Caltanissetta non ha inviato il piano di razionalizzazione delle partecipate previste per legge. Conclusione: anche questo stato di cose produce debiti che al momento ammontano a 108 miliardi, ma per fortuna del Mef non vengono calcolati nel debito pubblico. Per il 70% sono contratti da partecipate del Nord Italia.

In 800 ci sono più manager che dipendenti. In attesa che la scure del ministro Marianna Madia si abbatta sul sistema delle partecipate pubbliche, secondo quanto riportato nell’ultimo Documento di economia e Finanza ci sono a oggi tra 500..., scrive il 17 Aprile 2016 Il Tempo. In attesa che la scure del ministro Marianna Madia si abbatta sul sistema delle partecipate pubbliche, secondo quanto riportato nell’ultimo Documento di economia e Finanza ci sono a oggi tra 500 e 800 società di Stato nei quali il numero dei manager è superiore ai dipendenti in ufficio. Il decreto Madia per queste prevede una fine certa e rapida. L’intenzione del governo è dare un taglio netto a simili realtà, eliminando «scatole vuote» e portando a casa risparmi. Ma l’obiettivo complessivo è quello di razionalizzare un sistema che secondo i dati aggiornati è composto da oltre 40 mila partecipazioni detenute in «8.300 società o enti». La forbice che il governo Renzi vuole usare è il decreto Madia, che prevede la chiusura delle micro partecipate e l’esclusione dal perimetro di tutte quelle che non corrispondono a società di capitali, che nel complesso, sempre secondo le cifre del Ministero dell’Economia sono 3.700 (tra cooperative, consorzi e altro).  Sempre il Def dà conto delo processo di ricollocamento degli esuberi determinati dalla soppressione delle Province. «Dai 41.205 dipendenti di province e città metropolitane in servizio al primo gennaio 2015» si «è passati ai 21.974 post riforma Delrio, con tanto di risparmi, pari a «1,5 miliardi». Restano comunque da riposizionare circa 1.644 lavoratori in eccedenza.

Si fa presto a dire manager. Mettiamo finalmente ordine nelle partecipate pubbliche, ma anche nel lessico, scrive il 15 dicembre 2017 Enrico Pedretti di Manager Italia. Il mistero delle partecipate con più manager che dipendenti: “Sprecato il denaro dei contribuenti”. Questo il titolo di un articolo uscito oggi su Corriere.it. Il tutto ci provoca come manager una doppia rabbia. Da un lato perché siamo cittadini e in quanto manager i principali contribuenti che apportano con le tasse che paghiamo gran parte di quel denaro destinato al bene comune. E non ce ne lamentiamo, seppure vorremmo che le tasse le pagassero tutti, dichiarando veramente tutto il loro reddito reale. Dall’altro perché, come sempre, si dà del manager a chi manager non è e non ha nulla per esserlo. E questo è forse uno dei casi più classici e veri di fake news, soprattutto in Italia dove si dà del manager a tutti, come lo si fa con il titolo di dottore e/o presidente, ma poi in realtà pochissimi sono i manager veri che abbiamo nelle nostre aziende (1 ogni 100 dipendenti, contro i 3 di Germania e Francia e i 6 dell’UK). Infatti, nell’articolo si dice che “la Corte dei Conti ha rilevato che le partecipate da Regioni, Comuni e Province, dalle municipalizzate agli organismi che forniscono servizi d’interesse pubblico, hanno un cda, di tre o cinque membri, ma hanno in media un solo dipendente. Per la precisione 1,5”. Certamente un’anomalia, purtroppo vera, ma che non ha nulla a che fare con i manager e ancor più con i manager veri. Infatti il cda è l'organo collegiale al quale è affidata la gestione delle società per azioni e delle altre società la cui disciplina è modellata su quella delle società per azioni. È l’organo di governance eletto dall’assemblea dei soci, che ha appunto il compito di indirizzare e vigilare sull’attività aziendale rappresentando in modo proporzionale la volontà di tutti i soci. Per inciso è poi il management, quello vero e operativo in azienda, che deve assicurare una gestione attenta all’interesse di tutti gli stakeholder, anche quelli non rappresentati in cda come lavoratori ecc.. Ammesso che ci siano componenti del cda che nella vita fanno anche i manager e dovrebbero essercene di più, questi non svolgono in questo contesto un compito manageriale. Lo stesso vale per l’amministratore delegato che di solito è l’unico manager aziendale presente in cda con il compito di collegare volere degli azionisti e gestione operativa dell’azienda. Certo, poi, lo scandalo delle partecipate pubbliche c’è ed è reale, con tanti dirigenti e componenti dei cda e spesso quasi nessun dipendente. Ma come ben sappiamo, spesso, per fortuna non sempre, anche i manager che hanno quel ruolo sono scelti non per capacità e merito, ma per appartenenza politica. E i membri del cda ancor peggio sono scelti con criteri del tutto fuorvianti. Quindi mettiamo finalmente ordine nelle partecipate pubbliche, ma per favore anche nel lessico. E diamo a Cesare quel che è di Cesare e ai manager quello che è dei manager veri, non di quelli che non lo sono per incarico o perché non ne hanno le competenze e i titoli. 

Quella sprecopoli delle partecipate. Migliaia di società per regalare poltrone. Il loro numero esatto non è chiaro neppure al Governo: quello che è certo è che costano 26 miliardi l'anno e che sono aumentate a dismisura. Perché, tra stipendi da dare agli amici, clientele da alimentare e bilanci in dissesto, fanno comodo alla politica. Ecco da Nord a Sud i casi più incredibili, scrive Sara Dellabella su “L’Espresso”. Domanda: qual è l’azienda che si può permettere di perdere 70 mila euro al giorno, senza finire subito a gambe all’aria? Risposta: la Cotral, la società che gestisce i pullman che collegano i più lontani angoli del Lazio, da Castiglione in Teverina a San Donato Val di Comino. Dal 2010 al 2012 le perdite annuali hanno scandito il tempo con impressionante regolarità, 26 milioni, poi 27, infine 25, costringendo l’azionista - la Regione Lazio - a coprire i buchi. Nel 2013, il miracolo: la Cotral ha chiuso il bilancio in utile, ben 2,6 milioni. Una svolta? Il segno di un futuro più tranquillo? Purtroppo no. È l’effetto di una manovra contabile: la società ha incassato 28,1 milioni, liquidando dei vecchi crediti che non riusciva più a riscuotere. Subito dopo è stato necessario battere cassa con il presidente regionale Nicola Zingaretti, perché altrimenti sarebbe stato difficile andare avanti. È questo uno dei tanti esempi del rompicapo dell’estate del governo di Matteo Renzi: quante sono e a cosa servono le società a partecipazione pubblica? E soprattutto: è possibile far sì che non brucino più miliardi e miliardi di risorse pubbliche? Una domanda non da poco, sulla quale il premier si gioca la faccia. Con le ultime stime del Pil non proprio incoraggianti, tagliare la spesa pubblica non è solo una priorità, ma soprattutto una questione di sopravvivenza del governo. Per continuare a garantire il bonus fiscale di 80 euro in busta paga anche nel 2015, serviranno presto nuove coperture di bilancio. Motivo per cui Carlo Cottarelli, commissario governativo per la revisione della spesa pubblica, è stato incaricato di riorganizzare quei centri di spesa che si chiamano “partecipate pubbliche”, una giungla azionaria che costa allo Stato e agli enti locali 26 miliardi l’anno. La missione non è semplice, dato che nemmeno il punto di partenza è certo. Nessuno, infatti, sembra saper dire con certezza quante siano le società a partecipazione pubblica. Il Tesoro ne conta 7.700, il dipartimento delle Pari Opportunità di Palazzo Chigi - che rileva i dati sulle eventuali discriminazioni di genere - oltre 10 mila. In realtà potrebbero essere ancora di più. Cottarelli, intanto, ha presentato un piano per scendere da 8 mila a mille in tre anni. Ma chiudere una partecipata è davvero così facile? In passato, infatti, quando una veniva costretta ad abbassare la saracinesca, per ricollocare il personale se ne aprivano altre. E ancora: a molte di queste aziende o pseudo-tali, sono state girate attività che un tempo venivano svolte all’interno dei ministeri, con tanto di relativi dipendenti. Alla fine degli anni Novanta è nata ad esempio così Ales Spa, la società interna ai Beni Culturali per la conservazione del patrimonio artistico nazionale, che ora è stata candidata ad assorbire pure gli esuberi delle fondazioni liriche. E la stessa origine ce l’ha Italia Lavoro, che dal 1997 fa capo invece al Ministero delle Politiche sociali e, dice lo statuto, «promuove e gestisce azioni nel campo delle politiche del lavoro». Un compito svolto chissà come, se i risultati sono il boom della disoccupazione giovanile e la disperazione di chi cresce senza alcuna possibilità di impiego nel Mezzogiorno, le più gravi emergenze di questi anni. Cottarelli ha pensato di partire, fra l’altro, da un numero incredibile di società che hanno solo amministratori e collegi sindacali, ma nessun dipendente. Sono ben 1.213 e, come dice Roberto Perotti, professore di Politica Economica all’Università Bocconi sono spesso del tutto inutili, se non dannose: creare società vuote, magari con pure funzioni di holding, dev’essere sembrato in passato un buon mezzo per moltiplicare le poltrone, da distribuire poi fra i clienti più stretti della politica o gli amministratori trombati, ancora potenti nei loro collegi elettorali. Magari esistono buone ragioni per ogni riorganizzazione societaria effettuata in questi anni di spese pazze ma, certamente, non è facile spiegare ai cittadini il perché - ad esempio - la Cotral dei trasporti pubblici laziali non è proprietaria dei pullman su cui viaggiano gli utenti. Questi, nel numero di 1.619, fanno capo infatti a un’azienda gemella, la Cotral Patrimonio. E ancora è un questione da azzeccagarbugli il motivo perché il comune di Torino possiede la bellezza di 34 partecipazioni tra società, finanziarie (a loro volte di partecipazioni), consorzi, agenzie e persino un fondo speculativo non direttamente ma attraverso una holding, la Fct Holding, che naturalmente ha sede proprio in municipio. Il barocco, nell’ex capitale dei Savoia, non sembra essere solo quello meraviglioso dei palazzi firmati da Filippo Juvarra, come mostra il caso dell’Amiat, l’azienda dei rifiuti. Nel 2012 il Comune ha deciso di vendere a terzi il 49 per cento della società (il 51 è della Fct). A comprare, però, è stata un’altra holding creata ad hoc, la Amiat V. Spa, partecipata fra gli altri da Iren. E chi è Iren? Il gruppo che raccoglie le ex municipalizzate di elettricità, gas e acqua di diverse città. Fra queste, anche Torino, che partecipa al controllo di Iren attraverso un’altra holding, la Finanziaria Sviluppo Utilities, a sua volta posseduta al 50 per cento dalla Fct Holding. Fare pulizia è, ora, il ritornello intonato da molti politici. Forse perché fa loro comodo allargare gli obiettivi dell’ira dei cittadini ad altri soggetti, dirottandola per una volta dagli stipendi e dai benefit dei parlamentari, forse perché la situazione è ormai insostenibile: con i rubinetti del denaro pubblico agli sgoccioli, mantenere in vita tutto questo apparato è impossibile, oltre che dannoso. Fatto sta che l’ipocrisia è sempre dietro l’angolo. Un po’ perché le posizioni di comando fanno sempre comodo. Oggi è quasi come sparare sulla Croce Rossa l’infierire sui casi più noti e clamorosi, dalle poltrone affidate dall’ex governatore veneto Giancarlo Galan alla segretaria Claudia Minutillo, finita con lui nell’inchiesta giudiziaria sullo scandalo del Mose, alle fidanzate, amici e parenti della destra romana piazzati nell’era di Gianni Alemanno ministro dell’Agricoltura nella mitologica Unire, l’Unione nazionale per l’incremento delle razze equine. Ma un ruolo di responsabilità, con tanto di gettone di presenza, fa gola anche agli amici dei nuovi potenti, come mostra il caso dell’uomo ombra di Matteo Renzi, Marco Carrai, catapultato prima al vertice di Firenze Parcheggi, poi all’Aeroporto di Firenze. Ma c’è un motivo in più per mantenere in vita strutture che risalgono a ere politiche passate: il fatto che, se restano in vita, prima o poi un po’ di denari dal bilancio pubblico riescono a spremerli comunque. Se nell’ultimo decreto Irpef, ad esempio, da un lato si invitava Cottarelli a fare luce sui malanni del capitalismo pubblico tricolore, dall’altro si erogavano 100 milioni di euro per pagare i debiti di Eur Spa, società 90 per cento del Tesoro, 10 per cento del Comune di Roma. Nata come ente per l’organizzazione dell’esposizione universale capitolina del 1942, e da allora oggetto di mille trasformazioni pur di mantenerla in vita, la società è indebitata con le banche per 188 milioni e verso fornitori per 54. E, ovviamente essendo a corto di risorse, non ha i quattrini per dare una svolta agli infiniti lavori per la costruzione del centro congressi noto come la Nuvola, progettato dall’architetto Massimiliano Fuksas. D’altronde, il motivo dell’esplosione del numero delle società pubbliche è proprio quello: creare dei buchi neri in grado di aspirare denari. Forse non è un caso che si siano moltiplicate porprio negli ultimi anni, quando la stretta del patto di stabilità si è fatta più forte: nel 2003 l’Unioncamere ne contava 4.063, oggi sono almeno il doppio: nessun settore economico ha avuto una tale espansione in un decennio di economia malata come l’ultimo. Con questa proliferazione, invece, si è tentato di aggirare i vincoli all’indebitamento, distribuire assunzioni, appalti e consulenze. Alcune società hanno un passivo o debiti tanto insostenibili che sarebbe impossibile trovare un acquirente sul mercato, né potrebbero essere liquidate se non mettendo a rischio le realtà economiche locali. La Corte dei Conti ha scattato una fotografia impietosa: di 3.949 società esaminate nel 2012, 469 hanno chiuso con segno negativo consecutivamente nell’ultimo triennio, registrando 652,6 milioni di perdite complessive. Se le difficoltà delle aziende di trasporto locale sono note in tutta Italia, Roma presenta ancora una volta una specie di caso scuola. L’Atac, la Cotral e l’Ama (rifiuti) assieme al Comune possiedono infatti una compagnia assicurativa, la Assicurazioni di Roma. «Credo che sia l’unico Comune in tutta Europa ad averne una. Ha lo scopo di assicurare gli automezzi, con una peculiarità: nessuno ha mai pagato il premio e così oggi l’azienda vanta 50 milioni di crediti», denuncia il consigliere radicale Riccardo Magi. Ma sprechi e insensatezze sono all’ordine del giorno da Sud a Nord. Racconta Carlo Ciaccio, consigliere siciliano del Movimento 5 stelle: «La Regione Sicilia ha 34 partecipate ma solo una o due hanno i conti in pareggio. Un esempio di inefficienza? La Società interporti, nata con la mission di realizzare due interporti, uno a Catania e uno a Termini Imerese. Ha chiesto soldi alla Regione perché ha un buco di 2,5 milioni di euro, ma in quattordici anni a Termini Imerese non è mai stata posata nemmeno una pietra». E ancora, a Udine: la Agemont è una finanziaria per lo sviluppo economico delle zone montane. Nel 2012 la Regione Friuli Venezia Giulia ha però dato vita ad altre due società, Agemont Immobiliare ed Agemont Cit, a cui ha passato tutte le attività in grado di generare proventi. Oberata da costi di struttura per 250 mila euro, e piena di partecipazioni difficili se non impossibili da vendere, gli amministratori sono stati così costretti a mettere nero su bianco un appello alla Regione: decidete che cosa fare di noi, perché così non serviamo a nulla.

"Partecipate, mangiatoia da cancellare". Parla l'economista Roberto Perotti. "Ci sono aziende che forniscono un servizio pubblico e hanno una loro utilità, soprattutto se ben gestite. Poi c'è una marea di agenzie, finanziarie, holding di partecipazioni di diversa natura che sono una grande mangiatoia". L'opinione del professore della Bocconi, scrive Luca Piana su “L’Espresso”. Roberto Perotti, professore di Politica Economica all’Università Bocconi, è un appassionato di temi etici ed economici relativi al funzionamento delle istituzioni e della politica. Ha pubblicato “L’università truccata” (Einaudi) e collaborato con Matteo Renzi sulla spesa pubblica.

Professore, è possibile che il Tesoro non conosca l’esatto numero delle società degli enti locali? Si diceva fossero circa 8 mila, ora pare siano oltre 10 mila.

«Non mi preoccuperei troppo del numero preciso, può dipendere ad esempio dai parametri che si fissano per decidere se una società è controllata o solo partecipata da un Comune o da una Regione. Il problema, piuttosto, è capire se servono o meno».

E servono?

«Occorre distinguere. Ci sono aziende che effettivamente forniscono un servizio pubblico, l’acqua, il gas, la luce, e queste hanno una loro utilità, soprattutto se sono ben gestite. Poi ci sono le altre: esiste una marea di agenzie, finanziarie, holding di partecipazioni di diversa natura, comunali, provinciali e regionali, dedicate ad esempio a selezionare i bandi per accedere ai finanziamenti nazionali o comunitari, le innumerevoli Agenzie per lo Sviluppo che si sprecano da Nord a Sud, o quelle deputate a favorire lo sviluppo internazionale delle imprese».

Che senso hanno centinaia di società pubbliche di questo genere?

«L’unica risposta sensata è che sono una grande mangiatoia. Ho studiato in particolare il caso della Regione Lazio, ma credo che le stesse considerazioni si possano fare un po’ dappertutto. Ebbene, esistono Sviluppo Lazio, Bic Lazio e Filas, tre società che fanno più o meno tutte la stessa cosa: finanziamenti, innovazione, venture capital».

Cioè l’investimento di capitale di rischio in imprese con grandi prospettive di crescita. Un mestiere molto difficile.

«Appunto. Figuriamoci che cosa ci possono capire i burocrati regionali di venture capital. Ma il conteggio non finisce qui: perché poi c’è la Provincia, e quindi i Comuni. Questo enorme numero di società controllate dagli enti locali arriva a fare un po’ di tutto, gestire aeroporti, porti e porticcioli, aziende agricole e chissà che altro. Anche quando vengono accorpate, come sta tentando di fare la Regione Lazio, il numero totale dei dipendenti e le risorse a disposizione non cambieranno molto».

Andrebbero cancellate? Difficile farlo con un tratto di penna.

«Non sono un giurista e non conosco il modo più efficace. Ma sono sicuro che se la politica decidesse veramente di eliminarle, ci riuscirebbe. E questo può avvenire soltanto se nei cittadini matura la consapevolezza delle risorse enormi che vengono sprecate. Certo, non si può licenziare in tronco tutti i dipendenti di questi enti inutili. Ci vuole tempo, con piani di prepensionamento che nel breve periodo portano risparmi minimi».

Il lavoro del commissario Carlo Cottarelli ha permesso di quantificare in ben 1.213 le società dotate di regolare consiglio di amministrazione ma prive di dipendenti. A cosa servono?

«I casi possono essere diversi, magari con vecchie società che devono essere chiuse da tempo oppure con holding di partecipazioni che, di fatto, sono del tutto inutili. Cancellarle serve a questo: ridurre le commistioni con la politica e azzerare la gara di favori che gli amici dei politici fanno a ogni nomina per avere una poltrona. Non bisogna illudersi: come ho detto, nel breve periodo il risparmio non sarà granché ma i benefici della pulizia vanno al di là delle risorse che vengono liberate».

Cottarelli ha stimato in non più di 3 miliardi i risparmi che possono venire dal disboscamento delle società inutili.

«Cottarelli ha fatto un lavoro fantastico, è stato chiaro e realistico. Tre miliardi è meglio di niente ma, ripeto, asciugare la palude in cui si muovono molte di queste mezze banche, mezze finanziarie o società speciali è un bene di per sé».

Nel numero c i sono persino ditte manifatturiere, piuttosto che società agricole.

«Credo che dipenda dal fatto che, quando c’è un’azienda in crisi, la pressione politica perché il pubblico se ne faccia carico per salvare i posti di lavoro è molto forte. Spesso si dice che, dopo qualche tempo, queste imprese dovrebbero essere rivendute, il che poi non accade. Mi rendo conto che chiudere un’azienda decotta è una scelta impopolare, e difficile da digerire quando ci sono di mezzo tante famiglie. Ma nel lungo periodo, per il bilancio pubblico, i costi del salvataggio rischiano di essere molto pesanti».

Comuni, i conti in rosso delle partecipate li pagano i cittadini. Sono 7.472 le società create dagli enti locali per gestire centri balneari, impianti sciistici, cooperative per la pesca e la silvicoltura. Costano 26 miliardi di euro all’anno e fanno buchi da 1 miliardo e 200 milioni. Dal Piemonte alla Sicilia le storie di ordinario insuccesso, scrive Michele Sasso su  “L’Espresso”. Palazzo dei Normanni, sede della regione Sicilia Farmacie, centri balneari, impianti sciistici e sportivi ed enti nati su misura per scellerati piani edilizi e promozione turistica. È l’universo delle società controllate o partecipate, iniziative private ma volute da sindaci e governatori. Il commissario alla spending review Carlo Cottarelli le ha definite una “giungla”: sono 7.472 consorzi, agenzie, srl, cooperative e fondazioni nate e foraggiate con soldi pubblici. A prenderla larga sono più di 39 mila, secondo la Corte dei Conti invece non si arriva a 7500. Nell’elenco c’è di tutto: si va dalle ex municipalizzate alle aziende che raccolgono rifiuti, dalle agenzie per la formazione alle terme, dal teatro alla produzione di prosciutti. E spesso hanno più consiglieri di amministrazione che dipendenti. Una palude di «imprese di un mondo ancora poco conosciuto e poco trasparente» che il premier Matteo Renzi vorrebbe sfoltire e portare ad un migliaio. Una sfida è ardua, perfino per il premier-rottamatore. Create per volere di amministratori che si trasformano in imprenditori, hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione, facendo gravare i costi sulla collettività. Costano 26 miliardi di euro all’anno, ma spesso non riescono a stare sul mercato. Un terzo di queste società ha i conti in rosso. Negli ultimi bilanci disponibili (del 2012) hanno avuto perdite di circa un miliardo e 200 milioni, secondo il ministero dell’Economia. I buchi di bilancio però non raccontano tutto. Tante storie di insuccessi e qualche avventura fortunata. Il loro numero è esploso anche perché con le spa si può fare quello che nel patto di stabilità è vietato. La Corte dei Conti ha messo in fila tutti i problemi che le affliggono: assunzioni fuori controllo, spese per studi e consulenze a raffica, amministratori che si accordano compensi fuori mercato mentre i debiti si accumulano. Negli anni della febbre edilizia con i prezzi delle case alle stelle molti sindaci hanno pensato di cavalcare l’onda del mattone facile. Piani edilizi e lottizzazioni senza sosta per creare lavoro e introiti sotto forma di oneri di urbanizzazione. Nel Vercellese, nel paesone di Santhià, hanno creato un pomposo piano di insediamenti produttivi per 150 mila metri quadrati. A pensare a tutto ecco la Sviluppo Santhià s.r.l che dal 2006 ha goduto anche di fondi regionali e del ministero e del lavoro e delle politiche sociali. Fondata per gestire la vendita dei lotti, la società è riuscita a piazzarne alcuni, ma la maggior parte aspetta ancora un proprietario. La crisi ha fermato ogni velleità di investire e ora i bilanci comunali si trovano sul groppone terreni deprezzati senza acquirenti. «La Sviluppo – sostiene il sindaco Angelo Cappuccio – è una macchina ormai guasta che non possiamo certo riparare mettendo semplicemente in vendita “sottocosto” i terreni. Anche a noi piacerebbe fare uscite sbalorditive dicendo che vendiamo tutto a prezzo stracciato invece che al costo pieno, ma poi i conti, alla fine, devono tornare». Conti che segnano un rosso di 71.616 euro e l’inevitabile messa in liquidazione volontaria. Anche in provincia di Brescia hanno pensato di lanciarsi nell’edilizia. Nel piccolo paese di collina di Bovegno viene creata nel 2005 una spa su misura per gestire gli impianti e promuovere il turismo nell’alta Val Trompia. Pronta una variante del piano regolatore per costruire villette e impianti. Con una trovata geniale: si conferisce alla Bovegno impianti srl il tesoretto comunale di terreni e cascine (per un valore di 14 milioni di euro) e si prepara un progetto da 440 mila metri cubi di villette e alberghi da costruire insieme al collegamento degli impianti sciistici della vicina località di Montecampione. Una lottizzazione da 110 milioni di euro e nessuna garanzia per costruire l’impianto. Tutto viene bloccato dalla frenata del mercato. Risultato: un buco da 350 mila euro per un paese da 2mila anime. Delle società censite, il 34 per cento stanno nel Nord Ovest, una su quattro nel Nord Est. In Lombardia sono duecentotrenta. La sola Provincia di Bergamo ha un totale di 19 collegate, 5 controllate e 18 partecipate e per anni il dismesso consiglio provinciale non ha mai criticato il gigantismo dell’ente. Dalla fine degli anni novanta ecco spuntare la Teb Sacbo (Trasporti), Porta sud (riqualificazione dell’area dell’ex scalo merci), Azienda Bergamasca Formazione, Azienda per lo sviluppo e la promozione turistica, Servitec (innovazione) e Abm e Abm2 che, di fatto, avevano lo stesso compito dell’ufficio tecnico: tutta la progettazione delle opere pubbliche. La più sfortunata di questa grandeur in salsa bergamasca è stata la Abm Ict. Nata con la missione di realizzare e sviluppare una rete di telecomunicazioni a banda larga per un bacino di 600.000 abitanti e 45.000 imprese. «Un modello di eccellenza rispetto al panorama nazionale che pochi altri soggetti, sia pubblici che privati, sono in grado di offrire e realizzare», si legge nel sito web della società. Peccato che nell’ultimo triennio abbia fatto un buco di oltre cinque milioni di euro. Con lo scioglimento delle Province a chi finiranno queste perdite? Tutti vorrebbero avere ombrelloni e spiagge pubbliche da gestire. Soprattutto in Liguria dove il litorale è ridotto al minimo. Guadagno garantito e clienti da maggio a settembre quando arrivano migliaia di bagnanti da Torino, Milano e tutto il Nord Ovest. Se c’è un settore in cui far tornare i conti non è difficile è proprio quello delle concessioni. Sembra tutto molto semplice, eppure le controllate dei comuni liguri non riescono a fare utili. Nonostante il monopolio e un impegno non gravoso. È il caso della Bagni del mare srl di Alassio che registra perdite per 81mila euro. Anche Genova Bagni, marina genovese, nonostante la dote degli impianti di San Nazaro, Scogliera a Nervi e Janua a Vesima, segna un buco di 110 mila euro. Neppure i medicinali riescono a dare soddisfazioni alla giunta del sindaco Marco Doria: 326.214 euro di rosso per farmacie comunali spa, una rete di nove punti vendita in tutta la città. E se possibile fanno peggio gli amministratori di palestre e stadi: due milioni per Sportingenova spa. Tanto, troppo per un comune sempre sull’orlo del dissesto economico. Lo scorso autunno viene deciso lo scioglimento. A spiegare le ragioni della scelta è l’assessore al Bilancio Francesco Miceli: «Attraverso la proprietà diretta degli impianti e attraverso le concessioni possiamo ridurre ulteriormente i costi destinando risorse allo sviluppo delle attività sportive». L’universo delle partecipate italiane conta 87 società per la pesca e la silvicoltura, 166 si occupano di sport e divertimento, 187 fanno commercio all’ingrosso o riparazione di auto e moto. Altre 149 società si occupano di noleggio, viaggi e «servizi di supporto alle imprese», 106 di costruzioni, 383 gestiscono hotel e ristoranti. In questo mare magnum la sola Provincia di Trento conta quaranta partecipazioni. Gestisce quattro alberghi - fra cui il mitico Hotel Lido Palace - campi da golf, funivie, masi di montagna e distretti tecnologici. Una distinzione è d’obbligo: chi fa utili e chi non li fa. Molte, troppe, fanno più perdite che utili e una possibile soluzione sono i piani industriali per accorpare le società più importanti. Ci hanno provato a Cortina d’Ampezzo. Qui la Gis srl si occupa di tutto: piscine, stadio del ghiaccio, piste olimpiche, campi da tennis ma anche le strutture per eventi culturali e turistici e l'organizzazione delle manifestazioni. Fondamentale per attirare migliaia di presenze ogni anno. Il risultato non è però all’altezza delle aspettative: nel 2012 perdite per un milione e mezzo di euro. Nell’isola dell’autonomia la Regione è una gallina dalle uova d’oro: poche imprese private sul mercato, quasi un terzo di quelle create dai governatori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo sono in liquidazione e quelle sopravvissute costano ogni anno solo di personale 312 milioni di euro, un terzo del miliardo che la giunta di Rosario Crocetta spende per tenerle in vita. Piccole e grandi realtà spuntate come funghi. Emblematico il caso del “Convetion Bureau Etneo”, la società a capitale pubblico creata nel 2007 dalla Provincia di Catania e fortemente voluta dall’ex presidente Raffaele Lombardo per favorire e catalizzare l’attenzione dei grandi congressi internazionali ai piedi dell’Etna. «Quello del turismo congressuale è un mercato allettante e particolare – spiegava Antonio Belcuore capo dell’Azienda di promozione turistica locale – tant’è che abbiamo deciso di presentarci direttamente con il Convention Bureau Etneo, un nuovo “desk” pubblico e privato pensato in sinergia con gli operatori del settore. Un importante volano di sviluppo turistico in una provincia che ha le giuste qualità per accogliere il turista 365 giorni l’anno». Il finale è decisamente meno enfatico: fallito il sogno del territorio che vola sulle ali dei congressi e messa in liquidazione per perdite non più sostenibili.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno. 

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese… 

PARLAMENTO E DINTORNI COME DIVENTARE RICCHI CON LO STIPENDIO FISSO.

Come Diventare Ricchi con Lo Stipendio Fisso, scrive Paolo Calvi su “Il Duemila”. Durante servizi televisivi e telegiornali vi sarà certamente capitato di notare, alle spalle di deputati e senatori, diversi uomini e donne vestiti elegantemente di nero, spesso con papillon, alamari dorati e nastro tricolore al braccio. Sono i commessi parlamentari, considerati gli occhi e le orecchie dell’Amministrazione. La loro mansione è quella di vigilare sulla sicurezza personale del parlamentare, assisterlo e verificare che tutto sia regolare. Debbono anche svolgere controlli per evitare che ospiti sgraditi si intrufolino nelle sedi istituzionali ed hanno il compito di relazionarsi con il pubblico autorizzato ad accedere nei palazzi del potere legislativo. In verità, nell’era del politically correct non si chiamano più commessi: così come i netturbini sono diventati operatori ecologici, ad essi spetta ora il titolo di assistenti parlamentari. Nemmeno si vergognassero dell’appellativo di commesso, forse temendo di venire confusi con i lavoranti di una merceria, e quantunque un tale dispiacere venga ampiamente consolato da ben altre soddisfazioni: per esempio ottomila euro lordi al mese per quindici mensilità. è questo l’importo della pensione spettante ad un commesso del Senato che solo qualche settimana fa ha deciso di lasciare il lavoro alla veneranda età di 52 anni. Ad informarcene è stato l’attentissimo Sergio Rizzo dalle pagine del Corriere. Dalle quali ci racconta anche di un aspetto ancora più inquietante, cioè di una vera e propria esplosione dei costi per pagare le pensioni prevista per il 2009 nel bilancio di previsione approvato dal consiglio di presidenza del Senato. Già negli ultimi due anni la spesa pensionistica era passata da 77,8 a quasi 90 milioni di euro. Escludendo le pensioni di reversibilità, la progressione è stata addirittura del 15,6% (10 milioni e 800 mila euro in più). Quest’anno, se queste previsioni saranno rispettate, la spesa per le sole pensioni dirette sfiorerà quota 80 milioni. Cifra che divisa per i 598 dipendenti pensionati del Senato fa… 133 mila euro ciascuno! che, tradotta in “italiano comune”, corrisponde più o meno a quindici volte l’importo di una pensione media dell’Inps. Anzi no, di più visto che le pensioni del Senato seguono la dinamica degli stipendi di palazzo Madama. Anche a Montecitorio la pressione di chi vuole andare in pensione è altrettanto forte. Sempre negli ultimi due anni l’aumento della spesa della Camera per questo capitolo è stato infatti del 14,2% e quest’anno le pensioni dirette e di reversibilità graveranno sul bilancio di Montecitorio per 191 milioni, circa 24 milioni in più rispetto al 2007. Forse per il timore di un doloroso giro di vite tale da mettere in crisi i privilegi sinora sopravvissuti a tutti i tentativi di riforma? Un incipiente effetto-Brunetta? Non è affatto da escludere. Viste certe somme, non stupisce che negli anni scorsi il numero dei partecipanti ad uno dei concorsi banditi dalla Camera dei deputati sia aumentato di oltre 66 mila unità: da 29 mila aspiranti commessi parlamentari a 95 mila. Somme iperboliche, ma i commessi si difendono con veemenza: «Noi in Parlamento portiamo alta professionalità. E la professionalità si paga. Rapportate a funzioni, responsabilità, qualità del lavoro e metodologia d’ingresso, le retribuzioni dei dipendenti parlamentari sono adeguate alle leggi del mercato» dice Silvano Sgrevi, documentarista della Camera e segretario Uil degli organi costituzionali. Purtroppo non condividiamo. Sarà sempre per questa alta professionalità aggiunta (non a caso ci vuole una laurea triennale per accedere al rango) che il ragioniere della Camera merita uno stipendio di 237.560 euro lordi annui, maturati dopo 35 anni di servizio e rivalutati per giunta ogni 12 mesi? Non male se si considera che il ragioniere di Montecitorio guadagna quasi 20 mila euro in più del presidente della Repubblica. Niente se si pensa agli stenografi del Senato. Sono 60 in tutto e compilano i resoconti dei lavori dell’Aula e delle varie commissioni. Un lavoro che va scomparendo per via delle nuove tecnologie, ma per il quale all’apice della carriera si arriva a guadagnare 254 mila euro lordi l’anno. Più del presidente della Repubblica, più del capo del Governo, i quali dovrebbero persino sentirsi umiliati al cospetto dei compensi dei segretari generali di Senato e Camera che a fine anno arrivavano a incassare rispettivamente 485 mila e 483 mila euro lordi. Tutto è allineato, tutto è proporzionale; ecco dunque che finiscono per non stupisce nemmeno i dati che riguardano il trattamento economico dei barbieri interni della Camera dei deputati (pardon, operatori tecnici ché il termine è agé) i quali possono arrivare a guadagnare oltre 133 mila euro lordi l’anno. Nonché dei collaboratori tecnici operai (elettricisti, idraulici, carpentieri…) che con uno stipendio medio di 152 mila euro non invidiano neppure i professori universitari ordinari a tempo pieno fermi, dopo vari anni di carriera, a poco più di 80 mila euro lordi l’anno. Di pochi giorni fa la notizia che la Camera dei deputati ha riconosciuto, dopo una annosa vertenza, il secondo livello retributivo ai suoi autisti. Questo porterà a 10.164 euro la retribuzione mensile lorda (dopo 35 anni di lavoro) per i conducenti di auto blu. Più di quattromila euro netti al mese. Tre volte quella di un qualunque altro autista nel servizio pubblico. Perché stupirsi. Sicuramente anche loro apporteranno alta professionalità; anche le loro retribuzioni saranno adeguate alla legge di mercato: in fondo mica portano in giro dei quisque de populo. Pare insomma evidente che alla Camera ogni cosa ha costi elevatissimi. Persino le spese minute lasciano allibito il cittadino comune. Basti pensare che l’anno scorso ben 650 mila euro sono volati via solo per la piccola cassa: 205 mila euro solo per gli appendiabiti e chissà quale altro accessorio dei guardaroba (giacché le guardarobiere sono pagate a parte). Torniamo agli stipendi. Abbiamo detto di Camera e Senato; e la presidenza del Consiglio? A breve ogni dipendente riceverà in media un aumento di 125 euro lordi. è infatti in corso il rinnovo del contratto. Si sa poi che nella busta paga entreranno in media altri 100 euro lordi sul salario tabellare (quello fisso); più all’incirca altri 210 euro lordi sull’indennità di presidenza (di fatto un’altra voce fissa dello stipendio). Totale, circa 425 euro lordi medi al mese. Un po’ meno dei 600 euro mensili richiesti, ma certamente molto, molto più di quanto hanno ricevuto gli altri dipendenti pubblici. Un signor aumento che però i sindacati di categoria hanno bocciato come «una proposta irricevibile». Facciamocene una ragione. Al Quirinale invece tagliano. Per la prima volta nella storia viene ridotto il bilancio di 3,5 milioni di euro rispetto alla previsione contenuta nel bilancio 2007-2009. Un bilancio di previsione che comunque prevede una richiesta di 238,57 milioni di euro (circa 500 miliardi di lire del vecchio conio!), una dotazione piuttosto congrua. Complessivamente a disposizione del Colle ci sono all’incirca duemila persone, ma a farne le spese sarà il personale militare e delle forze di polizia distaccato al Quirinale per esigenze di sicurezza, che ammonta a 962 unità (di cui 267 appartenenti al reggimento Corazzieri), con una riduzione di 124 unità. O almeno così pare, visto che al Quirinale l’importo di stipendi e pensioni, nonché delle spese, rimane avvolto da sempre nel mistero più assoluto ed i bilanci pubblicati sono così fumosi che, se venissero presentati da una qualunque azienda italiana, causerebbero l’immediata ispezione della Guardia di Finanza. Dal Colle qualche dato è filtrato in passato. Per esempio, nei primi Anni Duemila sembra che il solo gabinetto del segretario generale alla presidenza fosse composto da 63 persone. Il servizio Tenute e Giardini da 115, fra cui 29 giardinieri (14 al Quirinale, 8 a Castelporziano e 7 nella napoletana Villa Rosebery su Capo Posillipo) e 46 addetti a varie mansioni. 59 poi gli artigiani tra i quali 6 restauratrici al laboratorio degli arazzi, 30 operai, 6 tappezzieri 2 orologiai, 3 ebanisti e 2 doratori. L’accettazione, il recapito e la distribuzione della corrispondenza a mano richiedevano 14 persone mentre nell’autorimessa c’erano 45 autisti! In cucina 37 persone di cui 11 cuochi e 26 camerieri. Un microcosmo il cui salario sarà certamente adeguato all’alta professionalità di cui già s’è detto. Ma il momento è difficile e la recessione economica sta travolgendo consuetudini quasi secolari: se il Quirinale ha dovuto dire addio a 37 Corazzieri pensate che le senatrici hanno visto addirittura abolito il loro assegno per il parrucchiere, un bonus mensile di 150 euro… i tempi stanno cambiando! Se vi va di crederci.

Altri stipendi d'oro alla Camera. "Un commesso prende 400mila €", scrive “Affari Italiani”. Lavorare alla Camera conviene. Non solo per i politici. Gli stipendi alti non riguardano, infatti, solo i parlamentari ma anche tutto il personale che ruota attorno a Palazzo Madama e a Montecitorio. E i guadagni di commessi, elettricisti e centralinisti, soprattutto in tempo di crisi, appaiono imbarazzanti. Cifre da capogiro. Uno schiaffo alla recessione. A rendere noti i dati è “United for a fair economy”, un’organizzazione di Boston nata per contrastare le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza. Un elettricista di Montecitorio per esempio prende 136.000 euro l'anno, più di tre volte un elettricista qualunque. Un commesso, invece, percepisce 60.000 euro di stipendio base, ma può arrivare anche a prendere 400.000 euro l'anno. Gli operatori tecnici, categoria nella quale rientrano i centralinisti, gli elettricisti e pure il barbiere di Montecitorio, vengono assunti con uno stipendio che supera di poco i 30 mila euro lordi l’anno, come riporta il Corriere della Sera. Ma già dopo 10 anni la loro busta paga è quasi raddoppiata, superando quota 50 mila, e a fine carriera può arrivare a 136 mila euro l’anno. Tradotto: un elettricista, un centralinista e un barbiere della Camera, anche se a fine carriera, messi insieme guadagnano quanto il segretario generale, che è pur sempre a capo di 1.500 persone.

I politici più cari. Napolitano? Ci costa 13 milioni. Ecco la classifica dei politici più cari - Giorgio Napolitano, Francesco Colucci (Pdl), Pier Ferdinando Casini, Altero Matteoli, Anna Finocchiaro, Umberto Bossi, Maurizio Sacconi, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Carlo Giovanardi sono questi, secondo la classifica stilata da il Fatto Quotidiano, i 10 politici che sono costati di più ai contribuenti italiani, essendo i più longevi nel Parlamento e nelle istituzioni. Una classifica che, fino a qualche mese fa, avrebbe visto in testa con ampio vantaggio Giulio Andreotti, deputato dalla prima legislatura (1948) e parlamentare per ben 65 anni. Ora a guidarla c’è invece Giorgio Napolitano: 60 anni fra Parlamento, governo e presidenza della Repubblica. Entrato alla Camera dei deputati nel 1953, è stato – se si eccettua la IV legislatura, 1963, in cui fu nominato segretario del Pci di Napoli – deputato, ministro, presidente della Camera, parlamentare europeo, senatore a vita e presidente della repubblica. Se questi sessant’anni di vita politica gli fossero stati pagati con lo stipendio di un attuale deputato (228 mila euro annui), calcola Il Fatto, Napolitano sarebbe costato 13,6 milioni di euro. Ben lontani sono gli altri componenti della classifica, con all'attivo "solo" fra i 21 e i 34 anni di assidua frequentazione delle "poltrone".

SCONTRO SUGLI STIPENDI IN PARLAMENTO: 136MILA EURO AL BARBIERE, CONTRIBUTI ESCLUSI, scrive Giuliano Balestrieri per “Repubblica.it”. La Camera dei deputati lavora al nuovo bilancio pluriennale. La presidente Laura Boldrini promette per il prossimo 21 luglio nuovi tagli alla spesa e risparmi corposi: dalla ristorazione con la riduzione del contributo fisso, agli affitti che costano 40 milioni l'anno. Ma il vero nodo della politica italiana sono gli stipendi. Dei dipendenti, più che dei deputati. I quasi 1.500 lavoratori di Montecitorio costano 310 milioni di euro, cui vanno aggiunte le spese per i pensionati: altri 227 milioni di euro. Insieme pesano per il 50,9% delle spese della Camera, che si aggirano intorno al miliardo di euro l'anno. Numeri che fanno impallidire quelli dei 630 deputati: questi, insieme coi colleghi pensionati, valgono "appena" il 25% dei costi, 130 milioni per gli onorevoli in carica e 138,9 milioni per i vitalizi. ?Oneri che appaiono insostenibili in un Paese dove la disoccupazione è stabile intorno al 13%, la cassa integrazione vola verso il miliardo di ore annue e i contratti di solidarietà assottigliano gli stipendi alle famiglie italiane. Tagliare però non è facile. Il Parlamento gode della "autodichia" prevista dall'articolo 64 della Costituzione: in sostanza le Camere hanno una giurisdizione riservata sullo status giuridico ed economico dei propri dipendenti, che viene quindi definito attraverso atti interni - i regolamenti - non modificabili dalla legge. Un istituto nato dopo la dittatura per garantire l'indipendenza del legislatore, ma che negli anni ha creato privilegi oggi insostenibili e quasi inattaccabili. Anche il tetto alle retribuzioni di 240mila euro lordi stabilito dal governo Renzi non ha in alcun modo scalfito le sicurezza dei dipendenti di Montecitorio. ?Ci sta ora provando il presidente Boldrini, ma per raggiungere un risultato concreto deve vincere le resistenze di una selva di 25 sigle sindacali. Anche perché gli anni di privilegi hanno livellato molto gli stipendi, ma verso l'alto. E tagliare il salario del segretario generale e del suo vice (406mila euro l'anno e 304mila euro, esclusi gli oneri previdenziali e le indennità di funzione da 660 euro al mese) a 240mila euro annui vorrebbe dire avvicinarlo troppo a quello di un tecnico documentarista o di un ragioniere con una decina di anni di anzianità. ?Se la Boldrini riuscisse nell'impresa, sarebbe la fine di alcuni casi di remunerazioni che stridono con quelle presenti nel resto del Paese. Oggi barbieri, elettricisti, autisti e centralinisti entrano con uno stipendio imponibile lordo di 30mila euro l'anno cui si aggiungono contributi previdenziali per altri 5.300 euro: dopo 10 anni la retribuzione sale oltre i 50mila euro, ma a fine carriera un barbiere o un centralinista con 40 anni di servizio guadagna circa 136mila euro (al netto di 24mila euro di contributi previdenziali). I commessi (nel rapporto di 0,7 per deputato) per un lavoro non diverso da quello di un usciere d'albergo guadagnano addirittura di più. ?Non si possono lamentare neppure i ragionieri e i consulenti. Certo il processo di selezione non è dei più semplici, ma neppure complesso come un concorso da diplomatico o da magistrato. Eppure lo stipendio d'ingresso alla Camera è da favola: 39mila euro annui per i primi, 64mila per gli altri. Salari più che raddoppiati dopo 10 anni e che a fine carriera arrivano a 238mila e 358mila euro l'anno. Sempre al netto dei contributi previdenziali.

"Lo stipendio del segretario generale della Camera dei deputati, come e' stato dichiarato con comunicato dell'Ufficio stampa della Camera, ammonta a oltre 479 mila euro più indennità". E' quanto precisa l'OSA (Organizzazione sindacale autonoma della Camera dei deputati) riferendosi "ad alcune notizie stampa diffuse sugli stipendi in Parlamento" e sottolineando la necessità di  evitare "una cattiva informazione". "Si dice - recita una nota - che lo stipendio del segretario generale della Camera dei deputati sia di 406 mila euro l'anno: in realtà, come è stato dichiarato con comunicato dell'Ufficio stampa della Camera, ammonta a oltre 479 mila euro più indennità. Si sostiene poi che tale stipendio sia giustificato dal fatto che non si possa applicare il tetto da 240 mila indicato dal Governo perchè in questo modo si creerebbe un avvicinamento inopportuno allo stipendio di un ragioniere parlamentare (assunto con il titolo della laurea) al decimo anno: notizia totalmente infondata trattandosi invece di 160 mila euro in meno. Altra imprecisione grave: si parla di 25 sigle sindacali che opererebbero alla Camera, mentre invece le sigle rappresentate sono 11, meno della metà. Si parla dello stipendio da 136 mila euro annui dei barbieri di palazzo Montecitorio, mentre chi entra oggi guadagna infinitamente meno e nessun barbiere attualmente in servizio li percepisce. Allo stesso modo, il rapporto tra assistenti parlamentari e deputati è inferiore del 15 per cento rispetto a quello citato". "Sembrano solo dettagli, ma in un momento così critico per le tasche degli italiani, è necessario essere precisi per evitare che venga gettato gratuito discredito verso una categoria, come quella dei dipendenti parlamentari, che ha vinto un regolare e complesso concorso pubblico, aperto a tutti i cittadini italiani, ed effettua quotidianamente un lavoro delicato e decisivo per le procedure democratiche", conclude la nota dell'OSA.

Camera, i commessi sul piede di guerra. "Basta, non siamo dei privilegiati". I dipendenti di Montecitorio se la prendono con il segretario Zampetti, reo di non aver difeso l'onorabilità dei lavoratori dalle notizie apparse sui giornali. Dopo un anno di schermaglie dalle trincee, la guerra tra i dipendenti di Montecitorio e il segretario della Camera Ugo Zampetti, alla fine è clamorosamente scoppiata. La causa? Il profluvio di notizie false e mai smentite sui privilegi del personale che - protesta un gruppo di dipendenti - hanno restituito «l’immagine di una Istituzione che non ha nulla da dire a sua difesa». E così, con una lettera al vetriolo, il sindacato interno Osa (Organizzazione sindacale autonoma) pone fine al «fair play parlamentare per cui i sindacati affidano la difesa dell’onorabilità» dei dipendenti ai vertici amministrativi. «Adesso basta», tuona il sindacato. D’ora in poi, il personale si farà giustizia da sé, con comunicati, interviste e partecipazioni televisive. A sottintendere che, rotto il patto tra gentiluomini, fioccheranno granate mediatiche. E pure carte bollate: l’Osa ha già aperto un conto, dove i dipendenti potranno versare contributi per sommergere di ricorsi quella che, un tempo, tutti chiamavano «mamma Camera».

Quanto è caro il deputato: ogni eletto costa all'anno 380 mila euro. La spending review ha dato una sforbiciata. Ma solo in apparenza. Perché se alla retribuzione si aggiungono le spese a loro beneficio (affitto degli uffici, telefoni, corsi di formazione informatica...) ecco che il conto sale. E anche parecchio, scrive Giovanni Manca su “L’Espresso”. Quanto costa ogni anno un singolo deputato? A conti fatti una media di 380 mila euro. Basta moltiplicare per i 630 scranni e il risultato impietoso è di 240 milioni di euro l’anno. Certo, non si tratta di un numero subito visibile, ben schermato tra le voci del bilancio interno di Montecitorio, che da oggi verrà discusso dall’Aula, in attesa dell’approvazione prevista per giovedì. Si tratterà di una quattro giorni in cui, al grido di “ammazza la casta”, ciascun Gruppo, come gli anni passati, vorrà vincere la coppa del più virtuoso e del “grazie a noi si risparmia su”, in un prevedibile ping pong sulle responsabilità delle spese e relativi meriti delle efficienze. Il messaggio che, comunque, dovrà arrivare forte e chiaro è che la politica stavolta fa sul serio e che la spending review parte dalle tasche dei deputati. Ma è proprio così? A una prima occhiata, in effetti, gli eletti di Palazzo avrebbero di che essere soddisfatti: su un bilancio complessivo di 1.037 milioni di euro (oltre un miliardo, più esplicitamente), la spesa destinata ai deputati in carica è di “soli” 145 milioni di euro, vale a dire il 14 per cento del totale. E’ questo il mantra che i tre deputati questori responsabili dei conti della Camera (Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Paolo Fontanelli del Pd e Gregorio Fontana di Forza Italia) cercheranno di affermare in Aula, puntando il dito, se dovesse farsi necessario, su altri “cattivi”; per esempio l’esercito di commessi e impiegati che costa 254 milioni l’anno, una cifra che, nelle intenzioni di Laura Boldrini, verrà troncata con provvedimenti rigorosi, attesi già nelle prossime settimane. Resta che, intanto, i capitoli di bilancio non vanno esattamente nel verso della virtù per i nostri deputati. Già, perché i 145 milioni trascurano un piccolo dettaglio: i costi per i beni e i servizi che vanno a unico vantaggio dell’eletto. E così si scopre che la spesa per gli affitti degli immobili in cui sono collocati i loro uffici vale quasi 40 milioni, che le spese di trasporto per assicurare loro la libera circolazione sul territorio nazionale (e anche all’estero, per quelli eletti Oltremare) ammontano a quasi 11 milioni di euro, che il personale esterno addetto alle segreterie dei fortunati titolari di incarichi (Presidente, Vicepresidenti, Questori, Segretari, Presidenti di Commissione, Giunte, Comitati e via compitando) pesa per 10,5 milioni di euro, previdenza compresa. E non è tutto. In ordine crescente, la spesa per la telefonia mobile a loro uso e consumo è di 200 mila euro, 300 mila impiegati per alfabetizzarsi in corsi di lingue e di informatica, 455 mila per l'assicurazione in caso disgraziato di morte o incidenti. Non per il primo soccorso: in questo caso, se si trovano a Palazzo, il servizio è garantito da medici e infermieri di guardia al costo di quasi un milione di euro, un servizio che – fanno notare in Transatlantico – “certo non esisterebbe se non ci fossero i deputati, come non esiste in nessun altro ufficio pubblico”. A voler, poi, tralasciare un gruzzoletto di altri 900 mila euro circa che se ne vanno in spese per la mobilità (compresa l’autorimessa e la benzina per le auto blu di cui godono i più fortunati tra i parlamentari), ecco brillare il mega contributo di 32 milioni di euro per i Gruppi parlamentari, soldi destinati – manco a dirsi – prevalentemente al personale di fiducia politica che lavora per gli eletti. Messi in colonna e tirata la somma si torna così alla cifra record di oltre 240 milioni di euro, di molto superiore – quindi – agli striminziti 145 di partenza, legati al pagamento delle sole indennità e dei rimborsi. Anche per questo, i Sindacati di Palazzo si sentono capretti sacrificali e hanno rotto ogni regola di fair play con la politica; obiettano, in sostanza, che i fari puntati sui loro stipendi servono solo da diversivo per non far rilucere troppo l’anello d’oro nel becco della gazza; dove la gazza sta per “mantenimento degli eletti”. Fatto sta che al fischio di inizio dei lavori, i deputati dovranno affrontare un’arrampicata su parete liscia, per cercare di non perdere alcun privilegio ed evitare di farsi troppo facili bersagli mobili.

Così i parlamentari sono diventati milionari. Quando nacque la Repubblica i costituenti guadagnavano 1.300 euro odierni. Adesso deputati e senatori incassano tredici volte più di un operaio. Il tutto grazie a una serie di leggi che nel tempo hanno gonfiato le retribuzioni. E a provvedimenti ad hoc, furbizie, trucchi e tanta sfacciataggine. Che abbiamo ricostruito, scrive Paolo Fantauzzi s u”L’Espresso”. «Onorevoli colleghi, l'opinione pubblica non ha in questo momento molta simpatia e fiducia per i deputati. Vi è un'atmosfera di sospetto e discredito, la convinzione diffusa che molte volte l'esercizio del mandato parlamentare possa servire a mascherare il soddisfacimento di interessi personali e diventi un affare, una professione, un mestiere». La solita tirata contro la casta di qualche parlamentare del Movimento cinque stelle? Macché. Frasi di Piero Calamandrei, giurista, antifascista, partigiano e deputato eletto col Partito d'azione all'Assemblea costituente. Parole pronunciate nel lontano 1947, mentre a Montecitorio era in discussione l'articolo 69 della Costituzione, relativo allo stipendio dei parlamentari. Il paradosso è che all'epoca i costituenti guadagnavano quanto un precario di oggi: 25 mila lire al mese, circa 800 euro. Più un gettone di presenza da 1.000 lire al giorno (30 euro), ma solo quando le commissioni si riunivano in giorni differenti rispetto all'Aula. Insomma, per quanto diligenti, i 556 rappresentanti che scrissero la Costituzione non riuscivano a portare a casa più di 1.300 euro al mese. Roba da far apparire i grillini - che, al netto dei rimborsi, trattengono circa 3 mila euro - degli sfacciati crapuloni. E in effetti nel dopoguerra lo stipendio dei parlamentari non era altissimo in termini assoluti ma comunque più che dignitoso per una nazione ancora sconvolta dall'economia di guerra, fame, mercato nero e inflazione vertiginosa. Un Paese senza dubbio più povero ma di certo meno "squilibrato" a favore del Palazzo, visto che un operaio di terzo livello arrivava a raggranellare 13 mila lire al mese, un terzo di un deputato. Mentre dopo quasi 70 anni - come mostra la tabella elaborata dall'Espresso - chi siede in Parlamento guadagna quasi 10 volte più di un impiegato e 13 più di una tuta blu. All'alba della nuova Italia, retribuire i parlamentari era considerato un decisivo fattore di indipendenza e democrazia, tale da consentire anche alle classi non abbienti di partecipare alla vita politica. Senza però esagerare, vista la drammatica situazione del Paese. Per questo nel giugno 1946 fu fissata provvisoriamente la somma di 25 mila lire. Ma l'inflazione era tale che a febbraio 1947 fu necessario portarla a 30 mila lire (740 euro) e a settembre a 50 mila lire (850 euro), elevando il gettone di presenza a 3 mila lire al giorno (51 euro), dimezzato per i residenti a Roma. La prima legge sul tema, varata nell'estate 1948 dal governo De Gasperi, è figlia di questa mentalità che allora ispirava la giovane e fragile democrazia italiana: "Ai membri del Parlamento è corrisposta una indennità mensile di L. 65.000, nonché un rimborso spese per i giorni delle sedute parlamentari alle quali essi partecipano". Tradotto ai giorni nostri: 1.230 euro fissi più un gettone da 100 euro scarsi al giorno (5mila lire) legato alla presenza effettiva. Togliendo fine settimana più i lunedì e i venerdì, in cui le convocazioni sono rare, non più 2.500 euro al mese dunque. Tutto esentasse, visto che lo stipendio era considerato un rimborso spese e non un reddito. Ma comunque una chimera se si considera che oggi i rimborsi sono prevalentemente forfettari, che le decurtazioni per gli assenteisti valgono solo per i giorni in cui si vota e che per risultare presenti è sufficiente partecipare a una votazione su tre. Che l'aria sarebbe ben presto cambiata lo dimostra una legge emanata dal governo Segni nel 1955: "Disposizioni per le concessioni di viaggio sulle ferrovie dello Stato". Pensata per garantire l'esercizio del mandato popolare, finì per trasformarsi in un privilegio ingiustificato per una pletora sterminata di soggetti. Non solo i politici in carica e il Capo dello Stato ma anche gli ex: presidenti del Consiglio, ministri e sottosegretari (bastava un anno), parlamentari, alti papaveri dei dicasteri, cardinali, familiari del ministro e del sottosegretario ai Trasporti e perfino quelli dei dipendenti delle Camere. Un privilegio al quale, col passare del tempo, si sarebbero aggiunti una innumerevole serie di altri benefit - molti ancora esistenti - dai biglietti aerei alla telefonia fissa (e poi mobile), dalle tessere autostradali agli sconti sui trasporti marittimi. E così nel 1963, in appena 15 anni, grazie ai bassi salari che furono alla base del miracolo economico, col suo mezzo milione al mese un parlamentare era già arrivato già a guadagnare il quintuplo di un impiegato (il cui salario si aggirava sulle 100 mila lire) e otto volte più di un operaio (poco sopra le 60 mila lire). Ma è con la legge varata nel 1965 dal centrosinistra (premier Aldo Moro, vicepresidente il socialista Pietro Nenni) che si deve l’esplosione dei redditi dei nostri rappresentanti: lo stipendio veniva infatti agganciato a quello dei presidenti di sezione della Cassazione e fra l'altro soggetto a imposta solo per il 40%. Inoltre a titolo di rimborso per le spese di soggiorno a Roma si istituiva la diaria (esentasse). Ciliegina sulla torta: siccome la legge non lo specificava, le 120 mila lire per vivere nella capitale (1.250 euro di oggi) furono accordate anche quelli che vi risiedevano già. Un capolavoro. Tuttora in vigore, sia pure con qualche modifica. Certo, anche i comuni mortali hanno avuto le loro soddisfazioni. Negli anni '70, ad esempio, per effetto delle lotte sindacali, i lavoratori dipendenti e in particolar modo degli operai hanno conosciuto un aumento delle retribuzioni che ha fatto diminuire il distacco dagli onorevoli. Al punto che nel 1977 un metalmeccanico poteva guadagnare un quarto di un parlamentare: rispetto al 1963, un dimezzamento dello "spread". Poi il governo Craxi taglia la scala mobile e la forbice torna ad allargarsi inesorabilmente. E sia tute blu che impiegati cominciano a perdere progressivamente potere d'acquisto: i loro salari reali scendono lentamente, mentre deputati e senatori iniziano a stappare bottiglie di champagne. Per festeggiare una busta paga che in un trentennio raddoppia il suo valore: dai 7 mila euro degli anni '80 (rivalutati al 2014) oggi siamo arrivati a quasi 14 mila. Gli impiegati, invece, si aggirano sui 1.500 euro al mese, mentre i metalmeccanici sono inchiodati da allora fra 1.100 e 1.200 euro. Nel mezzo, ci sono i generosi regali che i parlamentari si fanno nel corso del tempo. Nel 1986, ad esempio, l’indennità viene equiparata completamente a quella dei presidenti di sezione della Corte suprema (era al 91,3%), che regala in un colpo solo 400 mila lire nette in più al mese più dieci mensilità arretrate: cinque mesi di lavoro di un operaio. Ma le disparità sono anche nella dichiarazione dei redditi. Già, perché un terzo dell'indennità per deputati e senatori, dopo lunghe lotte assimilata al lavoro dipendente, resta esente dalle imposte (solo dal 1995 la tassazione è al 100% come tutti i comuni mortali). Senza contare che grazie a una generosa interpretazione del Testo unico delle imposte sui redditi (governo Craxi), come ha raccontato sull’Espresso Stefano Livadiotti , il prelievo fiscale si aggira attorno al 19 per cento. Intanto, anno dopo anno, i rimborsi aumentano a dismisura, dai viaggi di studio alle spese telefoniche, dai costi di trasporto a quelli di spostamento. Fino alle spese postali, in seguito soppresse: nel 1988 a ogni deputato veniva riconosciuto ogni mese il corrispettivo di 500 francobolli (erano 300 fino a un paio di anni prima), circa 350 euro odierni. Che poi si spedissero davvero tutte quelle missive, poco importa. Non fossero bastati i benefit, a fine anni '80 per le deputate finì in busta paga perfino l’indennizzo per il coiffeur. Già, perché non essendoci a Montecitorio il parrucchiere (al contrario dei colleghi maschi, che possono contare sul barbiere), alle parlamentari viene assegnato un rimborso forfettario sostitutivo. Come dire: scusate il disservizio, la messa in piega la offriamo noi. Questo aumento degli stipendi, fra l'altro, ha prodotto effetti a cascata anche sugli enti locali. Perché se gli eletti nelle Camere si sono agganciati ai magistrati di Cassazione, i consiglieri regionali hanno fatto altrettanto con i parlamentari. E ogni ritocco all’insù sancito dall'Istat è costato miliardi e miliardi di lire a tutta la collettività. L'ultimo colpo grosso - prima della sterilizzazione degli stipendi avviata nel 2006 e dei vari piccoli tagli apportati negli ultimi anni - risale al 1997: quasi 7 milioni al mese in più sotto forma di “spese di segreteria e rappresentanza” al posto dei precedenti contributi per i portaborse, che venivano erogati al gruppo parlamentare di appartenenza. In questo modo, non solo i soldi sono finiti direttamente sulla busta paga dell'onorevole, ma non è stato nemmeno più necessario rendicontarli (dal 2012 basta documentare il 50%). Risultato: come ha raccontato l'Espresso, in maniera assolutamente lecita molti parlamentari si sono tenuti i soldi e vari collaboratori hanno continuato a lavorare a nero. Che avesse ragione Calamandrei?

ELETTRONICA E MOBILI: CHE SPRECO DI 30 MILIARDI.

Il grande spreco di Stato tra stampanti e scrivanie: 30 miliardi di euro da risparmiare. Oggi ci sono 32 mila stazioni appaltanti, potrebbero ridursi a 40. Si può spendere fino all'80% in meno centralizzando gli acquisti, scrivono Federico Fubini e Roberto Mania su “La Repubblica”. È un segreto di Stato. Nessuno sa quali siano le regole da applicare nei contratti tra gli amministratori pubblici e i fornitori di beni e servizi. È un patchwork da quasi 130 miliardi l'anno con oltre 32 mila soggetti - stazioni appaltanti, in burocratese - che decidono con i soldi dei contribuenti. Se si limasse questa spesa del 10%, riducendo le "stazioni" a 30 o 40, azzerando la discrezionalità e le mediazioni politiche, si libererebbero più risorse di quelle necessarie per il bonus da 80 euro. C'è chi stima che si arriverebbe fino a 30 miliardi di risparmi. Va alzato il velo sui dati, però. Questo dovrebbe diventare il cuore della prossima legge di Stabilità: tagli mirati, semplificando la giungla degli appalti dove tutto alla fine può succedere. Il ministero dell'Economia ha incaricato il Sose, una sua controllata, di collezionare i costi dei vari enti per gli stessi beni e servizi, di renderli comparabili e pubblici. Qualcosa però si può già capire dai dati del Tesoro sul 2012. Tavoli, sedie, stampanti, computer e programmi Microsoft vengono da pianeti diversi a seconda di chi li compra. E i ministeri sembrano appaltatori più incompetenti di comuni, provincie, regioni, università o aziende sanitarie. Una "sedia operativa", cioè la sedia classica dell'impiegato, costa in media 90,09 euro se comprata da un'amministrazione centrale. Ma il prezzo scende a 78,14 euro, con un risparmio del 13,26 %, se l'acquisto avviene attraverso la Consip, la società pubblica che centralizza in grandi contratti circa il 10% dei 130 miliardi spesi ogni anno in beni e servizi. Ci sono anche casi estremi. Una stampante individuale costa 214,95 euro se acquistata fuori convenzione, prezzo che precipita a 39 euro quando la stampante è presa invece tramite Consip. Vuol dire una differenza dell'81,86%. Ma ci sono anche i 573,87 euro che le amministrazioni spendono in media per ciascun portatile fuori convenzione Consip, rispetto ai 483 con convenzione. E che dire del costo di un minuto al telefono fisso o cellulare? Quando il contratto con l'operatore è concluso senza Consip, l'onere è di oltre il 70% più alto. E dell'57% più alto per ogni messaggio sul telefonino. Domenico Casalino, amministratore delegato di Consip, è convinto che i margini per tagliare la spesa siano ampi: "Dieci miliardi o più - dice - se si centralizzano gli acquisti per comparare e rendere trasparenti gli acquisti, affidandosi ai software e attenendosi ai costi standard". L'Autorità di controllo sui contratti pubblici (Acvp), alla cui guida ieri è stato nominato Raffaele Cantone, stima che si avrebbero risparmi fino al 14,6% se nella Sanità ci si attenesse a una griglia di prezzi di riferimento sui servizi di lavanderia, ristorazione e pulizia. Per i farmaci, poi, la spesa si ridurrebbe del 7,4% e sui dispositivi medici del 26. Anche la Corte dei conti, nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, nota incongruenze in quelle che chiama le "spese per gli organi istituzionali". Questi sono gli stessi ovunque, con gli stessi telefoni, sedie, tavoli, auto e la stessa benzina per farle andare. Ma nel 2012 il peso per abitante è stato di 10,5 euro nelle regioni del Centro, 11 euro al Nord e 24,9 euro al Sud. Ci sono poi disparità in cui a fare peggio sono le aree più ricche del Paese. I contratti di licenza e assistenza software costano 2,7 euro per abitante nelle regioni a statuto ordinario e 14,7 euro nelle aree autonome o a statuto speciale: in primo luogo Trento, Bolzano, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta. Per non parlare di "noleggi e locazioni", che in queste regioni e provincie dell'arco alpino costano per abitante cinque volte più che nei territori a statuto ordinario. E nel costo pro-capite delle utenze telefoniche pubbliche è il Nord-Ovest d'Italia a presentare le bollette più salate (in media 132 euro). Difficile però distinguere l'incompetenza dal puro e semplice ladrocinio. Ci hanno provato tre economisti italiani, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Tommaso Valletti, con un studio che è diventato un caso internazionale. Lo ha pubblicato l'American Economic Review, che non dà spazio quasi mai a articoli su un singolo Paese estero. Ha fatto un'eccezione per l'Italia, perché i numeri di Bandiera, Prat e Valletti sono eccezionali. I tre hanno lavorato con la banca dati Consip sugli scarti fra regioni o enti nell'acquisto di 21 articoli come benzina o stampanti. I loro risultati sono sorprendenti. In primo luogo, hanno scoperto che se tutti gli uffici spendessero per gli stessi beni come il 10% più virtuoso, il risparmio sarebbe di 30 miliardi. Ma soprattutto lo studio dell'American Economic Review usa un modello matematico per dividere l'incompetenza dalla disonestà: secondo i tre economisti, l'83% è "spreco passivo", dovuto a inefficienza, mentre il 17% è "spreco attivo" da razzia e ruberie. La corruzione trova terreno fertile nel percorso che si snoda dalle migliaia di stazioni appaltanti fino ai piccoli che vivono di subappalti. Accusa la Commissione europea: "In Italia la corruzione risulta particolarmente lucrativa nella fase successiva all'aggiudicazione, soprattutto nei controlli di qualità o di completamento dei contratti. La Corte dei conti ha più volte constatato la correttezza della gara, il rispetto delle procedure e l'aggiudicazione dell'appalto all'offerta più vantaggiosa, ma la qualità dei lavori è poi intenzionalmente compromessa nell'esecuzione". Sembra di vedere il film dei lavori per l'Expo o per la Tav, perché è proprio nelle grandi opere pubbliche che la Corte dei conti stima il giro d'affari da corruzione intorno al 40% del valore dell'appalto. Sempre i magistrati contabili hanno calcolata che la corruzione vale 60 miliardi l'anno. Una cifra enorme, anche se alcuni economisti la considerano in difetto per eccesso. Di certo non molto lontano dalla realtà. D'altra parte, nota la Commissione Ue che l'alta velocità è costata in Italia 47,3 milioni di euro a chilometro sulla Roma-Napoli e 96,4 milioni tra Bologna e Firenze, mentre la Parigi-Lione è costata 10,2 milioni, e 9,3 milioni la Tokyo-Osaka. La risposta del governo è chiara: disboscare le stazioni appaltanti. La scure è arrivata con il decreto Irpef ora all'esame della Camera: "Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35" (articolo 9, comma 5 del decreto numero 66). La bozza della riforma per il codice degli appalti preparato dal viceministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini si muove nella stessa direzione. Ridurre le stazioni vuol dire ridimensionare le possibilità di corruzione e collusione. Quest'ultimo peraltro è un problema sempre più evidente: l'autorità Antitrust di recente ha aperto sette istruttorie per ipotesi di cartello fra imprese negli appalti anche se, guarda caso, gli enti segnalano sospetti o anomalie solo molto di rado. Ma i risparmi, se e quando arriveranno, sono destinati a creare anche contraccolpi sull'economia. Gustavo Piga, economista ed ex presidente di Consip, avverte che un sistema basato sui grandi contratti può colpire migliaia di imprese familiari che oggi vivono di piccoli appalti. Questa riforma rischia di riscrivere la geografia dell'apparato produttivo italiano, lasciando fuori la stragrande maggioranza dei fornitori. Sostengono i rappresentanti gli artigiani delle Cna e l'Ance, l'associazione dei costruttori, che così "si uccide un pezzo di economia locale". Già oggi le gare (quando ci sono) vengono vinte dai Consorzi industriali e dalle cooperative che - denuncia la Cna - prima affidavano i subappalti ai piccoli mentre ora accentrano tutto, fino ad assorbire la stessa manodopera locale. Il Paese è dunque a un bivio: tagliare la spesa significa togliere ossigeno ai piccoli, proprio mentre invece le leggi e le mosse del governo incentivano le imprese a mantenere una taglia ridotta. Basti pensare alle misure sui mini bond, a quelli sulle garanzie creditizie o ai contratti di lavoro più flessibili quando l'impresa è sotto la soglia dei 15 addetti. Ma per il governo è tempo di scelte. E come diceva Milton Friedman, nessun pasto è gratis: anche, ma non solo, nelle mense pubbliche.

RAI: VA IN ONDA LO SPRECO KOLOSSAL.

Rai, va in onda  lo spreco. L’Antitrust e i pm indagano sugli accordi illeciti per gli appalti della tv di Stato: una torta da mezzo miliardo. E accusano: si potevano risparmiare centinaia di milioni, scrive Lirio Abbate su “L'Espresso". Un accordo di cartello? No, di più: un vero cartellone dei programmi Rai per la nuova stagione, con tutti gli appalti spartiti sottobanco. Con un pool di aziende che decidevano a tavolino chi doveva vincere e con quali offerte, provocando centinaia di milioni di spesa in più per la tv di Stato. È l’accusa al centro di una duplice inchiesta, che sembra promettere sviluppi clamorosi. C’è l’indagine della Guardia di Finanza, coordinata dalla procura di Roma che ha aperto un fascicolo su ben 33 società televisive. E c’è l’istruttoria dell’Autorità garante della concorrenza, presieduta da Giovanni Pitruzzella: un procedimento avviato a dicembre e prossimo alla conclusione che analizza l’ipotesi di un accordo sottobanco per premiare alcune ditte ed escluderne altre. Di tutto, di più. È stata la stessa Rai a denunciare lo scorso dicembre irregolarità in numerose gare d’appalto che si sono svolte fra agosto e settembre 2013: il periodo caldo in cui si decide chi realizzerà la parte tecnica dei nuovi programmi. Sul piatto c’è una torta ghiottissima: le commesse su cui indaga l’Antitrust hanno un valore tre volte superiore a tutti gli altri contratti assegnati nell’intero 2013. Conduttori e produttori delle trasmissioni non c’entrano: quello su cui lavorano gli ispettori dell’Autorithy è il mercato dei “servizi di post-produzione”. Un’attività che vale parecchie decine milioni, spesi per il montaggio, la sottotitolazione, l’inserimento di titoli di testa e di coda nei programmi e le riprese video. Nel mirino ci sono le società che hanno fornito questi servizi per una lista lunghissima di programmi da “Domenica In” a “Ballarò”, da “Porta a Porta” e “Chi l’ha visto?” a un “Giorno in pretura” fino alla “Prova del cuoco”, tanto per citarne alcuni. La segnalazione della Rai faceva riferimento ad un accordo, come emerge dall’atto di avvio dell’istruttoria dell’Autorithy, che mirava a «spartirsi gli appalti di montaggio e riprese tra le società invitate dalla Rai alle procedure di appalto» e che sono iscritte all’albo fornitori, e «in virtù della presentazione di offerte concordate», sarebbe stato stabilito «un prezzo più elevato di quello praticato nel passato, ovvero a condizioni economiche meno convenienti rispetto a quelle che avrebbero potuto determinarsi in presenza di un confronto concorrenziale». L’ipotesi vagliata prima dall’Antitrust e adesso dai pm della Capitale è quella di una «intesa illecita» tra una decina di società che hanno i requisiti per prestare i servizi di post produzione alla Rai: una concertazione parallela per vincere le gare bandite dalla tv pubblica, provocando anche un’impennata dei prezzi per questi contratti che hanno registrato un incremento di quasi il cinquanta per cento. Gli accertamenti sono stati allargati a tutti gli appalti dal 2011 a oggi, per un valore di quasi mezzo miliardo. E se l’accusa dovesse essere riscontrata dalle due inchieste emergerebbe un danno per l’erario pubblico e quindi anche per le tasche dei cittadini di centinaia di milioni di euro. L’Antitrust ha fatto eseguire una raffica di ispezioni negli uffici delle imprese coinvolte, da cui sono emersi intrecci societari, collegamenti con dirigenti della Rai e scambi di informazioni fra ditte che sulla carta dovrebbero essere concorrenti e invece «dialogano fra loro» per concordare prezzi e offerte. Le email e i documenti acquisiti durante le verifiche sono inequivocabili. Tanto che a metà marzo l’istruttoria dell’Autorithy è stata estesa ad altre società perché dalle carte scoperte «è emerso che il coordinamento anticompetitivo potrebbe essersi realizzato anche per il tramite di un’associazione, la Niba (New italian broadcasting association) costituita nel 2011 tra alcune imprese di post produzione anche al fine di coordinare la partecipazione e l’aggiudicazione delle procedure indette dalla Rai», scrive nel provvedimento notificato alla Niba il Garante della concorrenza, «oltre che ad adottare una linea d’azione comune nei confronti della Rai». Nello smartphone dell’amministratore di una società i funzionari dell’Autorithy hanno trovato messaggi e foto che provano i collegamenti con altre aziende che sulla carta dovrebbero essere concorrenti per le gare della Rai. È bastato esaminare il cellulare dell’amministratore della “Studio immagine” di Roma, Gemma Terriaca, per far venir fuori le telefonate scambiate con Silvio Ricci, amministratore della “Siri video”, anche questa sotto inchiesta, e poi con Giuseppe e Paolo Niglio della “Euro group line production”, pure coinvolta nell’indagine. I funzionari dell’Antitrust hanno anche controllato la chat dell’applicazione WhatsApp installata sullo smartphone di Gemma Terriaca, per scoprire un messaggio di Silvio Ricci del 5 novembre 2013 con allegata una foto che faceva riferimento ad un appalto della Rai. È l’immagine di un “pizzino” sul quale sono scritti a mano i nomi delle società che hanno partecipato ad una gara per il programma “Rewind” di Rai Educational e accanto ad ognuna la cifra offerta. La foto e lo scambio di sms sono stati acquisiti e sono agli atti del procedimento, di cui tutte le ditte coinvolte hanno preso visione. E questi documenti sono stati acquisiti nelle scorse settimane, su autorizzazione della procura di Roma, anche dalla Guardia di Finanza nell’inchiesta penale che sta muovendo i primi passi. Ospite di Ballarò, il premier invita la Rai a partecipare attivamente alla spending review: ''Tocca anche a voi'', dice rivolgendosi al conduttore. All'obiezione di Floris sul rischio di indebolimento della tv pubblica il premier replica che ''per vent'anni c'è stato un duopolio fuoriluogo senza apertura. Ora invece c'è anche la 7, Sky e altre tv''. La Rai ha adottato da un paio di anni regole di trasparenza nelle gare nel rispetto del codice degli appalti. Non vengono più invitate solo le società di Roma, iscritte nell’albo dei fornitori, ma i bandi sono stati allargati a tutte le aziende sul territorio italiano. In questo modo non sono invitati sempre i soliti concorrenti. L’Autorithy sottolinea infatti che «la metà delle imprese operanti nel mercato, tra cui quelle con le quote maggiori, è risultata aggiudicataria di almeno una delle venti gare che hanno registrato anomalie». Questa svolta a sostegno della trasparenza è stata criticata persino da qualcuno nell’ambiente dell’ufficio Affari legali di viale Mazzini e definita sarcasticamente “una deriva pubblicistica”. Chi lo ha fatto adesso si dovrà ricredere. L’istruttoria dell’Antitrust affonda nel cuore dei problemi economici della tv pubblica. Nei mesi scorsi la Corte dei Conti aveva registrato un grave sbilanciamento negativo tra ricavi e costi della produzione, un segnale preoccupante per la situazione economico-patrimoniale e finanziaria della Rai. Una situazione particolarmente grave perché adesso 150 milioni provenienti dal canone 2014 saranno dirottati sui conti dello Stato in base all’ultima manovra. In questo contesto, come evidenziano gli investigatori, creare un aumento dei prezzi dei servizi offerti all’azienda di Stato, potrebbe vanificare gli sforzi della Rai, «tesi alla razionalizzazione e al contenimento dei propri costi in ambito produttivo», con le inevitabili ricadute in termini di aggravio sui contribuenti, posto che il canone rappresenta circa il settanta per cento dei ricavi dell’emittente pubblica. Le imprese attive nei servizi di post produzione, sia quelle iscritte al Niba che quelle che non ne facevano parte, per definire «una piattaforma comune di richieste da fare alla Rai» si sono riunite due volte, a luglio e a settembre scorso. In entrambi i casi gli incontri si sono svolti nella sala parrocchiale della Chiesa di Santa Lucia, in zona Prati, a ottocento metri dalla sede della Rai. Per l’Autorithy le procedure che sono state messe in atto dalle società potrebbero portare alla «distorsione della concorrenza» che consiste «in un meccanismo spartitorio caratterizzato dalla riassegnazione delle procedure ai medesimi soggetti della stagione precedente, a sconti inferiori rispetto alla base d’asta e a prezzi più alti». Nel documento di avvio dell’istruttoria del Garante si legge: «Il complesso degli elementi consente di ipotizzare l’esistenza di un coordinamento tra le società coinvolte, volto a limitare il confronto concorrenziale tra le stesse nella partecipazione alle procedure per l’affidamento dei servizi di post produzione per la Rai e diretto alla ripartizione degli affidamenti». Per questo motivo l’Autorithy ritiene «che le condotte poste in essere dalle ditte sono suscettibili di configurare un’intesa restrittiva della concorrenza». «La Rai, dalla fine del 2011, ha abbassato l’importo a base d’asta da circa 47 euro all’ora a 35, questo ha creato molte difficoltà per le imprese che hanno dovuto ridurre ulteriormente le proprie offerte per aggiudicarsi le gare», così spiega ai funzionari del Garante l’amministratore della Siri Video, Silvio Ricci, illustrando il contesto in cui si sono svolte le gare. «Venuti a conoscenza di chiusura di aziende o di grandi difficoltà in cui versavano le società di post produzione, alcuni operatori del mercato, anche a seguito di scambi di opinioni informali avuti in occasione di incontri sporadici, hanno inizialmente reagito cercando di offrire prezzi più alti. Ma questa reazione non ha portato a risultati duraturi in ragione del fatto che ultimamente vi è stato l’ingresso sul mercato di nuovi operatori, anche a seguito della sollecitazione della Rai, che sul proprio sito ha invitato nuove società di post produzione ad iscriversi al proprio albo di fornitori». Secondo Roberto Mastroianni, direttore di produzione della “Mav television”, anche questa coinvolta nell’istruttoria, «nel 2012 alcune aziende sono state escluse dall’albo fornitori per debiti contratti, con uno stato di crisi del settore che ha raggiunto livelli insostenibili. Di conseguenza la totalità delle società operanti nel settore della Rai e non, si sono attivate per tentare di arginare il calo complessivo dei prezzi relativi ai servizi di post produzione richiesti». Mastroianni fa riferimento pure a incontri fra imprenditori in cui sono stati stabiliti i prezzi, indicati anche da una relazione che il Niba ha commissionato a Ernst&Young. «In effetti, nel periodo successivo i prezzi posti a base delle offerte formulate dai fornitori sono aumentati», spiega Mastroianni che rivolgendosi ai funzionati dell’Antitrust sostiene come «tutto questo sia veramente illogico: credo che la Rai stia abusando della propria posizione dominante sul mercato, portando le aziende ad uno stato di crisi difficilmente reversibile».

Rai Cinema, lo sperpero è kolossal. Mediazioni gonfiate, pellicole minori pagate milioni, telenovele ignote comprate a caro prezzo. Ecco gli sprechi folli di viale Mazzini su cui indaga la Procura, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Una scena di 100 metri dal Paradiso Rai Cinema è come “Blade Runner”: si vedono cose «che voi umani non potreste immaginare». Triangolazioni con piccoli produttori italiani che comprano decine di film da società ungheresi per rivenderli alla Rai a costo maggiorato, 600 mila euro dati a un falso broker con l’hobby della regia poi arrestato perché in odore di camorra, diritti di opere prime di perfetti sconosciuti pagati oltre un milione di euro, telenovela argentine (“El refugio”) acquistate con i soldi pubblici a prezzo (quasi) doppio rispetto a quanto speso in origine da società intermediarie. Senza parlare di milioni di euro investiti in librerie di pellicole spazzatura mai mandate in onda. Leggendo i documenti riservati che “l’Espresso” ha visionato si potrebbe sceneggiare una serie a metà tra il comico e il drammatico, anche se alla procura di Roma hanno poca voglia di scherzare. I pm, infatti, dal 2011 stanno cercando di capire se in Rai girino mazzette e se a Viale Mazzini esista un sistema simile a quello messo in piedi da Silvio Berlusconi e dal mediatore della Paramount Frank Agrama, che gonfiando i prezzi dei diritti televisivi delle pellicole hanno evaso milioni di euro e creato fondi neri in Mediaset. In attesa che i pm Barbara Sargenti e Pierfilippo Laviani arrivino a concludere l’istruttoria (per ora si ipotizzano solo alcuni reati di evasione fiscale da parte della Cbs, e nessun dirigente Rai risulta indagato) leggere alcuni contratti stipulati tra Rai Cinema e i suoi fornitori ti tiene comunque incollato alla poltrona. Studiando le carte molte scelte editoriali lasciano sbalorditi, tanto che anche la Corte dei Conti sta analizzando fatture e accordi per capire se è stato sprecato - come sembra - una valanga di denaro pubblico. Partiamo dal 2011. A luglio Paolo Del Brocco viene nominato amministratore delegato di Rai Cinema. Giovane e ambizioso, il dirigente conosce l’azienda come le sue tasche: alla nascita della spa è subito inserito nell’ufficio “Amministrazione e controllo” (l’ad al tempo era Giancarlo Leone), mentre nel 2007 il dg Claudio Cappon, prodiano di ferro, lo vuole nuovo direttore generale del settore. L’ultima promozione avviene sotto il berluscones Mauro Masi: Del Brocco ha relazioni istituzionali bipartisan, e viene scelto come nuovo numero uno di Rai Cinema al posto di Caterina D’Amico. Ad ottobre 2011 Del Brocco - forse immemore delle polemiche scatenate qualche mese prima a causa del milione di euro che Rai Cinema aveva regalato a Michelle Bonev, ai tempi molto vicina a Berlusconi, per i diritti di un film - decide di investire la bellezza di un milione e 75 mila euro per il pre-acquisto dei diritti del film “100 metri dal Paradiso”, un lungometraggio su un gruppo di atleti del Vaticano che partecipa alle Olimpiadi di Londra. Il regista è Raffaele Verzillo, autore di “Animanera”. «Niente di strano. Investire sugli esordienti è parte della nostra mission. “Smetto quando voglio” l’abbiamo pagato, mi sembra, 1,4 milioni». Nel cast di “Smetto quando voglio” dell’esordiente Sydney Sibilia, però, c’erano attori di cassetta come Neri Marcorè, Valeria Solarino, Pietro Sermonti e Libero De Rienzo, e a garanzia del progetto c’era un gigante come Procacci. La società di produzione di “100 metri dal Paradiso”, invece, si chiama Scripta. Fondata nel 2010 da Verzillo, suo fratello e l’attore (che sarà protagonista della commedia) Domenico Fortunato, ha come soci di maggioranza una piccola società di Viterbo, la Tecnomovie, e, a sorpresa, Luana Ravegnini, storica soubrette della Rai che ha abbandonato le scene dopo aver sposato un amico di Del Brocco, l’imprenditore Renato Della Valle. Un immobiliarista che Berlusconi volle come partner dentro Telepiù, ancora oggi vicinissimo all’ex premier. A fine 2011 Ravegnini e soci possono brindare: Rai Cinema ha sborsato oltre un milione, e non ha nemmeno preso tutta la quota dei diritti. Il milione copre solo una quota minoritaria, il 38 per cento, del territorio italiano. Quota che sale al 41 per cento nel 2012, quando Rai Cinema versa alla Scripta altri 50 mila euro. «Della Valle è un mio amico, lo conosco da qualche anno, ci siamo fatti pure gli auguri a Natale», ammette Del Brocco. «Il film ha incassato poco? È vero. Ma a parte gli incassi in sala l’abbiamo venduto alla pay e andrà in prima serata. Non abbiamo regalato i soldi a nessuno, sia chiaro. L’idea, poi, era geniale: pensi che pochi giorni fa ho spedito la pellicola a Papa Francesco». Del Brocco ha anche siglato il contratto del film “Ci sta un francese, un inglese e un napoletano” scritto e diretto da Edoardo Tartaglia, un falso broker con la passione per la celluloide che l’anno scorso è finito in manette perché accusato di riciclaggio e concorso esterno in associazione mafiosa. Il 2 agosto 2012 la Mitar Group ha stilato un pre-acquisto con Rai Cinema per 642 mila euro, di cui 316 mila per una parte della proprietà e 362 mila per i diritti free. Come “100 metri da Paradiso”, anche la commedia del promotore considerato vicino al clan Polverino ha avuto fondi extra e la dichiarazione di interesse culturale da parte del ministero delle Attività culturali. Le avventure finanziarie non si contano. Per acquistare due serie di una telenovela argentina, “El Refugio”, Rai Cinema ad agosto 2011 bussa la porta alla Fly Distribuzione tv controllata da tal Francesca Scaffardi, che a maggio ha comprato i diritti da una società inglese, la Tabarka Production Limited. Per la cronaca, Viale Mazzini chiede sempre alle società venditrici di spedire i contratti originali, in modo da dimostrare di essere davvero proprietari dei diritti di film e serie. Quasi sempre il prezzo è cancellato con il pennarello, in modo che la Rai non sappia quanto il prodotto è stato pagato all’origine. In questo caso, però, la cifra è facilmente leggibile: la Fly ha pagato ai britannici 521 mila euro per la prima serie e 480 mila euro per la seconda. Due mesi dopo Rai Cinema sborsa alla Scaffardi quasi il doppio: rispettivamente 912 mila e 875 mila euro. Un ricarico secco del 78 per cento. Mandata in onda su Rai Gulp, “El refugio”, costato in totale più di 1,7 milioni, è stato interrotto dopo poche settimane per scarsi ascolti. Speriamo che ai dirigenti vada meglio con “Digger” e “Galis Summer Camp”, due serie israeliane destinate alla rete per i più piccoli e comprata per oltre 1,2 milioni di euro. Il fortunato che aveva i diritti è un giovane produttore di Castellammare, Alberto Sammarco, che ha aperto la sua Remik Film appena sette mesi prima di fare affari con mamma Rai. Oggi la televisione di Stato guidata da Luigi Gubitosi spende per acquistare diritti televisivi e i cosiddetti “full right” circa 140 milioni di euro l’anno. «Molto meno dei 215 che avevamo a disposizione nel 2005», spiega Del Brocco. Si tratta comunque di somme enormi: dal 2000 ad oggi Rai Cinema ha investito in totale circa due miliardi di euro. Se una parte del budget è destinata alle major (è stato appena firmato con la Disney un accordo quadro triennale da decine di milioni; meno rilevanti i business con Cbs, Universal, Beta, Warner e Hbo), un altro pacchetto viene investito per contrattare con produttori “indipendenti”. Tra questi spuntano anche società ungheresi, che con Rai Cinema hanno un rapporto assai duraturo. Come la Fintage di Budapest, che nel 2000 (quando amministratore era Giancarlo Leone) ha venduto alla Rai una “libreria” di cento film per 4 milioni di dollari, tra cui titoli come “Gli occhi dietro il muro”, l’horror “Mountain top massacre” e altre meraviglie mai messe in palinsesto. Come si legge in una nota interna, sedici di queste opere avevano vari «difetti tecnici», colonne sonore indistinguibili, qualità video scarsa. Eppure Leone nel 2003 compra dalla Fintage anche la serie “Philly” per 770 mila euro, e più avanti, un pacchetto di 15 pellicole a 5,7 milioni. Dalla Fintage, dalla Gem (che a Budapest risulta domiciliata allo stesso indirizzo della Fintage) e dalla Free Way non ci va solo la Rai. In Ungheria fanno la fila anche alcune società italiane che poi rivendono i diritti alla nostra azienda di stato. Con un passaggio in più che, inevitabilmente, fa lievitare il costo sottoscritto dalla Rai. L’Italian International Film, fondata da Fulvio Lucisano, nel 2005 ha per esempio venduto alla Rai i diritti di cinque film a 3,8 milioni di euro, tra cui “Mona Lisa Smile” e “Animal”, pagato da Rai Cinema ben 500 mila euro: la Lucisano lo aveva preso dalla Fintage. Stesso giro per “I perfetti innamorati” o “La Famiglia omicidi”, il primo comprato dalla Fintage, il secondo dalla Freeway e poi venduti a Viale Mazzini. «Ogni titolo noi lo concordiamo con la Rai e con un altro ufficio acquisti, che si chiama “Palinsesto Tv”. Solo dopo il loro ok facciamo i contratti. È vero, ci sono società che commerciano diritti che comprano sui mercati internazionali e poi rivendono alle televisioni di tutta Europa. Se ci offrono prodotti interessanti, li compriamo. Non le chiamerei triangolazioni, e il rischio di ricarichi non esiste: i prezzi, semplicemente, li fa il mercato», ragiona Del Brocco. L’inchiesta su Rai Cinema è partita nel 2011 come costola di quella su Agrama e i fondi neri Mediaset. Se il fascicolo Mediatrade della procura di Roma è stato archiviato, il processo milanese ha invece portato alla condanna definitiva Berlusconi a 4 anni per frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita. Un processo nel quale fu coinvolto anche un uomo che è stato per sette anni direttore generale di Rai Cinema, Carlo Macchitella, ex uomo Fininvest passato in viale Mazzini nel 1999. Macchitella fu costretto a dimettersi nel 2007, quando la procura meneghina scoprì che - attraverso un conto corrente in Svizzera - al dirigente Rai erano arrivato 500 mila dollari bonificati da Daniele Lorenzano, suo ex collega in Fininvest, condannato in via definitiva insieme a Berlusconi. Macchitella, che non è mai stato indagato perché il suo reato sarebbe stato prescritto, ha poi aperto una società privata, ed è oggi produttore esecutivo di “Rex” che va in onda su Rai Uno. Chi siede ancora dietro una scrivania a Viale Mazzini è invece il suo ex braccio, Guido Pugnetti, oggi capo dell’ufficio acquisti di Rai Cinema. Nel 2007 anche lui fu sentito come test nel processo Mediaset: i magistrati lo chiamarono perché in una mail del 1994 un dirigente Fox aveva raccontato a una terza persona che Pugnetti in persona (ai tempi addetto agli acquisti per il Biscione) gli aveva descritto «l’impero di Berlusconi come un complicato gioco, che consiste nel prendere tre gusci di noci vuoti e nascondere sotto uno di essi il nocciolo di una ciliegia. Chi gioca deve indovinare dove il nocciolo è stata nascosto. L’obiettivo è evadere il fisco italiano». Se Pugnetti nega con forza che esista in Rai un “sistema Agrama” e Del Brocco i spiega che «l’inchiesta penale è praticamente chiusa», sembra evidente che qualche spreco dovrebbe essere evitato. Una delle aziende da cui Rai Cinema si rifornisce è, per esempio, quella di Andrea e Raffaella Leone, figli del grande regista Sergio. I due fratelli hanno rapporti ottimi con le major, e hanno venduto tra fine 2012 e inizio 2013 i diritti di film per una decina di milioni di euro: solo quelli di “The wolf of Wall Street” di Martin Scorsese sono stati pagati da 3,2 milioni. Ci può stare. Altri prodotti che finiscono alla Rai, però, la Leone Film Group (che ha piazzato di recente due pacchetti con decine di titoli) li compra dai soliti ungheresi, Gem e Freeway in primis. Se la tv pubblica ha acquistato dalla produttrice Barbara Dall’Angelo per 1,6 milioni «16 opere tv» tra cui una mezza dozzina di Lassie di fine anni ‘60 (a costo di saldo, stavolta: 12 mila euro l’uno), spesso e volentieri Rai Cinema si rivolge anche alla One Movie: negli ultimi tempi la società controllata da Riccardo Magnoni ha piazzato decine di film e incassato milioni. Nel 2012, per esempio, ha venduto nove lungometraggi a 650 mila euro, mentre altri 560 mila li ha fatturati nel 2011. Con l’ultimo contratto (altri 630 mila euro) la Rai ha preso da One Movie una ventina di titoli, molti provenienti dai magazzini delle solite società ungheresi. Nella lista spiccano il tailandese “La leggenda del guerriero Tsunami”, “Uccidi l’irlandese”, “Mr Simpatico” e “Bloodryne II”, il secondo capitolo di un film che durante i Razzie Awards 2006 (sorta di contraltare agli Oscar) ha collezionato cinque nomination come peggior film, peggiore attrice, peggior attore protagonista, peggior regia e sceneggiatura. Si rischia, se fosse mandato in onda, che la Rai perda - oltre a un po’ di soldi - anche qualche telespettatore.

"Siamo tutti puttane" non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il Siamo tutti puttane alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il ‘negoziare mai’, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il "Siamo tutti puttane" equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora Siamo tutti puttane è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di ‘Siamo tutti puttane’ non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempre accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la ‘prostituzione fisica’, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che ‘c’ha provato’ significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai ‘puttaneggiato’ ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.

Ecco a voi una lunga lista di dipendenti Rai legati da parentela o amicizia a qualche personaggio famoso. La Rai – azienda pubblica radiotelevisiva italiana – è da sempre alla mercé della politica, essendo spartita dai partiti e dai dipendenti stessi, i quali vi hanno messo a lavorare coniugi, fratelli, sorelle, figli, nipoti e amici, in barba a qualsiasi regola di selezione fondata sul merito. Interessato a scovare gli innumerevoli raccomandati, ho trovato sul Blog di Beppe Grillo un bel listone esauriente che riporta tutti i dipendenti Rai legati tramite parentela o amicizia a qualche politico, personaggio influente o semplice dipendente. Fa specie leggere come, anche rinomati moralizzatori come Enrico Berlinguer o Corrado Augias, abbiano piazzato la propria figlia. Tanto per citarne qualcuno. Nella lista non sono presenti i semplici impiegati e operai, altrimenti sarebbe molto più lunga. Dunque divertitevi a leggerla, magari cercando qualche giornalista o presentatore che abbia un cognome famoso per rilevarne l’effettivo legame di parentela. O magari qualche dipendente particolarmente scarso per capire se effettivamente è stato piazzato lì da un Santo in cielo.
Se conoscete altri raccomandati non presenti nella lista, non esitate a segnalarli. Buon divertimento. E se siete disoccupati o semplicemente pagate il canone Rai, buon rodimento.

Anno nuovo, canone nuovo. Come ogni anno è il caso di rinfrescare la memoria citando i numerosi raccomandati che ancora militano all'interno dell'azienda finanziata ancora oggi dall'odiatissimo (a ragione) regio decreto di epoca fascista. Non fatevi fregare da chi, come Vespa, sostiene che sia un'imposta vigente in tutti i paesi d'Europa: non c'è nulla di più falso, la verità è come sempre scritta a caratteri cubitali in rete. Ma non perdiamo tempo, avanti con la lista: l'elenco originario risale al 2011 e alcuni tra gli individui citati nel frattempo hanno fatto carriera, quindi mi sto dedicando ad aggiornarla aggiungendo i nuovi incarichi e rimuovendo chi, ahimé, ha abbandonato questa valle di lacrime. Se qualcuno vuole contribuire o è a conoscenza di aggiornamenti di qualsiasi tipo (o di qualche new entry) lo invito ad aggiungere le informazioni in suo possesso. Buona lettura! Così scrive Valerio De Sanctis su “Roma5stelle”.

FIGLI ECCELLENTI:

Tinni Andreatta, responsabile fiction di Raiuno e direttrice di RaiFiction, figlia di Beniamino, ex-ministro DC.

Natalia Augias, Gr, figlia del giornalista e scrittore Corrado.

Gianfranco Agus, inviato e conduttore in varie trasmissioni (es. "La vita in diretta"), nipote dell'attore Gianni.

Roberto Averardi, Gr, figlio di Giuseppe, ex-deputato PSDI.

Francesca Barzini, Tg3, figlia dello scrittore e giornalista Luigi junior.

Bianca Berlinguer, ex-conduttrice ed ora direttrice del Tg3, figlia di Enrico, ex-segretario del PCI.

Barbara Boncompagni, autrice, figlia di Gianni.

Claudio Cappon, due volte direttore generale, figlio di Giorgio, potente ex-direttore generale dell'Imi.
Antonio De Martino, Gr, figlio dell'ex ministro socialista Francesco.

Fabrizio Del Noce, Tg1, direttore Raiuno, figlio del filosofo Augusto.

Antonio Di Bella, direttore Tg3, figlio di Franco, ex-direttore del "Corriere della Sera".

Claudio Donat-Cattin, capostruttura Raiuno, figlio dell'ex-ministro democristiano Carlo.

Jessica Japino, programmista regista di tutte le edizioni di "Carramba", figlia di Sergio, compagno di Raffaella Carrà.

Giancarlo Leone, amministratore delegato di Rai Cinema e responsabile della Divisione Uno, figlio dell'ex-presidente della Repubblica Giovanni.

Marina Letta, contrattista a tempo determinato, figlia di Gianni, già sottosegretario alla Presidenza a Palazzo Chigi.

Pietro Mancini, Gr, figlio del socialista Giacomo.

Maurizio Martinelli ,Tg2, figlio del giornalista Roberto.

Stefania Pennacchini, Relazioni istituzionali Rai, figlia di Erminio, ex-sottosegretario DC.

Claudia Piga, Tg1, figlia di Franco, ex-ministro DC.

Francesco Pionati, notista politico del Tg1, figlio dell'ex-sindaco di Avellino, la cui assunzione, secondo quanto si narra, fu decisa durante una partita a carte di Ciriaco…

Alessandra Rauti, redattore del Gr, figlia di Pino, segretario del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore.
Silvia Ronchey, autrice e conduttrice di programmi, figlia di Alberto, ex-ministro dell'Ulivo ed ex presidente di Rcs.

Paolo Ruffini, direttore Gr, nipote del cardinale e figlio di Attilio, ex-deputato e ministro DC.

Sara Scalia, capostruttura di Raidue, figlia della giornalista Miriam Mafai.

Maurizio Scelba, Tg1, figlio di Tanino, ex-portavoce del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Mariano Squillante, ex-corrispondente da Londra, ora a RaiNews 24, figlio dell'ex-giudice Renato.

Giovanna Tatò, Raitre, figlia di Tonino, consigliere di Enrico Berlinguer.

Carlotta Tedeschi, Gr, figlia di Mario, senatore MSI.

Daniel Toaff, capostruttura e autore della "Vita in diretta'', figlio di Elio, l'ex-rabbino capo di Roma.

Stefano Vicario, regista preferito di Giorgio Panariello, figlio del regista cinematografico Marco.

Stefano Ziantoni, Tg1, figlio di Violenzo, ex-presidente DC della Provincia di Roma.

Flavio Fusi, TG3, Figlio dello scomparso Torquato, senatore PCI.

FIGLI RAI:

Rossella Alimenti, Tg1, figlia di Dante, ex vaticanista Rai.

Paola Bernabei, Ufficio stampa, figlia di Ettore, ex-direttore generale della Rai e proprietario della società di produzione Lux.

Giovanna Botteri, Tg3, figlia di Guido, ex-direttore sede Rai di Trieste.

Manuela De Luca, conduttrice Tg1, figlia di Willy, ex-direttore generale Rai.

Giampiero Di Schiena, Tg1, figlio di Luca, ex-direttore DC del Tg3.

Annalisa Guglielmi, sede Rai di Milano, figlia di Angelo Guglielmi, ex-direttore di Raitre.

Piero Marrazzo, conduttore di "Mi manda Raitre'', figlio dello scomparso giornalista Giò.

Simonetta Martellini, Raiuno, figlia di Nando, storico radiocronista sportivo.

Luca Milano, ex ufficio contratti e attualmente responsabile marketing, figlio di Emanuele, ex-direttore Tg1 ed ex-vicedirettore generale.

Barbara Modesti, Tg1, figlia dell'annunciatrice Gabriella Farinon e del regista Rai Dore.

Monica Petacco, Tg2, figlia di Arrigo, storico e consulente principe di programmi Rai.

Andrea Rispoli, Raidue, figlio del conduttore Luciano, già alla Rai.

Fiammetta Rossi, Tg3, figlia di Nerino, ex direttore del Gr2, ma anche moglie del potente ex-segretario dell'Usigrai, Giorgio Balzoni, oggi caporedattore al politico del Tg1.

Cecilia Valmarana, figlia di Paolo, uno dei padri del cinema coprodotto dalla Rai ("L'albero degli zoccoli'' di Ermanno Olmi), segue le orme del papà nella struttura di RaiCinema.

Paolo Zefferi, figlio di Ezio, giornalista e autore di fortunati approfondimenti, è a Rainews 24.

Francesca Orichuia, figlia di Carlo Orichuia (dirigente Rai)

Paolo Di Giannantonio, figlio di un ex onorevole della DC, tale Natalino Di Giannantonio

Alberto Angela, figlio di Piero

Diana De Feo, giornalista TG1, figlia di una dei primi direttori generali Rai e moglie di Emilio Fede.

FRATELLI E SORELLE:

Angela Buttiglione, direttore dei Servizi Parlamentari, sorella di Rocco, già segretario del CDU.

Nicola Cariglia, sede Rai di Firenze, fratello di Antonio, ex-segretario del PSDI.

Silvio Giulietti, telecineoperatore nella sede Rai di Venezia, fratello di Giuseppe, uomo Rai e Usigrai, ex-responsabile dell'informazione dei DS.

Max Gusberti, vice di Stefano Munafò a Raifiction, è fratello di Simona, capostruttura di Raidue.

Sandro Marini, Tg3, fratello di Franco, ex-segretario del PPI ed ex-Presidente del Senato.

Giampiero Raveggi, capostruttura di Raiuno, fratello dell'ideatore del programma "Odeon" Emilio Ravel (nome d'arte).

Antonio Sottile, programmista regista di "Linea Verde'', fratello di Salvo, portavoce di Gianfranco Fini.
Maria Zanda, capo della segreteria di Roberto Zaccaria, è sorella di Luigi, ex-responsabile dell'Agenzia del Giubileo.

Veronica Pivetti, attrice, sorella di Irene, già Presidente della Camera nelle file della Lega. Anch’ella appare spesso in Rai come opinionista.

MOGLI E MARITI:

Anna Maria Callini, dirigente alla segreteria di Raidue, è moglie di Gianfranco Comanducci, vice direttore della Divisione Uno e uomo dei contratti Rai.

Anna Cammarano, vice direttore delle Teche Rai, moglie di Paolo Bracco, della famiglia degli omonimi industriali farmaceutici.

Roberta Carlotto, direttore Radiotre, moglie dell'ex-esponente PCI Alfredo Reichlin.
Sandra Cimarelli, Palinsesto Raidue, moglie di Franco Modugno, direttore dei Servizi immobiliari Rai.
Alda D'Eusanio, conduttrice, vedova del sociologo del PSI Gianni Statera.

Antonella Del Prino, collaboratrice a "La vita in diretta", moglie del giornalista Oscar Orefice.

Simona Ercolani, autrice di programmi Rai, moglie del giornalista Fabrizio Rondolino, ex-portavoce di Massimo D'Alema.

Paola Ferrari, conduttrice, moglie di Marco De Benedetti.

Anna Fraschetti, vice del capo ufficio stampa Bepi Nava, è moglie di Mario Colangeli, vicedirettore Tg3, e sorella di Luciano, quirinalista Tg3.

Giovanna Genovese, delegata alla produzione, compagna di Sergio Silva, padre della "Piovra'' ed ora produttore in proprio con contratti blindati in Rai.

Ginevra Giannetti, consulente Rai International, è sposata con Altero Matteoli, AN, già ministro dell'Ambiente.
Giuseppe Grandinetti, Gr, è marito della ex-senatrice verde Loredana De Petris.

Francesca Manuti, produttrice di "Sereno variabile" di Raidue, moglie di Paolo Carmignani, vicedirettore Raidue.

Lucia Restivo, capo struttura Raidue, è moglie di Sergio Valzania, direttore Radiodue.

Daniela Rosati, conduttrice, ex-compagna di Adriano Galliani, passata in Rai in coincidenza con la separazione.
Anna Scalfati, Tg1, conduttrice di programmi, è moglie di Giuseppe Sangiorgi, membro dell'Authority ed ex-portavoce di Ciriaco De Mita.

Cristina Tarantelli, Servizi Parlamentari, è la moglie di Carlo Brienza, RaiSport.

Luca Giurato, conduttore su Raiuno, è sposato con Daniela Vergara, anchorwoman del Tg2.

Linda Lanzilotta, moglie di Franco Bassanini, già Ministro

Anna Serafini, deputata 10 volte, moglie di Fassino

NIPOTI:
Ferdinando Andreatta, dirigente di Rai- Way, nipote di Nino, ex-parlamentare DC.

Guido Barendson, conduttore Tg2, è nipote di Maurizio, l'ideatore di "Novantesimo minuto".

Giuseppe Saccà, nipote di Agostino, direttore di Raiuno, è nell'orchestra di Paolo Belli del programma di Raiuno "Ballando con le stelle".

Adriana Giannuzzi, ufficio Diritti d'autore, cognata dell'ex-senatore ed ex-membro del Csm Ernesto Stajano e moglie del vicedirettore della Divisione Due Luigi Ferrari.

Alfonso Marrazzo, Tg2, cugino di Piero, ex Presidente della Regione Lazio e giornalista Rai.

Marco Ravaglioli, Tg1, marito di Serena Andreotti, figlia di Giulio.

Tommaso Ricci, Tg2, cognato di Angela e Rocco Buttiglione.

Carlotta Riccio, regista, cognata di Claudio Cappon, direttore generale Rai.

Luigi Rocchi, dirigente area Business&development, genero di Biagio Agnes.

Laura Terzani, Tg3, nuora di Antonio Ghirelli.

AMICI CARI:

Bertilla Patruno Ambrosio, responsabile segreteria Raiuno, è nelle grazie di Roberto Di Russo, ex potente capo del personale.

Giorgia Caruso, conduttrice a Rai International, è sostenuta da Giancarlo Leone.

Laura Cason, Tg1, è apprezzata da Gustavo Selva, deputato di AN.

Teresa de Santis, capostruttura Raiuno, molto stimata da Maurizio Beretta, ex-direttore di Raiuno, passato alle Relazioni esterne Fiat.

Marilù Lucrezio, quella del bigliettino di Mario Landolfi denunciato da Gad Lerner, oggi al Tg1, è molto apprezzata da Massimo Magliaro, direttore di Rai International in quota AN.

Simonetta Martone, conduttrice e autrice, già compagna di Michele Santoro, è attualmente legata a Gregorio Paolini, l'inventore di "Target" passato da Mediaset alla Rai.

Francesca Montinaro, scenografa ed ex di Paolini, è stimatissima da Antonio Maccario, capostruttura di Raiuno.

"Sandra Steinert Jorge Santos" nuora di Agostino Saccà.

AGENZIA DELLE ENTRATE: SPRECO DA 50 MILIONI DI EURO.

Agenzia delle Entrate, 50 milioni di sprechi. L'ente diretto da Attilio Befera ha affittato un deposito con uffici a una cifra stratosferica. A beneficiarne, un'immobiliarista vicina al centrodestra e in ottimi rapporti con Mr. Fisco, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Il ritornello del governo è: i soldi pubblici non vanno sprecati. Per cui è sorprendente scoprire che l’Agenzia delle Entrate ha affittato in periferia di Roma un deposito di 50 mila metri quadri (più 600 di uffici) alla bellezza di 5 milioni di euro l’anno. Il contratto per la sede del Centro di gestione documentale è stato firmato nel 2010 e scadrà nel 2019, per un esborso complessivo superiore a 50 milioni: un’enormità. Tanto più che l’Agenzia - come ricorda in una nota l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici che ha monitorato il contratto - non ha alcuna intenzione di comprarsi l’immobile, nonostante la legge le permetterebbe di scomputare dal prezzo finale gli affitti già versati. «Il deposito è nato per gli atti dell’ufficio del registro, che prima erano conservati nelle sedi locali» spiega uno dei nove impiegati del centro. L’operazione è stata voluta dal gran capo dell’Agenzia Attilio Befera, mentre il proprietario dell’immobile è la Virgo romana immobiliare, società di cui è socia maggioritaria il cavalier Paola Santarelli. Un’immobiliarista vicina al centrodestra (Gianni Letta la stima molto, Gianni Alemanno l’ha voluta nel cda dell’Auditorium) e in ottimi rapporti con Befera: tant’è che, due anni fa, tra gli invitati al matrimonio di Mr. Fisco c’era pure lei.

Nessuno spreco da parte dell’Agenzia delle Entrate per il contratto di affitto dei depositi della Virgo Romana Immobiliare. L’operazione si inquadra in un progetto di razionalizzazione della struttura degli archivi dell’Agenzia che ha interessato l’intero territorio nazionale. Sono stati dismessi archivi condotti in locazione passiva, spesso non rispondenti ai requisiti sulle norme di sicurezza, concentrando la documentazione in un centro di gestione documentale che per caratteristiche tecniche si pone come punto di riferimento per la Pubblica Amministrazione. L’importo di 5 milioni annui non rappresenta un nuovo costo, ma sostituisce, riducendolo, un costo già sostenuto. Peraltro, l’operazione ha consentito di realizzare risparmi legati alla cessazione dei contratti di outsourcing  per oltre 1,5 milioni l’anno e consente di realizzare una conservazione di documenti in un’area soggetta a rigorosi controlli non assicurati da nessun soggetto privato. Il contratto di locazione è stato stipulato a seguito di un’indagine di mercato secondo le rigorose prassi utilizzate in Agenzia, il cui canone è stato periziato e ritenuto congruo dall’Agenzia del Demanio. Quanto al mancato acquisto dell’immobile, si segnala che l’operazione non può essere realizzata in quanto risulterebbe non coerente con l’attuale quadro normativo e regolamentare (Dl n. 98/2011 e Legge di Stabilità del 2013). Antonella Gorret, Agenzia delle Entrate.

LE TRUFFE RECORD ALLA SANITA’.

Truffe record e frodi alla Sanità. La carica delle false esenzioni. Dagli appalti ai falsi ricoveri, ai ticket. Stimato un danno erariale di un miliardo di euro. Interventi di chirurgia estetica presentati come salva-vita, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. C’è una voragine nei conti dello Stato provocata dalle truffe al servizio sanitario nazionale. Oltre un miliardo di euro di danni erariali causati dalle irregolarità compiute da medici e operatori, spesso d’accordo con i pazienti oppure con gli agenti assicurativi. Ma anche con le società farmaceutiche e con le aziende private che si occupano di commercializzazione di macchinari. E’ il clamoroso risultato dei controlli compiuti dalla Guardia di Finanza nell’ultimo anno. E le verifiche dei primi due mesi del 2014 sembrano confermare il trend visto che fino al 28 febbraio scorso sono già state segnalate alla Corte dei Conti 104 persone e l’ammontare delle perdite supera i 150 milioni di euro. Sono decine le tipologie degli illeciti e le più frequenti riguardano gli interventi di chirurgia estetica spacciati per operazioni su gravi patologie, i finti ricoveri di pronto soccorso nelle strutture private, le iperprescrizioni di farmaci.  Scoperti oltre 700 funzionari infedeli. Il dossier dell’Ufficio Tutela e mercato delle Fiamme Gialle guidato dal colonnello Giovanni Avitabile fornisce numeri e casi di un fenomeno che viene costantemente monitorato perché, come si sottolinea nella relazione «il controllo della spesa vista la sua particolare importanza nell’ambito del bilancio pubblico e le sue preoccupanti dinamiche di crescita, rappresenta una delle priorità inderogabili per il raggiungimento degli obiettivi di politica economica». E perché «la necessità di risanare i conti pubblici impone un’oculata attività di contenimento e razionalizzazione della spesa anche con una mirata attività di verifica finalizzata all’individuazione delle condotte negligenti o illecite che, consentendo sprechi, diseconomie o inefficienze, possono rappresentare una variabile sensibile nelle funzione di crescita delle uscite». I controlli si muovono sul doppio binario: all’indagine affidata ai nuclei territoriali, si affiancano i «protocolli di collaborazione con le Aziende sanitarie locali per ottenere uno scambio informativo e l’attivazione delle ispezioni». I dati forniscono il quadro: nel 2013 sono stati compiuti 10.333 controlli e 1.173 sono state le persone denunciate per un valore che supera i 23 milioni di euro. Ben più grave il capitolo delle richieste di risarcimento avanzate dalla Corte dei Conti: sono 177 le verifiche, 742 i funzionari pubblici sottoposti a procedimento, un miliardo e 5 milioni di euro il totale delle contestazioni. I falsi Drg e il day hospital. Si chiamano “Raggruppamenti omogenei di diagnosi” e servono a stabilire le tariffe per le prestazioni che vengono caricate sul Servizio Sanitario Nazionale. Proprio “truccando” i referti e quindi «facendo rientrare l’intervento nella categoria autorizzata oppure per la quale è previsto un rimborso superiore al dovuto» sono stati drenati centinaia di milioni di euro alle casse statali. Il caso più eclatante riguarda le operazioni di chirurgia estetica che invece vengono spacciate per interventi su gravi patologie, spesso addirittura tumorali. Le rinoplastiche fatte passare come settoplastica sono certamente frequenti, ma c’è anche chi si è rifatto il seno, le cosce, l’addome sostenendo di essere molto malato, addirittura in pericolo di vita. Qualche settimana fa sono stati indagati il primario dell’ospedale Villa Sofia di Palermo e alcuni alti dirigenti del nosocomio proprio con l’accusa di aver falsificato le cartelle cliniche di una decina di pazienti. Tecnica usata per ottenere illecitamente i rimborsi è anche l’attestazione di ricoveri in realtà mai avvenuti oppure gli interventi effettuati in ambulatorio per i quali si richiede invece il rimborso di day hospital. Sono escamotage apparentemente da poche migliaia di euro, ma moltiplicati per centinaia di migliaia di cittadini determinano un esborso spropositato. Farmaci e ticket sempre gratis. Un’indagine effettuata due anni fa in Lombardia dimostrò che a Milano un cittadino su cinque non pagava il ticket pur non avendo diritto all’esonero. Alla fine ben il 20 per cento degli assistiti risultò non in regola. La maggior parte aveva contraffatto i dati dell’autocertificazioni, il resto aveva ottenuto una attestazione compiacente. Il quadro fornito dagli analisti della Guardia di Finanza prova che a livello nazionale la situazione è analoga se non peggiore. Basti pensare che su 9.936 controlli effettuati, sono state trovate ben 7.972 posizioni “fuorilegge” che hanno provocato un “buco” nel bilancio statale di circa un milione di euro. Vuol dire 8 su 10, quindi una percentuale clamorosa. Ben più alto è il volume delle “uscite” causate dalla iperprescrizione di farmaci da parte dei medici di base. Storia emblematica è quella di Catania dove si è scoperto che «la emissione di ricette è di 7 punti superiore alla media nazionale senza che questo sia supportato da un quadro epidemiologico tale da poter giustificare l’eccessivo consumo». In cima all’elenco ci sono gli inibitori di pompa, le statine e gli antidiabetici, ma sono decine e decine le confezioni acquistate con l’esenzione senza che i pazienti ne avessero effettiva necessità. Nessuno eguaglia il dottore che ha prescritto 700 fiale di antibiotico alla moglie, ma a scorrere le denunce i casi eclatanti sono davvero tantissimi. Da tempo l’attività dei medici di base viene monitorata anche per quanto riguarda il numero dei “clienti”. Le verifiche per tutelare il settore della spesa pubblica hanno infatti evidenziato la presenza negli elenchi di persone emigrate all’estero o decedute. Secondo il rapporto stilato dal colonnello Avitabile «è necessario stimolare ulteriormente le competenti strutture sanitarie ad avviare in modo sistematico, a livello nazionale, una opportuna opera di bonifica e aggiornamento delle liste degli assistiti con conseguente rideterminazione degli importi spettanti ai medici e il recupero delle somme già percepite senza titolo dagli stessi». La lungodegenza e le finte emergenze. Il limite massimo stabilito dalla legge per la degenza parla di 60 giorni, dopo scatta la tariffa più bassa per il rimborso. Ma aggirare l’ostacolo per ospedali e cliniche convenzionate è evidentemente molto facile. Basta “frazionare” il ricovero e per il paziente a carico dello Stato la tariffa rimarrà sempre al massimo. Si tratta di un “sistema” illecito non facile da scoprire che provoca danni da milioni di euro. Prima della scadenza dei due mesi, il malato viene “dimesso” e accettato nuovamente qualche giorno dopo. In realtà in alcuni casi è accaduto che non si sia addirittura mosso dalla struttura. Ma le vie della truffa appaiono infinite. E così ci sono anche i «finti ricoveri eseguiti in regime d’emergenza da case di cura che sulla base del Piano sanitario Regionale non risultano in realtà abilitate. Numerose degenze sono state attivate in questo modo nonostante la clinica non fosse dotata di servizio di pronto soccorso. E nonostante la legge imponga questo tipo di reparto come condizione indispensabile per poter ricorrere a questa tipologia di ricovero». Macchinari e appalti truccati. Ci sono medici che utilizzano privatamente, facendosi pagare profumate parcelle, i macchinari comprati dalle strutture pubbliche. Uno dei casi più eclatanti, con un danno che supera i 200 mila euro, è stato scoperto in Abruzzo ed è stato citato dal procuratore regionale Fausta Di Grazia nella sua relazione di apertura dell’anno giudiziario. La magistratura contabile «ha agito nei confronti di un medico, docente universitario, per aver utilizzato privatamente, per alcuni anni, attrezzature diagnostiche acquisite con fondi della Regione e da quest’ultima rese disponibili all’Università de L’Aquila. Il danno complessivo attiene ai profili strettamente patrimoniali, al disservizio arrecato all’Università e all’Asl oltre che al pregiudizio d’immagine per la risonanza mediatica avuta dalla vicenda, a seguito della quale il convenuto è stato condannato anche in sede penale». Un capitolo che naturalmente provoca esborsi da milioni di euro è quello degli appalti pubblici. Sono decine e decine le inchieste aperte in tutta Italia, prima fra tutte spicca quella sulla Regione Lombardia con il disvelamento dell’accordo tra politica e imprenditoria. Tra i casi citati nel rapporto della Guardia di Finanza c’è quello che riguarda la Asl di Brindisi dove la Corte dei Conti ha evidenziato «l’alterazione, mediante vari e, a volte, sofisticati meccanismi fraudolenti, della libera concorrenza tra le imprese partecipanti alle gare per l’aggiudicazione dei lavori, con immediata ripercussione sull’entità della spesa sostenuta, a tutto personale vantaggio degli agenti pubblici coinvolti e delle imprese conniventi e a corrispondente grave detrimento del patrimonio pubblico, ove si consideri il cospicuo valore complessivo (circa 35 milioni di Euro) degli appalti oggetto di indagine».

I CARROZZONI DEI CONSORZI DI BONIFICA.

Carrozzoni da tagliare, nella lista di Renzi spuntano i consorzi di bonifica. Da Nord a Sud, i 137 enti sparsi sul territorio dovrebbero servire per prevenire inondazioni e frane. Ma spendono milioni l'anno per mantenere il personale amministrativo, mentre per le opere di messa in sicurezza non resta quasi nulla. Ora il premier vorrebbe chiuderli. Risparmio previsto? Mezzo miliardo di euro all’anno, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Il copione è ormai rodato: annuncio, cancellazione degli enti inutili della pubblica amministrazione e risparmio. La furia “da taglio” del premier Matteo Renzi prende di mira inefficienze e potentati del settore pubblico. Con un elenco che ogni giorno cresce sulla sua scrivania. «Sforbicia-Italia» è il nome del progetto per la soppressione, riforma, riorganizzazione di tutto quello che non funziona. Per maggio il segretario democratico ha promesso un intervento mai visto prima sul funzionamento della macchina statale: «Interverremo su tutte le sacche di micropotere e sottopotere, santuari che finora nessuno ha mai pensato di toccare, e non risparmieremo nessuno». Dopo il Senato, le Province, il Cnel ora nel mirino sono finiti i consorzi di bonifica. Cosa fanno? Dovrebbero curare i nostri fiumi, proteggerci dalle alluvioni e prevenire frane ed esondazioni che periodicamente colpiscono il Belpaese. Sono 137 (erano 175 fino a dieci anni fa)  e sono stati creati all’inizio del Novecento come organi di  autogoverno del territorio. Esempi di federalismo applicato alle acque: reinvestono quanto ricevono dagli enti locali e dai proprietari dei terreni agricoli come contributo di bonifica. Con un particolare: su oltre 500 milioni di euro all’anno che entrano in cassaforte, la metà se ne va per il personale e la burocrazia. Con uno strascico di scandali milionari e spese pazze. Tanti soldi e scarsi risultati. In Toscana i consorzi hanno un budget di 132 milioni di euro, 65 dei quali provengono dai contributi degli utenti, il resto da Regioni e Province. In media delle tasse pagate dai cittadini il 40-50 per cento se ne va in normale gestione. Con taglie extra-large: 26 membri per consiglio, con tanto di retribuzioni e gettoni di presenza, 156 consiglieri totali, 90 eletti e 66 nominati dagli enti locali. I presidenti incassano 33.500 euro lordi annui, mentre i consiglieri hanno un gettone di presenza di 30 euro lordi a seduta. Una burocrazia elefantiaca con un esercito di 501 dipendenti complessivi, di cui solo 166 sono operai. E come gestiscono questo denaro per arginare i fiumi e prevenire le frane? «Sui grandi appalti c’è l’obbligo di gara e vi partecipano 20 aziende ogni volta» spiega Paolo Bargellini, ex presidente del consorzio dell'Ombrone e del Bisenzio e ora commissario: «Con gli affidamenti minori cerchiamo di distribuire lavori in modo equo alle aziende fornitrici sul territorio. Sotto i 40mila euro la legge ci consente l'affidamento diretto, senza gara». Ora c’è una nuova legge regionale che, per risparmiare, ordina ai consorzi di assegnare «preferibilmente i lavori di manutenzione ordinaria agli imprenditori agricoli». Per capire come vengono spesi i soldi pubblici, lo scorso anno i magistrati contabili hanno cercato di mettere il naso in questi bilanci, con una sorpresa: «I consorzi di bonifica si sono rifiutati di documentare i conti» ha spiegato all’apertura dell’anno giudiziario il procuratore regionale della Corte dei Conti Angelo Canale. «Gli atti ci sono stati rimandati indietro e attualmente stiamo procedendo con istanze di resa di conto». Un muro contro muro tra pezzi dello Stato. Nell’isola si contano undici enti di bonifica che fanno funzionare impianti e distribuzione dell’acqua delle dighe. Costano alle casse della Regione Sicilia 120 milioni di euro all’anno e garantiscono un posto di lavoro ad oltre 2.500 impiegati. Ma tra un consorzio e un altro c’è un abisso per numero di addetti e ettari da dissetare. Nella montuosa Enna, con appena 6.800 ettari di campi, si contano ben 315 dipendenti. Un record che fa schizzare il consorzio al secondo posto per numero di lavoratori. Significa in pratica che per irrigare ci vuole in media un dipendente per appena 5 ettari. E peggio ancora fa il consorzio di Messina: qui addirittura un dipendente basta per appena due ettari. «Tutte queste spese», dice il segretario regionale della Cia siciliana, Carmelo Gurrieri - affrontate dalla Regione ogni anno, non bastano ad evitare la sete all'agricoltura siciliana, dove spesso saltano campagne di produzione per la mancanza d’acqua». C'è spazio anche per un primato assoluto in negativo: nel 2009 ci sono state due intere aree della provincia di Palermo, Polizzi Generosa e San Giuseppe Jato, che non hanno ricevuto un solo goccio d'acqua nei loro circa ottomila ettari di terreno coltivati. Colpa della fatiscenza delle reti idriche. Non va meglio a Catania, dove la Corte dei Conti ha aperto un'inchiesta su presunte assunzioni e consulenze clientelari per 70 milioni di danni erariali. Così gli enti pubblici nati per aiutare l’agricoltura sfuggono al controllo della Regione e si trasformano in carrozzoni clientelari. Non è solo una questione meridionale. A Bergamo l’indagine per truffa aggravata tocca l’ex assessore comunale Marcello Moro. Lui fino a dicembre 2012 è anche presidente dal Consorzio di bonifica della media pianura bergamasca. Secondo l'accusa si sarebbe fatto rimborsare una cena da oltre mille euro. A febbraio 2011 festeggiava San Valentino con l'ex attaccante dell'Atalanta Sergio Floccari e le rispettive mogli. Il banchetto a lume di candela viene pagato con la carta di credito del calciatore, ma poi Moro si sarebbe fatto consegnare lo scontrino e avrebbe chiesto e ottenuto il rimborso dal Consorzio. «Se l’episodio risultasse vero, potrebbe essere un errore dovuto a una mia svista», si è giustificato il politico del Pdl. Ma l'indagine solleva altri problemi: gli vengono congelati 200 mila euro di stipendio da presidente. Il sequestro di beni è stato richiesto dal pm Giancarlo Mancusi perché secondo la ricostruzione della Procura la busta paga (circa 275 mila euro lordi) e i rimborsi (21 mila euro) come boss del Consorzio tra il 2007 e il 2012 sarebbero stati un illecito profitto. Moro aveva soltanto sulla carta, ma non di fatto, i requisiti previsti dallo statuto dell’ente per essere eletto alla guida del consorzio. Una battaglia di carte bollate arrivata fino alla Corte di Cassazione, che ha rinviato gli atti a Bergamo, per una nuova udienza. Ora potrebbe pensarci Renzi, deciso a lavorare di forbici sui consorzi di bonifica ritenuti inutili o eccessivamente costosi.

PARLIAMO DELL’AUTHORITY ANTI SPRECHI, DEI DIPENDENTI DEL PARLAMENTO E DEGLI AFFITTI D’ORO DEGLI UFFICI DEI PARLAMENTARI.

Partiamo, svicolando un po’ dalla materia, dal Palazzo della Consulta, andando oltre l’aspetto dell’affitto. Sprechi d'oro alla Consulta: 514mila euro per le auto blu. Il palazzo della Consulta è d'oro. E non solo per gli stipendi dei giudici costituzionali. Ecco tutte le spese, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Il palazzo della Consulta è d'oro non solo per gli stipendi dei giudici costituzionali, che incidono per quasi 9 milioni sul bilancio di circa 64 previsto per il 2014. Pesano anche i costi della macchina istituzionale che serve al lavoro dei Quindici. E mentre infuriano le polemiche sui tagli del governo Renzi, ci si chiede se non debbano interessare anche questo organo costituzionale. L'Alta Corte è una sorta di repubblica indipendente, con autonomia e gestione domestica, spese enormi, 330 dipendenti in tutto (di ruolo e non), 44 carabinieri e 4 vigili del fuoco distaccati per la sicurezza, un suo presidio sanitario. Nel personale, tra i 58 comandati da altre amministrazioni ci sono i magistrati fuori ruolo, che aggiungono circa 1.300 euro netti al normale stipendio. Ognuno dei Quindici ha diritto a 3 assistenti e solo una minoranza è composta da professori universitari. Dunque i magistrati sono circa 35. E hanno le spese pagate di viaggio anche se risiedono a Torino o a Messina e vengono a Roma per coadiuvare i giudici costituzionali. Alla Consulta si lavora una settimana sì e una no, perché è «bianca», quindi si può avere questo ruolo anche se si vive lontano dalla capitale. «Indennità di Corte» è la parola magica. Gonfia le retribuzioni di chiunque lavori alla Consulta. Ecco perché entrare nel palazzo di fronte al Quirinale è molto ambito per le toghe, ma anche per impiegati e funzionari dello Stato. Nell'ultimo bilancio ammonta a 3 milioni lordi l'anno l'indennità solo per il personale comandato da ministeri o altri uffici pubblici. C'è da considerare che anche il segretario generale, il cui stipendio annuo lordo è attorno ai 300mila euro, è un magistrato della Corte dei Conti. In tutto i dipendenti sono 330, di cui 204 di ruolo: costano 27 milioni e 330mila euro l'anno di retribuzioni, spese per missioni (280 mila), uniformi (47 mila), formazione (52 mila), buoni pasto (319 mila)... Dentro a questa cifra ci sono anche i 210mila euro per 4 collaboratori a contratto, che guadagnano 50 milioni lordi l'anno e 500mila euro per i 16 incaricati, che hanno compensi di 31mila e 250 euro l'anno. Eppure, se si parla con chi lavora nel Palazzo della Consulta, assicura che gli stipendi non sono così d'oro come quelli di Camera, Senato e Quirinale. Rimane il fatto che di privilegiati si può ben parlare, soprattutto in tempi di crisi e spending review. Guardiamo il capitolo auto blu. Quelle della Consulta, con 2 autisti a rotazione per i Quindici e il segretario generale, non sono di proprietà ma a noleggio a lungo termine. In bilancio per questa voce, con assicurazione e parcheggi, figurano 514mila euro, mentre 146mila se ne vanno per il carburante e 8mila per manutenzione delle autovetture. Secondo lo studio del consigliere per la Pubblica amministrazione di Matteo Renzi, Roberto Perotti, vuol dire 750 euro al giorno per ogni illustre trasportato: «Costerebbe meno - dice l'economista - far viaggiare i giudici in elicottero». Altri 552mila euro servono per affittare macchine d'ufficio, come le stampanti e servizi documentali; 252mila euro per la struttura sanitaria ; 125mila per convegni, conferenze e cerimonie; 90mila per rilegatura libri e riviste; 32mila per traduttori e interpreti ; 24mila per convenzioni con Corti costituzionali straniere; 16mila per studi e seminari; altrettanti per spese di rappresentanza.

Un miliardo di sprechi. Ecco tutti i conti sugli immobili di Stato. Ha case per 281 miliardi e paga 1 miliardo in affitti. Nel patrimonio pubblico palazzi, caserme e chiese mancano trasparenza e una gestione redditizi. Il 40% delle pubbliche amministrazioni non ha comunicato l'ammontare del proprio patrimonio, scrivono Federico Fubini e Roberto Mania su “La Repubblica”. Lo stato italiano è fra i più grandi (e incapaci) gestori al mondo di case, palazzi, caserme, "fabbricati rurali", "opere destinate al culto". La Ragioneria Generale stima che questo patrimonio in mattoni abbia un valore che, unica eccezione in Italia, cresce in modo esplosivo nonostante la nostra lunga recessione: valeva 128 miliardi di euro nel 2008, più che raddoppiati a 281 miliardi nel 2012. Tolti, ovviamente, i beni artistici o archeologici. Una fortuna, solo questa, superiore a quella (cumulata) dei cinque uomini più ricchi del pianeta: gente come Bill Gates, Carlos Slim o Warren Buffett. Positivo, no? No. Perché soltanto lo Stato centrale "butta" ogni anno oltre un miliardo di euro per pagare gli affitti di sedi e di uffici. Ma anche perché nemmeno Palazzo Chigi, cioè il governo, o lo stesso Demanio "confessano" al Tesoro le proprietà che controllano, così che a nessuno salti in mente di provare a risparmiarci sopra qualcosa. Opacità. Così il mattone di Stato rischia di trasformarsi in un incomprensibile segreto di Stato. O più precisamente ancora, in un segreto fra le varie branche dell'amministrazione dello Stato. Possibile? A dire il vero, tutto era partito con le migliori intenzioni. Negli ultimi anni il Tesoro ha avviato un'indagine sul patrimonio della pubblica amministrazione. Si legge nell'ultima edizione, pubblicata (molto in sordina) un paio di mesi fa: "La conoscenza sistematica e puntuale degli attivi del patrimonio pubblico rappresenta un elemento indispensabile per orientare le decisioni di politica economica", cioè per la "valorizzazione" e la "redditività". E ancora: "La gestione efficiente del patrimonio pubblico può svolgere un ruolo importante per il contenimento del deficit e la riduzione del debito pubblico". Di lì il censimento: a tutte le amministrazioni è stato chiesto di registrare i propri beni al sole, immobili e terreni, su un portale del Tesoro. Di fronte a obiettivi del genere, ci sarebbe da aspettarsi un'adesione di tutti o quasi. Peccato che non sia successo. Informa lo stesso ministero dell'Economia che il 40% delle pubbliche amministrazioni non ha ancora comunicato l'ammontare del proprio patrimonio immobiliare. Non l'ha fatto Palazzo Chigi, se non per il 10% degli uffici coinvolti; l'hanno fatto solo in parte gli altri organi di rilievo costituzionali. Lo stesso Demanio ha omesso di notificare al Tesoro buona parte di quello che sa dei propri palazzi e dei propri terreni, malgrado che sia proprio il ministero dell'Economia a controllarlo.

L'Authority anti sprechi? Ci costerà 6 milioni l'anno. Alla Camera partono le selezioni per il nuovo "Ufficio di bilancio": tre consiglieri, un direttore e trenta dipendenti, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. L'avviso per la selezione dei candidati alla nuova (ennesima) Authority pubblica campeggia nella home page della Camera dei deputati. Non un bando di gara, né un concorso, ma un invito a «far pervenire le manifestazioni di interesse» per i posti in palio all'indirizzo mail di Montecitorio, che saranno poi selezionati dalle commissioni Bilancio di Camera e Senato e poi ratificate dalla Boldrini e da Grasso. I posti da ricoprire, in effetti, valgono la massima attenzione. Si parla di un consiglio di tre esperti, il cui presidente guadagnerà 301.000 euro l'anno, gli altri due 240.000 euro. Tutto previsto dalla legge n. 243 del dicembre 2012 (governo Monti) che istituisce questo nuovo «Ufficio parlamentare di bilancio» (Upb), un organismo «indipendente», anche se nominato dalla politica, le cui funzioni - si legge nell'avviso di selezione pubblicato dalla Camera - consistono in «analisi, verifiche e valutazioni relative alla finanza pubblica, all'impatto macroeconomico dei provvedimenti legislativi di maggior rilievo, alla sostenibilità della finanza pubblica» etc. Per razionalizzare la spesa pubblica, si crea un nuovo organismo, con un proprio budget nemmeno piccolo. L'Ufficio parlamentar di bilancio, che avrà sede «presso le Camere», non è composto soltanto da tre membri, di cui uno con funzioni di presidente, i cui compensi sono parametrati su quello del presidente dell'Agcm (Autorità garante della concorrenza e del mercato), pari come detto a 301.000 euro (gli altri due pari all'80% di quell'importo), tutti e tre incarichi di sei anni non rinnovabili, ma ci saranno anche uffici e personale alle dipendenze dei tre «commissari» al bilanci. «L'Ufficio - prescrive infatti l'articolo 17 della legge istitutiva - seleziona il proprio personale in piena autonomia, unicamente sulla base di criteri di merito e di competenza, con esclusivo riferimento alle esigenze funzionali». Nuove assunzioni a tempo indeterminato, paga sempre lo Stato, di cui si vuole controllare la dieta. «Il personale dell'Ufficio è composto da personale assunto attraverso pubblico concorso con contratto di lavoro a tempo indeterminato; personale delle amministrazioni del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché di amministrazioni pubbliche o di diritto pubblico, collocato fuori ruolo; personale selezionato attraverso procedure comparative pubbliche, per lo svolgimento di incarichi a tempo determinato, di durata non superiore a tre anni». Il limite è che il personale non superi le «trenta unità», ma solo per i primi tre anni. Passati quelli, «la dotazione di personale non può superare complessivamente le quaranta unità». Al funzionamento dell'Ufficio, poi, «sovraintende un Direttore generale, con specifica competenza ed esperienza in materia di economia e finanza pubblica», dunque un altro super stipendio, anche se la cifra non è fissata dalla legge ma sarà stabilito dai tre commissari. «A decorrere dall'anno 2014, è autorizzata la spesa di 3 milioni di euro in favore di ciascuna Camera da destinare alle spese necessarie al funzionamento dell'Ufficio». Quindi 6 milioni di euro l'anno (prelevati dai «Fondi di riserva e speciali» del Ministero dell'economia) per il super ufficio, una nuova Authority di nomina politica che, moltiplicando i costi, farà quel che dovrebbero già fare parlamentari e uffici ministeriali. Ma chi li selezionerà questi nuovi papaveri di Stato da 300mila euro l'anno di stipendio? La procedura, definita dai presidenti di Senato e Camera, è spiegata nell'«Avviso» sul sito di Montecitorio. Gli interessati «in possesso dei requisiti di riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economia e di finanza pubblica a livello nazionale e internazionale», devono inviare entro il 20 gennaio il loro curriculum. Dopodiché le commissioni Bilancio di Camera e Senato selezionano, a maggioranza dei due terzi dei rispettivi componenti, una lista di dieci candidati. A quel punto poi spetta ai presidenti di Camera e Senato «con proprio decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana» procedono alla scelta dei tre membri che costituiranno il Consiglio dell'Ufficio parlamentare di bilancio, e alla contestuale nomina del Presidente del suddetto Ufficio. Ovvero, un'altra dispendiosa Authority per controllare e ridurre la spesa pubblica.

L’altra casta: sprechi e privilegi dei dipendenti del Parlamento, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Stipendi da 10mila euro al mese. Più di duemila tra commessi, barbieri, segretari e dirigenti. Vizi e privilegi non sono garantiti soltanto ai parlamentari. Sono gli uscieri l’altra faccia della “Casta“, da 10 mila euro al mese. Un vero esercito, al quale si aggiungono tutti i commessi che lavorano tra Montecitorio e Palazzo Madama: . Lo svela il Giornale, citando un documento riservato del Senato, che mostra i numeri degli sprechi. Dai barbieri, agli stenografi, passando per dirigenti e segretari, fino agli assistenti e agli addetti alla buvette. Non manca proprio nessuno tra i palazzi che non conoscono crisi. Né sacrifici, anche perché, di fronte al rischio tagli, le tredici sigle sindacali si sono opposte compatte.

USCIERI E DIPENDENTI: TUTTI GLI SPRECHI – I numeri parlano chiaro. Tra Camera e Senato i dipendenti sono più di due mila: 800 a Palazzo Madama, 1540 a Montecitorio.  Insieme, tre volte più numerosi dei deputati: nel 2012 sono costati mezzo miliardo. E, leggendo gli stipendi, le cifre non riflettono certo i sacrifici fatti dal resto del paese, né i compensi di altre categorie. “C’è chi guadagna anche più del capo dello Stato Giorgio Napolitano”, spiega il Giornale. Nel documento, che risale alla fine dello scorso anno, sono riportati gli stipendi lordi dei dipendenti, gli scatti per ogni anno di lavoro, oltre che la simulazione della loro curva retributiva: “Ma sembra una linea retta, che vola verso i livelli standard di fine carriera”, si accusa. Come se fossero dei manager d’azienda. Il documento nasce dal tentativo studiato di abbassare i costi del personale, portando da 27 mila a 21 mila euro il livello di fine carriera. Ma, per il Giornale, le barricate fatte dai sindacati hanno impedito di operare una drastica riduzione delle spese. Il quotidiano presenta alcuni esempi, analizzando le diverse fasce: “Partiamo dal grado più basso, quella di«assistenza tecnico- operativa», cioè i commessi, o i famosi barbieri. Appena arrivati hanno un lordo di 2.482 euro al Senato e 2.338 euro alla Camera. Ma dopo soltanto 12 mesi, per contratto,scattano rispettivamente a 2.659 euro e 3.199, e ogni anno guadagnano di più, inesorabilmente, recessione o non recessione, crisi o non crisi. Con 40 anni di anzianità l’ultimo stipendio dell’usciere è di 10.477 euro lordi mensili (aumentato del 400% rispetto all’inizio carriera), che moltiplicati per 15 mesi fanno 157.500 euro all’anno, come un dirigente di una grossa azienda. Poi ci sono anche gli addetti amministrativi, come le segretarie e coloro che hanno il compito di fare fotocopie e inviare le convocazioni per le commissioni: in questo caso gli stipendi superano a fine carriera i 12 mila euro al Senato (poco meno alla Camera), partendo da una base di 3 mila euro circa. E i funzionari? Arrivano fino a 17 mila euro, mentre i dirigenti toccano i 27 mila. Anche Marzia Maglio di Ballarò aveva scovato numeri simili per i 1540 dipendenti della Camera: in media, si passa da compensi da 67 mila euro annui (per il livello più basso) fino a 167 mila euro (per i consiglieri parlamentari). E come dimenticare i 406.399 euro del segretario generale di Montecitorio. Cifre irreali per troppi italiani. Non mancano nemmeno le maxi-liquidazioni: “Al segretario generale di Palazzo Madama – Antonio Malaschini, ndr – sono andati un milione e 200mila euro, quando ha lasciato l’incarico”, continua il Giornale. Una buonuscita che si aggiunge alla pensione di 520 mila euro annui. E proprio il sistema pensionistico rappresenta un’altra isola felice, rispetto alla scure Fornero: “Gli esodati non esistono, anzi si va in pensione a 51anni, e con una penalizzazione ridicola, dall’1% al 4,5% massimo sull’ultimo stipendio”, conclude l’articolo del Giornale.E la media dell’età di chi chiede di andare in pensione al Senato tocca soltanto i 55 anni. In pratica, la Casta è ampia e non è composta di soli politici: altro lavoro in vista per i neo presidenti delle Camere Grasso e Boldrini, che, dopo essersi decurtati lo stipendio, hanno annunciato la volontà di ridurre i costi. Incomprensibili di fronte alla sofferenza di un paese ancora in recessione.

Riccardo Fraccaro, deputato membro dell'Ufficio di presidenza è stato incaricato di raccogliere i dati sulle spese di Montecitorio: "Abbiamo incontrato un muro di gomma. Nessuno vuole che si tocchino questi privilegi". Ecco la presentazione del primo dossier a 5 Stelle sull'argomento con un'ipotesi di riduzione, scrive Martina Castigliani su “Il Fatto Quotidiano”. Una Camera “oscura” di conti, stipendi e privilegi intoccabili al prezzo di 280 milioni all’anno. Il Movimento 5 Stelle racconta così l’entrata nelle istituzioni e il tentativo di realizzare uno dei punti chiave del loro programma: l’abbattimento dei costi della politica. Tetti retributivi e tagli alle indennità, l’ipotesi di riduzione delle spese è già sul tavolo dei parlamentari a 5 Stelle. E’ l’impresa che sognano, ma che ha già una prima difficoltà: la resistenza dei protagonisti. “Non volevano darci i dati ufficiali, siamo stati ostacolati in tutti i modi”, raccontano i deputati. Riccardo Fraccaro, membro dell’Ufficio di Presidenza e del Comitato per gli Affari del personale è stato il parlamentare incaricato di raccogliere le informazioni, ma il risultato è stato “trovare un muro di gomma” e uno status quo difficile da toccare. “Fraccaro”, ha denunciato Beppe Grillo sul blog, “ha chiesto di conoscere il trattamento retributivo nominativo percepito mensilmente da tutti i dipendenti appartenenti alle diverse qualifiche. Gli è stato risposto che in capo al deputato non esiste “un interesse giuridicamente rilevante alla conoscenza dei dati”. All’appello mancano stipendi nominativi e il curriculum vitae dei dipendenti:”Nelle ultime ore”, ha dichiarato Riccardo Fraccaro, “è arrivata l’autorizzazione a pubblicare gli aumenti di stipendio e ci hanno dato accesso a 91 curriculum strutturali. E’ un passo avanti, ma non basta. Continueremo a chiedere”. Gli eletti a 5 Stelle hanno deciso di pubblicare un dossier sui costi di Montecitorio prima di affrontare la questione nell’ufficio di presidenza. “Noi pensiamo”, ha continuato il deputato Fraccaro, “che questa crisi si debba combattere chiedendo a chi ha di più di dare di più. E possiamo farlo solo chiedendo coerenza. Vediamo quello che ho scoperto: il costo per il personale è di 280 milioni di euro. Per i dipendenti in pensione 220 milioni di euro. Se aggiungiamo le spese per i parlamentari, quasi 2\3 del bilancio della Camera è destinato a pagare dipendenti di Montecitorio”. Le proposte di riduzione e trasparenza sono state in parte accolte dagli altri partiti: “Il problema è che non hanno intenzione di essere efficaci veramente, ma vogliono fare scelte di facciata. Ho chiesto di vedere i curriculum, ma si sono opposti Pd e Sel. La Boldrini ha scelto invece di pubblicare le curve retributive fino al 35esimo anno di carriera, ma si tratta di una presa in giro: gli stipendi aumentano automaticamente e senza merito”. Secondo Fraccaro, l’intervento annunciato sulle curve retributive “non intacca i diritti acquisiti e i tagli si applicheranno solo ai futuri dipendenti e per quelli attuali non è stata accettata neppure l’introduzione di un tetto massimo. “Tra le proposte che abbiamo avanzato, c’è quella di inserire il merito nell’aumento di stipendio. Provvedimenti sono stati presi sulle ferie, maggiori rispetto ai dipendenti pubblici al di fuori della Camera. Un’altra battaglia: divieto di cumulare le pensioni con ulteriori incarichi. Poi temporaneità degli incarichi e dei vicesegretari generali. Temporaneità che permette di non creare poli di potere“. La denuncia del Movimento 5 Stelle riguarda tutta l’attività parlamentare. “L’ufficio di presidenza”, ha aggiunto Luigi Di Maio, vice presidente della Camera, “non ha fatto che approvare privilegi. Tanti i capitoli da affrontare. Intanto i vitalizi ci costano 91,8 milioni di euron e con la nostra proposta di stipendi ridotti potremmo risparmiare 42 milioni di euro”. Per stipendi e pensioni di dipendenti, parlamentari ed ex vanno via 784 mln l’anno mentre gli stipendi apicali dei consiglieri ammontano a quasi 400mila. C’è poi il capitolo dell’affitto degli immobili, che costa alla Camera, “dunque ai cittadini, 30 milioni di euro l’anno”. Soldi spesi, a detta dei 5 Stelle, in barba a possibili e semplici risparmi. “Gli uffici degli ex presidenti Bertinotti e Fini sono incredibilmente ancora qui: 10 stanze del Theodoli-Bianchelli. Senza dimenticare gli appartamenti dei questori: la scorsa legislatura erano a palazzo Marini 1, edificio poi dismesso, ci si è affrettati ad adeguare il nuovo palazzo: costo 200 mila euro. Inizia nuova legislatura: li dismettiamo”. Spazi che Di Maio propone di utilizzare per farli diventare uffici, aspettando che scadano i gli affitti senza possibilità di recesso..Tanti gli sprechi denunciati: “Qui dentro si stampano atti parlamentari per 9 milioni di euro, è giunto il momento di informatizzarci. Si spendono ogni anno 4 milioni per l’acquisto software, noi proponiamo di usare i software open source. Poi l’assicurazione per la vita ci costa 110 milioni di euro. Si regge sui contributi dei parlamentari” . Nel dossier presentato alla stampa anche una lista di proposte: “Noi vogliamo aggredire i diritti acquisiti. Non lo dico solo per la Camera dei deputati. I vitalizi ad esempio sono una spesa enorme e credo che potremmo affrontare un ricorso per l’abolizione. Se non cominciamo, scarichiamo sempre sulla generazione futura”. Ci sono poi le erogazioni ad enti esterni: 100 mila euro per il circolo di Montecitorio, 20 mila per il rettore della Chiesa San Gregorio Nazianzeno, 260 mila per l’Unione Interparlamentare. Altri risparmi, secondo il dossier, si potrebbero ottenere intervenendo sui contributi alle assicurazioni dei parlamentari e tagliano di qualche punto percentuali altre spese: per esempio, 7,1 milioni di euro l’anno per le pulizie, 3,8 per la gestione dei servizi informatici più altri 3,1 per la manutenzione software ed hardware, 3 milioni di euro per l’ufficio stampa.

Ecco i primi dati che il Movimento 5 Stelle ha potuto consultare:

Il personale e i livelli retributivi. I dipendenti pubblici in servizio alla Camera sono 1521, divisi in cinque livelli a cui corrispondono diverse retribuzioni.

Al quinto livello troviamo 183 consiglieri parlamentari: 121 generali, 33 con la funzione di stenografi, 18 bibliotecari e 8 tecnici. Questi arrivano a guadagnare fino a 400 mila euro lordi all’anno a fine carriera, dopo 41 anni di servizio. Cominciano guadagnando € 2.920,44 netti al mese, e poi ogni due anni scatta l’aumento di stipendio. Così dopo 25 anni passano a 341, 947 annuali lordi. A cui si aggiunge, per 170 circa di loro, l’indennità di funzione che aumenta secondo il grado. Si parte con circa 3900 euro lordi per il segretario generale fino a scendere sui 600 euro mensili per le qualifiche minori.

Il quarto livello invece riguarda 293 dipendenti pubblici, che comprendono documentaristi, tecnici e ragionieri. Cominciano con uno stipendio di € 1.876,57 netti al mese e dopo 25 anni hanno un guadagno pari a 227 786 lordi all’anno. E a fine carriera arrivano a quasi 270mila euro. Senza dimenticare che 139 di questi godono di un aggiunta mensile, ovvero dell’indennità di funzione.

Il terzo livello: comprende  777 dipendenti che svolgono la professione di segretari, assistenti di settore, infermieri di reparto, coordinatori. Il loro stipendio è di 40 968 euro lordi iniziali all’anno per poi crescere fino a 167 400 euro a fine carriera. Di questi, 118 hanno lo stipendio aumentato grazie all’indennità di funzione.

Il secondo livello è composto da 262  persone tra segretari, assistenti parlamentari, collaboratori tecnici. La retribuzione iniziale è di circa 40mila euro all’anno lordi e a fine carriera arriva a 156mila euro circa. 

Il primo livello sono invece gli operatori tecnici. Un assunto risulta alla Camera, che guadagna dopo 25 anni circa 35 644 euro lordi.

Indennità. La proposta dei 5 Stelle riguarda anche la riduzione dell’indennità di funzione percepita dai dipendenti di Montecitorio. La spesa attuale complessiva arriva a 4 150 334, 16 euro lordi e l’idea è quella di dimezzarla a 2 594 534, 53 con riduzioni che vanno dal 70% per il segretario generale fino al 30% per i vice assistenti.

Palazzo Marini, 32,5 mln di euro l’anno di affitto ma dentro non c’è nessuno. Viaggio nella sede degli uffici dei parlamentari, scrive Jacopo Storni su “Il Corriere della Sera”. C’è un silenzio sepolcrale dentro Palazzo Marini. Stanze vuote, immacolate. Corridoi deserti. Riecheggiano i passi. Se suona il telefono, rimbombano gli squilli. È la sede degli uffici dei parlamentari, che però qui non vengono quasi mai. Oltre 300 stanze per 400 deputati. E poi sale conferenze, sale riunioni, segreterie, librerie, decine di bagni, volte affrescate, colonne marmoree. Diecimila metri quadrati suddivisi in tre prestigiosi complessi immobiliari. Computer in ogni stanza, televisione anche, poltrona in pelle, scrivania, telefono, stampante, fax. Buona parte inutilizzati. Solenni porte in legno, sontuose finestre con vista. Fuori scorre Roma. Via del Tritone, Piazza San Silvestro, via Poli. C’è la Fontana di Trevi a due passi. Scorrono i turisti e scorre il traffico. Qui dentro invece è tutto immobile. Non vola una mosca. Raro imbattersi in qualche parlamentare. Raro trovare anche qualche loro assistente. Soltanto a volte, una voce in lontananza squarcia il silenzio. Scenario simile in quasi tutti i giorni della settimana. Vigilanza e metal detector al piano terra, due custodi ad ognuno dei cinque piani. Passano il tempo a fare i cruciverba. Addetti alle pulizie alla fine della giornata, ma non c’è molto da pulire dentro questo lindo e deserto Palazzo Marini. Eppure costa, e parecchio: 32,5 milioni di euro l’anno di affitto, compreso lo stipendio dei circa 300 addetti ai servizi. Affitto d’oro, pagato dallo Stato alla società Milano 90 dell’imprenditore romano Sergio Scarpellini. Circa 500 milioni di euro per quasi vent’anni, 80mila euro annui per ogni deputato. Che però qui non ci viene mai, o ci viene raramente. Eppure lo Stato continua a pagare. Sborsa denaro pubblico dal 1997, da quando l’allora presidente della Camera Luciano Violante firmò con Scarpellini un affitto ventennale senza clausole di recesso (e senza gara pubblica). Ecco perché tutt’oggi, nonostante la conclamata lotta allo spreco e le battaglie di alcuni politici, resta complicato interrompere il contratto che arriva fino al 2018. C’è il rischio che il locatario, in questo caso lo Stato, vada incontro a sanzioni e che, conseguentemente, il costo dell’affitto lieviti ulteriormente. Eppure per uno dei quattro complessi di Palazzo Marini (il cosiddetto Marini 1) è stato possibile recedere il contratto, tre anni fa. Niente da fare, almeno per ora, per Marini 2, 3 e 4. E pensare che, originariamente, i contratti d’affitto arrivavano fino al 2036, poi però a settembre la Camera ha fatto dietrofront e ha deciso di interrompere gli affitti nel 2018. Ma c’è chi, in merito al recesso dei contratti, avanza perplessità di altro tipo, preoccupandosi del fatto che i parlamentari rimarranno senza ufficio. Dicono che Montecitorio sia troppo piccolo per ospitare tutti gli onorevoli. Dicono che gli uffici di Palazzo Marini servono. Ma allora, perché sono sempre mezzi vuoti?

Affitti d'oro, le spese e gli sprechi dello stato italiano. Nel decreto Milleproroghe Torna la norma per abbattere i canoni di locazione pagati dagli enti pubblici: una voce che pesa più di 1 miliardo all'anno sulle casse dello stato, che invece utilizza male gli immobili di sua proprietà, scrive Andrea Telara  su “Panorama”. Via libera del Consiglio dei Ministri alle norme contro gli affitti d'oro. Con l'approvazione del Decreto Milleproroghe, il governo ripristina infatti un provvedimento di legge che ha lo scopo di abbattere i canoni di locazione pagati dagli enti pubblici e che lascia dietro di sé una lunga scia di polemiche. La questione è stata a lungo dibattuta nelle ultime settimane e ha dato vita a non pochi scontri in Parlamento. Una norma contenuta nel Decreto Salva-Roma e voluta dal Movimento 5 Stelle, infatti, ha cercato di cambiare le regole sugli immobili presi in affitto dagli enti statali, consentendo alla pubblica amministrazione di recedere in tempi brevi dai contratti troppo onerosi, con un semplice preavviso di soli 30 giorni. Secondo il movimento fondato da Beppe Grillo, però, c'è un emendamento contenuto nella Legge di Stabilità e voluto da alcuni deputati del Pd, che vanifica di fatto questa norma. Da qui, sono nate le proteste dei parlamentari grillini, che hanno accusato la maggioranza di voler favorire i palazzinari romani e in particolare il costruttore Sergio Scarpellini, proprietario della società Milano 90, che affitta diversi immobili alla Camera dei Deputati, per ospitare gli uffici degli onorevoli. In quasi diciotto anni, i canoni di locazione riscossi da Scarpellini sono costati alle casse pubbliche circa 444 milioni di euro. Con lo stop al Decreto Salva-Roma voluto dal presidente della Repubblica Napolitano, la questione degli affitti d'oro è stata rimandata a dopo Natale, con la promessa del governo Letta di risolvere il problema. Ora, con l'approvazione del decreto Milleproroghe di oggi, l'esecutivo torna al punto di partenza e stabilisce di nuovo la possibilità per la pubblica amministrazione di recedere in tempi brevi dai contratti di affitto troppo onerosi. La speranza è che questo cambiamento di rotta sia l'occasione giusta per un utilizzo più razionale degli immobili pubblici, di cui si parla da almeno un paio d'anni. Come vi avevamo già raccontato , l'Agenzia del Demanio ha calcolato in oltre 10mila il numero di immobili oggi affittati dallo stato centrale, per una superficie di ben 11,3 milioni di metri quadrati. Tutti i contratti di locazione costano nel complesso alle casse pubbliche la “modica cifra” di ben 1,2 miliardi di euro. Si tratta di una voce di costo che probabilmente è molto sottostimata, poiché non include i dati sui fabbricati degli enti locali, come i Comuni e le Regioni. Di per sé, la spesa di 1,2 miliardi per gli affitti non sembra una enormità, almeno in rapporto alle dimensioni dell'intero bilancio pubblico. A ben guardare, però, si tratta di un grande spreco di soldi se si considera che lo stato italiano possiede un patrimonio immobiliare immenso, che viene mal utilizzato. Nel nostro paese, infatti, i fabbricati della pubblica amministrazione hanno una superficie media per addetto (cioè a disposizione di ogni impiegato) pari a ben 50 metri quadri, contro gli appena 20 metri quadri che si registrano nel resto d' Europa. Visto che gli spazi abbondano, dunque, sembra assurdo che lo stato butti via più di un miliardo di euro all'anno per pagare gli affitti.

Gli affitti intoccabili dei palazzi del potere. Il Senato cancella il recesso a tempo di record. Quindici anni fa la Camera stipulò senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. «L’articolo 2-bis del decreto legge 15 ottobre 2013, n. 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013, n. 137, è soppresso». Chi ancora ha il coraggio di sostenere che il nostro sistema legislativo è lento e macchinoso si dovrà ricredere davanti a questo capolavoro di Palazzo Madama. Dove è stata cancellata al volo una norma che lo stesso Senato aveva approvato sorprendentemente soltanto sei giorni prima. La cosa era passata nel silenzio generale fra le pieghe di un provvedimento battezzato «manovrina», grazie a un emendamento presentato alla Camera dal deputato del Movimento 5 Stelle Riccardo Fraccaro. Testuale: «Le amministrazioni dello Stato, le Regioni e gli enti locali, nonché gli organi costituzionali nell’ambito della propria autonomia, hanno facoltà di recedere, entro il 31 dicembre 2014, dai contratti di locazione di immobili in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Il termine di preavviso per l’esercizio del diritto di recesso è stabilito in trenta giorni, anche in deroga a eventuali clausole difformi previste dal contratto». Una bomba. Con un bersaglio preciso, come dimostra il passaggio sugli «organi costituzionali»: i palazzi Marini, quegli stabili che ospitano gli uffici dei deputati, presi in affitto con il meccanismo del «global service» dall’immobiliarista e grande allevatore di cavalli Sergio Scarpellini, munifico elargitore di contributi liberali ai partiti di destra e sinistra. È un’operazione che ha origine alla fine degli anni Novanta quando la Camera, d’accordo centrosinistra e centrodestra, decise di stipulare senza gara una serie di contratti con la società Milano 90, che metteva a disposizione di Montecitorio quattro immobili e relativi servizi. A un prezzo, oltre 500 euro annui al metro quadrato, tale da ripagare abbondantemente i mutui bancari contratti dal privato per acquistare le mura. Fatto sta che la Camera avrebbe speso in 18 anni ben 444 milioni solo per i canoni d’affitto, senza ritrovarsi in tasca un solo mattone. Una vicenda divenuta ben presto l’emblema degli sprechi del Palazzo, contro cui si erano scagliati a ripetizione con interrogazioni e denunce pubbliche i radicali. Ma inutilmente. Come inutili si erano rivelati i mal di pancia avvertiti da molti parlamentari consapevoli dell’abnormità della storia. A tutti era stato risposto che non c’era niente da fare: i contratti andavano rispettati e amen. Dopo molti sforzi si era riusciti a disdettarne almeno uno. E l’emendamento Fraccaro, divenuto legge il 13 dicembre scorso a Palazzo Madama con l’approvazione senza modifiche della «manovrina» uscita da Montecitorio, avrebbe fatto cadere tutti gli ostacoli per la rescissione degli altri tre, che pesano sulle casse pubbliche 26 milioni per i soli canoni. Se però il giovedì seguente non fosse stato recapitato in Senato nella leggina di conversione di un decreto sulle «misure finanziarie urgenti in favore di regioni ed enti locali», un provvidenziale emendamento che sopprime quella disposizione passata sempre al Senato il venerdì precedente. Modifica prontamente approvata dalla maggioranza senza battere ciglio: con qualche voto in più, sembra, rispetto a quelli prevedibili. La battaglia si sposta adesso alla Camera, dove Fraccaro riproporrà tale e quale la norma bocciata. Ma intanto il segnale arrivato dalle Larghe intese, per paradosso proprio mentre Matteo Renzi, il nuovo segretario del Pd loro principale azionista dichiara pubblicamente guerra ai costi della politica, si può interpretare in modo inequivocabile: gli affitti dei palazzi del potere non si toccano. Altra motivazione non ci sarebbe. E l’impronta digitale della maggioranza, del resto, è facilmente riconoscibile. L’emendamento porta la firma della relatrice del provvedimento, circostanza che qualifica l’emendamento come iniziativa non personale. Ma essendo la senatrice del Pd Magda Zanoni esperta di contabilità statale, visto che il suo curriculum la qualifica come «consulente di bilanci pubblici», certo non ne può ignorare le conseguenze. E cioè che oltre a mettere in pericolo i contratti blindati e dorati dei palazzi Marini, quella perfida norma grillina consentirebbe a molte amministrazioni di liberarsi di onerosi contratti incautamente sottoscritti senza clausola di recesso: è appena il caso di ricordare che spendiamo circa 12 miliardi l’anno per gli affitti degli uffici pubblici. Chissà perché nessuno ci aveva pensato prima.

Vi racconto lo spreco degli affitti d’oro in Parlamento, scrive Giancarlo Paglierini su “L’Intraprendente”. L'ex capogruppo leghista a Montecitorio racconta punto per punto la vergogna delle locazioni per ospitare i parlamentari. Un circolo di potere volto a favorire i soliti noti, ovviamente a nostre spese. Ogni tanto qualcuno si ricorda dei cosiddetti “affitti d’oro” pagati dalla Camera dei Deputati. Leggo sul Corriere della Sera di Sabato 21 Dicembre che se n’era ricordato il deputato Fraccaro del Movimento 5 Stelle: in ottobre era riuscito a fare approvare nella cosiddetta “manovrina” un emendamento che avrebbe consentito alla Camera dei deputati di recedere entro il 31 Dicembre 2014 dai contratti di locazione in corso «anche in deroga a eventuali clausole difformi prevista dai contratti». Dopo l’approvazione alla Camera, quella legge, compreso l’emendamento Fraccaro (articolo 2 bis) era stata approvata anche dal Senato pochi giorni fa, venerdì 13 Dicembre. Tutto a posto? Grazie ai 5 Stelle Montecitorio potrà recedere senza penali da contratti di affitto considerati molto onerosi? Nemmeno per sogno, perché sei giorni dopo, il 19 Dicembre, il Senato ha corretto sé stesso a tempo di record approvando l’emendamento della senatrice Pd Magda Zanoni: «L’articolo 2-bis del decreto legge 15 Ottobre 2013 n 120, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 dicembre 2013 n. 137 è soppresso». Sergio Rizzo, sempre sul Corriere, si complimenta per questo «capolavoro di Palazzo Madama. Dove è stata cancellata al volo una norma che lo stesso Senato aveva approvato sorprendentemente soltanto sei giorni prima». Rizzo ricorda , dopo aver citato con una punta di malizia un “munifico elargitore di contributi liberali ai partiti di destra e di sinistra», che questa «È un’operazione che ha origine alla fine degli anni novanta quando la Camera, d’accordo centrosinistra e centrodestra decise di stipulare senza gara una serie di contratti con la società Milano 90». Centrosinistra e centrodestra erano d’accordo, la Lega di una volta no. A quei tempi ero il capogruppo ed avevo sollevato per primo questo problema in occasione della discussione sul bilancio della Camera dei deputati . Ecco alcune mie considerazioni. Fonte: resoconto stenografico della seduta di Montecitorio del 9 Ottobre 2000. I fatti sono i seguenti.

Fatto numero uno: poco meno di un anno fa, il 29 dicembre 1999, il quotidiano Milano finanza pubblicava un articolo intitolato «Da Telecom immobile per Violante», a cura di Franco Bechis. Leggendolo, si veniva a sapere che la Camera aveva stipulato tre contratti di affitto ad un canone che «si aggira sulla cifra di 1 milione a metro quadrato, ad un prezzo cioè decisamente superiore alle quotazioni di mercato delle principali capitali europee».

Fatto numero due: era un’affermazione grave [...] mai stata contestata [...] perché in quell’articolo si precisava anche che «l’amministrazione della Camera ha fatto inserire una clausola contrattuale secondo cui, se nei prossimi anni l’istituzione decidesse di acquistare definitivamente l’immobile ristrutturato ad uso dei propri deputati, dal prezzo di acquisto la Milano ’90 dovrebbe scalare i fitti pagati fino a quel momento». [...] la verità è che quei contratti non ci tutelano per niente, per il semplice motivo che alla società Milano ’90 viene lasciata la facoltà insindacabile di accettare o meno l’eventuale proposta di acquisto.

Fatto numero tre: i tre contratti, oltre ad essere «superiori alle quotazioni di mercato», avevano, secondo il giornale Milano finanza, anche la caratteristica di essere stati tutti stipulati con una sola società […]. Questa ed altre informazioni erano contenute in un altro articolo, che finiva con questa frase, che a me sembra decisamente forte ed offensiva per l’istituto di cui facciamo parte: «…con Luciano Violante gli Scalpellini hanno trovato un vero e proprio Babbo Natale». […].

Fatto numero quattro: nel frattempo i contratti erano diventati quattro. Ho studiato la documentazione disponibile relativa all’ultimo contratto, il quarto, e vi confesso che quando l’ho letto mi sono sentito veramente preso in giro. […]. «La Camera paga affitti alti, ma non è un problema, perché siamo riusciti a fare inserire nei contratti la nostra opzione per comperare l’immobile deducendo dal prezzo i canoni di affitto che abbiamo pagato. In realtà dunque la Camera ha fatto un ottimo affare». Ma nei contratti, colleghi, c’è scritto qualcosa di profondamente diverso. Il testo dell’articolo che prevede il diritto di acquisto da parte della Camera deducendo gli affitti già pagati lo potete vedere in un documento di cui chiedo alla Presidenza di autorizzare la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna. Il suo contenuto in breve è questo: primo, la Camera dei deputati può decidere di comprare l’immobile; secondo, se decide di comprarlo, deve ottenere una valutazione Ute, deve avvisare la società Milano ’90, comunicando le condizioni dell’offerta e rispettando certe formalità previste dal contratto. Se la società accetterà l’offerta, dal prezzo si dovrà togliere effettivamente la metà dell’affitto pagato dalla Camera. Tutto bene dunque? Neanche per sogno, perché, come dice l’articolo 13 del contratto, la Milano ’90, società a responsabilità limitata, avrà facoltà insindacabile di accettare o meno detta proposta.

Fatto numero cinque. Per la cronaca, anche il Senato ha preso in affitto un immobile di circa 5 mila metri quadrati da una società che nel contratto che mi è stato consegnato è rappresentata da un membro della stessa famiglia che controlla la Milano ’90. […].Ebbene, pensate che il canone per il solo affitto che la nostra Camera pagherà per 18 anni è di un milione al metro quadrato più il 75 per cento della rivalutazione annuale Istat, mentre il canone che paga il Senato è di circa 700 mila lire al metro quadrato per 18 anni senza rivalutazione Istat. Colleghi, il 30 per cento in meno non è poco. Per i quattro contratti di affitto della Camera, il 30 per cento in meno farebbe risparmiare ai contribuenti quasi 300 miliardi: una cifra enorme. […].

Fatto numero sei. Vi è un altro punto interessante: il quarto contratto è stato firmato il 17 febbraio del 2000. Da esso risulta che il giorno della firma la Milano ’90 non era padrona dell’immobile che avrebbe affittato alla Camera, ma «aveva in corso la formalizzazione dell’acquisto». Quel giorno l’immobile era ancora di proprietà della EMSA Spa, una società del gruppo Telecom. Quel contratto prevede un canone, per il solo affitto, di 10,8 miliardi l’anno, oltre all’IVA e alla rivalutazione Istat. L[...].Adesso parliamo esclusivamente del canone di affitto. Il contratto dura 18 anni, 9 anni più 9, ma è previsto che «le parti rinunciano sin da ora alla facoltà di disdetta del contratto alla prima scadenza normale del rapporto». […]. A questo punto mi è venuta la legittima curiosità di sapere se la Milano ’90 aveva poi comperato l’immobile dal gruppo Telecom e quanto lo aveva pagato. Non sono un tecnico, ma a occhio, sulla base del canone di affitto di 10 miliardi e 800 milioni all’anno avrei pensato ad una cifra sicuramente superiore a 120 miliardi. […]. A questo punto ci siamo procurati noi il rogito, che è un atto pubblico […]: il prezzo indicato è di 64 miliardi più Iva. Il risultato è che la Camera pagherà in totale 233 miliardi e 280 milioni in 18 anni (questa cifra include l’Iva, ma ad essa bisognerebbe aggiungere il 75 per cento della rivalutazione Istat) e dopo questi 18 anni l’immobile non sarà suo. Garantendo, invece, 10 miliardi e 800 milioni all’anno per 18 anni la Camera avrebbe potuto ottenere subito un mutuo di 113 miliardi. Con questi soldi avrebbe potuto comperare l’immobile, pagare l’Iva, l’imposta di registro, ristrutturarlo e metterci mobili di lusso per i 150 uffici previsti dal progetto e forse sarebbero avanzati ancora dei quattrini. […].

Fatto numero sette: assieme al collega Guido Rossi abbiamo chiesto all’amministrazione della Camera se sia agli atti uno studio per valutare se sarebbe stato più conveniente comperare o affittare. La risposta, veramente incredibile, che ci è stata data è la seguente: assolutamente no. […].

In conclusione, colleghi, spero sinceramente che tra oggi e domani il Presidente Violante e i questori saranno in grado di rispondere in modo soddisfacente alle questioni che ho sollevato e di dimostrare anche in questo modo che nell’amministrazione di Montecitorio non ci sono «Babbi Natale» che fanno un cattivo uso dei soldi dei contribuenti, ma che la Camera dei deputati è gestita da oculati amministratori che fanno molta attenzione a come spendono i soldi dei cittadini. Se non fosse così, i parlamentari della Lega nord Padania sarebbero profondamente delusi e la cosa sarebbe istituzionalmente veramente molto grave.

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI E QUANTO CI COSTANO???

Dall'economia ai porti, quanto ci costano i controllori. La galassia delle agenzie di controllo vanta diciotto diversi incarichi e una spesa annua di oltre 600 milioni di euro. E spesso nei vertici arrivano politici o familiari di politici. Ora però c'è chi invoca una bella sforbiciata, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. L’ultima bordata è del commissario alla spending review Carlo Cottarelli: chiudere l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici. A dargli man forte nella battaglia ai costi fuori controllo dello Stato è il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che rilancia: «Dobbiamo ridurre le 24 Autorità portuali e tutto il sistema che vi ruota attorno». Solo per dirigere gli scali marittimi spendiamo 330 milioni di euro l’anno. Quasi 110 milioni se ne vanno in stipendi e più di otto foraggiano i costi delle sontuose presidenze. Il piano Cottarelli per risparmiare miliardi di euro di soldi pubblici tocca anche il ridimensionamento delle autorithy, garanti con competenze fumose, che spesso generano dei doppioni con i dicasteri e poltrone assegnate dai potenti di turno: da Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, alla Privacy, all’ex magistrato Antonio Martone, il cui nome era emerso nell'ambito dell'inchiesta sulla lobby P3, finito all’Anticorruzione. La galassia delle agenzie indipendenti vanta diciotto diversi incarichi e una spesa annua di oltre 600 milioni di euro. Hanno il compito di controllare settori dell'economia e dell'ordinamento sociale, tutelando i diritti dei cittadini: così è nato Mister prezzi per arginare la speculazione post euro, l’arbitro degli scioperi e quello dei contribuenti. In pochi anni sono spuntate commissioni per la promozione dei diritti umani, per regolazione dei trasporti e, ultimissima arrivata, l’ufficio parlamentare di bilancio. Si occuperà di esaminare la spesa pubblica, per fare in modo che non esca fuori dai binari. Come se Corte dei Conti e Ragioneria dello Stato non esistessero.  Il personale complessivo ha raggiunto quota 2.700 unità: soltanto le prime cinque (Antitrust, Autorità per l’energia, Consob, Agcom e Autorità per la vigilanza dei contratti pubblici) ne hanno 1600. La Consob è l’unica che si autofinanzia (con le multe riscosse) ma vale quanto un ministero: ha 627 dipendenti e 67 dirigenti. E ogni autorità ha regole interne, parametri retributivi del personale, numero di componenti e criteri di nomina differenti l’uno dall’altra. Ecco alcuni esempi: l’Agenzia per le comunicazioni è composta da nove persone, come la Commissione scioperi. Ma i consiglieri di quest’ultima sono nominati dai presidenti delle Camere, e il loro presidente d’intesa fra i due, mentre i membri dell’Agcom sono designati dal Parlamento secondo una ripartizione tra maggioranza e opposizione, e il presidente è indicato dal governo. Al pari del presidente della Consob, che ha cinque componenti e non quattro come l’autorità per la Privacy ma neanche sette come invece l’autorità per la vigilanza del Lavori pubblici. In questa giungla di burocrazie e nomine la politica ha un peso sempre maggiore. Addio trasparenza, i candidati sono scelti dai partiti. A giugno 2012 scoppia una piccola rivoluzione: mancano sei mesi alla fine della legislatura e il Parlamento deve rinnovare le poltrone del Garante della privacy. Il regolamento prevede siano indipendenti dalla politica, ma accade il contrario. Il centrodestra propone Giovanna Bianchi Clerici, condannata a un risarcimento milionario per l’assunzione impropria del direttore generale della Rai Alfredo Meocci e della moglie di Bruno Vespa, Augusta Iannini, vicina ad Angelino Alfano. Il Pd invece, come garante della privacy, vuole il dermatologo sardo Antonello Soro, parlamentare per cinque legislature e legato a doppio filo a Dario Franceschini. Alla conta dei voti la spuntano tutti e tre. Caustico il commento dell’ex senatore Idv Pancho Pardi: «La nomina della Iannini è fastidiosamente inopportuna. Potrebbe trovarsi nella situazione di dover giudicare eventuali violazioni commesse dalla trasmissione del marito». Anche le fortune di Giovanna Bianchi Clerici passano dalla Tv di Stato: la leghista della prima ora è stata per sette anni consigliere di amministrazione della Rai. Dopo la sconfitta alle comunali di Gallarate (paesone-simbolo del Carroccio alle porte dell’aeroporto di Malpensa) come candidato sindaco nel 2011 e la consegna al centrosinistra dopo vent’anni di dominio dell’asse Lega-Pdl, ecco il ritorno a Roma e la ricompensa con un incarico super partes. Cambiano i governi ma il sistema di lottizzazione non cambia. Fino all’ultima poltrona. Ecco un altro esempio. Per vegliare su picchetti e cortei, nonostante la presenza di sindacati e forze dell’ordine, pare indispensabile il ruolo della commissione garanzia scioperi: 30 dipendenti e un costo annuo di quattro milioni di euro. I suoi otto membri sono decisi dai presidenti della Camera e del Senato tra esperti di diritto costituzionale, del lavoro e di relazioni industriali. Tra di loro ecco chi può dire di essere cresciuto a pane a politica: Alessandro Forlani, figlio del potente segretario Dc ed ex premier Arnaldo condannato per la maxi tangente Enimont. Nel 2001 l’avvocato romano è stato eletto al Senato col Biancofiore, nel 2006 alla Camera con l’Udc di Pierferdinando Casini, nel 2008 era di nuovo candidato ma non è stato eletto. E allora ecco il premio di consolazione. È una storia travagliata quella della task force statale per combattere la corruzione, un cancro dell’economia italiana che fa scappare gli investimenti, mortifica le imprese e blocca ogni sviluppo. Già nel 2003 il Governo Berlusconi si mobilitò con la creazione dell’Alto commissario per la prevenzione e il contrasto alla corruzione, dotato di una bellissima sede e pochissimi poteri. Con inevitabili risultati modesti: cancellata nel 2008, fu sostituita dal Saet, il servizio per l’anticorruzione e la trasparenza che venne subito criticato dagli osservatori: essere controllati dal Dipartimento funzione pubblica di Palazzo Chigi non garantiva l’indipendenza necessaria. I risultati sono sconosciuti ma nel frattempo cambia nome e diventa Civit, commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche e dalle competenze sempre più vaghe. Nel 2012, con il governo Monti, un altro giro di giostra e si arriva alla sospirata Autorità con l’obiettivo di «spostare l’asse della lotta dalla repressione alla prevenzione». Ora per rilanciarla il premier Matteo Renzi ha scelto di persona il pm anticamorra Raffaele Cantone, il volto della lotta ai Casalesi nella terra dei fuochi diventato celebre per essere stato citato dal best seller "Gomorra". Negli uffici romani si troverà fianco a fianco con Antonio Martone, ex presidente della Civit creata da Renato Brunetta e vicino agli uomini della P3, la lobby segreta che avrebbe operato per influenzare pezzi dello Stato. Lui è un magistrato che ha iniziato nel lontano 1965 e dopo 45 anni ha lasciato nell’estate del 2010 quando sui giornali sono arrivati i racconti delle imprese della P3. Tra queste, una riunione nella casa del coordinatore del Pdl, Denis Verdini. È il 23 settembre 2009 e intorno al tavolo ci sono il capo degli ispettori del ministero della Giustizia Arcibaldo Miller, il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, il faccendiere Flavio Carboni, il senatore Marcello Dell’Utri, il giudice tributario Pasquale Lombardi e Martone. Tra le mure domestiche si discute come condizionare la Consulta che doveva pronunciarsi sul lodo Alfano, per mettere al riparo Silvio Berlusconi dai processi milanesi. Malgrado l’impegno l’operazione non riesce e il 7 ottobre 2009 la Corte costituzionale boccia il lodo. Due mesi dopo il Parlamento nomina Martone presidente della Civit, con stipendio da 180 mila euro all’anno. Dopo più di quattro anni e quattro Governi lui è ancora imbullonato a quella poltrona. Voi non li avete mai sentiti nominare ma loro lavorano per garantire ogni cittadino italiano. Hanno il compito di verificare, attraverso accessi privilegiati alla documentazione, le irregolarità, le scorrettezze e le disfunzioni dell'attività fiscale segnalate dai contribuenti. Sono ventuno commissioni in tutta la Penisola e vengono ospitate dalla direzione dell'Agenzia delle Entrate, con un costo annuo di tre milioni di euro. Mario Monti voleva abolirle ma hanno resistito accettando il “restringimento” da tre ad un solo membro. Con l’ultima legge di stabilità hanno però perso anche lo status di autorità indipendente, assorbite delle funzioni della commissione tributaria regionale. Un vero corto circuito: in pratica il garante è anche l’organo giudiziario che giudica le controversie. Arbitro e giocatore della partita tra cittadino e fisco nella stessa figura. In Lombardia a vegliare sui numeri è Mario Blandini, ex procuratore generale della Procura di Milano. Dopo 49 anni in Magistratura è stato ripagato con questo incarico. Il garante del contribuente delle Regioni Lazio, Abruzzo e Molise è invece Francesco d'Ayala Valva, avvocato e tesoriere della Gran Cancelleria dell'Ordine al Merito di San Giuseppe. Insieme a lui nell’ordine cavalleresco nato nell’ottocento ci sono l’ex presidente della Regione Toscana Claudio Martini e il sottosegretario ai trasporti Riccardo Nencini. E poi monsignor Francesco Camaldo, amico e mentore di Angelo Balducci, l’ex potente numero uno delle Opere pubbliche. E mente della cricca che pilotava gli appalti milionari dei grandi eventi: dal G8 alla Maddalena ai mondiali di nuoto di Roma. 

I PREZZI DUBBI DEI FARMACI.

Farmaci, maximulta Antitrust a Roche e Novartis: accordo in danno malati per spartirsi mercato. Concluso il processo, il verdetto del Garante: le due società si sono divise i proventi miliardari della vendita di due medicinali dall'identica efficacia terapeutica, ma dai prezzi molto diversi: 80 euro contro 900 euro a dose. Danneggiati i pazienti, il servizio sanitario e le assicurazioni private, scrive Roberto Mania su “La Repubblica”. Big Pharma pensa a incassare miliardi, non a guarire i malati. Due colossi mondiali del farmaco, Roche e Novartis, si sono messi d'accordo per spartirsi i miliardi dalla vendita di due farmaci identici ma con nomi diversi (Avastin e Lucentis) e soprattutto a prezzi diversi. A danno dei malati, del servizio sanitario pubblico, delle assicurazioni private. A danno di tutti gli altri, insomma. Uno scandalo che ora l'Antitrust italiano ha sanzionato con una multa esemplare: 180 milioni di euro. All'inizio c'è la scoperta di uno scienziato italiano, Napoleone Ferrara, che nei laboratori della California della Genentech (prima che questa venisse rilevata al 100% dalla Roche) individua un principio che blocca il fattore della crescita dei vasi sanguigni. Un principio attivo che con Avastin serve, senza però portare risultati, per la cura di alcuni tumori molti gravi, mentre con Lucentis serve per guarire dalla degenerazione maculare senile, malattia che conduce alla cecità e che nei Paesi industrializzati minaccia un over 60 su tre. Il farmaco è lo stesso ma mentre una dose di Avastin ha un prezzo tra i 15 e gli 80 euro, Lucentis costa più di 900 euro a dose. Cosa fanno Roche e Novartis? Si mettono d'accordo per spartirsi il mercato. La Roche (che controlla Genentech) non registra il farmaco per la cura della malattia agli occhi e incassa alte royalties dalla Novartis per la commercializzazione del Lucentis. E siccome Novartis controlla oltre il 33% del capitale di Roche incassa, oltre ai proventi dalle vendite, la propria quota di utili. Uno scandalo senza esclusione di colpi: le due multinazionali (ci sono incontri, scambi di mail, telefonate collusive che lo documentano) si sono spartite i compiti per creare l'allarme presso i pazienti sull'uso di Avastin nelle cure oftalmiche, e per  sabotare il valore di ricerche indipendenti che dimostrano invece l'assoluta equivalenza terapeutica dei due farmaci. Poi c'è il lavoro di lobby sulla stampa specializzata, sulle commissioni parlamentari, sugli organismi del ministero. Per il servizio sanitario nazionale tutto questo si è tradotto, per il solo 2012, in una maggiore spesa di 45 milioni di euro. La Regione Emilia Romagna ha calcolato che con il costo sostenuto per acquistare dosi di Lucentis avrebbe potuto assumere 69 medici, oppure 155 infermieri, oppure 193 ausiliari, oppure, infine, effettuare 243.183 visite specialistiche. E ancora: secondo la Società oftalmologica italiana (Soi) ci sono circa 100 mila pazienti che, a causa dei costi elevatissimi di Lucentis spesso non compatibili con i budget dei singoli ospedali, non riescono ad avere accesso alla cura. Se Avastin dovesse essere del tutto sostituito da Lucentis il costo potenziale per il servizio sanitario pubblico sarebbe, per il 2014, di 678,6 milioni contro i 63,5 stimati in mancanza di sostituzione. La Francia, Paese simile all'Italia, ha adottato esclusivamente il Lucentis e il costo per le casse pubbliche è stato non inferiore ai 700 milioni di euro. Queste sono le regole di Big Pharma. Che però, per una volta, potrebbe non farla franca.

IL DUBBIO SISTEMA INFORMATICO DI ASSEGNAZIONE DEI CONTRIBUTI UE.

Ministero Agricoltura, quel sistema informatico da 780 milioni. Tanto è costato finora il Sian, che distribuisce 7 miliardi l'anno di contributi europei. Gestito da privati, sempre gli stessi da 20 anni, con un contratto di recente aumentato di altri 90 milioni. Nell'assegnazione dei fondi troppe cose poco chiare, nomine tutt'altro che limpide. E ora indaga la procura di Roma, scrivono Giuliano Foschini e Fabio Tonacci. Su “La Repubblica”. Immaginate di avere un'automobile in affitto. Un'automobile che vi costa un sacco di soldi ogni mese, però non funziona. Alle volte non parte, alle volte non frena, non si accendono le luci, o si accendono quando non servono. Insomma un disastro. Ecco, quell'automobile sgangherata assomiglia molto al Sian, il Sistema informatico che del ministero dell'Agricoltura è il cuore pulsante, perché distribuisce 7 miliardi di euro all'anno di contributi europei. Dal 2010 ad oggi sono stati prodotti almeno una decina di dossier, tra relazioni di collaudo, audit interni, perizie legali che dimostrano come il Sian sia un costosissimo colabrodo, un sistema che ha drenato fino ad oggi dalle casse dello Stato la bellezza di 780 milioni di euro. Motivo, forse, per ritoccare i termini del contratto con i privati che lo gestiscono, suggerirebbe la logica. Invece no, anzi. Poche settimane fa, nel pieno del marasma del caso De Girolamo, quel contratto è stato ulteriormente ingrassato, aumentandone la provvigione di altri 90 milioni di euro per il triennio 2014-2016. E il Sian si è rivelato, ancora una volta, per quello che è: una torta che scatena appetiti, e la prima grana che piomba come un macigno sulla scrivania del neo ministro renziano Maurizio Martina.

A CHI VANNO I FONDI DELL'AGRICOLTURA?

A giudicare dalle 62 pagine dell'ultima di queste relazioni di collaudo, certificata dallo studio dell'ingegner Giuseppe Felice e finita nel fascicolo aperto dal pm di Roma Alberto Pioletti proprio sul funzionamento del Sian, di cose che non tornano ce ne sono parecchie. Le superfici dei terreni, ad esempio. Quelle inserite via internet nel sistema dagli agricoltori in molti casi sarebbero diverse da quelle reali. C'è un fienile nel comune di Mistretta di 900 metri quadrati per cui sono stati erogati fondi come se fosse di 2000. Ci sono pratiche per cui il software si accorge di "scostamenti tra le superfici richieste e quelle effettive del 100 per cento", eppure i soldi partono lo stesso, in automatico. Ci sono società agricole che accumulano penalità di 200 mila euro e ottengono comunque il denaro e ci sono finestre del software in cui un soggetto compare prima come intestatario di 2 fabbricati agricoli, poi all'improvviso di 23. Alla stessa data. I finanzieri del Nucleo speciale di Tutela Spesa Pubblica, oltre a valutare la relazione di Felice, da mesi passano al setaccio tutti i rimborsi ottenuti dagli agricoltori italiani negli ultimi anni: i risultati di questa maxi inchiesta sono ancora coperti da segreto, ma secondo indiscrezioni ci sarebbero milioni di euro pagati a chi non ha nemmeno un fazzoletto di terra coltivato, a prestanomi di clan mafiosi, a chi ha un garage e lo spaccia per fattoria. E spunta un finanziamento da 50 milioni finito nel nulla.

DA 20 ANNI SEMPRE GLI STESSI. A questo punto bisogna fare più di un passo indietro, per capire la fibrillazione che si provoca nelle stanze del dicastero dell'Agricoltura quando il discorso finisce sul Sian, la banca dati più grande e complessa del comparto agricolo e forestale. Perché da vent'anni a gestirlo sono sempre gli stessi imprenditori privati. Cambiano i governi, ma loro no. Dal 2007 il sistema è in mano alla Sin, spa partecipata per il 51 per cento da Agea (società del ministero), per il 49 per cento da un raggruppamento temporaneo di imprese Rti: Almaviva è mandataria con il 20,02%, poi ci sono Auselda1, Sofiter2, Telespazio, Cooprogetti, Ibm, Agriconsulting, Agrifuturo. Sono loro, quell'anno, ad aggiudicarsi il super appalto da 1,1 miliardi di euro per gestire il Sian fino al 2016, ed erano loro che avevano fornito ad Agea lo stesso servizio dal 2001 al 2007, riuniti in consorzio sotto il nome "Agrisian". "Ed erano loro anche prima - si legge nell'esposto alla procura firmato da Ernesto Carbone, ex presidente e amministratore delegato di Sin, deputato vicinissimo a Matteo Renzi - i fornitori di Agea sono stati sempre gli stessi, sebbene in compagnie societarie diverse nella forma, ma immutate nella sostanza". Carbone, con il suo esposto, ha dato il via all'inchiesta di Pioletti. Nei pochi mesi in cui è stato amministratore di Sin (da fine aprile 2012 a marzo 2013) ha disposto una consulenza legale su un altro nodo di questa storia, la traformazione da srl in spa della Sin decisa nell'agosto del 2011. Scrive l'avvocato Francesco Carluccio nella relazione finale, anche questa depositata in procura: "Fino a quella data si evidenziava una rigorosa e costante verifica del rispetto degli impegni da parte del Rti fornitore. La conseguenza della trasformazione in spa è stato una sorta di favore nei confonti dei soci privati... la Sin sembra aver impegnato i suoi maggiori sforzi quasi unicamente per aumentare i compesi e i rimborsi agli amministratori". In altre parole, "peggioramento nella gestione della società" e "aumento ingiustificato dei costi".

"NON SO NIENTE DI AGRICOLTURA", E LO NOMINANO DIRETTORE... E alla Sin che dicono? Per il momento nulla. Anche perché c'è molto imbarazzo. La De Girolamo, infatti, "per portare legalità" aveva nominato come commissario straordinario di Agea il generale della Finanza, Giovanni Mainolfi, il cui nome era rimbalzato più volte nell'inchiesta della P4. E' sua la decisione, durante l'interim di Enrico Letta all'Agricoltura dopo le dimissioni della De Girolamo, di rinnovare al rialzo il contratto con i soci privati, aumentando di 30 milioni l'anno la provvigione. Tra i primi atti di Mainolfi, anche la nomina di Antonio Tozzi alla direzione generale della Sin. Ruolo delicato, il suo. È l'uomo che deve gestire i 7 miliardi di euro. Ma chi è Tozzi? Trentacinquenne commercialista di Benevento, su facebook i suoi amici lo definiscono "re della movida locale", ex fidanzato di Nunzia De Girolamo, di cui è stato portavoce e capo segreteria. Non esattamente un esperto di agricoltura. "Non ho competenze specifiche. Ma per partecipare non erano richiesti requisiti particolari. E' sufficiente una laurea, poi io sono stato commissario liquidatore e amministratore di alcune aziende. Sì è vero, conosco bene Nunzia, sono un amico di famiglia, ma l'incarico non l'ho avuto direttamente da lei". Il dottor Tozzi guadagna 175 mila euro lordi all'anno.

... CON CONSULENTE AL SEGUITO. E nonostante la Sin abbia un'area della Direzione Audit e Comunicazione dedicata all'organizzazione della società, con un direttore che percepisce 163mila euro l'anno, e nonostante abbia anche una direzione amministrativa per le questioni finanziarie, con un altro direttore che di euro ne prende 123mila, il primo febbraio è stato stipulato un contratto di consulenza da 43.084 euro con Antonio D'Angelo, il quale dovrà "affiancare il direttore generale nella supervisione degli aspetti amministrativi, organizzativi, finanziari, procedurali della società... che abbia caratteristiche di terzietà che ovviamente non è possibile riscontrare nell'ambito di Sin". Una clausola che da sola racconta il clima di veleno e di sfiducia che si respira in azienda e che ha toccato anche lo stesso Carbone, accusato dall'attuale presidente Sin, Francesco Martinelli, di aver utilizzato in modo improprio 23mila euro per spese personali e di rappresentanza. "Tutte falsità", si difende Carbone. Di certo c'è che negli ultimi due anni alla Sin hanno visto avvicendarsi 4 presidenti e 5 amministratori delegati. "C'è fortissima preoccupazione per il mantenimento sia del livello occupazionale sia della professionalità dei lavoratori di Sin - dichiara la Rsa Cgil in una nota - confidiamo nel nuovo Ministro De Martina perché il cosiddetto "Collegato Agricoltura", pur in linea con l'obiettivo di riorganizzazione degli enti vigilati del suo dicastero, tuteli i nostri posti di lavoro insieme con le competenze". Se il nuovo ministro cercava un punto da cui partire per svolgere il suo mandato, lo ha trovato.

Quando Repubblica ne diede conto, a gennaio, l'allora ministro De Girolamo si arrabbiò molto promettendo querele e spiegando che l'indagine era partita prima del suo arrivo al ministero (verissimo) e che lei aveva provato ad arginare il fenomeno. Evidentemente il nuovo capogruppo dell'Ncd però dimenticava che una parte, anche consistente, dell'inchiesta riguarda proprio il mal funzionamento del Sian così come testimonia la perizia tecnica di collaudo depositata in procura a settembre. Dove finiscono i soldi dell’agricoltura italiana? A chi Nunzia De Girolamo, e prima di lei gli altri ministri che si sono seduti su quella poltrona, concede i miliardi di euro che ogni anno arrivano dall’Europa per i produttori di casa nostra? È attorno a queste due domande che si muove un’indagine molto delicata della guardia di Finanza di Roma che, ancora qualche giorno fa, per acquisire documenti, fatture, mandati di pagamento, verbali di gare d’appalto ha bussato alle porte del ministero dell’Agricoltura e dell’Agea, la società controllata al 51 per cento, che ha il compito di erogare proprio i fondi. L’agenzia, cioè, dove la De Girolamo ha posizionato alcuni suoi fidati collaboratori. Il sospetto è che per anni, e fino a oggi, un’associazione a delinquere abbia lavorato di nascosto per ingannare l’Unione europea e frodare milioni e milioni di euro. Il tema sono i Pac, i contributi destinati a sostenere chi in Italia coltiva la terra e alleva bestiame. Le cifre che ballano sono elevatissime: dal 2007 al 2013 sono arrivati da Strasburgo 8,9 miliardi di euro. A novembre sono stati ripartiti quelli per il periodo 2014-2020, e per l’Italia ci sono 44 miliardi. Insomma, una montagna di denaro. In parte gestita direttamente dell’Unione europea che sceglie che tipo di produzioni sovvenzionare. Un’altra parte però è in capo allo Stato che decide quali sono le priorità: in queste settimane sono arrivate al ministero richieste perché non vengano privilegiati alcuni territori a svantaggio di altri. Perché tra le regioni più “fortunate” ci sarebbe proprio la Campania, terra da cui proviene e ha il feudo elettorale la De Girolamo. «Le nomine — spiega Enzo Lavarra, responsabile agricoltura del Pd — che il ministro ha fatto all’Agea sono assolutamente inadeguate. Serve gente esperta e invece...». Il riferimento è a Giovanni Mainolfi, generale della Finanza, scelto proprio per «mettere ordine nell’agenzia». Il problema è che Mainolfi è indagato nell’inchiesta sulla P4 ed è più volte citato in quella della P3, come «persona vicina ad Alfonso Papa e Pasquale Lombardi», il politico e faccendiere campano che secondo la procura di Napoli avrebbero organizzato un’associazione segreta per pilotare appalti e concorsi. Lombardi conosce bene Nicola de Girolamo, padre del ministro. Nel 2003 fu nominato nel comitato di sorveglianza del Consorzio agricolo di Benevento dove Nicola era direttore. E lo è ancora tuttora, nonostante sua figlia, il ministro, sia in qualche modo il suo controllore. «Ma mai farò interventi diretti» ha giurato lei. Tornando all’Agea, la preoccupazione del ministro nasceva dai continui ingressi dei finanzieri del Nucleo Spesa pubblica e frodi comunitarie, guidati dal generale Bruno Bartoloni, che stanno portando avanti l’inchiesta della procura di Roma. Il fascicolo non è contro ignoti, ma i nomi iscritti sono al momento top secret. Certo è però che l’indagine si muove in due direzioni: la prima riguarda il monte dei contributi, che spesso invece di finire ai produttori si perdono nei meandri della burocrazia interna tra appalti e software milionari mai realizzati. La seconda ha come oggetto un buco di 50 milioni: l’Agea nel corso dal 1999 al 2012 anni ha riscontrato una serie di irregolarità nella gestione dei fondi comunitari, quantificati dalla Corte dei Conti in 1,9 miliardi di rettifiche finanziare che l’Italia ha dovuto restituire. Secondo i finanzieri, però, l’Agea non ha rendicontato con regolarità ai revisori a Bruxelles. Risultato, l’Unione potrebbe bloccare i nuovi finanziamenti. Non solo. Sotto osservazione è finita anche la Sin (il direttore generale nominato è Antonio Tozzi, ex fidanzato di Nunzia), una delle agenzie satellite dell’Agea, che ha il compito di gestire il sistema informativo tra il ministero e le singole Regioni. Non a caso tra i soci di Agea in questo progetto figurano anche Finmeccanica e Ibm. Ma c’è soprattutto Almaviva, un’azienda che —come segnalato dall’Espresso — vince nel 2007 un appalto da 1,1 miliardi di euro in cambio di servizi informatici fino al 2016. «Un servizio scadente» ha denunciato alla procura il deputato del Pd, Ernesto Carbone, epurato dalla Sin di cui è stato presidente fino ad aprile. Carbone è accusato di spese pazze. Ma lui ha ribaltato il tavolo denunciando appunto il mal funzionamento del software e la cattiva gestione dei vecchi amministratori.

VIZI ITALICI. LE OPERE INCOMPIUTE. POZZI SENZA FONDO.

Siamo abituati ogni sera al blitz dell'inviato di "Striscia la Notizia" Vittorio Brumotti. L'inviato in mountain bike, cacciatore di opere incompiute, con le sue evoluzioni acrobatiche, mostra agli italiani una situazione desolante. La stessa cosa fa “Il TG dello Spreco”, la rubrica condotta da Fabio e Mingo sul medesimo tg satirico. Purtroppo Striscia la Notizia, seppur simpatico megafono nazionale di sprechi e disservizi pubblici, arriva in ritardo di diversi anni rispetto alle denuncie di comitati e movimenti cittadini che da troppo ormai denunciano l'irreversibile situazione.

Se Striscia la notizia fa guadagnare miliardi, scrive Giornalettismo su una notizia ripresa da (AdnKronos). Spreco di denaro pubblico denunciato: 13 miliardi di euro; denaro pubblico recuperato: circa 3 miliardi. Non è il saldo di attività di un corpo speciale della Finanza o il frutto di una ‘spending review’ messa in atto contro la crisi economica, ma il bilancio di 12 anni di programmazione di Striscia la notizia, la trasmissione di Antonio Ricci in onda su Canale 5. A dare la valutazione del risparmio pubblico a seguito delle inchieste di Striscia dedicato a opere incompiute o mai utilizzate è il libro di due docenti di Finanza Aziendale dell’Università Bocconi, Maurizio Dallocchio e Emanuele Teti, La rilevanza sociale, culturale ed economica di Striscia la notizia (Egea) in cui è stilato un database riassuntivo dei servizi facenti parte della categoria Sprechi & Incompiuti proposti dal programma dal 1988 al 2010. Degli 840 servizi presi in esame, si legge nel volume, la valutazione economica è quantificabile solo nel 37,47% dei casi. Quindi per i servizi in cui questa valutazione e’ possibile lo spreco di denaro pubblico denunciato e’ stato pari a 13.000 milioni di euro a fronte del recupero di circa 3.000 milioni. In quest’ultimo caso si intende l’ammontare di denaro pubblico che viene ‘riscattato’ e quindi recuperato nel caso in cui l’opera precedentemente incompiuta o inutilizzata a seguito delle denunce del programma diventa effettivamente operativa. Nel libro i due docenti hanno calcolato anche gli effetti dell’inflazione sui capitali investiti per le opere pubbliche citate da Striscia determinando per i risultati del programma una somma ben più alta: pari a circa 58.000 milioni di spreco denunciato a fronte di un ammontare recuperato pari a 7.800 milioni di euro. Il volume è il risultato di una ricerca condotta dal CReSV, Centro ricerche su Sostenibilità e Valore dell’Università Bocconi e finanziata da Rti, la controllata di Mediaset per le reti televisive.

La difficile situazione dei trasporti e delle infrastrutture in Italia, scrive Antonio Caputo su “T-Mag”. Siamo un Paese di santi, poeti, eroi e navigatori, così almeno usava dire in tempi remoti. Virtù morali, cristiane e letterarie non rilevano in questa sede: è della situazione dei trasporti, spesso problematica, che ci occuperemo. Nel libro “La Deriva”, che tutti dovrebbero leggere (dato che vi sono inquadrati i mali spesso atavici d’Italia nei più diversi settori), scritto quattro anni fa da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, già autori del best seller, “La Casta”, una parte assai importante è dedicata a infrastrutture e trasporti, alleggerendo, con aneddoti e curiosità, la drammatica situazione fatta di cose che non vanno, ritardi, sprechi, disservizi e gravi disagi per i cittadini. Ritardi e sprechi sono spesso collegati tra loro: basta guardarsi “Striscia la Notizia” per accorgersi della mole enorme di opere incompiute in giro per il Paese, iniziate, magari, da decenni, e lasciate lì abbandonate. Alcuni esempi, su tutti. A breve (forse) dopo l’ennesimo rinvio, dovrebbe aprire la linea B1 della Metropolitana di Roma, i cui cantieri partirono nel 2005; bene, per aprire al pubblico un tratto di neanche 4 chilometri, ci son voluti sette (!) anni. E sì che a leggere i depliant dell’Atac nel 1997, “linea di prossima costruzione”, vien voglia di interrogarsi, fortemente dubitando, sul concetto di “prossima”. E che dire, per restare nella Capitale, della linea C, finanziata dal governo Dini nel 1995 (!) come opera per il Giubileo del 2000, i cui cantieri anche per essa son partiti nel 2005 (e naturalmente sono ancora in opera)?! Anche la linea A ebbe una gestazione a cui confronto le fatiche di Ercole erano robetta: progettata a metà anni ’50, fu inaugurata nel 1980 (!), il tutto corredato da mezzi di superficie indegni di un Paese del G8. Ma il Nord, modello di efficienza, non è affatto immune da questi problemi: la linea 5 della Metropolitana di Milano, i cui lavori, nel tratto Bignami (zona Bicocca) – Viale Zara, erano stati completati ad aprile 2011, non è stata ancora aperta, per dei collaudi, il cui mancato completamento ne ha impedito l’apertura straordinaria in questi giorni, per la visita del Papa. E sì che era prevista l’apertura al pubblico nello scorso autunno di tutta la tratta Bignami – Porta Garibaldi (quindi ben oltre Viale Zara)! Trasferiamoci a Venezia: quanto ci è voluto per il Ponte di Calatrava? E per il passante di Mestre, aperto nel 2009, dopo quattro anni di lavori, seguiti però a decenni di chiacchiere? Per non parlare della TAV in Val di Susa, progettata negli anni ’90, assegnata all’Italia nel 2003/2004, ed i cui lavori non sono ancora seriamente iniziati! Non va meglio al Centro, dalla “Variante di Valico”, tra Bologna e Firenze, progettata negli anni ’80 e ancora in costruzione, alla A12 nel tratto Livorno – Civitavecchia, di cui si parla da venti anni e che solo ora muove i primi passi. Se al Nord non si ride, al Sud è un pianto greco: la Salerno – Reggio Calabria è in opera da una vita, il Ponte di Messina è ormai diventato una barzelletta, mentre la Siracusa – Gela è ancora di là da venire. Nei ritardi e nelle inefficienze gioca un ruolo fondamentale la sindrome italiana del “benaltrismo”; si progetta un’opera, i contrari si mobilitano e fanno breccia nell’opinione pubblica, portando avanti la tesi: Ponte di Messina, TAV in Val Susa? No, assolutamente! Ben altri sono i problemi da affrontare: le strade provinciali in Sicilia, la linea ordinaria in Piemonte che vanno adeguate e rese più moderne. Risultato: non si fa né una cosa (l’opera cui ci si oppone), né l’altra (la “ben altra” priorità), quando, invece, servirebbero entrambe. Se a tutto ciò si aggiunge come per decenni l’Italia si sia focalizzata sul solo trasporto stradale su gomma, trascurando l’adeguamento della rete ferroviaria e dei trasporti via mare, mentre gli altri Paesi investivano fior di soldi in alta velocità ferroviaria, porti e metropolitane cittadine, si capisce come mai la nostra situazione, se non si cambia immediatamente rotta, ci farà perdere altro PIL, e di conseguenza peggiorerà ulteriormente la nostra condizione economico/finanziaria ed occupazionale. Gli altri Paesi hanno investito massicciamente in infrastrutture, a differenza nostra che buttavamo miliardi di euro per salvare aziende di trasporto pubblico locale decotte, ma che non si poteva far fallire, altrimenti il licenziamento dei dipendenti in sovrannumero, specie al Sud, avrebbe fatto saltare intere carriere politiche. Passando dal livello locale a quello nazionale, il discorso si estende ad Alitalia, Tirrenia e Ferrovie dello Stato. In queste aziende lavorano (per un servizio spesso scadente) molti più dipendenti del necessario, ma guai a ridurne il numero: si scatenerebbero proteste infinite (“volete affamare la gente”) e l’opinione pubblica stessa, che si lamenta per le inefficienze, si farebbe subito impressionare. Non c’è niente da fare: siamo il Paese del pianto facile e dei fazzoletti bagnati. Intanto, i disagi per i cittadini si moltiplicano, e per percorrere anche brevi tratti si impiegano tempi biblici; le opere che procedono a rilento vedono gonfiarsi a dismisura i costi (nei quali molto spesso è compresa la tangente per gli esponenti politici) e a causa di ciò il Paese arranca: il recentissimo libro bianco di Confcommercio, del quale il nostro giornale si è già occupato, denuncia drammaticamente quanto tutto ciò costi al Paese in termini di mancata crescita. Si evidenzia come la velocità media in città sia ferma a circa 15 km all’ora, in pratica come nel ‘700. Ma si tratta di un dato medio, che include le ore notturne, quando, in assenza di traffico, il tempo impiegato è di gran lunga inferiore; invece, nelle ore di punta la velocità media crolla a 7 Km all’ora: in pratica, andando a passo svelto, si farebbe prima a piedi!

Sono seicento (ma in realtà ce ne sono molte di più) le opere iniziate e non finite nel nostro paese. Non ci sono regioni escluse, si parla di 4 milioni di euro che gravano sulle casse pubbliche. L’elenco lo ha stilato il ministero delle infrastrutture e dei trasporti che, come riporta la Repubblica di oggi: «ha finalmente ricevuto la documentazione presentata dalle Regioni ritardatarie, Sicilia e Sardegna , in forza di una norma voluta dal governo Monti». La lista parte dal nuovo terminal dell’aeroporto di Saint-Christophe in Val d’Aosta, un cantiere costato 8,8 milioni di euro e prosegue con il teatro Verdi di Ferrara, lo svincolo sulla Cassia, il teatro si Sciacca, Cittadella a Tor vergata. Ancora sono tante le opere non censite ma il record di opere incompiute è stato battuto dalla Sicilia.

LAVORI IN CORSO. Italia, il Paese delle opere incompiute. Da Nord a Sud, sono 650 le strutture non ultimate. Per uno spreco totale di oltre 4 miliardi di euro, scrive “Lettera 43”. Alcune sono state solo abbozzate. Altre quasi ultimate, ma poi abbandonate a se stesse. In tutto sono 650 le opere incompiute in Italia.Per una spesa pubblica che ammonta a 4,1 miliardi di euro, tra costi già sostenuti e fondi impegnati nel tentativo, talvolta disperato, di finire il lavoro cominciato. Uno scandalo in cui, riporta Repubblica citando l'elenco stilato dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, tutte e 20 le Regioni italiane sono più o meno coinvolte: dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, non se ne salva una. A Nord il caso più eclatante è quello dell'ospedale di Alba e Bra, situato nel cuore delle Langhe piemontesi: costati 159 milioni di euro e fortemente contestati da ambientalisti e geologi (il terreno, si dice, è particolarmente franoso), i lavori vanno avanti ormai da 10 anni. Per completarli ci vorrebbero altri 42 milioni. Meglio allora lasciarli in sospeso, e poi si vedrà. Poco più a Est, in Lombardia, si contano una miriade di piccole opere mai portate a termine: dal «nuovo ostello della gioventù» di Lecco, costato 2,6 milioni di euro (anche qui i cantieri sono aperti da 10 anni e avrebbero dovuto chiudere, con la struttura ultimata, già nel 2008), al laboratorio Asl di Milano, per cui sono stati stanziati 14,3 milioni e ne servirebbero altri 10. Ma il Pirellone ha mancato di segnalarne diverse, come lo svincolo di Desio che finisce in aperta campagna. Non va meglio scendendo verso il basso, dove l'Emilia Romagna si distingue per i 50 milioni di euro investiti nella realizzazione (un giorno, forse?) «del nuovo assetto ferroviario di Ferrara». La lista è lunga, e si snoda lungo Veneto (ampliamento della scuola materna di Montecchio Maggiore: 1,3 milioni), Toscana (svincolo sulla Cassia di Monteroni D’Arbia: 30 milioni, per ora), Lazio. Qui le opere incompiute valgono complessivamente 261 milioni, ma la Regione non menziona tutte quelle che costellano Roma. Basti pensare alla città dello sport di Tor Vergata: oltre 400 milioni di euro per un progetto mai portato a termine. Qualche dimenticanza anche negli uffici della Regione Campania che, nella lista consegnata al ministero, parla di due sole opere incompiute. Un po' poco. Manca all'appello, per esempio, l’ospedale di San Bartolomeo in Galdo, nel Beneventano, una delle strutture mai portate a termine più 'anziane' d'Italia. Decisamente più onesta la Sicilia, che segnala la bellezza di 170 incompiute: record nazionale. E che dire della diga del del Pappadai a Taranto? Costata 70 milioni di euro in 30 anni, non ha ancora raccolto una goccia d'acqua. E, visto l'andazzo, forse mai la raccoglierà.

Seicento opere incompiute: quei quattro miliardi sprecati per costruire l'Italia a metà. Strade, aeroporti, ospedali: la nuova mappa del ministero. Regione per regione, da Nord a Sud, una lunga teoria di occasioni mancate, scrive Antonio Fraschilla su “La Repubblica”. È un lungo viaggio, che parte dall'estremo Nord e arriva fino al cuore della Sicilia. Le tappe nel programma dell'itinerario di questo amaro percorso sono le grandi e piccole incompiute d'Italia, quasi seicento opere inutili rimaste a metà o appena abbozzate. Dal nuovo terminal dell'aeroporto di Saint-Christophe ad Aosta allo svincolo di una strada di provincia nell'Ennese, progetti che pesano sulle casse pubbliche per 4,1 miliardi di euro, tra spese già affrontate e fondi impegnati nel tentativo, a volte disperato, di portarli a compimento. L'elenco, in alcuni casi parziale, lo ha appena stilato il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che ha finalmente ricevuto la documentazione presentata dalle Regioni ritardatarie, Sicilia e Sardegna, in forza di una norma voluta dal governo Monti che crea per la prima volta una grande anagrafe delle incompiute. Non c'è regione d'Italia che la faccia franca in questo itinerario dello spreco.

Da Nord a Sud, la nuova mappa delle opere incompiute.

CITTADELLA A TOR VERGATA. La cittadella dello sport è già costata 400 milioni di euro: ora i lavori sono fermi.

OSPEDALE ALBA E BRA. I lavori vanno avanti da dieci anni: già spesi 159 milioni, ne mancano 42 per completarlo.

INVASO PAPPADAI, TARANTO. Non è mai entrato in funzione ma in trent’anni sono stati spesi 70 milioni di euro.

OSTELLO DI LECCO. L’ostello della gioventù doveva essere completato nel 2008, già spesi 2,6 milioni.

TEATRO VERDI DI FERRARA. Stanziati 13 milioni di euro, è chiuso dal 1985: mai partiti i lavori di recupero.

SVINCOLO SULLA CASSIA. Doveva collegare Monteroni d’Arbia alla statale, il cantiere si è bloccato. Spesi 35 milioni.

BRETELLA MANTOVA SU A22. Costata già 17 milioni di euro, ne mancano ancora 7 per completarla.

SCALO DELLA VAL D’AOSTA. L’aeroporto doveva essere già pronto ma è in  costruzione. È costato 8,8 milioni.

TEATRO DI SCIACCA. Un cubo di cemento per il quale sono già stati spesi 25 milioni di euro.

Oristano, i lavori di completamento del comando del comando provinciale della Guardia di Finanza e di tre alloggi di servizio è costato 1,7 milioni di euro ma l’opera risulta ultimata solo al 12,9% nonostante quello fosse il budget previsto per riammodernarlo. Fonte Simoi, ministero delle Infrastrutture.

Il palazzo di Giustizia di Pavia. I lavori di ristrutturazione e di ampliamento non sono stati ancora completati, eppure sono costati già 10,8 milioni di euro ed è previsto un ulteriore importo da 3 milioni di euro Fonte Simoi, ministero delle Infrastrutture.

La caserma dei Carabinieri di Samarate in provincia di Varese. I lavori sono già costati 1,7 milioni di euro, ma siamo lontani ancora dalla realizzazione completa. Fonte Simoi, ministero delle Infrastrutture.

La caserma dei carabinieri in via Ugo de Carolis a Roma dovrebbe essere dotata di una serie di alloggi per gli ufficiali. I lavori sono già costati 16,1 milioni di euro ed è previsto ancora un esborso di un milione per completare la nuova struttura. Fonte Simoi, ministero delle Infrastrutture.

I lavori di costruzione della nuova caserma dei carabinieri di Samarate in provincia di Varese sono costati 1,7 milioni di euro, peccato ne manchino ancora 500mila per terminare l’opera. Fonte Simoi, ministero delle Infrastrutture.

Per la realizzazione del centro di documentazione di Arti Contemporanee del Maxxi (ex Caserma Montello) l’esborso per lo Stato è choc: 147 milioni di euro. Ne mancano ancora 3,6 milioni di euro per ultimarlo. Fonte Simoi, ministero delle Infrastrutture.

L’Avvocatura generale dello Stato a Roma. Per la realizzazione di opere di restauro e di adeguamento funzionale l’esborso per il complesso demaniale in via Clementino 92 è costato 19,5 milioni di euro. Saranno necessari ulteriori 2,5 milioni di euro per terminare i lavori. Fonte Simoi, ministero delle Infrastrutture.

Si parte dal nuovo terminal dell'aeroporto di Saint-Christophe: un cantiere a cielo aperto costato già 8,8 milioni di euro. Per ultimare la struttura occorrono altri 3,3 milioni, nel frattempo l'opera è stata pure vandalizzata: qualcuno ha pensato bene di portarsi via i sanitari nuovi di zecca. Poco più giù, nel cuore delle ricche Langhe, ecco la collina del disonore: quella di Verduno, dove dal terreno si stagliano verso il cielo centinaia di pilastri, lo scheletro dell'ospedale di Alba e Bra. Una struttura costata ad oggi 159 milioni di euro tra le proteste di ambientalisti e geologi che denunciano la "franosità del terreno".

La Lombardia nel suo elenco non proprio completo (basti pensare che manca ad esempio l'ormai tristemente famoso svincolo di Desio che finisce in aperta campagna), include una miriade di piccole opere: dal nuovo laboratorio dell'Asl di Milano in via Juvara (14,3 milioni di euro spesi e altri 10 per completarlo), ai lavori che vanno avanti ormai da quasi dieci anni per la costruzione del "nuovo ostello della gioventù" di Lecco: 2,6 milioni di euro per un cantiere che doveva essere consegnato nel 2008. Tra le opere lombarde rimaste a metà anche la bretella sull'A22 tra Mantova e l'area industriale di Valdaro.

Scendendo ancora, l'Emilia Romagna tra le incompiute segnala l'intervento da 50 milioni di euro per la "realizzazione del nuovo assetto ferroviario di Ferrara". Ma nella lista nera non inserisce una famosa incompiuta della cittadina estense: la ristrutturazione del Teatro Verdi, chiuso dal 1985 e, tra annunci e fondi impegnati, ancora in abbandono. Il viaggio prosegue, e si fa tappa in Toscana. Nell'elenco fornito dalla Regione, spicca lo svincolo sulla Cassia di Monteroni D'Arbia: iniziato quattro anni fa e costato al momento 30 milioni, è ancora un cantiere aperto e l'infrastruttura rimane incompiuta, così come la scuola di Lari, il centro didattico di Carmignano o l'asilo di Scandicci.

Nell'elenco delle opere rimaste in mezzo al guado della malaburocrazia compaiono anche piccole e piccolissime infrastrutture di provincia. Ad esempio, il Veneto segnala l'ampliamento della scuola materna del Comune di Montecchio Maggiore (1,3 milioni di euro) e la nuova piscina a Cassola (18 milioni), mentre la Sardegna mette la realizzazione dell'orto botanico della Maddalena (520 mila euro). Il Lazio invece ha consegnato una lunga lista, che comprende incompiute per un valore di 261 milioni: dalla palestra di Vico al museo naturalistico di Palombara Sabina. Non un rigo sulla Capitale, che d'incompiute però ne conta a bizzeffe. Una su tutte, la città dello sport di Tor Vergata: oltre 400 milioni di euro spesi per lavori che sono andati avanti sette anni e poi si sono improvvisamente impantanati. Ma dall'anagrafe, che sarà aggiornata online sul sito del ministero, la fa franca anche Napoli. La Regione Campania sembra la più virtuosa d'Italia, visto che segnala appena due piccole opere incomplete: un palazzetto dello sport e quattro alloggi popolari nel Comune di Calvi Risorta. Un po' poco per essere credibile. E dire che proprio qui, in provincia di Benevento, c'è forse una delle incompiute più antiche d'Italia: l'ospedale di San Bartolomeo in Galdo. Più oneste nell'ammettere i propri sprechi sembrano la Calabria, la Puglia e la Sicilia. Ma anche qui non mancano alcune sviste. Nemmeno citata è la diga del Pappadai di Taranto (70 milioni di euro spesi in trent'anni e non una goccia d'acqua raccolta) o il teatro di Sciacca: progettato negli anni Settanta, ad oggi è costato 25 milioni di euro e nessuno vuole gestirlo. Troppo grande per la piccola cittadina siciliana, e il teatro si staglia così inutile sul mar Mediterraneo.

Opere pubbliche, le 320 incompiute scrive Jacopo Fo su “Il Fatto Quotidiano”. Sono le 320  opere pubbliche mai ultimate in Italia. Il record in Sicilia. Le opere pubbliche abbandonate a metà sono una storia vecchia. Ma oggi, grazie a un lavoro certosino fatto da incompiutosiciliano.org possiamo rifarci gli occhi vedendole tutte in fila in un elenco che fa paura. Non esiste una stima globale di questo spreco ma parliamo di miliardi di euro buttati al cesso. Questa lista la si dovrebbe far imparare a memoria nelle scuole così magari poi la gente ci pensa quando vota. Incompiuto Siciliano non si è limitato a redarre una lista, ha anche organizzato un tour turistico all’incompiuto come corrente artistica. E si sono perfino portati una colonna di cemento armato alla Biennale di Venezia. Insieme alla redazione del Male abbiamo deciso di lanciare una campagna di satira per rendere più visibile questo scempio etico e ambientale. Grazie a un’idea di Vincino, con la collaborazione del Male e di questo gruppo di artisti è stata organizzata nello stadio per il Polo di Giarre, abbandonato da 20 anni, la prima partita a Polo con disoccupati al posto dei cavalli. Alla festa happening hanno partecipato centinaia di persone. E sulla diga del Chiascio, costata quasi 200 milioni di euro e mai utilizzata, dopo 20 anni, abbiamo inscenato l’inseguimento e l’abbattimento di uno scimmione ad opera di una fantomatica unità militare cinofila. Evento che grazie alla complicità di Legambiente ha avuto grande risalto sui media umbri.

Ecco la lista della vergogna:

Invaso incompleto – Cammarata (AG)

Variante di Porto Empedocle – Sicilia – Porto Empedocle

Viadotto Burgio – Sicilia – Burgio

Trenino Cogne-Pila – Valle D’Aosta – Cogne

Ospedale Sant’Isodoro – L’Aquila

Stadio “Tommaso Fattori” – L’Aquila

Palazzo dello sport – L’Aquila – Paganica

Centro Polifunzionale – L’Aquila

Metropolitana – L’Aquila

Bretella tra Brignano e Torrione – L’Aquila

Depuratore – Chieti – Francavilla al Mare

Porto di Francavilla al mare – Chieti

Ponte – Chieti

Campus universitario di Madonna delle Piane – Chieti

Ospedale – Chieti – Ripa Teatina

Ospedale Clinicizzato “Santissima Annunziata” di Colle dell’Ara – Chieti

Villaggio del Fanciullo – Teramo – Silvi

Complesso Ospedaliero di Casalena – Teramo

Ospedale “Sant’Egidio alla Vibrata” – Teramo

Ponte ciclo pedonale – Teramo – Silvi

Autoporto di Castellalto – Teramo

Autoporto di Roseto – Teramo – Roseto degli Abruzzi

Carcere Mandamentale – Matera – Irsina

Aeroporto di Pisticci – Matera

Ferrovia Matera-Ferrandina – Matera

Cinema Ariston – Potenza

Ex caserma dei Vigili del Fuoco – Potenza

Ex-Cip Zoo – Potenza

Ex-dispensario – Potenza

Palestra – Potenza

Stazione autobus extraurbani – Potenza

Diga sul Monte Marello – Catanzaro – Cannalia

Diga di Gimigliano sul fiume Melito – Catanzaro

Diga sull’Alaco – Catanzaro – San Sostene

Diga del Redisole – Catanzaro – Torrente Fiumarella

Ospedale – Catanzaro – Girifalco

Centro Polifunzionale – Catanzaro

Palazzetto dello sport – Catanzaro – Borgia

Piscina comunale di San Giovanni in Fiore – Catanzaro

Diga sul Laurenzana – Cosenza – Fiume Trionto

Diga sul Monte Pettinascura – Cosenza

Grande mattatoio consortile – Cosenza – Cetraro

Nuovo mercato coperto – Cosenza – Diamante

Mattatoio comunale – Cosenza – S. Pietro di Guarano

Diga di Tarsia – Cosenza

Diga sul Basso Savuto – Cosenza

Mattatoio consortile di Diamante – Cosenza

Diga Basso Esaro – Cosenza

Diga sull’Alto Esaro – Cosenza

Mercato coperto di Diamante – Cosenza

Casa albergo – Cosenza – Buonvicino

Diga del Votturino – Cosenza – Altopiano della Sila

Mattatoio consortile – Cosenza – Casole Bruzio

Sala Conferenze di Diamante – Cosenza

Casa albergo – Cosenza – Saracena

Scuola Materna – Cosenza – Diamante

Istituto di riabilitazione “Papa Giovanni” – Cosenza – Serra d’Aiello

Ospedale di Scalea – Cosenza

Stadio di Paola – Cosenza

Palazzetto dello Sport – Cosenza – Cittadella di Capo

Trasversale di Serre – Cosenza – Serre

Campo di calcio di Crotone

Diga sul Lordo – Reggio Calabria

Diga inutilizzata – Reggio Calabria – Laureana in Borrello

Diga sul fiume Metrano – Reggio Calabria – Gioia Tauro

Diga sul Melito – Reggio Calabria

Diga sul Menta – Reggio Calabria – Roccaforte del Greco

Ospedale di Cittanova – Reggio Calabria

Ospedale di Gerace – Reggio Calabria

Palazzetto dello sport – Reggio Calabria – Taurianova

Bretella di completamento – Reggio Calabria – Lauria

Autostrada A3, Salerno – Reggio Calabria

Tangenziale Est di Vibo Valentia

Biblioteca comunale – Caserta

Mattatoio comunale – Caserta – Piedimonte Matese

Mattatoio comunale e foro boario – Caserta

Ospedale “San Rocco” – Caserta – Sessa Aurunca

Piscina – Caserta – Piedimonte Matese

Ospedale di S. Bartolomeo in Galdo – Benevento

Ospedale “Maria SS. Delle Grazie” – Benevento

Albergo – Napoli – Alimuri

Vasca d´alaggio – Napoli – Torre Annunziata

Ospedale – Napoli – Boscotrecase

Ospedale “S. Maria di Casascola” – Napoli – Gragnano

Spirito nuovo tra antiche mura – Salerno – Sassano

Cementificio – Salerno – Sapri

Nuova casa comunale “Spirito nuovo tra antiche mura” – Salerno – Sassano

Ospedale “San Michele di Pogerola” – Salerno – Amalfi

Ospedale – Salerno – Roccadaspide

Palazzetto dello sport – Salerno – Cava de’ Tirreni

Rampa di collegamento (Ponte) – Salerno – Cava de’ Tirreni

Ex-statale 447 – Salerno

Ospedale del polo di Cona – Ferrara

Variante di valico – Bologna

Bowling – Pordenone – Roveredo

Diga Ravedis – Pordenone – Montereale Valcellina

Ospedale Nuovo – Frosinone

Centro Intermodale – Latina

Autostrada Rieti-Torano

Parcheggio sotterraneo – Roma

Anello ferroviario, stazione Vigna Clara – Roma

Colonia Fano – Genova

Messa in sicurezza del Torrente Sturla – Genova – Bavari

Ospedale “Luigi Frugone” – Genova – Busalla

Ospedale civile “Arnaldo Terzi” – Genova

Sede dell’Agenzia delle Entrate – Bergamo

Borgo di Consonno – Lecco

Canale fluviale Milano-Cremona

Ponte di Vedano – Milano

Strada provinciale Mirazzano – Vimodrone – Milano

Chiusa Golasecca – Varese

Palazzetto dello sport – Varese – Cantù

Pista d’Atletica Zengarini – Tribuna – Pesaro – Urbino – Fano

Traforo della Guinza – Pesaro – Urbino – Mercatello sul Metauro (PU)

Centro visite del sito archeologico di Sepino – Campobasso

Ospedale “Vietri” – Campobasso – Larino

Ospedale “SS. Rosario” – Isernia

Palafuksas – Torino

Orfanotrofio ex-Ipai – Vercelli

Parcheggio interrato Piazza XX Settembre – Bari – Trani

Ponte – Bari – Palese

L’asilo incompiuto a Trani o rudere di Via Di Vittorio – Bari

Casa di riposo – Bari

Stazione ferroviaria di Palese – Bari

Pretura – Brindisi

Impianto per il trattamento dei rifiuti solidi urbani – Brindisi

Istituto “Tanzarella” – Brindisi

Centro per anziani – Brindisi

Palazzetto dello sport – Brindisi – Fasano

Piscina Coperta – Foggia – Vieste

Invaso Pappadai – Lecce

Casa di riposo per anziani – Lecce – Nardò

Centro sportivo – Lecce – Cesarea Terme

Impianto sollevamento acqua – Taranto

Scuola elementare – Cagliari – Monserrato

Chiesa San Giovanni Evangelista – Cagliari – Quartu Sant’Elena

Elettrificazione della “dorsale sarda” – Cagliari

Strada “La Fumosa” – Olbia – Tempio – Tempio Pausania

Campo sportivo – Oristano

Teatro – Sassari – Villasor

Ufficio senza destinazione d’uso – Sassari – Li Punti

Mercato civico – Sassari – Villasor

Nuova caserma dei carabinieri – Sassari – Bono

Ospedaletto – Sassari – Benetutti

Piscina – Sassari – Benetutti

Centro sportivo polivalente – Sassari – Benetutti

Ippodromo – Sassari – Benetutti

Strada camionale – Sassari

Teatro popolare Samonà – Agrigento – Sciacca

Museo di via Roma – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Piscina comunale – Agrigento – Sciacca

Museo – Contrada La Salina – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Pretura – Agrigento

Deposito d’acqua di Monte Imbriacola – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Deposito di Aria Rossa – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Diga di Gibbesi – Agrigento – Naro

Deposito d’acqua zona scalo nuovo di Cala Pisana – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Deposito di Poggio Monaco – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Case popolari – Agrigento – Cattolica Eraclea

Approdo di Cala Pisana – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Casa per anziani – Agrigento – Casteltermini

Deposito d’acqua di Taccio Vecchio – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Ospizio – Agrigento – Cattolica Eraclea

Ospedale – Agrigento – Cattolica Eraclea

Piscina Comunale Ctr Imbriacola – Agrigento – Lampedusa e Linosa

Campo di calcio Villaggio Mosé – Agrigento

Piscina – Agrigento – Cattolica Eraclea

Polisportivo coperto – Agrigento – Castrofilippo

Campo da rugby Villaggio Mosé – Agrigento

Palazzetto dello sport – Agrigento – Cattolica Eraclea

Piscina Comunale Coperta – Agrigento – Sciacca

Stadio d’atletica – Agrigento

Linea ferroviaria Canicattì – Riesi – Agrigento

Messa in sicurezza della statale SS 115 – Agrigento – Sciacca

Carcere mandamentale – Caltanissetta – Gela

Diga Disueri – Caltanissetta – Gela

Caserma dei carabinieri – Caltanissetta – Gela

Diga Comunelli – Caltanissetta – Gela

Dissalatore – Caltanissetta – Gela

Caserma dei Vigili del Fuoco – Caltanissetta – Gela

Piscina comunale – Caltanissetta – Milena

Linea ferroviaria Caltanissetta – Misteci – Caltanissetta

Svincolo Irosa – Caltanissetta – Resuttano

Teatro Nuovo – Catania – Giarre

Teatro di viale Moncada – Catania

Centro congressi comunale – Catania – Mascali

Approvvigionamento idrico della città di Catania – Piedimonte Etneo

Mercato dei fiori – Catania – Giarre

Centro diurno e comunità alloggio per anziani – Catania – Giarre

Case popolari – Catania – Bronte

Case popolari – Catania – Adrano

Pretura – Catania – Giarre

Parco tematico dei divertimenti – Catania – Fiumefreddo

Diga di Pietrarossa – Catania

Depuratore delle acque – Catania – Biancavilla

Distaccamento provinciale dei Vigili del Fuoco – Catania

Diga di Pietrarossa – Catania – Caltagirone

Parcheggio multipiano – Catania – Giarre

Pista delle macchinine – Catania – Giarre

Parco – Catania

Ponte cosiddetto “Dei Sospiri” – Catania – Linguaglossa

Mercato ortofrutticolo – Catania – Caltagirone

Bambinopoli – Parco “Chico Mendes” – Catania – Giarre

Ospedale Vittorio Emanuele – San Marco – Catania

Nuovo complesso policlinico Universita di Catania

Ospedale – Catania – Biancavilla

Ospedale – Catania – Grammichele

Ospedale Sant’Isodoro – Catania – Giarre

Ospedale – Catania – Randazzo

Ospedale “Rinaldi” – Catania – Vizzini

Casa albergo per anziani – Catania – Giarre

Campo di polo – Catania – Giarre

Palestra comunale – Catania – Mascali

Campo sportivo – Catania – Misterbianco

Velodromo “Salinelle” – Catania – Paternò

Palestra comunale – Catania – Sant’Alfio

Centro sportivo polifunzionale – Catania – Giarre

Piscina Olimpionica coperta – Catania – Giarre

Piscina comunale – Catania – Giarre

Palazzetto dello Sport – Catania – Palagonia (CT)

Colonnato lungo i binari – Catania – Bronte

Ponte – Catania – Randazzo

Diga Morello – Enna – Villarosa

Teatro “Garibaldi” – Enna

Parco archeologico del castello di Nicosia – Enna

Invaso Olivo – Enna

Invaso Pozzillo – Enna – Ragalbuto

Mercato ortofrutticolo – Enna

Mercato ortofrutticolo Leonforte – Enna

Carcere – Enna

Diga Ancipa – Enna – Troina

Mattatoio comunale – Enna – Nicosia

Ospedale “Ferro Branciforte Capra” – Enna – Leonforte

Sanatorio – Enna – Pergusa

Palazzetto dello sport – Enna – Leonforte

Piscina – Enna – Centuripe

Superstrada nord – sud – ss177 – Enna – Leonforte

Linea ferroviaria Leonforte – Nicosia – Enna

Superstrada NORD-SUD – ss117 – Enna – Nicosia

Carcere – Messina – Patti

Dissalatore – Messina – Lipari

Carcere – Messina – Mistretta

Lavori di consolidamento del torrente Simeto – Messina – San Piero Patti

Casa per anziani – Messina – Mistretta

Linea ferroviaria Santo Stefano di Camastra – Mistretta – Messina

Ponte sullo stretto di Messina

Strada “Dei due Mari” – SS 117 Centrale Sicula – Messina – Santo Stefano di Camastra

Diga dello Scanzano – Palermo – Lago Scanzano

Diga di Blufi – Palermo

Diga di Rosamarina – Palermo – Termini Imerese

Diga Poma – Palermo – Lago Poma

Centro servizi – Palermo – Capaci

Diga Garcia di Roccamena – Palermo – Termini Imerese

Asilo nido – Palermo

Scuola media – Palermo – Mezzojuso

Azienda ospedaliera “Villa Sofia” – Palermo

Sanatorio – Palermo – Piana degli Albanesi

Ospedale “Villa delle Ginestre” – Palermo

Padiglioni polichirurgici e Ospedale via Ingegneros – Palermo

Ospedale “Casa del Sole” – Palermo

Azienda Ospedaliera “V. Cervello” – Palermo

Viadotto sul cuore delle Madonie – Palermo

Anello metroferroviario – Palermo

Passante ferroviario. Raddoppio metropolitana Palermo centrale – Punta Raisi – Palermo – Cinisi

Linea ferroviaria Palermo Lolli – Santa Ninfa

Sottovia scatolare – Palermo – Bolognetta

Galleria interna al parco delle Madonie – Palermo – Petralia Soprana

Raccordo Autostradale – Palermo

Adduttore del fiume Irminio – Ragusa

Ex ospedale psichiatrico – Ragusa

Ospedale “G.B Odierna” – Ragusa

Teatro Comunale di Siracusa

Invaso di Lentini – Siracusa

Asilo nido – Siracusa – Priolo Gargallo

Centro scolastico polivalente per scuole elementari e materne – Siracusa – Priolo Gargallo

Scuola-albergo – Siracusa

Ex Ospedale Neuropsichiatrico – Siracusa

Ospedale civile – Siracusa – Pachino

Casa albergo per anziani – Siracusa – Priolo Gargallo

Ospedale “E. Muscatello” – Siracusa – Augusta

Centro diurno per gli anziani – Siracusa – Priolo Gargallo

Nuovo ospedale generale – Siracusa – Lentini

Sopraelevata SP26 – Siracusa – Rosolini

Porto di Pantelleria – Trapani

Teatro di Gibellina – Trapani

Monumento ai Mille – Trapani – Marsala

Pista ciclabile – Trapani – Mazara del Vallo

Chiesa Madre (c.d. Chiesa di Quaroni) – Trapani – Gibellina

Dissalatore – Trapani – Nubia

Ponte – Trapani – Mazara del Vallo

Acquedotto di Montescuro-ovest – Trapani

Alloggi della polizia – Trapani – Gibellina

Serbatoi Paceco, Trinità, Rubino, Zafferana – Trapani

Centro turistico – Trapani – Gibellina

Cimitero – Trapani – Contrada Ciappola – Cutusio

Scuola – Trapani – Erice

Piscina comunale – Trapani

Ospedale “San Biagio” – Trapani – Marsala

Ospedale “Vittorio Emanuele II” – Trapani – Castelvetrano

Centro cure per disabili – Trapani – Castellammare del Golfo

Ospedale Nuovo – Trapani – Marsala

Palestra – Trapani – Erice

Litoranea Nord – Trapani

Porto “Banchine versante Ronciglio” – Trapani

Linea ferroviaria Kaggera – Vita – Salemi – Trapani

Porto di Castellammare del Golfo – lavori di prolungamento e messa in sicurezza – Trapani

Galleria tra la Valle dell’Adige e il lago di Garda – Trento

Linea tramviaria Scandicci – Santa Maria Novella – Firenze

Acquario pubblico “Diacinto Cestoni” – Livorno

Porta del parco Appennino Tosco Emiliano – Massa Carrara – Filattiera

Scolmatore acque – Pisa – Pontedera

La strada quadrilatero umbro-marchigiana – Perugia

Superstrada Perugia - Ancona

Nuovo ospedale comprensoriale – Terni

Superstrada Terni – Rieti

Metropolitana – Terni

Diga di Beauregard – Aosta – Valgrisenche

MO.S.E. – MOdulo Sperimentale Elettromeccanico – Venezia

Idrovia Venezia – Padova

Ospedale “San Bortolo Nuovo” – Vicenza

Istituto Elioterapico – Vicenza – Roana

LE BELLEZZE TRADITE. UNA RICCHEZZA IMMERITATA. I MONUMENTI PRIGIONIERI DEI CANTIERI E/O DELL'ABBANDONO.

Le bellezze tradite del nostro Paese. E' facile vantarsi delle meraviglie d'Italia. Il difficile è cercare di conservare il nostro patrimonio. Che sta andando a rotoli. E lo Stato è in ritirata, scrive Salvatore Settis su “L’Espresso”. Italia patria della bellezza: questa la “versione ufficiale”. E dunque politici d’ogni risma inventano statistiche esclamative: «Abbiamo il 50 per cento del patrimonio mondiale!» (Berlusconi, Londra 2008); «solo a Roma ce n’è il 40 per cento!» (un assessore romano); «solo in Sicilia il 30!» (un ministro siciliano). E così via, regione per regione: a mettere insieme queste vanterie, l’Italia supera di gran lunga il 100 per cento dei beni culturali del pianeta. E ora che Turismo e Beni Culturali sono nello stesso ministero, la patria è salva, e milioni di turisti sciameranno nel Bel Paese con valigie di valuta pregiata. Ma a veder cosa? A Mantova la Camera degli Sposi di Mantegna, gioiello di Palazzo Ducale, è chiusa dal terremoto del maggio 2012. A Firenze la villa medicea di Careggi (quella dove nacque e morì Lorenzo il Magnifico), proprietà dell’Ospedale, è in abbandono e non visitabile. A Napoli duecento chiese sono chiuse in perpetuo: Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, San Giacomo degli Spagnoli accanto al municipio, e altre, sono devastate da umidità, depredazioni, crolli. Per non dire delle biblioteche, pur di tenerle chiuse si viola anche la geografia: il terremoto dell’Emilia “giustifica” fino ad oggi la chiusura dell’Universitaria di Pisa, biblioteca statale ospitata dall’Università tra mille diatribe (cercherà di risolverle una commissione nominata dal ministro uscente Bray). Ma che cosa sperare, da un Paese che ha “chiuso per terremoto” da quasi cinque anni una delle sue città più preziose, L’Aquila? In queste e troppe altre Caporetto, lo Stato è in ritirata. E i famosi sponsor privati che (vuole la leggenda) non vedono l’ora di far generose donazioni, dove sono? Invece di “restaurare” per la decima volta, tra mille fanfare, gli stessi monumenti-icona, non potrebbero farsi avanti? O sarà forse, il loro, un patriottismo for profit?

I MONUMENTI PRIGIONIERI DEI CANTIERI

Troppo spesso affreschi e capitelli restano nell’ombra per decenni imprigionati da cantieri interminabili. Dalle stanze imperiali della Domus Aurea al palco del Teatro Lirico di Milano, dai capolavori del Mantegna a Mantova agli scavi di Pompei, i nostri tesori sono nascosti per colpa dei restauri-bradipo. I casi sono tanti, troppi: per questo “l’Espresso” ha deciso di lanciare una campagna nazionale per segnalarli tutti. Mandate la vostra foto di 'lavori in corso' con una breve descrizione per contribuire alla costruzione del database della ricostruzione, scrive “L’Espresso”.

Duomo di Vicenza, gli scavi archeologici. il Duomo-Cattedrale di Vicenza, esempio curioso di gotico veneziano su cui si innesta la straordinaria abside di Sansovino e cupola di A.Palladio, mantenuto con cura dalla locale diocesi che ne cura i restauri e la manutenzione, presenta un interessantissimo sotterraneo archeologico emerso dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Di competenza della Soprintendenza archeologica, questo sito che stratifica ben 5 epoche storiche e una strada romana (questa già visitabile), da anni è misteriosamente chiuso a qualsiasi accesso da parte del pubblico, nonostante la disponibilità di associazioni o musei di gestirne le visite. Il sito è restaurato, illuminato e completo delle sue passerelle. Nonostante le numerose sollecitazioni di giornalisti e studiosi, la Soprintendenza considera questo luogo un X-File, sottraendolo di fatto alla coscienziosa richiesta di cultura del ricco capoluogo veneto.

S. Maria Antiqua. La chiesa di S. Maria Antiqua, il più antico monumento cristiano del foro romano, fu consacrata nel VI secolo all'interno di un complesso edilizio dell'imperatore Domiziano e conserva ancora 250 dei ca. 1000 mq di affreschi realizzati tra il VI ed il IX sec. Recentemente è stata oggetto di un restauro (ca. 2 milioni di €) conclusosi con una riapertura beffa con tanto di inaugurazione: dopo poche settimane di apertura al pubblico è di nuovo inaccessibile.

EUR Palazzo della Civiltà del Lavoro. Una antiestetica inferriata da cantiere eterno circonda per tutto il perimetro l'edificio... Non lo so da quando tempo... i romani sapranno dirvelo... Per scattare qualche foto decente bisogna fare autentiche acrobazie o tagliare di qua e di là... Il mio è solo un esempio volutamente esagerato. Cordiali saluti.

Mosaico del Leone. Il Mosaico del Leone è una decorazione pavimentale del tablino della omonima Domus, sita nel seminterrato di Palazzo Savini a Teramo. Annoverato tra gli emblemi della storia archeologica teramana, il Mosaico del Leone è databile intorno al I secolo a.C. È stato universalmente riconosciuto come uno degli esempi più alti dell'arte del mosaico.

Ercole Vincitore. Chiuso per restauro da un decennio. L'inaugurazione in pompa magna con tanto di puntata speciale di Super Quark è ormai un lontano ricordo. Il Santuario di Ercole Vincitore, ennesima straordinaria bellezza storica e archeologica di Tivoli, oggi rappresenta solamente un sogno abbandonato al suo destino nonostante i soldi, tanti, spesi per valorizzare l'area,tutto chiuso ai cittadini ed ai turisti.

Ristrutturazione Pinacoteca di Ancona. La Pinacoteca di Ancona, con opere dal XIV al XIX secolo, tra cui Crivelli, Tiziano, Lotto, Sebastiano del Piombo, Gentileschi, Maratti, Sassoferrato, ospitata nel cinquecentesco Palazzo Bosdari è chiusa per lavori di ristrutturazione da due anni e non si conosce ancora una data certa per la sua riapertura, perchè i fondi per terminare l'opera non ci sono. Rivolgiamo un appello accorato al Sindaco perchè faccia anche della Cultura una priorità.

Madonna in trono, affresco XI sec. all'interno della Grotta di San Biagio in Castellammare di Stabia. Grotta San Biagio è un ipogeo paleocristiano utilizzato, in una prima fase, come catacomba già nel V secolo, ubicato nel territorio del Comune di Castellammare di Stabia. Con l'arrivo dei benedettini, fu adibita a basilica. Presenta affreschi di età tardo antica, di fattura bizantina (gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele ed Uriele) e raffigurazioni risalenti al XIII secolo. Per secoli Grotta San Biagio è stata luogo di culto e di sepoltura. In anni più recenti, la Grotta, ha subito una serie di manomissioni. Da anni, l'ingresso alla grotta è situato all'interno del locale «Poligono di Tiro» di proprietà demaniale (Ministero Difesa) e dato in concessione alla locale sezione dell'Unione Italiana Tiro a Segno. Questa collocazione concorre ad ostacolare l'accesso e a impedire l'uso pubblico del monumento. Potrebbe far parte di un percorso di visita alle ville romane dell'antica Stabiae, sito di competenza della Soprintendenza per i beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia.

Cattedrale di Matera. Al centro fra i due Rioni Sassi, in posizione dominante. Un cantiere dopo l'altro è chiusa al pubblico e ai fedeli ormai da dieci anni. Al momento non ci sono lavori in corso. Riapertura prorogata a più riprese e ad oggi è prevista per fine 2015. Costruita nel 1270, presenta il Giudizio Universale di Rinaldo da Taranto ed il Presepe in pietra di Altobello Persio oltre a numerosi altri capolavori.

DEGRADO ED ABBANDONO DI UN MONUMENTO CHE IL MONDO CI INVIDIA... PONTE LUCANO E IL SANTUARIO DEI PLAUTII A TIVOLI ... IL MAUSOLEO ED IL PONTE OGGI. I due monumenti sorgono ancora abbastanza isolati dall'incombente avanzata della borgata (più o meno abusiva) limitrofa. Il Mausoleo dei Plauti ha forma molto simile al Sepolcro di CECILIA METELLA sull'Appia Antica a Roma. Esso (era uno splendido monumento) ha una struttura praticamente integra ed ha conservato per parecchi secoli il suo rivestimento in bianco travertino, in parte ancora esistente. Sono visibili tracce della manomissione avvenuta nel Medioevo, quando fu trasformato in fortezza, con l'apposizione di merli alla sommità. Il Ponte, alquanto meno fortunato sia nei secoli passati che per recenti vicende, ha conservato le antiche arcate (quattro, di cui una interrata) ma è stato privato dell’antico parapetto in pietra (sostituito con una ringhiera, forse per facilitare il deflusso delle acque di piena).

Teatro Lirico di Milano. Anche a Milano i gioielli possono rimanere serrati a lungo: il Teatro Lirico, palco dell’ultimo discorso di Benito Mussolini e sala simbolo del cantautore Giorgio Gaber, è chiuso dal 1999.

Domus dei Vettii a Pompei. È inaccessibile ai comuni mortali il Priapo della domus dei Vettii, una delle dimore pompeiane più celebrate del mondo, stampata su migliaia di dépliant, raccontata in centinaia di libri, immaginata da milioni di turisti. Immaginata, perché da dodici anni è chiusa al pubblico, e non per il timore che le sue scene erotiche facciano scandalo, quanto per i trabbattelli, gli appalti e i ricorsi che si alternano senza fine.

Domus Aurea. Le stanze imperiali della Domus Aurea sono state aperte solo a singhiozzo nell’ultimo decennio e ora restano inaccessibili a causa di crolli, infiltrazioni e cedimenti su cui le pezze non sembrano mai sufficienti.

Napoli. Guglia dell'Immacolata di Piazza del Gesù. Da quando dal settecentesco monumento si sono staccati dei frammenti di marmo, l'obelisco è stato transennato per una mera questione di sicurezza dei passanti.

La metro ai Fori. Roma, Gli eterni lavori della metro C a via dei Fori Imperiali. L'abbandono di Villa Pamphili. Villa Pamphili a Roma cantieri aperti ormai da tanti anni, ma abbandonati e incompiuti come un avvilente monumento al degrado.

Tonnara di Bivona. Tonnara di Bivona in Vibo Valentia, bene, storico-monumentale, vincolato per Decreto Ministeriale del 06.12.1991, ai sensi del Decreto Legislativo 29 ottobre 1999, n. 490. Ha fruito di una serie di finanziamenti pubblici (Soprintendenza BAP di Cosenza e Regione Calabria) ai fini del recupero ed uso museale», con «una cifra che supera i 2 milioni di euro»x realizzare Museo del Mare, mai completato.

Il ponte del castello di Vulci. Chiuso per il rischio di cedimenti nelle fondamenta etrusche dall'alluvione di ormai due anni fa, che ha spazzato anche le strutture che collegavano la zona archeologica della città alla necropoli della tomba François. Il ponte del castello dove si trova il museo è chiuso da allora, ed è un peccato perché è un luogo magico.

Palazzo degli uffici - Taranto. Uno dei palazzi più prestigiosi del Borgo Nuovo della città: il Regio Orfanotrofio per bambini poveri e orfani dei militari La prima pietra fu posta nel 1791 dall'Arcivescovo di TA Mons. Giuseppe Capecelatro e fu inaugurato il 28 giugno 1896. Il Palazzo ha ospitato il Tribunale di Taranto, Il Liceo Classico Archita (il più antico di Taranto) la Scuola Nautica, l'Osservatorio Meteorologico, l'Istituto per la Storia e l'Archeologia della Magna Grecia e altri istituti scolastici A forma quadrangolare domina le piazze antistanti: Piazza della Vittoria e Piazza Garibaldi. Il prospetto principale del palazzo si affaccia su Piazza Archita, ed è allineato con il Ponte Girevole dal quale è perfettamente visibile. Il Palazzo da ben 11 anni, dal 2003, è in fase di restauro ed è completamente inagibile.

Bologna. Il cantiere di piazza Verdi a Bologna, non ne possiamo più.

Pompei. Poveri scavi.

SPRECHI: NON SOLO PARLAMENTARI. IL POZZO SENZA FONDO DELLO STATO.

I dipendenti pubblici costano 163 miliardi. I magistrati i più pagati, i dipendenti comunali in coda. I dati della Ragioneria. La fotografia, come ogni anno, l'ha scattata la Ragioneria generale dello Stato. Ma mai come quest'anno la descrizione di chi siano e quanto costino i dipendenti pubblici è stata così dettagliata. Per il suo personale, sia quello "dipendente" che gli "esterni", lo Stato spende 163 miliardi di euro. Centosessantuno miliardi se ne vanno per gli stipendi dei dipendenti, altri 2,5 miliardi per il personale estraneo alla Pubblica amministrazione. I costi maggiori sono per la scuola (41 miliardi) e per la sanità (circa 40 miliardi). Poi via via gli altri settori. Ventuno miliardi gli enti locali, 17 miliardi le forze dell'ordine. Una curiosità. Ogni anno per il "benessere del personale dipendente", secondo i dati della Ragioneria, lo Stato spende circa 123 milioni di euro. Ma quanto guadagna mediamente un dipendente pubblico? 34 mila euro, secondo i dati della Ragioneria. Le medie, ovviamente, dicono poco. Conviene dividere le categorie per capire le differenze. I magistrati sono i più pagati, guadagnano mediamente 131 mila euro l'anno. Più di ambasciatori e ministri plenipotenziari. I diplomatici incassano circa 93 mila euro l'anno. I meno pagati sono i ministeriali. Devono accontentarsi di 29.420 euro annui, poco meno dei 29.700 euro dei dipendenti di Regioni e Comuni.

Consiglio superiore degli sprechi. Si taglia su tutto meno che su poltrone e stipendi del Csm. Il Csm costa oltre 35 milioni di euro all'anno, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. C’è un settore in cui, anche in tempi di spending review, i tagli diventano taglietti, se non operazioni di vero e proprio maquillage. È la giustizia, dove capitoli di spesa ed enti paiono intoccabili. Il più intoccabile è il Consiglio superiore della magistratura, principale tra gli organi di autogoverno del terzo potere. Accanto al Csm infatti esiste un omologo per la giustizia tributaria, il Consiglio di presidenza, c’è poi quello della giustizia amministrativa, un altro ancora per quella contabile, nonché un Consiglio della magistratura militare. Andiamo per ordine. È un dato ormai incontestato che il Csm, organo costituzionale deputato a garantire l’indipendenza della magistratura, sia diventato un surrogato sindacale legato a doppio filo all’Associazione nazionale magistrati. Il meccanismo è semplice: le correnti politicizzate chiedono voti ai magistrati e in cambio offrono favori da parte dei rispettivi consiglieri in seno al Csm. Il sindacato delle toghe, diviso in correnti, è l’azionista di maggioranza assoluta e decide su trasferimenti, promozioni, procedimenti disciplinari, incarichi extragiudiziari. I consiglieri, insomma, sono chiamati a regolare le carriere di coloro ai quali devono nomina e prebende. Ma quanto costa il Csm? Scovare bilanci e cifre attuali non è facile, perché nei suoi corridoi il termine trasparenza è sconosciuto. Gli ultimi dati ufficiali sono contenuti in una Gazzetta ufficiale del 2011: due anni fa il budget del Csm ammontava a 35 milioni 374 mila euro, per una pianta organica di 243 addetti. Lo stipendio del suo vicepresidente Michele Vietti, per legge equiparato a quello del primo presidente della Corte di cassazione, è di 140.904 euro netti. Lo stipendio degli otto consiglieri eletti dal Parlamento ammonta a circa 111 mila euro, sempre al netto, cui vanno sommate le indennità di presenza. Queste vanno anche ai 16 componenti togati, che invece continuano a percepire la retribuzione da magistrato. Fino al 2011 i compensi dei consiglieri potevano gonfiarsi a dismisura grazie al meccanismo perverso dei gettoni di presenza, che consentiva di ottenere 306 euro per la partecipazione a un plenum, 144 euro per una seduta di commissione o del comitato di presidenza, 351 euro per le sezioni disciplinari. In questo modo un consigliere che sostava anche per poco in una commissione diversa dalla propria accumulava gettoni. Gli abusi hanno poi indotto il Csm a porre qualche freno. Le nuove regole vietano di partecipare a commissioni diverse da quella di appartenenza e fissano un tetto alle indennità: si può arrivare a 2.760 euro netti mensili per i membri laici, a circa 4 mila netti per i togati. Ma ci sono altri mille rivoli di spesa, basta analizzare il bilancio. Si scopre che poco meno di 4,9 milioni sono stati destinati alla voce «oneri dei componenti del Csm»: i 24 eletti più i due di diritto, cioè il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione. Costoro si riuniscono soltanto 12 volte al mese, ovverosia quattro volte a settimana per tre settimane, fatta eccezione per i membri della sezione disciplinare che si trattengono a Roma anche il venerdì (per un totale di 15 giorni al mese). E la quarta settimana? Vietti chiarisce che questa «settimana bianca» con cadenza mensile «non è una vacanza: consente ai consiglieri di studiare e approfondire le pratiche da trattare». Nel 2011 sono stati pagati 630 mila euro di straordinari ai dipendenti del Csm, tra i quali spiccano 30 addetti ai «servizi ausiliari e di anticamera», otto dattilografi, una ventina di uscieri e 20 autisti. Le 23 auto blu, che prima del 2011 erano 31, due anni fa sono costate 300 mila euro, mentre 433 mila euro sono serviti a coprire le spese per pulizia, traslochi, facchinaggio, smacchiatura di tappeti e tendaggi. Altri 17 mila euro sono stati impiegati nella «fornitura di capi di abbigliamento al personale autista e ausiliario di servizio»; 703 mila euro sono andati per incarichi professionali, traduttori e interpreti, di cui nulla è dato sapere. Per fare un confronto: il Csm francese funziona con 11 dipendenti e tre chauffeur. Non è da meno, va detto, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, i cui membri (eletti lo scorso 5 agosto) si riuniscono appena una volta alla settimana, fatta eccezione per la «settimana bianca»: quella, come al Csm, è sempre destinata a studi e approfondimenti lontano da Roma. Di solito i 15 componenti del Consiglio tributario si riuniscono il martedì, ma se c’è qualche commissione che va per le lunghe possono trattenersi anche il mercoledì mattina. Le spese di viaggio e alloggio dei consiglieri sono rimborsate e soltanto da qualche anno è previsto l’obbligo di presentare la fattura, di utilizzare soltanto alberghi 4 stelle convenzionati e di spendere per il vitto non più di 61 euro al dì (se sfori, paghi di tasca tua). Nel 2012 il governo Monti ha imposto un taglio del 10 per cento alle indennità dei consiglieri tributari, la cui retribuzione non può superare i 64.800 euro lordi l’anno. Si tratta all’incirca di 3 mila euro netti al mese, che si sommano alla retribuzione originaria di ogni membro. All’interno del Consiglio, che si riunisce quindi tre o quattro volte al mese, esiste dal 2008 un «Comitato unico di garanzia per le pari opportunità» cui è affidata la nobile missione della «rimozione degli ostacoli che impediscono la piena realizzazione di pari opportunità tra uomini e donne nel lavoro dei giudici tributari». Dato che fino al 2012 il comitato non si è mai riunito, lo scorso giugno il Consiglio di presidenza si è premurato di rafforzarne l’organico estendendo la membership a 15 componenti, cui vengono rimborsate anche le spese per i, finora assai rari, pellegrinaggi romani. Se le pari opportunità rappresentano un’incontestabile urgenza, si osa invece sollevare qualche dubbio sulla necessità di tenere in piedi la macchina della magistratura militare, dotata anch’essa del suo organo di autogoverno. Mentre si passano al setaccio le spese dei parlamentari, nessuno batte ciglio sul fatto che lo Stato stipendi 48 magistrati che ogni anno trattano in media 60 procedimenti in tutto. Sono per lo più reati da poco, dall’insubordinazione all’assenza dal servizio. Anche tra i magistrati si fa largo l’idea che forse non sia conveniente foraggiare per 365 giorni un organo cui manca l’oggetto del contendere, tanto più dopo l’eliminazione della leva obbligatoria e l’esaurimento delle cause per i crimini di guerra. I magistrati militari, comunque, hanno gli stessi stipendi e la medesima automatica progressione di carriera dei colleghi ordinari. Anche per loro cancellieri, segretari, assistenti, guardie, autisti e auto blu. In tempi di crisi, dove viene presentata come grande «vittoria democratica» l’aumento dei prezzi alla buvette della Camera, non si capisce perché nessuno metta mano a una situazione tanto inefficiente. Se poco hanno da fare i magistrati militari, figuratevi il loro consiglio di autogoverno, un organo di sette membri istituito nel 1988 con gli stessi compiti del Csm, ma limitatamente ai 48 magistrati militari superstiti. Sempre in tempi di spending review, si potrebbe discutere del privilegio dei magistrati amministrativi (in particolare, a quelli del Tar del Lazio e del Consiglio di Stato) i quali, oltre a percepire le generose retribuzioni, possono ricoprire un incarico espressamente inibito agli ordinari, ovvero quello di presiedere le commissioni arbitrali grazie alle quali incamerano compensi a percentuale su somme milionarie. «Ritengo sia una situazione da far cessare» commenta Vittorio Borraccetti, membro togato del Csm. «Sarebbe meglio evitare perché simili compensi possono comportare un elemento di disturbo». Ma i magistrati amministrativi non ci pensano nemmeno, e anche loro per autogovernarsi hanno un Consiglio di presidenza: 19 membri con rimborsi e indennità di missione al seguito. In ultimo, si stagliano solitari e laboriosi i Consigli giudiziari, ovvero gli organi territoriali di autogoverno costituiti presso ogni corte d’appello. Qui si lavora per davvero. Spetta infatti a questi piccoli «Csm distrettuali» l’attività consultiva svolta in materia di carriera dei magistrati e di cambio di funzioni, nonché l’attività istruttoria nei procedimenti per la magistratura onoraria. Bene, i membri di questi organi decentrati (sei componenti nei distretti con meno di 350 magistrati) non percepiscono alcuna indennità, ma hanno diritto a una riduzione del carico di lavoro dei due terzi rispetto ai colleghi. La ragione è che macinano lavoro per davvero, quindi vengono sgravati di ulteriori compiti. Forse, in tempi di crisi e tagli, la logica dello sgravio dovrebbe prevalere. Ma per ora, a quanto pare, prevalgono soltanto i rimborsi.

Tante lacune nel rendiconto annuale. Per i membri del Csm settimana corta da 4 giorni, indennità varie e auto blu. Al vice presidente Vietti quasi 300mila euro lordi all'anno e una Maserati, scrive Alberto Crepaldi su Il Fatto Quotidiano. Per l’autogoverno dei magistrati, esercitato dal Consiglio Superiore della Magistratura, lo Stato mette a disposizione del Csm ben 35 milioni di euro. Amministrati sotto il controllo della Corte dei conti e di tre revisori esterni, i conti del Csm sono quasi introvabili. Giusto qualche indizio nella Gazzetta Ufficiale, dove è pubblicato il rendiconto di ogni anno. Un documento di poche paginette, lontano parente di un bilancio vero e proprio. Il sito web del Csm non offre alcun dettaglio su come vengono amministrati i 35 milioni di euro. Manca anche la lista dei 7 incarichi esterni conferiti ad altrettanti addetti, nonché quella relativa alle imprese a cui vengono affidati una serie di servizi. Solo attraverso la consultazione di una serie di leggi che regolano il funzionamento del Csm, è possibile scoprire che la pianta organica prevede 243 unità: tra queste spiccano i 53 funzionari amministrativi, i 30 addetti a “servizi ausiliari e di anticamera”, gli otto dattilografi dell’ufficio studi, la ventina di uscieri e 20 autisti. Il numero di questi ultimi, diminuito negli anni, nell’originaria organizzazione fissata da una legge del 1958, era pari addirittura a 40 unità. Il conto finale dei costi sostenuti nel 2011 per tutto il personale in servizio al Csm è salato, seppur in lieve calo: 19 milioni di euro. Gli oneri relativi ai componenti del Csm (24 eletti e 3 di diritto) nel 2011 poco meno di 4,9 milioni di euro. “Lavoriamo moltissimo – ci ha detto un consigliere – per la mole di atti che dobbiamo studiare e le delibere da redarre”. Infatti nel 2011 è stata pagata la bellezza di 630 mila euro di straordinari ai dipendenti del Csm. Senza sindacare sulla intensità del lavoro intellettivo profuso dai consiglieri, resta il fatto che le settimane di lavoro istituzionale, presso il Palazzo dei Marescialli, sono tre. Anche se i mesi di settimane ne contano almeno quattro. E i giorni lavorativi sono al massimo 15 al mese. Le commissioni si riuniscono dal lunedì al giovedì, quattro volte alla settimana. E solo chi fa parte di quella disciplinare rimane a Roma fino a venerdì. I 4,9 milioni di euro di compensi comprendono il cospicuo assegno del vicepresidente (Michele Vietti), pari a poco meno di 300 mila euro lordi all’anno. Così come l’appannaggio annuale degli altri 7 consiglieri eletti dal Parlamento, circa 115 mila euro: quasi 8 mila euro al mese per 14 mensilità. Tutti i consiglieri percepiscono inoltre 75 mila euro all’anno come indennità di presenza. A quelli che non risiedono a Roma viene poi riconosciuta una indennità di missione giornaliera di 220 euro per ogni giorno di presenza effettiva, oltre al rimborso delle spese di viaggio. Tra rimborsi e indennità varie, la spesa annua vale 2,2 milioni di euro. Tra i benefit ci sono le auto blu, per tutti i consiglieri: 300 mila euro nel 2011. Sono 23 le auto a disposizione e prima della lieve cura dimagrante del 2011 erano 31. Vietti viaggia su una Maserati Quattroporte. “Per gli altri consiglieri – racconta un altro componente del Csm – dal primo aprile l’auto blu sarà una semplice Fiat Punto”. Il Csm investe molto in formazione: 6,5 i milioni di euro per “spese per incontri di studio, formazione, convegni e conferenze”. Risorse che dovrebbero diminuire dopo l’avvio della Scuola Superiore della Magistratura. Ma sono ben altri i capitoli di spesa che incuriosiscono. Il CSM ha pagato, sempre nel 2011, quasi 250 mila euro per stampare pubblicazioni, acquistare carta e materiale di cancelleria, riviste, giornali e altre pubblicazioni. Sono ammontati invece a 433 mila euro i costi per pulizia, traslochi e facchinaggio e per la smacchiatura di tappeti e tendaggi. Degni di menzione sono i 17 mila euro di “spese per la fornitura di capi d’abbigliamento al personale autista ed ausiliario in servizio”. Ma soprattutto i 703 mila euro sborsati per incarichi professionali, traduttori e interpreti, sui cui nomi e profili nulla è dato sapere.

Gli avvocati contro i magistrati: sono loro a sfasciare la giustizia. Oggi in mille si ritrovano a Napoli per denunciare il collasso del settore. E puntano il dito contro i costi record e i danni fatti dalle ultime riforme. Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Oggi saranno in mille a Napoli, alla convocazione straordinaria degli Stati generali dell'avvocatura, per decidere eventuali proteste. E puntare il dito contro i magistrati, che ritengono più responsabili di loro delle lunghezza dei processi, degli sprechi, della «malagiustizia» in una parola sola. Gli avvocati venuti da tutte le regioni d'Italia per l'VIII Conferenza nazionale dell'Organismo unitario dell'Avvocatura non ci stanno più a venire presentati come i colpevoli principali dello sfascio. E si preparano a dimostrare, carte e dati alla mano, che la bilancia delle colpe pende dal lato delle toghe e dello stesso ministero della giustizia, guidato dalla Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, che ha disertato l'importante appuntamento. Finora avevamo assistito soprattutto a battaglie dei penalisti su questa linea, ma adesso è la rappresentanza politica forense dell'Oua a scendere in campo pesantemente. Il presidente Nicola Marino prepara un duro attacco alle toghe e noi anticipiamo i dati sui quali poggia. Si parte dal primo paradosso. Secondo il Cepej (Commissione Ue per l'efficienza della giustizia) la media in Europa per finanziare il sistema giudiziario è di 57,4 euro pro capite, mentre in Italia è 73 euro, con alti costi per l'erario e servizi giudiziari insoddisfacenti per i cittadini. «Ma il nodo - attacca Marino - è anche legato ai 2,3 miliardi di euro che servono per pagare gli stipendi di magistrati, cancellieri e addetti agli uffici giudiziari. Solo la Germania spende di più, quasi 5 miliardi di euro ma con risultati di efficienza di gran lunga superiori. Le toghe italiane guadagnano più di tutti i loro colleghi europei: all'apice della carriera percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello medio di un dipendente. Certo non seguendo criteri di merito e risultato, visto lo stato della giurisdizione. Quindi non è solo un problema di risorse umane, ma di cultura, di meritocrazia e di organizzazione». Poi, il numero uno dell'Oua passa al capitolo carenze d'organico: «Se è vero che mancano circa 1.200 magistrati e funzionari, bloccati dal turn over del pubblico impiego, è anche vero che abbiamo molti togati distaccati nei ministeri (oltre 200), che potrebbero rientrare nei ranghi a dar man forte sul territorio». Una doppia responsabilità l'avrebbero i magistrati al ministero di Giustizia, che per l'Oua «sono diventati il motore di tutte le controriforme del settore: mediazione obbligatoria, chiusura di mille uffici giudiziari (che invece di risparmi ha prodotto ulteriori confusione, ritardi e sprechi), filtro in appello, aumenti del contributo unificato e delle marche, abbreviazione dei tempi a scapito del difensore, attacchi al gratuito patrocinio, norme sulle cosiddette liti temerarie. Novità che per gli avvocati peggiorano e non migliorano il sistema. E che si sommano al deficit tecnologico degli uffici, all'uso e al costo eccessivo delle intercettazioni, a un organizzazione del lavoro delle toghe «attenta ai privilegi». Sulla lentezza dei processi, l'Oua rispedisce al mittente le accuse. «È falso - dice Marino - il luogo comune che gli avvocati guadagnino di più con processi lunghi. È l'esatto contrario ed è incomprensibile come nessuno si soffermi sui tempi dei rinvii dei giudici, spesso arbitrari e quasi sempre eccessivi». La domanda di giustizia è troppo elevata e le regole procedurali sono a volte kafkiane, ammettono gli avvocati, ma «le continue micro-riforme hanno reso più contorto il processo». E la macchina antiquata della giustizia è vicina al collasso.

Venieri: "In tema di amministrazione della giustizia in Italia gli italiani debbono sapere che..."Una serie di informative che fa capire il motivo per cui l'avvocatura italiana, in adesione all'iniziativa di protesta indetta dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura, si asterrà dalle udienze il 18, 19 e 20 febbraio prossimi, scrive l’avv. Silvio Venieri su “Il Quotidiano”.

Gli italiani debbono sapere che i governi che si sono succeduti in questi ultimi decenni alla guida del nostro Paese hanno varato misure normative tese esclusivamente a "deflazionare" il carico giudiziario attraverso l'attuazione di un disegno sistematico di mortificazione del diritto alla tutela giurisdizionale.

Gli italiani debbono sapere che nel corso degli ultimi anni i costi relativi ad un procedimento giudiziale (marche da bolle, contributi unificati, registrazioni degli atti giudiziari) sono costantemente aumentati in maniera tale da pregiudicare, di fatto, la possibilità da parte dei meno abbienti di accedere al servizio giustizia.

Gli italiani debbono sapere che si è voluto introdurre l'obbligatorietà - rispetto alla facoltà, riconosciuta e garantita dalla Costituzione, di far ricorso per la tutela dei propri diritti alla magistratura statuale - di adire preventivamente gli organismi di mediazione-conciliazione, composti da soggetti, anche privi di conoscenze tecnico-giuridiche, non in grado di garantire adeguate competenze per la risoluzione delle controversie loro devolute.

Gli italiani debbono sapere che sono stati cancellati circa mille uffici giudiziari nel nostro Paese senza che si siano realizzati i paventati riverberi positivi in termini di risparmio per il bilancio statale e di efficienza del funzionamento della macchina giudiziaria, mentre, al contrario, sono aumentati i costi per tutti coloro che sono stati allontanati dai presidi di giustizia.

Gli italiani debbono sapere che gli introiti che lo Stato italiano incassa a titolo di spese di giustizia non vengono totalmente reimpiegati nel comparto ma dirottati verso altri capitoli di bilancio dell'amministrazione centrale.

Gli italiani debbono sapere che da diversi anni lo Stato italiano non ha più inteso investire risorse per migliorare il funzionamento del sistema dell'amministrazione della giustizia, per cui è progressivamente diminuito il personale delle cancellerie, non sono stati adeguatamente coperti gli organici della magistratura, non si è puntato con convinzione sulla informatizzazione.

Gli italiani debbono sapere che le funzioni giurisdizionali e di rappresentanza dell'ufficio del P.M. vengono svolte in misura preponderante da magistrati onorari, cioè non da magistrati di carriera ma da laureati in giurisprudenza che non hanno passato il vaglio di un esame di stato (Giudici di Pace, Giudici Onorari di Tribunale, Vice Procuratori onorari), i cui criteri di nomina non garantiscono affatto una effettiva competenza e professionalità.

Gli italiani debbono sapere che le carceri italiane scoppiano per l'eccessivo numero di detenuti ivi ristretti, che sono sottoposti a condizioni di vita disumane, come hanno statuito organismi giurisdizionali sovranazionali, con l'irrogazione di sanzioni in capo allo Stato italiano che stanno per essere applicate.

Gli italiani debbono sapere che l'esigenza di sicurezza, sempre più avvertita dalla popolazione, la si garantisce ampliando l'area di applicabilità delle misure alternative alla detenzione, perché coloro che vengono confinati in carcere hanno un tasso di recidivanza estremamente superiore rispetto a coloro che sono stati sottoposti ad altri mezzi afflittivi.

Gli italiani debbono sapere che determinate forze politiche, nonostante abbiano approvato leggi estremamente lassiste rispetto a determinate tipologie di reati (i reati dei cosiddetti "colletti bianchi"), si oppongono ad ipotesi di indulto e di amnistia per mere speculazioni elettoralistiche.

Gli italiani debbono sapere che sul territorio nazionale sono presenti i CIE (centri di identificazione ed espulsione) ove possono essere trattenuti fino a 18 mesi i migranti, così limitando la libertà personale di tutti coloro che vi sono ristretti senza alcun rispetto della dignità umana.

Gli italiani debbono sapere che il Ministro della Giustizia, ora dimissionario, quando si è trattato di elaborare proposte normative in tema di giustizia, ha eluso del tutto un confronto preventivo con gli organismi di rappresentanza degli avvocati e, addirittura, si è abbandonato ad espressioni e considerazioni offensive nei confronti della avvocatura, parte essenziale dell'amministrazione della giustizia.

Gli italiani debbono sapere che per questi motivi, e per tanti altri, l'avvocatura italiana, in adesione all'iniziativa di protesta indetta dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura, si asterrà dalle udienze il 18, 19 e 20 febbraio prossimi.

Magistrati, tanti scatti niente meritocrazia Ecco come lievita lo stipendio, scrive “Libero Quotidiano”. Lavorano sei ore al giorno per 260 giorni l'anno (l'ha deciso la sezione disciplinare del Csm) e guadagnano cifre che noi poveri mortali ci sogniamo. Stiamo parlando dell'ultracasta dei magistrati (un esercito di 8.909 giudici in servizio) che, mentre i politici annunciavano i tagli di stipendio e nonostante il blocco agli aumenti che la finanziaria 2010 aveva previsto per le buste paga si sono visti aumentare del 5% la retribuzione. Aumento con effetto retroattivo dal 2012, dato che la Corte costituzionale (fatta da magistrati) aveva dichiarato illegittimo il blocco degli stipendi. Così, secondo uno studio del Sole 24 Ore, un magistrato della Corte dei Conti che - poniamo - nel 2011 guadagnava 174 mila euro all’anno, ora ne prenderà 182 mila. La tabella riportata sull'edizione cartacea del quotidiano Libero, basata in gran parte sul rapporto 2012 della Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa, parla chiaro: si va dai circa 2040 euro al mese (che diventano 3.500 con le indennità) degli ex "uditori" di prima nomina, ovvero il magistrato ordinario in tirocinio, ai 16.700 al mese (che diventano 18.900 con le indennità) di un Presidente di Cassazione. Con scatti automatici di carriera che variano da una media di 500- 1700 euro al mese. Più o meno un magistrato a carriera piena percepisce 5 milioni di euro. Entrando nel dettaglio un magistrato ordinario prende appena assunto 2.858 euro al mese. Dopo tre anni con la prima valutazione di professionalità passa a 3.966 euro al mese che aumentano in media ogni anno e mezzo con uno scatto di anzianità che fa arrivare lo stipendio a 4.680 euro al mese (che diventano 6.720 con le indennità). Parte invece da 5.877 euro al mese un giudice della Corte di Appello: anche lui ogni anno e mezzo si vede aumentare la busta paga fino ad arrivare a 6.690 euro al mese (8.764 con le indennità). Un magistrato di Cassazione invece dopo la prima valutazione di professionalità prende 8.074 euro al mese che con gli scatti diventano 10.744. Se poi il giudice della suprema corte viene valutato di nuovo positivamente (cosa che succede praticamente sempre: di regola il Csm promuove tutti i magistrati al maturare del livello minumo di anzianità a meno che non si siano verificate gravi sanzioni disciplinari) lo stipendio di un FDS, ovvero idoneo alle funzioni direttive superiori, schizza a 10.343 euro al mese che con gli scatti che si maturano ogni anno e mezzo arrivano a 12.104 euro (14.264 euro con le indennità). Tutto ciò si traduce in una spesa di 73 euro al mese per ogni italiano, mentre la media europea è di 57.

Privilegi e costi della casta delle toghe nel periodo di crisi, scrive “Agora Vox”. Con l’acuirsi della crisi economica iniziata nel 2007, non si fa altro che parlare, a ragione, dei privilegi della politica. Tutto iniziò con il libro "La casta" di Stella, e provocò l’indignazione degli italiani che a stento arrivano a fine mese, oppure non ci arrivano per niente a causa del lavoro precario e della prepotente disoccupazione giovanile. Qui parleremo invece degli scandalosi privilegi e favoritismi degli appartenenti della Magistratura. Una lotta di "caste" che non risparmia nemmeno l'attuale Governo Monti. Il mio articolo non è volto assolutamente alla delegittimazione della Magistratura. Siamo tutti ben consci che nel passato, come nel presente, esistono dei valorosi Magistrati che per vocazione combattono il malaffare e i connubi del Potere. Rischiano la vita e alcuni - come Falcone e Borsellino, il “giudice ragazzino” Livatino o Scopelliti - sono stati uccisi per le loro coraggiose inchieste. Ma, come in politica, non ci si può far scudo di questi eroi per difendere dei privilegi che non esistono in nessun altro stato europeo. Privilegi che provocano uno sperpero pubblico che toglie denaro soprattutto alla macchina sempre inceppata della Giustizia stessa, la quale ogni anno riceve condanne dall’Unione europea. Inoltre non fa “Giustizia” nemmeno per quegli eroi stessi che molto spesso vengono citati strumentalmente. Perché per fare carriera non esiste la cosiddetta meritocrazia. Tutti i magistrati, indipendentemente da quello che fanno, hanno gli scatti automatici. In soldoni: chi vuole lavora, chi no si astiene. Ed in entrambi i casi hanno la garanzia di una continua e regolare crescita in termini di “status” e di busta paga. Come se un giornalista iniziasse a scrivere gli stessi articoli al Corriere della Sera, sapendo che dopo alcuni anni, comunque vada, diventerà direttore. Così come tutti gli altri suoi colleghi. Lo stipendio e la pensione del Magistrato sono i più alti d’Europa. Appena si diventa Magistrato attraverso un concorso (poi spiegherò che una volta ammesso all’esame, tutto diventa più facile rispetto al resto dei cittadini italiani) si viene nominato uditore giudiziario (in pratica una carica che non fa nulla: ascolta per imparare) e percepisce per i primi sei mesi al netto di tutte le ritenute ben € 1.680,50. E dopo sei mesi, sempre che non si abbia ancora alcuna funzione, cioè si ascolti e basta, il nuovo stipendio è al netto di tutte le ritenute di ben € 1.820,77. E poi inizia lo scatto automatico senza alcuna distinzione: da chi scalda semplicemente la scrivania a chi conduce pericolose inchieste! Così il giovane magistrato risulta essere il laureato di primo impiego a più alto reddito. Non c’è paragone con l’industria privata o, per restare nel pubblico, con i medici o i professori universitari. Ma c’è qualcosa di più scandaloso e molti dei lavoratori italiani ne sono all’oscuro, perfino i politici non posseggono questo privilegio: la scala mobile. La scala mobile, o più specificatamente “l’identità di contingenza” fu istituita nel lontano 1975 e serviva ad adeguare gli stipendi al costo della vita. Fu abolita nel 1992 dal Governo Amato, tranne per i magistrati. Per capire meglio, vi riporto le tabelle tratte da una fonte insospettabile che sarebbe il sito della Associazione Nazionale Magistrati: potrebbe dare molto fastidio a chi deve scioperare per poter aggiornare il suo stipendio, oppure per non farselo ulteriormente diminuire. E dall’introduzione della moneta unica e la crisi che stiamo vivendo, i salari sono dimezzati. Al contrario dei magistrati che se lo vedono quintuplicare. Lo dicono gli stessi dell’ANM: “Se, infatti, si mettono a confronto gli stipendi dei magistrati prima dell’ingresso nella moneta unica e quelli degli anni successivi è agevole riscontrare che gli stipendi sono cresciuti circa del 30% in 5 anni e circa del 60% in 10 anni”. Ma non è finita, lo scandalo maggiore riguarda la Magistratura Amministrativa. “L'Espresso" (di questa settimana, ndr) ha letto i resoconti ufficiali di alcune riunioni, e ha scoperto che la mattina del 15 aprile 2011, mentre la Banca d’Italia diffondeva nuovi drammatici dati nazionali su occupazione e recessione economica, i rappresentanti dei magistrati del Tar e del Consiglio di Stato si sono approvati nuove e ricche indennità. Esattamente come la casta dei politici: si auto approvano leggi che aumentano lo stipendio. Per le nuove indennità del solo Consiglio di Stato si spenderanno 960 mila euro l’anno. Quella della Magistratura Amministrativa poi è una casta di tutto rispetto. Come sappiamo l’Italia a causa dei processi in ritardo, subisce danni di milioni di euro l’anno. Danni economici che il resto dei cittadini italiani pagano, e perfino il Fondo Monetario Internazionale da qualche tempo ha deciso di monitorare la questione sulla lentezza dei processi. Perché tutto questo? I magistrati amministrativi percepiscono un totale di tre mesi di ferie. Come se non bastasse, nel periodo lavorativo, per mancanza di personale (e forse leggendo i numeri, con qualche privilegio in meno, si potrebbero assumere più persone) o per sostituzioni, intraprendono le cosiddette “missioni”: ovvero fanno udienza in un'altra città in albergo a 4 stelle per quindici giorni, rimborso dei pranzi e delle cene o un compenso alternativo in denaro. I magistrati civilisti o penalisti invece hanno diritto a 45 giorni di ferie, In aggiunta ai 45 giorni di cui sopra, vanno calcolati altri 2 giorni di congedo ordinario e 4 giorni di festività soppresse. Anche il concorso per diventare Magistrato ha un privilegio in più rispetto agli altri concorsi pubblici. Nel concorso “ordinario”, una volta che non si supera, si è esclusi definitivamente o per lo meno bisogna aspettare le prossime uscite sulla Gazzetta Ufficiale. Invece chi si presenta davanti alla commissione di esami per diventare Magistrato, nominata naturalmente dal CSM e composta in grandissima parte da magistrati, sa che se verrà bocciato non dovrà dire addio per sempre al sogno di indossare una toga: c’è una seconda possibilità e come se non bastasse, perfino la terza. Ma una casta non è tale se non si hanno ulteriori privilegi. Un qualsiasi giudice è esente dalle multe per sosta vietata, perfino se parcheggia per andare a casa. Ha uno sconto del tutto particolare per acquistare la macchina FIAT (vedi tabella sopra), possono svolgere attività extragiudiziarie in barba all'indipendenza della Magistratura come il senatore ed ex sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo che usufruisce stipendi e privilegi da entrambi le caste, o come Di Pietro che da deputato percepisce anche la pensione d’oro da magistrato e di fatto risulta la persona più ricca del parlamento dopo Berlusconi. Ma anche il nuovo Governo Monti non scherza e con la nomina dei sottosegretari i conflitti di interessi si intersecano con quelli della Magistratura:Paolo Peluffo, componente del Consiglio di Stato (quello che auto aumenta lo stipendio dei magistrati amministrativi) e Giovanni Ferrara, procuratore della Repubblica di Roma, procura meglio conosciuta come "il porto delle nebbie" perché in quel luogo molte inchieste si archiviano. Inoltre i magistrati non hanno nessuna responsabilità civile e penale, e se sbagliano con dolo o meno è lo Stato (quindi noi cittadini) a pagare. E come se non bastasse i familiari dei magistrati hanno vie preferenziali per quanto riguarda appetitose convenzioni con la sanità e la scuola; ma anche percorsi facili in politica come Michel Martone, figlio del magistrato Martone (nome tra l'altro comparso nell'inchiesta P3), che è stato appena nominato sottosegretario al Lavoro. E non parliamo del CSM che quasi mai condanna un magistrato (basti ricordare il magistrato beccato in fragranza di reato mentre cercava di approcciarsi con un ragazzino) oppure condanna magistrati scomodi come la Forleo (famosa per l'inchiesta sul caso Antonveneta) che contesta la Casta togata stessa. Sono dati oggettivi che meriterebbero una riflessione e poi anche una domanda: ma questo scontro tra il Potere Politico e quello Giudiziario, è alimentato da nobili idee, oppure semplicemente è puro scontro per il mantenimento di privilegi da una parte e dall’altra? Ai lettori l’ardua sentenza.

La vera casta che nessuno tocca. Si chiama magistratura italiana, scrive Incarcerato su “Gli altri On line”. Siamo in un periodo di forte crisi economica, la rabbia cittadina si indirizza verso i privilegi della casta politica. Fiumi di articoli indignati, inchieste sullo sperpero pubblico da parte dei deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali. Il movimento di Grillo, tra l’altro, è nato soprattutto grazie a questa onda indignata. Ma tutti, o quasi, attaccano il potere politico, ma in maniera ossessiva difendono il potere della magistratura. Un potere abnorme e superiore a qualsiasi altro. La Costituzione italiana assegna alla magistratura il privilegio dell’autogoverno in maniera tale che si autogestisca senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio superiore della magistratura e fuori dal controllo dei cittadini. Una vera e propria corporazione , la quale ha l’unico sindacato che riesce, a differenza di tutti gli altri, ha difendere gli interessi dei lavoratori. Ogni qual volta un qualsiasi governo tenta di mettere mano ai conti della magistratura, subito si attiva l’Anm (Associazione nazionale magistrati) e lo blocca. Un potere abnorme che riesce a modificare la vita politica del Paese. Non si vuole assolutamente delegittimare la magistratura. Siamo tutti ben consci che nel passato, come nel presente, esistono dei valorosi magistrati che per vocazione combattono il malaffare e i connubi del Potere. Rischiano la vita e alcuni – come Falcone e Borsellino, il “giudice ragazzino” Livatino o Scopelliti – sono stati uccisi per le loro coraggiose inchieste. Ma, come in politica, non ci si può far scudo di questi eroi per difendere dei privilegi che non esistono in nessun altro Stato europeo. Privilegi che provocano uno sperpero pubblico togliendo denaro soprattutto alla macchina sempre inceppata della giustizia stessa, la quale ogni anno riceve condanne dall’Unione europea. Inoltre non fa “giustizia” nemmeno per quegli eroi stessi che molto spesso vengono citati strumentalmente. Per fare carriera non esiste la cosiddetta meritocrazia. Tutti i magistrati, indipendentemente da quello che fanno, hanno gli scatti automatici. In soldoni: chi vuole lavora, chi no si astiene. Ed in entrambi i casi hanno la garanzia di una continua e regolare crescita in termini di “status” e di busta paga. Come se un giornalista iniziasse a scrivere gli stessi articoli al Corriere della Sera, sapendo che dopo alcuni anni, comunque vada, diventerà direttore. Così come tutti gli altri suoi colleghi. Lo stipendio e la pensione del magistrato sono i più alti d’Europa. Appena si diventa magistrato attraverso un concorso si viene nominato uditore giudiziario (in pratica una carica che non fa nulla: ascolta per imparare) e percepisce per i primi sei mesi al netto di tutte le ritenute ben € 1.680,50. E dopo sei mesi, sempre che non si abbia ancora alcuna funzione, cioè si ascolti e basta, il nuovo stipendio è al netto di tutte le ritenute di ben € 1.820,77. E poi inizia lo scatto automatico senza alcuna distinzione: da chi scalda semplicemente la scrivania a chi conduce pericolose inchieste! Così il giovane magistrato risulta essere il laureato di primo impiego a più alto reddito. Non c’è paragone con l’industria privata o, per restare nel pubblico, con i medici o i professori universitari. Ma c’è qualcosa di più scandaloso e molti dei lavoratori italiani ne sono all’oscuro, perfino i politici non posseggono questo privilegio: la scala mobile. La scala mobile, o più specificatamente “l’identità di contingenza” fu istituita nel lontano 1975 e serviva ad adeguare gli stipendi al costo della vita. Fu abolita nel 1992 dal governo Amato, tranne per i politici e per i magistrati. Mentre i salari sono dimezzati, al contrario, i magistrati se lo vedono quintuplicare. Lo dicono gli stessi dell’Anm: “Se, infatti, si mettono a confronto gli stipendi dei magistrati prima dell’ingresso nella moneta unica e quelli degli anni successivi è agevole riscontrare che gli stipendi sono cresciuti circa del 30% in 5 anni e circa del 60% in 10 anni”. Ma una casta non è tale se non si hanno ulteriori privilegi: un qualsiasi giudice è esente dalle multe per sosta vietata, perfino se parcheggia per andare a casa; ha uno sconto del tutto particolare per acquistare la macchina Fiat e possono svolgere attività extragiudiziarie (ad esempio i magistrati fuori ruolo) in barba all’indipendenza stessa della magistratura. Inoltre i magistrati non hanno nessuna responsabilità civile e penale e se sbagliano, con dolo o meno, è lo Stato (quindi noi cittadini) a pagare. E come se non bastasse i familiari dei magistrati hanno vie preferenziali per quanto riguarda appetitose convenzioni con la sanità e la scuola; ma anche percorsi facili in politica e altri campi influenti. Sono dati oggettivi che meriterebbero una riflessione e poi anche una domanda: ma questo scontro tra il potere politico e quello giudiziario, è alimentato da “nobili idee”, oppure semplicemente è puro scontro tra poteri? I poteri buoni, non esistono.

Le dieci piaghe della giustizia che l'Italia ora deve debellare. Dalla lunghezza dei processi ai privilegi dei magistrati, il Paese ha bisogno di una riforma radicale per rendere il sistema finalmente equo ed efficiente, scrive Renato Brunetta su “Il Giornale”. La giustizia in Italia non funziona. È un dato di fatto, inutile girarci attorno. Inutile nascondersi dietro i processi di Berlusconi: è solo una scusa per non fare una riforma fondamentale per il nostro Paese e che tutto il mondo ci chiede. Il programma iniziale di questa maggioranza prevedeva una riforma delle istituzioni che rafforzasse il potere politico, per poi procedere, con una rinnovata autorevolezza, alla riforma della giustizia. La strada ce l'ha indicata il capo dello Stato che, con le dichiarazioni a seguito della sentenza della Cassazione su Silvio Berlusconi, ha evocato il lavoro dei saggi da lui incaricati nell'aprile scorso per studiare i termini di una riforma della giustizia. Ma si può fare ancora di più: parallelamente alla riforma della giustizia, promuovere la raccolta firme per i referendum radicali, almeno un milione entro la fine di settembre 2013. La giustizia italiana va riformata da cima a fondo. L'Italia è il Paese con maggior necessità di interventi migliorativi nel settore della giustizia.

1. Il numero di casi pendenti.

Secondo il rapporto della Commissione, l'Italia è tra i Paesi con più alto numero di casi penali non risolti (5,4 milioni di casi irrisolti: 9 ogni 100 abitanti), di cui se ne prescrivono mediamente 356 al giorno. L'Italia è addirittura al primo posto se si osserva il numero di casi non risolti in ambito civile e societario (4,2 milioni di casi irrisolti: 7 ogni 100 abitanti). Conclusioni di quella stessa Commissione europea che se ci impone rigore di bilancio è rispettata e riverita, mentre se ci chiede un sistema giudiziario più efficiente e di maggior qualità rimane del tutto inascoltata.

2. Processi troppo lunghi.

Secondo il rapporto Judicial Performance and its Determinants: A Cross-country Perspective, pubblicato a giugno 2013 dall'Ocse, l'Italia è il Paese in cui i processi sono più lunghi. La durata media dei 3 gradi di giudizio civile nei paesi dell'area Ocse è di 788 giorni: da 395 giorni in Svizzera a ben 8 anni (2.920 giorni) in Italia. Quanto alla durata media del solo primo grado del processo civile, il Rapporto 2012 del Cepej non lascia spazio a dubbi: l'Italia ha il primato con 492 giorni contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. E tempi così dilatati comportano spese elevate per lo Stato. Secondo Confindustria «l'abbattimento del 10% dei tempi della giustizia civile potrebbe determinare un incremento dello 0,8% del Pil».

3. Un costo esagerato.

Quanto al costo dei processi, calcolato dall'Ocse al netto delle spese legali sostenute dai cittadini e in percentuale del valore della causa (ipotizzata pari al 200% del reddito pro-capite), l'Italia si colloca al terzo posto, la Francia all'undicesimo, la Germania oltre il sedicesimo. Ne deriva che, combinando le 2 variabili, lunghezza e costo del processo, l'Italia è, insieme alla Repubblica slovacca e al Giappone, la peggiore in termini di efficienza del sistema giudiziario.

4. Un budget troppo alto.

Al contrario di quanto dichiarato da taluni magistrati che addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia, dal Rapporto 2012 del Cepej emerge che la macchina della giustizia costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro a persona all'anno, contro una media europea di 57,4 euro. In Italia, infatti, ci sono 2,3 tribunali ogni 100.000 abitanti (in Francia solo 1) e ogni magistrato italiano dispone di 3,7 addetti non togati (cancellieri e dattilografi), contro i 2,7 della Germania. Non male!

5. Salari e stipendi.

Come in tutti i bilanci societari, anche per lo Stato, tra i costi, alla macro-classe «magistratura» troviamo una voce «salari e stipendi». Commentando i dati del Rapporto 2012 del Cepej, Stefano Livadiotti ci fa notare che i giudici italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi europei. E all'apice della carriera, cui, come vedremo, giungono rapidamente, percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello medio dei lavoratori dipendenti italiani. Privilegiati? No, per carità!

6. Una scarsa «accountability».

Secondo la professoressa Daniela Piana, che ha curato un intero capitolo dedicato alla magistratura nell'ambito di un saggio pubblicato a maggio 2013 dalla casa editrice Il Mulino: La democrazia in Italia, i primati negativi dell'Italia sul funzionamento della giustizia non sono dovuti al sistema politico, bensì «all'atteggiamento dei giudici, caratterizzato da un mix di impunità, mediazione estrema e politicizzazione senza simili nel mondo occidentale». Essendo le risorse allocate nel settore in linea con gli altri Stati europei, ne consegue un problema di efficienza: «Il sistema di governo della magistratura non alloca incentivi e sanzioni, vincoli ed opportunità». Ne deriva che una scarsa «accountability» del personale rispetto al proprio operato genera comportamenti opportunistici.

7. Meritocrazia zero.

I dati ce li fornisce ancora una volta lo studio sull'Italia del Cepej: l'attuale normativa prevede che, dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati raggiungano, indipendentemente dagli incarichi svolti e dai ruoli ricoperti, la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei magistrati ordinari in servizio era, appunto, all'apice dell'inquadramento.

8. Avanzamenti di carriera.

Ai fini degli avanzamenti di carriera, l'organo competente è il Csm. Tra il 1° luglio 2008 e il 31 luglio 2012, su circa 9.000 magistrati ordinari in servizio, sono state effettuate solo 2.409 valutazioni, di cui negative... 3! Quanto alla responsabilità civile, alias il rischio di sanzioni disciplinari, per gli esposti presentati contro i magistrati è previsto un filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di cassazione. Tra il 2009 e il 2011, sempre sui circa 9.000 magistrati ordinari in servizio, alla Procura generale sono pervenute 5.921 notizie di illecito, di cui 5.498 (il 92,9%) sono state archiviate. Ciò vuol dire che solo il 7,1% delle denunce è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm. Che strano...

9. E la responsabilità civile?

Quanto alla responsabilità civile dei magistrati, in teoria, ci sarebbe la Legge n. 117/1988, voluta dall'allora ministro della Giustizia, Giuliano Vassalli, che stabilisce un limite di 2 anni per l'esercizio dell'azione; prevede un filtro di ammissibilità per i ricorsi e attribuisce allo Stato la possibilità di rivalersi, per i danni liquidati a risarcimento di un errore giudiziario, sullo stipendio del magistrato colpevole (con il tetto massimo di 1/3). Stefano Livadiotti, autore del libro Magistrati l'ultracasta, ci fa notare come, in ossequio a tale Legge, dal 1988 al 2011 in Italia siano stati presentati solo 400 ricorsi (in 23 anni!!!) per risarcimento danni da responsabilità dei giudici. Di questi, il 63% sono stati dichiarati inammissibili; il 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità; il 16,5% sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità e solo l'8,5% sono state dichiarate ammissibili. Di questo 8,5%, vale a dire di 34 ricorsi, 16 sono ancora pendenti e 18 sono stati giudicati: lo Stato ha perso solo 4 volte, pari all'l,1% dei già pochissimi ricorsi presentati.

10. Da zero a uno: meno di 0,5.

Dulcis in fundo. Il World Justice Project è un'organizzazione non profit, indipendente, che ogni anno, al pari della Commissione europea, stila un indice, denominato «Rule of Law Index», di valutazione dell'aderenza del sistema giudiziario degli Stati alle regole del diritto. In particolare, le valutazioni sono svolte sulla base di 4 parametri: l'affidabilità, la credibilità e l'integrità morale dei giudici; la chiarezza e la capacità delle Leggi di garantire i diritti fondamentali, tra cui la sicurezza di persone e cose; il grado di accessibilità, efficienza ed equità del processo; la competenza e l'indipendenza dei magistrati e l'adeguatezza delle risorse messe a loro disposizione. I punteggi per gli Stati sono compresi in un range che va da zero a uno. Per nessuno dei 4 indicatori l'Italia supera lo 0,5, eccezion fatta per l'adeguatezza delle risorse... Se la qualità, l'indipendenza e l'efficienza della giustizia giocano un ruolo fondamentale nel riportare fiducia negli Stati e ritornare a crescere, come ci ha detto il commissario Reding, rimbocchiamoci le maniche: lavoriamo per migliorarla. Con la raccolta delle firme, ma anche, in parallelo, dando veste normativa alle proposte di riforma della giustizia avanzate dalla commissione dei saggi voluta, prima della formazione del governo Letta, dal presidente Napolitano. Dipende solo da noi.

Magistratura italiana: verità e omissioni. L'Associaizone Nazionale dei Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il documento “La verità dell'Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla ANM e parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto talmente lacunoso da essere sospetto. Ecco perché, scrive “Agora Vox”. La Costituzione italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell'autogoverno, cosicché essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini. La Magistratura italiana è stata messa sotto accusa per molti motivi: gli stipendi e l'orario di lavoro dei magistrati, i costi, la lunghezza dei processi, la politicizzazione. A fronte delle critiche ricevute l'ANM, Associazione Nazionale dei Magistrati, ha pubblicato un documento (in allegato) “La verità dell' Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla Comunità Europea e ove vengono confrontati i sistemi giudiziari dei paesi membri della U (rapporto CEPEJ 2008). È un documento dettagliato ma è talmente lacunoso da essere sospetto, perché le verità citate sono solo alcune delle verità dell' Europa. Il fatto che i magistrati non hanno un orario di lavoro viene così motivato «essi sono equiparati a dirigenti che non hanno orario di lavoro». Succede però che i dirigenti, almeno quelli delle aziende private, avendo dipendenti lavorano in ufficio ben oltre l'orario di lavoro, invece i magistrati non hanno dipendenti e di fatto sono sul luogo di lavoro per poche ore alla settimana! Il rapporto ANM è interessante più per ciò che trascura che per ciò che esamina. Si parla del carico di lavoro dei magistrati e del loro stipendio per mostrare che la magistratura italiana non è sovrapagata e non è vero che produce poco. È una difesa corporativa con gravi omissioni perchè non si parla dell'argomento più importante: cioè del servizio reso ai cittadini. Ai cittadini interessa il costo che debbono subire per ottenere giustizia e il tempi di attesa per ottenere tale giustizia. Ho avuto esperienza di dovermi difendere da una pretesa di usucapione avanzata da un erede contro gli altri. L'usucapione richiede 20 anni di possesso incontestato per essere praticabile. Orbene le proprietà in oggetto provenivano da una altra successione di meno di 20 anni prima: una causa, inconsistente di partenza, durata 8 anni e per la quale mi è stato presentato una parcella di oltre 12mila Euro, quasi equivalente al valore del contendere! Come potere chiamare giustizia civile un processo che costa come il valore del contendere e che richiede anni prima di arrivare ad una risoluzione! Alla omissione del confronto tra la durata dei processi in Italia rispetto alla durata media negli altri paesi europei provvede peraltro un altro rapporto della UE del marzo 2013 (in allegato) da cui risulta che il tempo medio di durata dei processi in Italia è il più lungo tra i 27 paesi della UE, eccetto Cipro e Malta. Questo report documenta anche come processi lunghi significhino alti costi per il cittadino. Il documento ANM cita perciò solo alcune delle verità dell'Europa. Colpisce il numero dei processi attivati in Italia: una quantità impressionante! Sembrerebbe perciò che gli Italiani siano il popolo più litigioso del mondo, ma pensando all' esempio che segue appare che la moltiplicazione dei processi non è tanto colpa del cittadino ma della Amministrazione della Giustizia. Ho avuto esperienze personali istruttive al proposito. Per un inquilino che non pagava, ho dovuto fare tre procedimenti distinti. La prima per lo sfratto, la seconda per liberare l' appartamento, la terza per ottenere un decreto ingiuntivo di pagamento che ha portato a risultato zero. Ogni volta pagando spese di tribunale, ufficiale giudiziario ed avvocati! Una giustizia che ha richiesto 3 cause, oltre 3 anni ed un costo assurdo. Interessante è l'analisi della produttività dei magistrati italiani espressa come rapporto tra il numero di nuove cause aperte ogni anno ed il numero dei magistrati in organico. Risulta che i magistrati italiani sono tra i più produttivi in Europa. Può trattarsi di un dato falso perché in Italia a lato dei magistrati ordinari esiste una magistratura Onoraria con 1981 Giudici Onorari e 2092 giudici di pace che sono fuori organico ma smaltiscono cause. ANM dichiara che i magistrati italiani non hanno né benefit né altri emolumenti, dimentica però di precisare che i magistrati italiani possano ricoprire altri incarichi retribuiti. Nella classifica mondiale stilata dal World Economic Forum la giustizia italiana è valutata al 68esimo posto nel mondo! Ai cittadini italiani è reso un servizio di Giustizia peggiore di quello di molti paesi del terzo mondo: peggiore per esempio di Egitto, Cile, Costa Rica, Gambia, Pakistan, Slovenia e perfino dell'Iran. Il CSM ha un bilancio quasi impossibile da reperire e talmente lacunoso da non potere essere neppure chiamato "bilancio". Cosicché i giudici così solerti nelle indagini alle imprese dovrebbero anzitutto auto-indagarsi. Il CSM ha 27 consiglieri e 20 autisti e auto blu ed i Consiglieri ricevono, oltre lo stipendio, 75mila Euro l'anno di indennità di carica oltre i rimborsi spese e gettoni di presenza. Sono talmente oberati di lavoro che sono presenti 4 giorni alla settimana per sole 3 settimane al mese. Il CSM ha un regolamento di Amministrazione e Contabilità del 15 dicembre 2005 che all'articolo 25, comma 1, definisce le indennità riconosciute ai propri membri per la partecipazione ai diversi Comitati di Gestione. Come se partecipare ai Comitati di Gestione non faccia parte del lavoro dei membri del CSM ma sia un lavoro extra. Vi è scritto che "l'indennità spetta per non più di 3 sedute giornaliere". Dal momento che non è scritto se tale limite è al mese, se ne potrebbe dedurre che un membro del CSM può ogni giorno chiedere tre indennità! Magari per sedute che durano 30 minuti! Sul sito web del CSM è introvabile il resoconto dettagliato delle spese. Se la Magistratura vuole davvero evitare di essere messa sotto accusa dalla opinione pubblica perché non comincia con il rispettare gli obblighi di trasparenza di bilancio? Il secondo passo sarebbe motivare perché nelle classifiche internazionali sulla Giustizia l'Italia risulta al 68mo posto ma soprattutto agire per cancellare questa ingiustizia ai cittadini italiani. Dare risposta ai cittadini italiani è opportuno e doveroso perché le classifiche internazionali mica le ha fatte Berlusconi!

I costi della Pubblica Amministrazione. Nomi e stipendi dei Paperoni di Stato. Nei ministeri, nei Comuni, nelle Regioni e nella Sanità dilaga un esercito di alti dirigenti che guadagnano in media molto più dei loro colleghi europei. Per loro, nessuna spending review, scrive Corrado Giustiniani “L’Espresso”. L’unica certezza è che sono una vera armata, che avanza nella nebbia sopravvivendo a qualunque istanza di riforma o modernizzazione. I ranghi dei dirigenti della pubblica amministrazione italiana sono colossali. Sfuggono ai censimenti: le ultime stime mostrano una vera moltitudine, con poco meno di 200 mila tra superburocrati e quadri di seconda fila mantenuti dai contribuenti. Una coda sterminata di poltrone e talvolta poltronissime, che si stende lungo l’intera penisola. Impossibile capire quanto guadagnino, perché resistono anche alle richieste ufficiali. Di sicuro, le figure al vertice hanno paghe di gran lunga superiori ai loro parigrado europei. Uno studio internazionale li ha indicati come i meglio retribuiti al mondo, spiazzando la competizione dei colleghi di qualunque nazione. Il costo totale è stratosferico: va da un minimo di 15 miliardi di euro l’anno fino a una stima di ben venti. E inutile cercare parametri di merito e di produttività: ogni anno dichiarano di avere raggiunto gli obiettivi, anche se la percezione della loro efficienza è decisamente bassa. Sì, l’Italia è piena di dirigenti, uno status che quasi sempre dura tutta la vita, mentre l’efficienza dell’amministrazione di Stato, Regioni, Province e Comuni resta sotto gli occhi di tutti e ci allontana sempre più dall’Europa. Un’elaborazione della Cisl-Fp, basata sul dossier della Corte dei Conti del 2013 sul costo del lavoro pubblico, arriva a contare 168 mila dirigenti e una spesa lorda per le loro retribuzioni di quasi 15 miliardi l’anno. Ma il confronto con un altro rapporto – realizzato dal professore Roberto Perotti per Lavoce.info   – evidenzia una serie di lacune: dai 16 mila ufficiali delle forze armate ai 3987 dirigenti dei corpi di polizia, fino ai 9754 magistrati. Figure che, per ruolo e reddito, sicuramente vanno considerate nel novero della dirigenza. Integrando i rilevamenti, si arriva a quasi 200 mila. La spending review finora li ha solo sfiorati, incidendo più sui benefit - dalle auto blu alle missioni senza controllo - che sulla busta paga. Mentre la crisi falcia i compensi e spesso il posto di lavoro dei manager privati, loro non corrono rischi. La tutela della poltrona è totale: se anche le province venissero finalmente abolite, i 1406 burocrati di livello sarebbero subito riciclati. Quelli al vertice, ben 131, potranno ancora contare su 145 mila euro; gli altri ne riceveranno sempre 100 mila. L’ultimo tentativo di fare chiarezza su numeri e stipendi è stato lanciato dall’Anac, l’Autorità anti corruzione e per la trasparenza. Entro il 31 gennaio tutti i siti web della pubblica amministrazione avrebbero dovuto mettere in Rete nomi e retribuzioni dei loro dirigenti. “L’Espresso” presenta in esclusiva i risultati di questa operazione, che ha lasciato ampie zone di opacità, ma permette di stilare una classifica dei “Paperoni di Stato” con i redditi più alti. Abbiamo analizzato la trasparenza dei siti ministeriali, dove operano 3.168 dirigenti, per una spesa annuale di 325 milioni, secondo i dati 2013 della Corte dei conti. E poi quelli di due enti pubblici non economici, delle Authority e altre istituzioni. Il risultato non è incoraggiante. Molte amministrazioni non rispettano la legge, soprattutto per i vertici e gli organi di indirizzo politico, che dovrebbero rendere note non solo le retribuzioni, ma persino gli importi di missioni e viaggi. A sorpresa la Camera dei deputati - che come organo costituzionale era esentata da quest’obbligo - ha fornito una tabella con i guadagni (imponibile fiscale più contributi) dei suoi funzionari. Il segretario generale Ugo Zampetti, ad esempio, ha un lordo complessivo di 478 mila 149 euro, ed è il secondo nella hit parade degli stipendiati pubblici. I suoi due vice sono Aurelio Speziale e Guido Letta, cugino di Enrico e nipote di Gianni: prendono 359 mila euro a testa. Ma ci sono altre otto retribuzioni da 300 mila euro in su. Quelle dei consiglieri parlamentari che sono a Montecitorio da più di trent’anni: sette di questi alti funzionari hanno un lordo di 375 mila euro e uno, che si sta avvicinando a 40 anni di servizio, è già a quota 402 mila. Se poi pensiamo che 82 consiglieri della Camera su 176, dunque quasi la metà, hanno un’anzianità compresa tra i 21 e i 30 anni (guadagnando per ora 269 mila euro), risulta chiaro che molti altri “trecentisti” crescono. Il Senato, invece, non ha pubblicato nessuna griglia: ma certo dà il suo pesante contributo a rinforzare il lotto dei super-ricchi. Un caso che fa discutere è quello della Corte Costituzionale. Lo sollevò “L’Espresso” già nel 2008, con un’inchiesta di Primo Di Nicola , lo ha ripreso di recente il professore Perotti, sottolineando come il presidente della Corte guadagni il triplo del suo corrispondente statunitense e il doppio del suo pari grado canadese. Il sito della Consulta non pubblica stipendi. Ma quelli dei giudici possono essere facilmente ricostruiti, perché definiti per legge. Anzitutto, la legge costituzionale numero 1 del 1953, che stabiliva “una retribuzione mensile che non può essere inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria”. Prendendo la norma alla lettera, si passò con un’altra legge dello stesso anno dal “non può essere inferiore” alla precisa equiparazione economica con il Primo presidente della Cassazione, attribuendo però in più al vertice “un’indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione”. Così hanno funzionato le cose, per cinquant’anni. Se quelle norme fossero ancora in vigore, lo stipendio dei giudici costituzionali sarebbe di 303 mila e il loro presidente veleggerebbe sui 454 mila. Ma, evidentemente, non bastavano. E così ecco che il secondo governo Berlusconi infila nella legge finanziaria 2003 la norma scandalo: prevede infatti che, ferma restando la maggiorazione per il Presidente, l’importo della retribuzione vada “aumentato della metà” rispetto a quello del più alto magistrato ordinario. Il risultato? Gaetano Silvestri è oggi a 545 mila euro lordi e i suoi 14 colleghi a 454 mila, per i nove anni del mandato. L’età media dei giudici (76 anni e solo perché l’unica donna del gruppo, Marta Cartabia, con i suoi 51 anni la abbassa di un biennio) suggerirebbe un atto di saggezza e di coraggio: che siano loro a proporre un ritorno alle norme del primo Dopoguerra, che certo non li metterebbero sul lastrico. Sarebbe questo un bel segnale, per un Paese che vive un momento drammatico. E una concreta lezione di diritto. Il ministero dell’Interno si è messo in regola con il censimento nel giorno della scadenza, il 31 gennaio. Ma è necessario uno slalom online: dal sito si arriva agli stipendi in quattro mosse. Prima un clic in home page su “trasparenza amministrativa”, poi su ”personale”, quindi “dirigenti” e infine “compensi”. Ma c’è una curiosa particolarità: vengono pubblicate le singole voci retributive (stipendio tabellare, retribuzione di posizione, di risultato ecc.), ma poi è l’utente che deve fare la somma per arrivare al totale lordo. Scopriamo così - tra retribuzioni top e quelle dei dirigenti di prima fascia - che la polizia vale quasi il doppio dei vigili del fuoco. Alessandro Pansa, capo del Dipartimento di pubblica sicurezza, prende infatti 301 mila 344 euro mentre Alberto Di Pace, al vertice dei pompieri, ne guadagna 174 mila. Lo stesso principio - se vuoi sapere quanto guadagniamo, fatti da te le somme - è adottato dal ministero dell’Economia, che pubblica nomi e voci stipendiali. Il Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, sfonda il tetto, con 303 mila e 300 euro. Fabrizio Barca è a 178 mila euro, centomila abbondanti in meno di Giuseppina Baffi, presidente della Consip, figlia dell’ex governatore della Banca d’Italia. Va bocciato il sito dell’Agenzia delle Entrate che non pubblica le tabelle nominative dei compensi, ma solo una schedina sommaria. Unica eccezione, il direttore Attilio Befera. Alla fine del suo curriculum vitae si chiarisce che guadagna quanto il primo presidente di Cassazione. Largamente incompleto il sito del ministero del Lavoro. Il clic sui nominativi della direzione generale Ammortizzatori sociali, ad esempio, ti rinvia a una pagina bianca. Al contrario, le Politiche agricole offrono un servizio chiavi in mano a chi lo consulta, perché calcolano addirittura il netto dei dirigenti. Lo stipendio più elevato, per la cronaca, è di Giuseppe Serino, 293 mila euro lordi, circa 150 mila netti: che sono 11 mila 500 euro per tredici mensilità. La palma del sito peggiore va al ministero della Difesa, seguito a ruota da quello degli Esteri. Nel primo se si va alla voce “incarichi amministrativi di vertice” si scopre che “la presente sezione è in corso di aggiornamento”, così come quella chiamata “accessibilità e dati aperti”. Si scrive poi che i curriculum sono aggiornati al 31 dicembre scorso, e invece alcuni risalgono al 2010. Non ci sono nomi e stipendi dei generali, ma una semplice schedina in cui si spiega che variano da 124 mila a 79 mila euro, ma poi si dice che andrebbero aggiunti straordinario e indennità accessorie, che però non è scritto a quanto ammontino. In definitiva vengono pubblicati solo gli stipendi dei dirigenti civili di seconda fascia. Solo i generali sono 445 e in più si contano 2300 colonnelli. Che godono di un privilegio in più: a 60 anni i graduati delle forze armate lasciano il servizio attivo ed entrano nell’ausiliaria, restando a disposizione delle pubbliche amministrazioni. Una voce che nel 2013 è costata 431 milioni di euro. La Farnesina se la cava con un anonimo schedone riassuntivo di funzioni, gradi e totale lordo. Come mai? «Non figurano i nomi dei singoli percettori a causa dell’alta mobilità tra Roma ed estero del personale del ministero degli Esteri», è la cortese risposta ufficiale che abbiamo ricevuto. Mobilità che però non impedisce a questi dirigenti di avere un Cud. Dalla griglia si capisce subito, tuttavia, che sono qui le posizioni più forti. Dietro al Segretario generale, fotografato a 301 mila 320 euro, ci sono posizioni da 273-263- 246 mila euro. Non sono pubblicati, in particolare, dati sugli ambasciatori, ma la fonte ci chiarisce quanto percepiscono quelli di rango (sono in 24, nel massimo grado della carriera): 5 mila euro netti circa di stipendio, più un’indennità di servizio all’estero che varia a seconda della sede (in base a costo della vita, fattori di rischio ecc.): a Budapest è di 12.175 euro netti al mese, a Parigi di 15.610, a Washington di 19.220, somme aumentate del 20 per cento per la moglie a carico e del 5 per cento per ogni figlio. Gli ambasciatori più importanti, con moglie e un figlio, possono dunque arrivare a 15 mila, 20 mila, persino 29 mila euro netti (attenzione: netti) al mese, e per le spese di rappresentanza sono coperti da un apposito assegno. Sfogliando le pagine dei vari siti pubblici, balza poi all’occhio che, senza arrivare agli incarichi apicali, svariate decine di dirigenti di prima fascia hanno una retribuzione superiore ai 200 mila euro lordi: più di venti soltanto alla Presidenza del Consiglio dove Franco Gabrielli, il capo della Protezione civile, arriva a sfiorare i 300 mila. Quanto alla seconda fascia, la media retributiva è attorno agli 85 mila euro, con alcune vigorose eccezioni. Come l’Agcom, l’Autorità di garanzia delle comunicazioni, dove nessuno dei ben 121 dirigenti ha un lordo inferiore ai 120 mila euro, comprensivi di compenso variabile. Marcello Cardani, presidente dell’Authority, si attesta sul tetto dei 302 mila euro. Ma anche all’Inail i dirigenti di seconda fascia stanno bene, perché sui 153 di cui il sito fornisce i dati, con chiarezza, soltanto due sono le retribuzioni sotto i 100 mila euro. Se è promosso il sito dell’Inail, è bocciato quello dell’Inps. Invece del tabellone con nominativi e compensi, presenta uno schema riassuntivo delle paghe dei 612 dirigenti e una torta multicolore che dà notizie sulla retribuzione di risultato. Dati fermi, per giunta, al 2011. Si arriva comunque allo stipendio del direttore generale, Mauro Nori: 302.937 euro l’anno, quasi 30 mila in più del direttore Inail, Giuseppe Lucibello. La Corte dei conti non dice quanto guadagni il suo presidente, Raffaele Squitieri. Certo di più del presidente aggiunto, Giorgio Clemente, che ne percepisce 301 mila 320. La stragrande maggioranza dei consiglieri prende oltre i 240 mila euro. Un sito totalmente opaco è quello dell’Avvocatura dello Stato: se si clicca su “dirigenti” ci si trova davanti a una pagina bianca. Ma tutte le amministrazioni, nessuna esclusa, sono trasparenti al massimo quando si tratta di indicare nomi ed emolumenti dei collaboratori esterni. Eppure sarebbe facile avere tutte le retribuzioni dei dirigenti in Rete e senza ritardi. «Basterebbe che le cifre fossero fornite dalle direzioni del personale che predispongono i Cud», spiega Costanza Pera, direttore generale delle Politiche abitative al ministero delle Infrastrutture: «I dirigenti dovrebbero solo dichiarare nella stessa pagina gli eventuali proventi degli incarichi aggiuntivi». Ci vorrebbe l’obbligo di aggiornamento alla data della denuncia dei redditi, e tutto diventerebbe miracolosamente trasparente. Quel mare di regole, invece, sembra favorire l’opacità. Che confonde persino gli analisti economici internazionali. Nello scorso novembre un dossier dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, ha presentato una tabella sconvolgente. I nostri superburocrati sono di gran lunga i meglio pagati del pianeta: svettano clamorosamente in tutte le comparazioni. Considerando contributi e straordinari, si superano i 600 mila dollari l’anno contro una media delle nazioni più evolute attestata sotto la metà. Gli italiani sono al top pure nel confronto con il reddito medio nazionale e persino nel paragone con gli stipendi dei laureati. Il ministero della Funzione pubblica ha subito rettificato: la rilevazione dell’Ocse riguarda solo sei ministeri e si basa sui dati 2011, prima che venisse introdotto il tetto dei 302 mila euro l’anno. Inoltre da noi i contributi pesano molto più che altrove. Certo, ma anche considerando queste correzioni l’asticella resta altissima. Non è altrettanto elevata la considerazione per l’efficienza dei nostri amministratori pubblici. Che però intascano sempre la “retribuzione di risultato”. A tutti i dirigenti viene pagata questa voce economica, nessuno escluso. L’importo varia da un minimo di 7mila a un massimo di 60 mila l’anno. Dipende dalle diverse amministrazioni, dagli obiettivi fissati all’inizio dell’anno, dal grado di raggiungimento degli stessi, e dalle diverse posizioni. E chi garantisce che gli obiettivi siano sempre sensati, e non talvolta indicati solo strumentalmente? L’impressione è che vi sia molto da fare, nella valutazione delle performance. Ma intanto teniamoci questa convinzione: tutti i dirigenti hanno un rendimento positivo. E questo per il cittadino è consolante. Anche se non sempre palpabile, a giudicare dal funzionamento di Stato, Regioni, Comuni e Province. Che tutti vorrebbero riformare, partendo da quelle più meridionali. Sarà mai fatto?

LO STATO DELLA CASTA: COME EVADE LE TASSE E COME TRUFFALDINAMENTE SI FINANZIA.

Tasse, ecco come la Casta si è dimezzata l'aliquota. Con un trucchetto, grazie a un lavorìo rimasto sempre sotto traccia, è passata la riduzione al 18,7 delle tasse sulla busta paga di deputati e senatori, scrive Stefano Livadiotti su “L’Espresso”. I partiti politici italiani se le sono date di santa ragione per favorire a colpi di leggi i loro rispettivi bacini elettorali. Ma su un fronte hanno lavorato tutti insieme appassionatamente. L’obiettivo era quello di garantire un trattamento fiscale di straordinario privilegio ai loro rappresentanti in parlamento (ma le stesse regole sono previste anche per gli onorevoli regionali). Ed è stato perfettamente centrato, con un lavorìo rimasto sempre sotto traccia. Pochi lo sanno: l’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici economici e pensionistici degli onorevoli. Ma quelli fiscali sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera in rappresentanza del popolo italiano è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento. Ecco come funziona, documenti ufficiali alla mano (ricavati dal sito istituzionale della Camera). Prendiamo un parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare mai una seduta di Montecitorio. La voce più pesante della sua busta paga è l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno. Dall’importo vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è esentasse, come vedremo (e come d’altronde è scritto nero su bianco nella relazione al 31 dicembre 2011 su Attività e risultati della Commissione Giovannini sul livellamento retributivo Italia-Europa). L’onorevole subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918 euro (11.019 euro l’anno). Dall’indennità parlamentare viene infine detratta una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria integrativa. Il trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno positivo, tutti benefit esentasse. La prima è la diaria, una sorta di rimborso per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037 l’anno) e viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza. La seconda è il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese (44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con pezze d’appoggio (per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo forfettario. La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo (ai fini della nostra simulazione abbiamo ipotizzato che ciò gli consenta di risparmiare 5 mila euro tondi l’anno) e un rimborso forfettario delle spese di trasporto (ma non viaggia già gratis?) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno). La quarta voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro l’anno) per le bollette telefoniche. Il pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a 189.431 euro. Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro. Che corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per cento. Qualunque altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del 39,4 per cento). L’onorevole paga dunque solo il 47 per cento di quello che toccherebbe a un cittadino comune (e per semplicità non si è tenuto conto degli ulteriori benefici di cui gode sulle addizionali regionale e comunale) e risparmia ogni anno qualcosa come 39 mila euro d’imposta (vedere la tabella nella pagina a fianco). A consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa, da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) e ai giudici costituzionali, «purché l’erogazione di tali somme e i relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi». Il rispetto dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione. Ma il parlamento ha deciso diversamente. Costringendo altri uffici pubblici a fare i salti mortali per non doverne censurare le scelte. Basti pensare che il Gruppo di lavoro sull’erosione fiscale, costituito a suo tempo da Tremonti per tagliare la spesa pubblica e presieduto da Vieri Ceriani, non avendo altri criteri di rilievo costituzionale per giustificare le ragioni di tali benefici fiscali ha dovuto classificarli tra le misure a rilevanza sociale, cioè alla stregua di quelle a favore delle Onlus e del terzo settore e di quelle che aiutano l’occupazione. Poi dice l’antipolitica. Ma non è finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento a Lorsignori doveva sembrare ancora poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir (Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917). Ecco come hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare di 784 euro. Trattandosi di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dello chèque. L’articolo 17, comma 1 del D.P.R. 917/86 prevede, come per il Tfr dei lavoratori, una tassazione separata dell’assegno di fine mandato, per evitare che si sommi al reddito dell’anno in cui viene incassato, facendo così scattare un’aliquota fiscale più alta. Ma c’è un’altra disposizione (contenuta nell’articolo 19, comma 2 bis del Tuir) che riguarda il metodo di tassazione separata dell’indennità spettante ai dipendenti pubblici (buonuscita per gli statali) e agli assimilati (soci lavoratori delle cooperative, sacerdoti e parlamentari): dice che la base imponibile dell’assegno va determinata in funzione del peso del contributo a carico del datore di lavoro sul totale del contributo previdenziale. Per capire meglio, prendiamo un caso concreto. Quello di un dipendente pubblico, la cui indennità di buonuscita è alimentata da un contributo obbligatorio a carico del lavoratore nella misura del 2,5 per cento e da contributi a carico del datore di lavoro del 7,10, per un totale del 9,60 per cento. Il contributo pubblico del 7,10 per cento corrisponde al 73,96 del 9,60 per cento. Quindi al travet verrà tassato il 73,96 per cento della buonuscita. Non avviene così nel caso dei parlamentari. Disciplinando da soli il sistema di rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non pagare un euro bucato di tassazione separata sull’assegno di fine mandato. Il trucco è tanto banale quanto efficace: mentre per il dipendente pubblico, come abbiamo visto, il 73,96 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di lavoro; nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non deve pagare. Non è certo da questi politici (a parte qualche lodevole eccezione) che ci si può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse. Testo tratto dal saggio di Stefano Livadiotti “Ladri - Gli evasori e i politici che li proteggono” (Bompiani).

Finanziamento Pubblico. Staderini svela il bluff: si rischia la legge truffa. Il Disegno di legge elimina solo alcune norme mentre il finanziamento ai partiti resta pubblico, scrive Fabrizio Marino su “L’Inchiesta”. Il Consiglio dei ministri ha da poco approvato il disegno di legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ma già scattano le prime polemiche. Tra i primi sulle barricate è salito il segretario dei radicali Mario Staderini, che dal suo profilo twitter ha commentato così la decisione del Cdm: «smettete di dire che il governo abolisce il finanziamento pubblico ai partiti. Cambia solo il modo di prendere i soldi dalle nostre tasche...».

Segretario perché questo tweet?

«Innanzitutto bisogna fare chiarezza sul significato di finanziamento pubblico. Questo avviene quando le tasse dei cittadini finiscono direttamente agli apparati di partito. In questo disegno di legge ci si è limitati soltanto ad abrogare le vecchie norme. E’ vero che il ministro Quagliarello ha detto che questo finanziamento va abolito, ma di fatto non è stata invertita la rotta rispetto a quando il sistema vincente era quello in cui le tasse dei cittadini finivano ai partiti. Si continua infatti su questa strada modificando soltanto alcune modalità che si è cercato di rendere, almeno nelle intenzioni, meno scandalose».

Cosa cambia quindi con questo disegno di legge?

«Cambiano la modalità del rimborso perché si passa da un fondo fisso calcolato in base ai voti, a un fondo in parte scelto dalle indicazioni dei contribuenti. Mettiamola così, questo finanziamento rimane un finanziamento pubblico perché comunque viene preso dal bilancio dello stato, solo che adesso i cittadini possono esprimere una loro preferenza. Se poi fosse, come sembra, simile al modello dell’8xmille - e cioè che anche chi non esprime una preferenza è costretto a finanziare i partiti - sarebbe una truffa clamorosa».

Secondo lei quale sarebbe la soluzione più adatta per riformare il sistema attuale?

«Noi siamo per un sistema in cui i partiti si fanno finanziare da donazioni private fatte esclusivamente dai cittadini, persone fisiche intendo, con tetto limitato e non dalle persone giuridiche o dalle società. L’unica cosa che deve garantire lo Stato sono i servizi alla politica e non solo ai partiti. Questo modello, che poi è quello che gli italiani avevano scelto con il referendum del 1993, non è stato scelto. Tuttavia si è optato comunque per un finanziamento pubblico che, si spera, abbia modalità meno scandalose».

Neppure la progressiva diminuzione dei finanziamenti nel tempo la convince?

«Non è serio mantenere per quattro anni il sistema attuale con piccole riduzioni. Noi siamo convinti che si debbano riconoscere solo le spese sostenute in campagna elettorale, perché possono essere rendicontate, il resto non deve essere dato. E non è tutto perché sono sicuro che il già debole disegno di legge verrà stravolto in parlamento. Proprio per questo domani ci incontreremo a Roma per un’assemblea referendaria, con il comitato cambiamonoi.it, in cui proporremo una serie di referendum tra cui quello che abolisce definitivamente il finanziamento pubblico ai partiti»

La truffa del finanziamento pubblico ai partiti. La notizia dell’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti è falsa. Con questa legge i partiti costeranno al contribuente da 30 a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora, scrive Roberto Perotti su “La Voce.info”.  (Questo articolo è stato modificato alle ore 21:30 di sabato 14 dicembre 2013, un’ora dopo la prima pubblicazione. La modifica riflette un’ incertezza nell’ interpretazione della legge. Questa nuova versione assume che  il decreto legge – che al momento di scrivere questo articolo non è disponibile su alcun sito ufficiale – abolisca il cofinanziamento del 50 percento delle elargizioni ai partiti. La versione precedente assumeva che il cofinanziamento sia ancora presente, e portava a una stima dei costi più alta). 

GLI ANNUNCI DEL GOVERNO SONO UNA COSA LA REALTA’ UN’ALTRA.

Il governo ha annunciato che il finanziamento ai partiti sarà abolito interamente a partire dal 2017. La realtà è ben diversa:  i partiti continueranno a pesare sul contribuente, da 30 milioni a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora. Il motivo è nascosto tra le pieghe della legge approvata dalla Camera il 18 ottobre e riproposta nel decreto legge del governo del 13 dicembre. Con la legislazione vigente, i partiti avevano diritto a un massimo di 91 milioni di euro all’anno: 63,7 milioni come rimborso spese elettorali, e 27,3 milioni come cofinanziamento per quote associative ed erogazioni liberali ricevute. Inoltre, il 26 percento delle erogazioni liberali ai partiti erano detraibili dall’ imposta dovuta.

LE NOVITA’ PRINCIPALI DELLA LEGGE.

1) elimina i rimborsi delle spese elettorali dal 2017 (li riduce del 25 percento ogni anno fino ad arrivare a zero nel 2017).

2) innalza dal 26 al 37 percento la detrazione per le erogazioni liberali fino a 20.000 euro (la stragrande maggioranza).

3) consente al contribuente di destinare a un partito il 2 per mille della propria imposta.

L’ interpretazione universale è che, dal 2017, i partiti non prenderanno più un euro dallo Stato, e dovranno sopravvivere solo con contributi privati. Questa interpretazione è falsa: vediamo perché.

QUANTO RICEVERANNO ORA I PARTITI?

La prima cosa da notare è che i soldi ricevuti dai partiti attraverso il 2 per mille non sono un regalo deciso da privati: sono a carico di tutti i contribuenti. Il motivo è che il 2 per mille è di fatto una detrazione al 100 percento dall’ imposta dovuta. Se lo stato raccoglieva 10.000 euro in tasse per pagare sanità e pensioni, e ora un contribuente destina 1 euro a un partito attraverso il 2 per mille, tutti i contribuenti nel loro complesso dovranno pagare 1 euro di tasse in più per continuare a pagare pensioni e sanità.

L’ art. 12, comma 12 della legge autorizza una spesa massima per il 2 per mille ai partiti pari a 45 milioni dal 2017. E’ plausibile che venga toccato questo tetto? Gli iscritti totali ai partiti sono probabilmente circa 2 milioni (nel 2011 gli iscritti al PdL erano 1 milione, quelli al PD mezzo milione). Non tutti gli iscritti ai partiti pagano l’ Irpef, e non tutti sceglieranno il 2 per mille. Tuttavia, dall’ esperienza analoga dell’ 8 per mille sappiamo che, quando il costo è zero, una percentuale notevole dei contribuenti esercita la scelta. Una stima prudenziale suggerisce quindi che il gettito del 2 per mille potrebbe essere tra i 20 e i 30 milioni.

L’ art. 11 della legge, comma 9, prevede che le detrazioni per erogazioni liberali siano di circa 16 milioni a partire dal 2016. Si noti che la legge consente di detrarre anche il 75 percento (!) delle spese per partecipazioni a scuole o corsi di formazione politica. Nella colonna 1 della tabella sottostante assumo uno scenario prudenziale: le detrazioni saranno la metà del previsto, cioè solo 8 milioni, e il gettito del 2 per mille di 20 milioni. Il costo totale per il contribuente sarà di quasi 30 milioni. Nella colonna 2 assumo uno scenario intermedio: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 30 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 45 milioni. Nella colonna 3 assumo uno scenario normale: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 45 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 60 milioni!

IL TETTO MASSIMO DEL 2 PER MILLE.

C’è poi un meccanismo molto complicato, ed egualmente insensato (e quasi certamente non compreso neanche da chi ha scritto e votato la legge). Per il comma 11 dell’ art. 11, se le detrazioni per elargizioni liberali sono inferiori a 16 milioni, la differenza verrà aggiunta al tetto di spesa per il 2 per mille. Quindi di fatto in questo caso il tetto massimo del 2 per mille può arrivare a 61 milioni invece di 45. Poiché non sappiamo come reagiranno i contribuenti alla opzione del 2 per mille, questo è un modo per assicurarsi che, se c’è molta richiesta per il 2 per mille e poche elargizioni liberali, la richiesta del 2 per mille non vada “sprecata” dal tetto di 45 milioni.

Si noti infine che le detrazioni per erogazioni liberali sono pratica comune, ed esistono già anche in Italia. Ma i partiti si sono elargiti detrazioni quasi doppie di quelle consentite, per esempio, per le erogazioni a università e centri di ricerca (che sono al 19 anzichè al 37 percento). Inoltre questa legge, senza che questo sia stato notato da nessuno, innalza l’aliquota di detraibilità già presente nella legge Monti.

Secondo Wikipedia, nel 2007 il 43 percento dei contribuenti ha effettuato una scelta ed il 37 percento ha scelto la Chiesa Cattolica, anche se la percentuale di praticanti è molto inferiore; lo 0.89 percento dei contribuenti ha scelto la Chiesa Valdese, quindi presumibilmente quasi la totalità dei contribuenti valdesi. E’ quindi probabile che la quasi totalità degli iscritti sceglierebbe di destinare il 2 per mille al loro partito, visto che il costo è 0. Per prudenza, diciamo 1,7 milioni. Di questi, non tutti pagheranno l’ Irpef. Supponiamo dunque che 1,3 milioni di iscritti ai partiti paghino l’ Irpef e destinino il 2 per mille al partito. Supponiamo che 700.000 simpatizzanti non iscritti facciano lo stesso. Nel 2011 l’ imposta Irpef netta è stata di 152 miliardi, con 31,5 milioni di contribuenti. Se i 2 milioni di contribuenti che destinano il 2 per mille ai partiti hanno la stessa composizione media dell’ universo dei contribuenti, il gettito del 2 per mille sarebbe di quasi 20 milioni. Se a devolvere il 2 per mille saranno 3 milioni, il gettito sarà di circa 30 milioni.

"Questa legge è una presa in giro sfacciata e colossale, scrive sul suo blog Beppe Grillo. Passata sulla stampa di propaganda del governo come "Abolizione del finanziamento pubblico", significa invece: "Continuerete a pagare, come prima e persino più di prima".

Cosa ancora più grave, questa legge consegna ufficialmente la politica nelle mani dei grandi potentati economici, delle lobby e persino delle associazioni criminali che sono sempre alla ricerca di nuovi e più redditizi canali di riciclaggio del denaro sporco. Ecco come funziona:

1 - Non sono tutti uguali. Ci sono partiti che possono iscriversi nell'apposito registro e accedere al finanziamento e partiti o "movimenti politici" che non possono (indovinate chi? Per fortuna, dei soldi ce ne infischiamo).

2 - A pagare continua a essere lo Stato. Entrando in vigore nel 2014, i partiti continuano a ricevere dallo Stato 91 milioni di euro il prossimo anno; 54milioni 600mila nel 2015; 45milioni e mezzo nel 2016 e circa 36milioni 400mila nel 2017. A queste somme si aggiungono le donazioni dei cittadini così si fa "stecca para pé tutti".

3 - I cittadini possono devolvere il 2 per mille dell'Irpef ai partiti. Anche in questo caso pagano tutti, perché le minori entrate nelle casse dello Stato devono essere coperte da quelli che non "donano" con le solite tasse. Non solo: lo Stato istituirà un "fondo apposito" che coprirà tutte le "donazioni" che i cittadini si guarderanno bene dal fare. Sia mai che i partiti ci rimettano!

4 - Il Paese in mano alle lobby: 300mila euro all'anno per le persone fisiche e 200mila euro annui per le persone giuridiche sono i tetti per le donazioni liberali. Sanzioni se si supera tale limite? Una multa. Se non la si paga, il partito perde il gettito del 2 per mille per i tre anni a seguire (sai che danno...). I partiti possono donare quanto vogliono ad altri partiti, così le "coalizioni" diventano patti d'acciaio firmati sugli assegni.

5 - I benefici si allargano alla platea di partiti che si riferiscono a un gruppo parlamentare già costituito: così, chi fonda un partito oggi a elezioni avvenute (avete qualche idea? noi sì) o partitucoli di voltagabbana avranno comunque garantiti i vostri quattrini.

6 - Trasparenza e sanzioni per irregolarità? Dimenticate. Non presentano il bilancio? Succede nulla. Niente verbali e relazioni? Nulla. Dove vanno a finire i nostri soldi ai partiti? Ancora e sempre nel misterioso buco nero.

7 - Chi effettua donazioni ai partiti può beneficiare di sgravi fino al 52%. E chi copre queste minori entrate per le casse dello Stato? Cominciate a tirar fuori i portafogli." M5S Camera

"I finanziamenti ai partiti sono stati introdotti nel 1974. In 40 anni il contributo ha assunto decine di nomi differenti, ma la sostanza non è mai cambiata: si tratta sempre di soldi dei cittadini italiani andati a finire nelle tasche dei politici e nelle casse dei partiti! Si tratta sempre dei nostri soldi. In barba alla volontà popolare espressa con il referendum del 1993. Noi abbiamo chiesto l'abolizione totale del finanziamento pubblico ai partiti sin da subito e la restituzione integrale delle somme percepite dal '97 ad oggi, con possibilità di intervento, in caso di diniego, da parte della Magistratura tramite sequestri dei beni e delle liquidità appartenenti ai partiti. Tre semplici emendamenti che avrebbero portato immediatamente nelle casse dello Stato 2 miliardi e mezzo di euro! Sono stati tutti bocciati! I fatti parlano chiaro: il pd di Renzi è a favore del finanziamento pubblico ai partiti, così come Forza Italia e tutte le altre forze politiche. Restituite subito i 2 miliardi e mezzo di euro che avete rubato agli italiani!" Maurizio Santangelo, capogruppo M5S Senato

LO SPRECO DELLA CARTA PARLAMENTARE.

I parlamentari spendono ogni anno 7 milioni in carta. La voce più grande è la spesa per la stampa degli atti parlamentari. Ogni anno mettere a disposizione dei deputati copie cartacee di leggi, decreti ed emendamenti ci costa oltre 5 milioni di euro, scrive Emanuele Bellano di inforeportime.it su “Il Corriere della Sera”. La voce più grande è la spesa per la stampa degli atti parlamentari. Ogni anno mettere a disposizione dei deputati copie cartacee di leggi, decreti ed emendamenti ci costa oltre 5 milioni di euro. La voce più grande è la spesa per la stampa degli atti parlamentari. Ogni anno mettere a disposizione dei deputati copie cartacee di leggi, decreti ed emendamenti ci costa oltre 5 milioni di euro. Ottantottomila seicento euro: tanto ha speso nel 2013 la Camera dei Deputati per acquistare giornali e riviste per il collegio dei questori. Si tratta di un esercito di lettori, si potrebbe pensare. In realtà no, il collegio è composto da tre persone: Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Paolo Fontanelli del Partito Democratico e Gregorio Fontana di Forza Italia. Sono 29.500 euro a testa ogni anno, ovvero 82 euro al giorno, solo in quotidiani e periodici. La cifra, nero su bianco, i tre questori l’avranno vista di sicuro dato che sono proprio loro a elaborare il bilancio della Camera e a controllare che alla fine non ci siano spese folli. Non stupisce quindi che non abbiano notato nemmeno quanto spende la Camera ogni anno per le letture dei loro colleghi parlamentari. A carico dei contribuenti ci sono infatti anche i quotidiani e le riviste che finiscono tutti i giorni sulle scrivanie degli altri deputati: in totale 165 mila euro. Forse la produttività del Parlamento è così scarsa perché gli onorevoli passano tutta la giornata a leggere giornali?  Questa spesa tuttavia è poca cosa rispetto a quanto la Camera spende ogni anno per la carta. Sommando tutte le voci di bilancio la cifra nel 2013 arriva a 6 milioni di euro; dentro ci sono 388 mila euro per i vari tipi di carta e per materiali di cancelleria, e 30mila euro solo per consulenze su come stampare o rilegare i documenti. La voce più grande però è la spesa per la stampa degli atti parlamentari. Ogni anno mettere a disposizione dei deputati copie cartacee di leggi, decreti ed emendamenti ci costa oltre 5 milioni di euro. Eppure, per facilitare l’uso di documenti in formato digitale e ridurre le copie cartacee, il parlamento ha messo a disposizione di senatori e deputati un fondo per l’acquisto di tablet, computer e altre attrezzature informatiche: 2.500 euro a legislatura per ogni deputato, 4.000 euro per i senatori, in totale 2,7 milioni di euro. I parlamentari però non devono ancora avere grande dimestichezza tecnologica. Per Stefano Fassina del Partito Democratico, non si può lavorare senza carta e penna. “Non sono sicuro che siano completamente sostituibili perché a volte è necessario scrivere sui documenti. Io quando studio un provvedimento di legge prendo appunti, scrivo, metto in mezzo gli emendamenti. Non è proprio la stessa cosa”. In effetti, scrivere un appunto o un emendamento su un tablet è cosa diversa…bisognerebbe saperlo usare.  Se Montecitorio spende, qualcuno ovviamente incassa. La stampa degli atti parlamentari è affidata dalla Camera dei Deputati agli Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo. Nel 2013 la Tipografia Colombo per questo servizio ha ricevuto 5 milioni 139 mila euro a cui si sono sommati altri 2 milioni 700 mila euro per il servizio di digitalizzazione degli stessi documenti. In totale la tipografia Colombo riceve ogni anno dalla Camera 7 milioni 800 mila euro. Ma come è stata scelta la società? “Abbiamo fatto una domanda scritta per capire come è stato assegnato l’appalto – ha detto Riccardo Fraccaro del Movimento 5 Stelle. Non ci hanno ancora risposto. Le posso dire che finora a queste domande relative ad altri ambiti ci hanno sempre detto che la gara è stata assegnata direttamente. Diciamo che al 90 per cento l’appalto è stato dato ad assegnazione diretta”.  I rapporti tra la Tipografia Colombo e la Camera dei Deputati non si limitano alla stampa dei documenti. Tra gli immobili presi in affitto dalla Camera c’è l’edificio di via Uffici del Vicario dal numero 9 al numero 15 e un ufficio in via Campo Marzio al numero 69. Il primo è di proprietà della Cosarl Srl, il secondo della Immobiliare Centro Storico Srl. Entrambe le società appartengono alla famiglia Colombo che così ogni anno riceve dalla Camera altri 1,2 milioni di euro. Un legame che dura da più di vent’anni. Sul primo contratto di locazione risalente al 1987 viene puntualizzato: “la Cosarl ha ottenuto dal Comune di Roma l’autorizzazione per lavori di consolidamento, modifiche interne e manutenzione straordinaria” dell’edificio in via Uffici del Vicario. Chi ha pagato la mega ristrutturazione? Il gruppo Colombo proprietario dell’edificio? Ovviamente no, l’affittuario: la Camera dei Deputati.

IL PAESE DELLE STAZIONI FANTASMA.

#Pendolando, il Paese delle stazioni fantasma. Progetti faraonici mai aperti, biglietterie chiuse, nemmeno i bagni. Mentre si spendono centinaia di milioni di euro per rilanciare gli scali delle metropoli con ristoranti, librerie e servizi, fuori dalle città le piccole e medie stazioni sono praticamente abbandonate. Ecco cosa risulta dalle vostre segnalazioni al nostro database, scrive Michele Sasso su “L’Espresso.

L’ABBANDONO DELLE STAZIONI. Oltre ai binari, l’incuria. Progetti faraonici per scali ad alta velocità mai aperti, biglietterie chiuse da anni, bagni rotti e zero servizi: le cattedrali nel deserto della mobilità sono lo specchio di come, per tagliare i costi, centinaia di stazioni sono destinate al lento degrado. Mentre si spendono centinaia di milioni di euro per rilanciare gli scali delle metropoli con ristoranti, librerie e servizi pensati per i viaggiatori, fuori dalle città è meglio non guardare. Dalla Campania a Padova è una discesa negli inferi di sale d’aspetto sbarrate, nessun confort per chi parte e arriva e senza tetto che trovano riparo.

L’ALTA VELOCITA' È UN MIRAGGIO. Il caso-limite è la stazione fantasma dell’alta velocità di Afragola, a Nord di Napoli. Faceva parte di un disegno strategico più ampio: era destinata a diventare una sorta di hub del trasporto ferroviario, il nodo cruciale del collegamenti fra Nord e Sud, con le evidenti ricadute sulla piccola cittadina. Disegnata dall’archistar Zaha Hadid, costata 170 milioni, posata la prima pietra nel 2010 dall’ex ministro azzurro Altero Matteoli con la promessa dell’entrata in servizio nel 2011, oggi è ancora un cantiere. Una carcassa di ferro, cemento e polvere, piloni che si perdono nel vuoto, strade sterrate e impalcature ovunque che lasciano intuire il destino dell’ennesima incompiuta napoletana. Il sogno di macinare treni e passeggeri avvicinando la sterminata periferia a Napoli e Roma è ancora lontano. Ora per arrivare nella capitale ci vogliono più di due ore. E i tempi di consegna dell’infrastruttura continuano ad allungarsi: un altro anno e mezzo, arrivando al 2015 per completare finalmente lo snodo, ha annunciato il sindaco a dicembre.

OLTRE IL GRA L’OBLIO. Edifici distrutti dal tempo, mancanza di parcheggi di scambio, scali diventati dormitori e ogni possibile disagio. Ecco la caduta nell’oblio della Capitale, appena superati i confini del Grande Raccordo Anulare, nel racconto di Patrizia: «I collegamenti con l’aeroporto di Fiumicino sono un disastro sotto tutti gli aspetti: le fermate sono diventate spesso un bivacco per senza tetto, pensiline corte e attese senza riparo dalla pioggia, annunci incomprensibili, cartelli inesistenti. Alla stazione poi non ci sono le panchine per i passeggeri, idem per l’orologio, annunci in un inglese risibile. E la presenza di due treni, uno per i ricchi (il Leonardo Express) e l'altro (il regionale) per i poveracci dove regna la confusione con gli stranieri sempre disorientati». L’elenco di quello che non funziona continua nelle altre fermate della città eterna: «Non ci sono biglietteria ed erogatrici, non ci sono servizi di ristoro, né tantomeno personale ferroviario e servizi igienici nella stazione Nomentana della linea locale, frequentatissima e situata in un'area densamente abitata della città». Ancora più degradata è la condizione della stazione Due Ponti, sulla linea gestita dall’Atac che porta a Viterbo. I pendolari che ogni giorno l’affollano meriterebbero rispetto, ma invece non sanno neanche quando quella nuova (ormai pronta) sarà aperta.

SENZA BIGLIETTERIA FIOCCANO LE MULTE. I paradossi di tanta incuria diventano evidenti. Come testimonia Rocco nel suo viaggio tra Eboli e Salerno: «In tutta la Regione Campania non esistono nelle stazioni le locandine con l'orario di apertura dei punti vendita nelle vicinanze, e nemmeno un distributore. Impossibile comprare il biglietto. Risultato? Salito sul treno il controllore mi ha multato pur avendo fatto diritto al rilascio del ticket a bordo, senza sovrapprezzo. Dopo mesi l’amara sorpresa: ho ricevuto una raccomandata da Trenitalia che mi ingiunge il pagamento di 107,37 entro 15 giorni. Ho presentato ricorso al Giudice di Pace». Spesso i controllori non vogliono sentire ragione. Di chi è la colpa? In Veneto stesso irragionevole disservizio. Alle porte di Padova, sulla traffica linea Milano-Venezia, è stata costruita la fermata ferroviaria di Ponte di Brenta invasa da centinaia di pendolari al giorno. C’è però un particolare: mettersi in regola con il biglietto è impossibile. Ecco come si presenta: «L’obliteratrice si trova in mezzo a una giungla, sotto le scale, dopo la casetta mezza distrutta dai vandali. Ovviamente non era non funzionante. Detto ciò non ho avuto modo di obliterare e non essendoci personale e nemmeno una biglietteria sono salita con due biglietti andata e ritorno. Fermata dal controllore sono stata multata di 50 euro con pagamento anticipato di 30. Durante il ritorno, oltre il danno la beffa: due clienti sono senza biglietto e il controllore lo oblitera e gli ricorda che dovevano farlo prima di salire. Perché queste differenze?».

LO SPRECO DELLE MISSIONI MILITARI.

Ecco quanto ci costano le Nazioni Unite. Solo per la missione in Libano spesi oltre 2 miliardi, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Quanto ci costano l'Onu e le missioni in suo nome? L'Italia è il settimo Paese contributore del carrozzone internazionale e nel mondo partecipiamo a 7 missioni con 1378 caschi blu, che ci sono costate oltre 2 miliardi di euro solo negli ultimi sette anni. Per il bilancio del Palazzo di Vetro, 2013-2014, sborsiamo 90 milioni di euro secondo fonti della Farnesina. A questa cifra vanno aggiunti altri 282,5 milioni come contributo per le missioni di pace delle Nazioni Unite comprese quelle che non ci coinvolgono direttamente. E il segretario dell'Onu Ban Ki Moon si permette di far spallucce sul caso marò. Ieri sembrava aver inforcato la retromarcia dicendosi preoccupato, ma se così non fosse ritiriamoci immediatamente dalle missioni dell'Onu e cominciamo a chiudere i rubinetti al carrozzone delle Nazioni Unite. Su 21 missioni all'estero italiane, un terzo è targata Onu. La più consistente è quella in Libano, che schiera 1351 uomini dove abbiamo il comando con il generale degli alpini Paolo Serra. Ai suoi ordini c'è pure un battaglione di caschi blu indiani. L'obiettivo è mantenere una volatile pace fra Israele e gli Hezbollah in Libano. Nel 2006 siamo sbarcati nel Paese dei cedri con l'operazione Leonte ed in soli tre mesi, da settembre a dicembre, abbiamo tirato fuori quasi 187 milioni di euro, secondo i documenti sul sito della Difesa. Queste cifre non conteggiano gli stipendi base dei militari, ma solo le diarie di missione. In sette anni abbiamo fatto di tutto: consegnato mezzi all'esercito libanese per milioni di euro, dispiegato navi ed elicotteri e attuato interventi di cooperazione civile-militare per la popolazione. La cifra totale del costo italiano della missione Onu, fino a dicembre 2012, era di oltre 1,8 miliardi di euro. Se aggiungiamo il costo medio degli ultimi anni per il 2013 arriviamo quasi ai 2 miliardi autorizzati dal Parlamento. In tempi di ristrettezza economiche non è male, soprattutto se l'Onu ci prende per il naso sui marò. Le altre missioni impiegano pochi uomini, ma sono sempre sotto la bandiera dei caschi blu e in alcuni casi durano da mezzo secolo. A Nicosia, la capitale cipriota, abbiamo ancora 4 militari che devono «supervisionare le linee del cessate il fuoco» del conflitto oramai sopito con i turchi del 1974. Dal 2006 l'Unficyp ci è costata poco meno di 2 milioni di euro. Grazie all'Onu una piccola botta l'abbiamo presa con l'Unamid, per il Darfur, quando fra il 2008 e 2009 mandammo oltre 100 paracadutisti. Ora sono rimasti 7 militari, ma la missione ci è costata oltre 17 milioni. I nostri soldati con il basco blu sono dispiegati dal 1991 anche nel Sahara occidentale per il cessate il fuoco fra Marocco e Fronte Polisario (292mila euro all'anno calcolando un costo giornaliero per militare indicato dalla Difesa). Nel Sud Sudan, l'ultimo Stato indipendente, già sprofondato nella guerra civile, abbiamo un solo uomo per l'Onu (58.400 euro all'anno). Nella storica missione Unmogip, fra India e Pakistan, che dura dal 1959, spendiamo per 4 caschi blu 220mila euro all'anno. E per 7 uomini fra Egitto, Israele, Siria e Giordania il costo è di 390mila euro all'anno, ma ci siamo dal 1958. Non solo: l'Italia è il settimo contributore Onu e solo dal primo gennaio 2013 siamo stati superati dalla Cina. Garantiamo il 4,4% del bilancio, su 193 Paesi, secondo fonti della Farnesina. Ban Ki Moon farebbe bene a tenerne conto prima di aprir bocca sui nostri marò.

GARIBALDINI, ANTIFRANCHISTI ED ANTIFASCISTI: QUANTO CI COSTANO GLI EX COMBATTENTI?

Sì ma con questi italiani nulla cambierà. Approfondiamo e prendiamola larga. Servizio Pubblico: la puntata del 23 gennaio 2013. 23.23 Grillo se la prende con “i 10 milioni di pensionati che votano per Berlusconi e con i 7 milioni di dipendenti pubblici che scelgono il Pd”.

La matematica non è un'opinione? Scrive Beppe Grillo. L'Italia ha circa 61 milioni di abitanti. 19 milioni sono pensionati. 61 -19 = 42. Quattro milioni sono dipendenti pubblici. 42 - 4 = 38. Sette milioni circa sono familiari a carico di pensionati e dipendenti pubblici. 38 - 7 = 31. Circa dieci milioni sono bambini, adolescenti o studenti universitari. 31 -10 = 21. Quattro milioni sono disoccupati o scoraggiati. 21 - 4 = 17. Un paio di milioni evade le tasse. 17 -2 = 15. Dei quindici milioni rimasti la maggior parte è composta da lavoratori dipendenti che non possono evadere neppure un euro. Quindici milioni di italiani, che in gran parte non vedrà mai la pensione, tengono in piedi la baracca. In media quasi un italiano su quattro. Con l'aumento (certo) della disoccupazione questa percentuale è destinata a peggiorare. Quando arriverà a uno su cinque il Paese schianterà come un mulo caricato all'inverosimile. È perfettamente vero che nel nostro paese esiste una quota di “pensioni d’oro” e “stipendi d’oro” che assorbono una quantità ingente e ingiustificata di risorse: oltre ad essere un problema di finanza pubblica sono un inaccettabile insulto all’equità. È perfettamente vero che il posto di lavoro pubblico è diventato, soprattutto in alcune regioni,  un sostituto di strumenti che in altri paesi sono in carico al welfare, mentre il nostro è uno stato sociale male organizzato e incapace di allocare efficacemente ed equamente le risorse. Ancora, è perfettamente vero che nel nostro paese le tasse, sul lavoro come sulle imprese (sebbene in diminuzione per queste ultime), sono troppo alte e che i servizi corrispondenti sono spesso (ma non sempre) tutt’altro che all’altezza.

Io Antonio Giangrande non sono un grillino, ma la realtà denunciata da Grillo è incontrovertibile. Secondo Grillo: “Esistono due Italie, la prima, che chiameremo Italia A, è composta da chi vive di politica, 500.000 persone, da chi ha la sicurezza di uno stipendio pubblico, 4 milioni di persone, dai pensionati, 19 milioni di persone (da cui vanno dedotte le pensioni minime che sono una vergogna). La seconda, Italia B, di lavoratori autonomi, cassintegrati, precari, piccole e media imprese, studenti. La prima è interessata giustamente allo status quo. Si vota per sé stessi e poi per il Paese. Nella nostra bandiera c’è scritto “Teniamo famiglia”. In questi mesi non ho sentito casi di funzionari pubblici, pluripensionati o dirigenti di partecipate che si siano suicidati. Invece, giornalmente, sfrattati, imprenditori falliti, disoccupati si danno fuoco, si buttano dalla finestra o si impiccano. Queste due Italie sono legate tra loro come gemelli siamesi, come la sabbia di una clessidra. L’Italia A non può vivere senza il contributo fiscale dell’Italia B, ma quest’ultima sta morendo, ogni minuto un’impresa ci lascia per sempre. Vi capisco comunque, la pensione, in particolare se doppia o superiore ai 5.000 euro, è davvero importante. Lo stipendio vi fa sopravvivere, che sia pubblico o politico non ha importanza.”

Ed a proposito dei pensionati.

Dai garibaldini agli antifranchisti, quanto ci costano gli ex combattenti. Una selva di sigle nelle quali è perfino difficile orientarsi. Tanti doppioni e pochi iscritti, ma ai cittadini costano oltre 3 milioni di euro. Grazie alle sovvenzioni di tre ministeri: Difesa, Interno, Economia, scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. Anvrg, Aicvas, Anvcg, Aned, Anppia. Probabilmente pochi, leggendo queste sigle, capiranno immediatamente di cosa stiamo parlando. E probabilmente ancora meno crederanno che, ad esempio, il primo acronimo stia per “Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini”, che non sono le camicie rosse ma i reduci della divisione italiana che combatté dal '43 al '45 con i partigiani in Jugoslavia. Queste sigle fanno parte delle tante associazioni combattentistiche che godono di finanziamenti pubblici annuali disposti dai ministeri della Difesa, dell’Interno e dell’Economia. Di loro parla anche la legge di stabilità appena approvata: “Per il sostegno delle attività di promozione sociale e di tutela degli associati svolte dalle Associazioni combattentistiche – si legge nel testo - è autorizzata la spesa di euro 1.000.000 annui per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016”. E stiamo parlando solo di quelle sottoposte alla vigilanza della Difesa. Al milione di euro previsto da questo ministero, infatti, si aggiungono altri due milioni disposti dal Viminale di concerto con il ministero dell’Economia. Totale: tre milioni di euro circa per mantenere e sostenere associazioni combattentistiche e d’arma per le quali, in molti casi, è lecito avere più di un dubbio sulla loro reale utilità, soprattutto se comportano spese pubbliche. Alcune associazioni sono impegnate sul territorio, come gli Alpini (a cui, peraltro, andranno soltanto 15 mila euro) o l’Associazione Nazionale Carabinieri (altri 15 mila), ma la maggior parte ha finalità meno concrete. Accanto ai garibaldini (premiati con un contributo da 10.800 euro) troviamo l’Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna (10.700 euro) con sede a Milano. Ne fanno parte, secondo quanto recita lo statuto, “i superstiti ex volontari che hanno partecipato alla guerra di Spagna nelle formazioni antifranchiste ed i loro familiari e discendenti, aperta anche a coloro che intendano perpetuare quei principi, valori ed impegni di lotta, per la libertà ed il riscatto sociale di tutta l'umanità civile e progressiva”. Un impegno alto, non c’è che dire. Così com’è alto quello dell’Associazione Italiana Combattenti Interalleati (8.700 euro), che mira al “ricordo dei caduti” e a “sviluppare i vincoli di amicizia fra ex Combattenti”. Nella maggior parte dei casi non si tratta di cifre astronomiche. Eppure, sommando tutti i contributi diretti alle varie associazioni, l'esborso da parte dello Stato non è trascurabile. E' sufficiente consultare i due atti di governo sottoposti a parere parlamentare per capire per quante e quali associazioni siano previsti i finanziamenti. Per quanto riguarda l’atto del Viminale, presentato lo scorso dicembre, si prevede un contributo di 1,892 milioni di euro per tre sole associazioni: l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra a cui andrà la fetta più grossa (quasi un milione e mezzo), seguita da altre due per le quali, almeno stando ai nomi, è difficile dire in cosa divergano: ANPPIA, Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (227 mila euro), e l’ANED, Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti (189 mila euro). Il rischio è di avere decine e decine di associazioni tra le quali è assai difficile cogliere distinzioni tra ambiti e finalità. Così, accanto all’ANED, troviamo l’Associazione Nazionale Ex Internati, finanziata dal ministero della Difesa con 15.800 euro, l’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione), alla quale andranno quasi 70 mila euro, e l’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione (il cui acronimo è un programma: ANCFARGL), destinataria di altri 39.900 euro, che è tutt’altra cosa rispetto alla più generale Associazione Nazionale Combattenti e Reduci (67 mila euro). Poi c'è il caso della pur importante ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), alla quale andranno 65.300 euro dal ministero della Difesa, a fianco però della Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane (10.800 euro). Le cose non cambiano se ci spostiamo alle Associazioni d’Arma. Del milione disposto dal ministero della Difesa, infatti, circa 240 mila euro andranno a queste ultime. E anche qui ce n’è per tutti i gusti: dall’Associazione Granatieri di Sardegna a quella dei carristi d’Italia; dall’Associazione genieri e trasmettitori d’Italia fino all’Associazione lagunari truppe anfibie. Non mancano i doppioni: accanto ai “marinai d’Italia” abbiamo gli “ufficiali di Marina provenienti dal servizio effettivo”, oltre alla Lega Navale Italiana. Stesso discorso anche per i sottufficiali, che potranno decidere se iscriversi all’Associazione Nazionale Sottufficiali o all’Unione Nazionale Sottufficiali. Eppure non stiamo parlando di associazioni non organizzate. Tutte vantano di organi direttivi con tanto di presidente, vicepresidente, consiglieri e revisori dei conti. In molti casi troviamo anche sedi sparse sul territorio. Prendiamo i garibaldini: accanto al direttivo nazionale (guidato, peraltro, dalla discendente diretta di Giuseppe) si contano ben 29 sezioni in tutta Italia. Gli iscritti, però, sono risicati: “Siamo circa duemila in tutta Italia”, dice all'Espresso Sandrino Luigi Marra, uno dei consiglieri nazionali. Che però tiene a precisare: “Deve considerare che gli ex combattenti della Divisione Garibaldi sono una decina attualmente. Il più giovane dovrebbe avere più di 90 anni”. Una situazione non del tutto diversa da quella dell’ANED. Il vicepresidente, Dario Venegoni, dice che anche loro sono circa duemila, anche se si mira ad incrementare il numero dei soci dato che nell’ultimo congresso è stato cambiato lo statuto, consentendo l’iscrizione anche a chi non è un ex deportato o un familiare di caduti nei campi di concentramento. A una condizione: “Il socio deve impegnarsi a studiare, a conoscere approfonditamente la storia del fascismo e della deportazione e a mettersi nelle condizioni di insegnarla. Non siamo come l’ANPI dove tu vai lì, dici che sei antifascista e ti danno la tessera. Noi volutamente vogliamo restare un’associazione piccola". E da 189 mila euro di sussidio pubblico. Nonostante il risicato numero di iscritti, non si può dire che l’ANED non sia attiva con convegni e seminari (l’associazione ha anche un centro di documentazione attivo nella ricerca). Uno degli eventi che richiama più attenzione e impegno, assicura Venegoni, è il giorno della memoria: “Una supplenza alle carenze della legge istitutiva che ordina ai comuni e alle scuole di organizzare eventi, ma poi non dà un soldo né dice come fare”. Per altre associazioni, almeno dai siti, sembra che il tempo si sia fermato da anni. L’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, per dirne una, non organizza convegni dal 2006, anno dell’ultima pubblicazione, mentre i corsi di aggiornamento si sono fermati nel 2007. Ma è soprattutto con l’attività editoriale che le associazioni sono presenti e dicono la loro. Il numero di periodici pubblicati è incredibile. Ogni associazione ha il suo organo di stampa. I granatieri di Sardegna pubblicano, nomen omen, “Il Granatiere”; i garibaldini “Camicia Rossa”; l’associazione degli ex Deportati Politici “Triangolo Rosso”. E, ancora, “L’Antifascista”, redatto dall’ANPPIA; “Pace e Solidarietà”, trimestrale dell’Associazione Vittime Civili di Guerra; “Le Porte della Memoria” dell’ANRP; “Il Presente”, organo ufficiale di stampa dell’ANFCDG, l’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi in Guerra che, per il 2014, beneficeranno di oltre 135 mila euro. “C’è anche una confederazione che riunisce tutte le associazioni – dice Enzo Orlanducci, presidente dell’ANRP (7739 soci, di cui 4180 veterani e 3559 familiari) - ma in realtà è un’armata Brancaleone. Dovremmo essere più uniti cercando semmai di fare un unico giornale. Tutti vogliono avere la loro specificità. Ma, d’altronde, siamo in Italia. Casomai domani mattina nasce una scissione all’interno della nostra stessa associazione e ci ritroviamo due associazioni invece che una”.

Duecentomila euro dei nostri soldi per scrivere male di Silvio Berlusconi e bene di Matteo Renzi, un milione e mezzo per finanziare l’attività  di una associazione dedita quasi esclusivamente alla speculazione finanziaria, scrive Paolo Emilio Russo su “Libero Quotidiano”.  È  questo il regalo di Natale - costato quasi due milioni di euro - che il governo ha preparato agli italiani, specie quelli che odiano il Cavaliere. La vicenda riguarda il  «Riparto dei contributi alle associazioni combattentistiche»  per l’anno 2013,  «atto del governo 67».  Il testo, firmato dal ministro dell’Interno ed ex segretario del Pdl Angelino Alfano, prevede uno stanziamento di 1.892.961 euro. Beneficiari sono per 1.476.509 euro l’Associazione nazionale vittime civili di guerra, per 227.155 euro  l’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti, per 189.296 euro l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti. L’anno scorso, il 2012, avevano ricevuto complessivamente 3.281.143 euro. Ma cosa fanno queste associazioni, considerato che  - innanzitutto per questioni anagrafiche - i loro  «assistiti»  sono quasi completamente scomparsi?  A chiederselo per primi sono stati i parlamentari grillini che, in Commissione Affari Costituzionali, hanno chiesto la settimana scorsa che, come prevede la legge fino a quel giorno inapplicata, le associazioni beneficiate depositassero i loro bilanci. Spediti in fretta e furia nei giorni dello shopping natalizio, esaminati dall’Ufficio studi di Montecitorio, hanno rivelato qualche bella sorpresa. I soldi pubblici che lo Stato eroga vanno a soggetti che li usano per operazioni di patrimonializzazione e che hanno cospicui avanzi di gestione e di cassa, oltre che una florida liquidità. Prendiamo l’associazione più grande, quella per le vittime civili di guerra: nel 2012 ha speso ben 8 milioni in acquisto di valori mobiliari, costituiti essenzialmente da titoli di Stato. L’Associazione nazionale perseguitati politici mette invece a bilancio 200.000 euro di  investimenti in titoli, mentre l’Aned ne dichiara 152.800, a fronte ovviamente di un contributo che stiamo per erogare pari a 227 mila euro circa nel primo caso e 189 mila circa nel secondo. Se andiamo a vedere  gli avanzi di gestione, le perplessità aumentano. L’Aned chiude il 2012 con un avanzo di 285.670  euro, più di quanto sta per  percepire dallo Stato. L’Associazione perseguitati antifascisti dichiara invece disponibilità liquide di 208 mila euro. L’associazione vittime civili di guerra mette a bilancio per il 2012  un avanzo di cassa, dunque disponibilità liquide di 900.000 euro. Tutte, insomma, hanno il loro tesoretto, frutto di contributi annuali - senza controllo - dalle casse dello Stato. Ma cosa se ne faranno dei soldi, a parte investirli in titoli di Stato, e  perché  il governo dovrebbe continuare a finanziarli? A fronte di queste cifre, ed in particolare delle somme investite in titoli o patrimonializzate, le cifre dichiarate come spese per l’attività istituzionale sono molto limitate: 318 mila euro per l’associazione vittime civili di guerra, 34.000 euro l’Aned per iniziative culturali, 22 mila euro l’Associazione perseguitati politici per l’attività istituzionale, a fronte di 29 mila euro di spese dichiarate per le pulizie dei locali. Quest'ultima, in compenso, investe una cifra importante per pubblicare la rivista bimestrale intitolata  L’antifascista. Due titoli a caso sull’ultimo numero: «Berlusconi messo ko dai diversamente berlusconiani. Il 2 ottobre Silvio Berlusconi, il padre padrone del Pdl, è stato disarcionato a sorpresa dai suoi fedelissimi e ha reagito con una piroetta da commedia dell’arte». Poi c’è l’ex ministro Livia Turco che racconta «la sua Nilde Iotti», per citare un altro articolo.  Il deposito dei bilanci era stato chiesto in commissione Affari costituzionali dal deputato grillino Emanuele Cozzolino, che, nel corso dell’ultima seduta, ha interrogato il governo sull’opportunità di continuare a finanziare in questo modo le associazioni. Contemporaneamente al Senato la questione è stata sollevata dall’ex capogruppo M5s Rocco Crimi. Forza Italia e Lega, stavolta, sono andati dietro e il Pd ha rischiato di finire sotto. Il risultato è che, per prendere tempo, i democratici hanno chiesto di audire i rappresentanti delle associazioni benefiche.

REGIONI: PAPPONI, SPRECONE E....INDAGATE E NON MANCA LA CASTA A STATUTO SPECIALE.

Regioni, l’esercito dei consiglieri indagati: sono (almeno) 521. Da Torino a Palermo, tanti sono gli eletti sotto inchiesta per l’uso illecito dei fondi destinati all’attività politica. Due sono stati già condannati, una ventina sono sotto processo. Intanto nel 2014 i gruppi consiliari riceveranno altri 20 milioni di euro per il loro funzionamento, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. La Procura di Torino che chiede il rinvio a giudizio per il governatore piemontese Roberto Cota e altri 39 consiglieri e quella di Palermo che recapita 13 avvisi di garanzia ad altrettanti amministratori locali, su un totale di 97 sotto inchiesta. Due notizie, diffuse a pochi giorni di distanza, dimostrano quanto lo scandalo dei fondi pubblici usati per fini privati sia stata prassi comune “dall’Alpi a Sicilia”, per citare Mameli. E come questa prassi, mese dopo mese, fascicolo dopo fascicolo, abbia dato vita a un esercito di tutto rispetto. Secondo il calcolo fatto dall’Espresso, sono almeno 521 i consiglieri regionali (o ex) sotto indagine da parte di 14 Procure della Repubblica. Un numero che peraltro va considerato per difetto, dal momento che gli uffici giudiziari di Aosta e Campobasso non hanno reso noto il numero degli iscritti sul registro degli indagati. Un uragano, lo scandalo dei rimborsi, che finora ha portato in manette 11 consiglieri e costretto perfino allo scioglimento anticipato dei parlamentini di Lazio e Basilicata. E anche se è impossibile riannodare gli innumerevoli filoni di inchiesta in corso da un capo all’altro del Paese, qualche vicenda processuale è già arrivata a sentenza. A cominciare dal caso più celebre, quello di Franco Fiorito. L’ex consigliere Pdl della Regione Lazio la scorsa primavera è stato condannato con rito abbreviato a 3 anni e 4 mesi per peculato e interdetto dai pubblici uffici per 5 anni. Nemmeno troppo male, se si pensa che l’accusa era di aver sottratto un milione di euro alle casse del partito. E soprattutto, come ha reso noto lo stesso Fiorito, visto che gli è stata perfino restituita la jeep acquistata per fronteggiare la nevicata su Roma del 2012, che secondo i pm era stata comprata con i soldi destinati al gruppo. Altra vicenda che ha visto confermare le tesi dell’accusa è quella, meno nota, di Adriano Melis: a novembre il consigliere dell’Italia dei valori è stato condannato a 1 anno e 8 mesi per un uso improprio di 20 mila euro. La Procura di Cagliari è stata la prima in Italia a occuparsi dei fondi ai gruppi consiliari e non a caso nell’isola sono al punto più avanzato: attualmente sono 18 gli amministratori rinviati a giudizio e attualmente sotto processo. Tutti rigorosamente bipartisan. Ma proprio la condanna di Melis apre, all’interno di questa vicenda, il capitolo dell’Idv. Proprio il partito fondato da Antonio Di Pietro allo stato attuale risulta infatti uno dei più colpiti dalle inchieste. Il primo è stato Vincenzo Maruccio, il consigliere del Lazio arrestato per peculato con l’accusa di essersi appropriato di circa un milione di euro dei fondi destinati al suo gruppo consiliare. Nei giorni scorsi a finire ai domiciliari con la stessa accusa è stato il consigliere ligure Nicolò Scialfa, in passato vicepresidente della Giunta, mentre i colleghi Maruska Piredda, Marylin Fusco e Stefano Quaini (questi ultimi due ora hanno lasciato il partito) risultano indagati per peculato. In sostanza a Genova, dove gli inquisiti sono 11, ben 4 sono passati per l’Italia dei valori. Che inoltre può vantare un altro poco invidiabile record in Regione Campania: secondo gli inquirenti fra il 2010 e il 2012 è qui che si sarebbe verificato il più alto tasso di uso improprio del denaro: il 95 per cento. Per quanto la cronaca  abbia prodotto una certa assuefazione, dalle mutande verdi ai gratta e vinci, i casi di colore degni di nota non mancano. Come quello che vede protagonista in Basilicata l’ex assessore Rosa Gentile: nel 2011 tenne un pranzo per 54 persone costato 1.620 euro alle casse regionali ma “fruttato” il doppio. Dopo esserselo fatto rimborsare, sostengono i pm, avrebbe anche chiesto ai commensali una quota di partecipazione da 30 euro a testa. In Emilia, al consigliere Alberto Vecchi (Forza Italia) i pm contestano un cambio fittizio di residenza nell’alta valle del Reno in modo da ottenere una maggiorazione nei rimborsi chilometrici. Secondo le risultanze, 85 mila euro. Quando il mese scorso il giudice lo ha interrogato, Vecchi - imputato per truffa - si è giustificato: "Mi chiesero di  candidarmi a Porretta ma senza la residenza non mi sarei mai potuto candidare. Là sono montanari ti votano se ti riconoscono come parte di sé, altrimenti ti considerano un forestiero". Poche settimane fa la Corte dei Conti ha invece bacchettato l’ex assessore marchigiano alla Famiglia Luca Marconi (Udc), che si è fatto rimborsare un soggiorno a Rimini di quattro giorni in occasione di un convegno di Rinnovamento dello spirito. Se è presto per dire che in futuro non accadranno nuovi casi del genere, è innegabile che qualche cambiamento sia in corso. In Sardegna i gruppi hanno deciso di privarsi di 1 milione e 350 mila euro per destinarli all’emergenza alluvione. In Lombardia i partiti hanno restituito quasi cinque milioni di euro, residui di bilancio della scorsa legislatura. Inoltre la Conferenza dei presidenti delle Assemblee legislative è corsa ai ripari per ridurre i contributi ai gruppi. E se prima vigeva la discrezionalità, adesso i contributi dovranno essere riparametrati: 5mila euro l’anno a consigliere più 5 centesimi per abitante della regione. In tutto, a livello nazionale, fa circa 8 milioni circa. Ai quali andranno aggiunti all’incirca altri 12 milioni della Sicilia, libera di non conformarsi in virtù del suo status di autonomia. Ma nemmeno questo ha evitato qualche “errore” nel calcolo dei contributi, come accaduto in Molise. Il 30 luglio scorso una delibera dell’Ufficio di presidenza del Consiglio ha stabilito l’entità dei fondi ma anziché calcolare 5 centesimi a residente, nella moltiplicazione è stato aggiunto anche il numero dei 21 consiglieri. Risultato, oltre 300 mila euro in più: nel 2014 la Regione erogherà ai partiti 434.343 euro anziché 120.683 come dovrebbe in base alla nuova normativa.

Le spese pazze, regione per regione. Sono 15 le amministrazioni sotto inchiesta per peculato o altri reati. Ecco la mappa dello scandalo scrive “Panorama”. La collezione di Diabolik, le mutande, i trucchi, i regali di Natale o quelli di matrimonio, fino al suv personale. La fantasia dei consiglieri regionali che in tutta Italia sono finiti nel mirino dei magistrati non sembra avere limiti. Ed in questa classifica del tristemente comico è persino difficile trovare chi sia stato il più originale o sfacciato nelle spese private fatte con i soldi pubblici (con tanto di scontrino per il rimborso). Un male, anzi, dati i numeri verrebbe da dire una "tradizione", che non fa alcun tipo di differenza. Non politica, dato che le inchieste riguardano esponenti di ogni partito, nessuno escluso; non geografica, perché dal Piemonte alla Sicilia sono ben 15 le regioni sotto inchiesta. Una mappa del malaffare che poi non si è fermata nemmeno davanti ai primi indagati ed arrestati, ma che adesso non risparmia nessuno:

- SICILIA: E' l'ultima solo in ordine di tempo. La Guardia di Finanza sta indagando sui 10 milioni di spese per cui i consiglieri negli ultimi due mandati hanno chiesto il rimborso tra cui però figurano cravatte, gioielli, ma anche il semplice caffè al bar. 97 gli indagati tra cui spicca il nome di Davide Faraone, fresco esponente della nuova segreteria del Pd di Matteo Renzi, a cui vengono contestate spese per 3.380 euro. In tutta risposta, proprio nel mezzo della bufera mediatica e giudiziaria il consiglio Regionale siciliano ha approvato il via libera all'aumento di 1160 euro per i capigruppo come "indennità di funzione".

- CAMPANIA: Lo scorso luglio la magistratura partenopea ha indagato per peculato sessanta consiglieri, quasi tutta l'assemblea, per peculato. In due anni vengono contestate spese non giustificate per più di due milioni e mezzo di euro: tra questi gli immancabili pranzi, gioielli, regali ma, unico caso finora in Italia, persino la ricevuta del pagamento della tassa sui rifiuti, la Tarsu. C'è stato anche chi ha spiegato di aver utilizzato quel denaro per il pagamento dei propri collaboratori, in nero e senza contratto.

- PIEMONTE: E' di oggi la notizia che il pm di Torino ha chiesto per il Governatore del Piemonte, Roberto Cota, ed altri 39 consiglieri di vari schieramenti politici il rinvio a giudizio con l'accusa di peculato per il presunto utilizzo illecito dei fondi della regione. L'indagine era partita nel 2012 ed aveva coinvolto 56 diversi consiglieri per alcune spese "irregolari" per centinaia di migliaia di euro. La chiusura delle indagini ha portato per alcuni di loro all'archiviazione, non per Cota e gli altri 39. Tra le spese "pazze" contestate la più nota riguarda proprio il governatore e le sue famose "mutande". Ora le carte sono nelle mani del Gip che a breve dovrà decidere chi rinviare a giudizio.

- LIGURIA: E' il 3 ottobre. La Guardia di Finanza entra nell'ufficio di presidenza del Consiglio Regionale per acquisire documenti relativi alle spese e ai rimborsi del 2011 e del 2012. Le note venivano vidimate da una commissione che dipendeva dalla presidenza del consiglio regionale e coinvolgeva tutti i vari partiti. Rosario Monteleone (Udc) il presidente, dopo essere finito nel registro degli indagati si dimette. E' accusato di aver prelevato quasi 200 mila euro dalle casse del suo partito e di averne giustificate quasi la metà. Pochi giorni fa è finito in manette l'ex vicepresidente della Giunta Regionale, Nicolò Scialfa che per la magistratura si sarebbe appropriato di 70 mila euro e in più avrebbe giustificato spese e prelievi con firme false.

- LOMBARDIA: Dopo il caso Fiorito la seconda grande inchiesta scatta in Lombardia, a dicembre del 2012. La Corte dei Conti chiede spiegazioni sulle spese dei singoli consiglieri di tutti i partiti. E nessuno si salva. Si va dalle famose spese del figlio di Umberto Bossi, Renzo, detto il "Trota" a quelle di Nicole Minetti. Alla Lega Nord vengono contestate spese folli per 600 mila euro in un anno e via via a scalare per tutti gli altri partiti compreso quello dei Pensionati il cui unico consigliere deve motivare i suoi 827 euro spesi e per i quali ha chiesto ed ottenuto il rimborso. Il cerchio però si sta allargando anche agli anni precedenti.

- LAZIO: La madre di tutte le inchieste con un nome su tutti: Francesco Fiorito il capogruppo del Pdl in regione che in primo grado è stato già condannato a 3 anni e 4 mesi di reclusione  e 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per essersi appropriato di 1 milione e 300 mila euro, che sarebbero stati spesi senza alcuna giustificazione (tra questi l'ormai celebre Suv). Celebre però resta anche la famosa festa in costume da antica Roma organizzata dall'ex consigliere del PdL, Carlo De Romanis, con tanto di teste di maiale. Al momento l'inchiesta si avvia alla sua conclusione, dopo una proroga sulle indagini chieste dai magistrati. Dei 13 consiglieri regionali finiti nel mirino della magistratura e della GdF sarebbero 4 quelli che, oltre a Fiorito, rischierebbero il rinvio a giudizio.

- EMILIA ROMAGNA: Qui le inchieste sono più di una. La prima, in ordine di tempo scatta nel 2012 con le interviste a pagamento fatte con i soldi dei gruppi consiliari: interviste che hanno coinvolto Pd, M5S, Sel, FdS, Lega e Udc.  La lente della magistratura sta scandagliando il budget regionale a partire dal 2005: tra i particolari che emergono, oltre alle spese destinate a ristoranti, alberghi e regali di Natale (dallo zampone ai panettoni, dai vini agli spumanti), al vaglio anche i costi per le varie consulenze ma anche per l'utilizzo delle auto blu o per gli spostamenti di residenza che danno diritto a rimborsi giornalieri della benzina. Indagati, intanto, tutti i 9 capigruppo. Quello del Pd, Marco Monari accusato, tra le altre cose, di aver speso 1.200 euro per un fine settimana a Venezia.

- FRIULI VENEZIA GIULIA: La prima inchiesta, quella riguardante il periodo 2011-2012 rischi di trasformarsi un un buco dell'acqua. Per quello che è stato il principale accusato, Franco Iacop (Pd), presidente del Consiglio regionale, la procura infatti ha chiesto il proscioglimento. Iacop infatti è riuscito a fornire spioegazioni e giustificare le spese effettuate con i soldi del gruppo, in particolare tre ricevute di alberghi per 3 trasferte. Ma non è solo la vecchi giunta ad essere finita nel mirino dei magistrati. Sotto indagine sono infatti finite anche le spese di alcuni componenti del nuovo consiglio regionale, con a capo Deborah Serracchiani.

- MOLISE: Cene, casinò, night e lap dance. Stando alle carte scoperte dalla magistratura verrebbe da dire che tra tutti sembrerebbe che i consiglieri regionali del Molise (o, meglio, alcuni di questi) siano quelli che più di tutti amano la bella vita. L'ammontare del denaro che sarebbe stato utilizzato per delle serate gioiose ma non solo, è di quasi 2 milioni e mezzo di euro l'anno. La Commissione Anticorruzione del Molise si è rivolta alla Corte dei Conti per chiedere la procedura di "danno erariale". Dovesse essere accolta i consiglieri condannati potrebbero essere venire costretti a restituire quanto prelevato in maniera illecita.

- UMBRIA: Sono due le indagini che hanno nel mirino la Regione. La prima riguarda l'attuale presidente del consiglio regionale, Eros Brega che sta affrontando il processo (con il rito immediato richiesto dallo stesso imputato) in cui è imputato per peculato, falso ideologico, calunnia e concussione in merito alla gestione tra il 2000 ed il 2004 dei fondi per gli Eventi Valentiniani quando era Assessore alla Cultura al comune di Terni. La seconda indagine invece è partita direttamente da un'interrogazione della Corte dei Conti che ha chiesto spiegazioni ("perché la documentazione necessaria era mancante e non si comprende l'attinenza con l'attività istituzionale") e coinvolge alcuni gruppi non solo per le solite spese folli ma anche per alcune presunte irregolarità nella gestione contrattuale dei collaboratori.

- SARDEGNA: Se Fiorito ha il suo suv in Sardegna c'è chi avrebbe acquistato con i soldi del gruppo un vitello ed alcune pecore. Ma quello di Silvestro Ladu è solo l'episodio più eclatante di un'inchiesta che è arrivata alle fondamenta dell'amministrazione regionale. Sisinnio Piras, consigliere Pdl, è stato infatti arrestato con l'accusa di aver sottratto dalle casse del partito (il Pdl) ed utilizzato 250 mila euro. Carcere anche per Carlo Sanjust che avrebbe pagato parte del suo matrimonio con 23mila euro di denaro pubblico. L'uomo ha poi ottenuto i domiciliari dopo aver restituito i soldi al partito. Ma in tutto sono 65 i consiglieri che sono stati indagati compresa Francesca Barrucciu, vincitrice delle primarie Pd e prossima candidata per la poltrona di governatore. 18 di questi sono stati rinviati a giudizio.

- CALABRIA: Qui si attende la decisione della procura sui rinvii a giudizio per i 13 politici regionali finiti nell'inchiesta che ha riguardato le spese del biennio 2010-2012. Un periodo nel quale ogni gruppo consiliare ha avuto a disposizione e gestito quasi 4 milioni e mezzo di euro l'anno. Tra le spese contestate oltre a pranzi e cene di lusso anche corsi di ballo latino americano, set di valigie ed abbonamenti Sky.

- BASILICATA: L'inchiesta sulle spese folli ha portato addirittura alle dimissioni del Governatore della Regione, Vito De Filippo, finito nel mirino degli inquirenti per uno strano acquisto di 3380 euro di francobolli. Dimissioni a cui è seguito lo scioglimento del consiglio e nuove elezioni tenutesi lo scorso novembre. Della passata legislatura comunque sono 48 gli indagati. Tra le spese più contestate ci sono centinaia di conti di ristoranti per cifre variabili tra i 20 ed i 400 euro circa.

- MARCHE: L'inchiesta riguarda gli anni che vanno dal 2008 al 2011. Solo per quest'ultimo sono stati indagati quasi 40 consiglieri che in tutto devono giustificare spese per quasi 400 mila euro.

- TRENTINO ALTO ADIGE: L'inchiesta ruota attorno ad un uomo solo, Luis Durnwalder, il plurinominato presidente della regione autonoma. La magistratura indagat sui 72mila euro l'anno che come presidente Durnwalder ha a disposizione. Cifra che, moltiplicata per gli anni di presidenza, portano alla considerevole somma di 1 milione e 650 mila euro. Secondo l'accusa Durnwalder avrebbe utilizzato quel denaro per acquisti personali, il pagamento dell'Ici delle sue abitazioni, il canone Rai e l'iscrizione all'albo dei giornalisti. "Non ho mai preso un euro" si difende Durnwalder.

Regioni, lo spreco senza fine delle auto blu. Diminuiscono ma costano ancora un miliardo l’anno. Eppure sono aumentate in Molise, dove perfino un paese di 650 abitanti ha l’autista. In Valle d’Aosta il record: 1 vettura di servizio ogni 260 abitanti, quattro volte la media nazionale, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Prendete un paio di condomini in una zona popolosa di Roma o Milano e assegnate loro un’auto blu. Poi andate avanti così per tutto il quartiere. Una volta finito, avrete da una parte la popolazione della Valle d’Aosta e dall’altro il mostruoso numero di vetture di servizio di cui dispone la più piccola delle regioni italiane: 493 macchine per appena 128 mila residenti, una ogni 260 persone. Il quadruplo della media nazionale, tutt’altro che spartana, dove il rapporto è grosso modo uno a mille. Ma l’amore per il più classico degli status symbol dei potenti non sembra essere una prerogativa della Vallée, che grazie al suo redditizio statuto speciale gode di una finanza locale assai più florida del resto della Penisola. Nemmeno un’altra “piccola”, peraltro neppure altrettanto abbiente, sembra infatti immune da questa tentazione di grandeur. E se gli italiani stringono la cinghia e perfino la classe politica è costretta a qualche piccola rinuncia in tema di benefit, il Molise continua a veleggiare alla grande come se nulla fosse: lo scorso anno le auto di Stato erano 368. Evidentemente non abbastanza dal momento che secondo le stime del Formez Pa, che monitora costantemente il parco auto nazionale, ne sono state acquistate altre 12. In media, una al mese. E così adesso sono 380 in una terra che conta poco più di 300 mila abitanti. Sono i numeri “nascosti” nelle statistiche diffuse dal dipartimento della Funzione pubblica. Perché è vero che i numeri sono in calo e negli ultimi anni si assiste a una generalizzata inversione di tendenza (da 60.439 vetture a 56.581 nel 2013) ma i costi restano elevatissimi: 940 milioni negli ultimi dodici mesi. Soprattutto, c’è un’Italia che rema contro qualunque tentativo di riduzione degli sprechi. Come in Trentino-Alto Adige e in Basilicata, altre due regioni in cui nell’ultimo anno il parco auto è aumentato complessivamente di una dozzina di macchine. Oppure, oltre alla stessa Basilicata, in Campania, Calabria, Molise, dove nonostante i numerosi appelli alla sobrietà un terzo delle auto blu sono ancora assegnate con l’autista.

PRIVILEGI A STATUTO SPECIALE. Qualcuno dovrà spiegare, ad esempio, perché la Provincia autonoma di Aosta debba impiegare 43 persone per un parco auto composto da 151 auto (16 delle quali con autista) quando la Regione Lombardia, la più popolosa d’Italia ma con lo stesso numero di dipendenti, ne ha “appena” 87. E perché, in questa gigantesca concessionaria pubblica, 42 debbano essere vetture dei bolidi con una cilindrata superiore ai 1.900 cc., fra cui 10 Wolkswagen, 6 Suzuki e 5 Toyota. Passi per le 108 auto delle Asl, che in linea teorica potrebbero servire a rendere più efficienti i servizi sanitari sul territorio, ma che dire delle 81 vetture in forza alle comunità montane, delle 29 appartenenti al comune di Aosta (che conta appena 35 mila abitanti) e delle 18 dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente? Miracoli dell’autonomia, se anche in un’altra regione a statuto speciale il leitmotiv è simile: in una inversione assoluta del buon senso rispetto a quel che dovrebbe essere logico, la Regione Trentino-Alto Adige ha dovuto mettere per iscritto che le auto blu possono essere utilizzate solo per fini istituzionali. Il regolamento, datato 1995, permetteva infatti al presidente e al vicepresidente del Consiglio regionale di usare la macchina istituzionale (rigorosamente con autista) anche per finalità private come andare a fare la spesa. Adesso non ne hanno più diritto ma solo quando i Consigli provinciali sono riuniti in sessione comune, ovvero una volta al mese. Per tutte le altre sedute, i cugini trentini e altoatesini possono fare come credono. Nella Provincia autonoma di Bolzano, ad esempio, il regolamento che vieta le auto blu per fini personali non vale per la giunta. Risultato: nove auto blu, tutte con chauffeur, per il presidente e i suoi sette assessori. L’emblema dello spreco resta tuttavia il Molise, dove il servizio con autista ha il rapporto più basso d’Italia: 1 ogni 3.800 persone, due volte e mezzo la media nazionale (dove il rapporto e 1 a 9 mila). Fra Isernia e Campobasso ci sono più auto blu che in tutta l’Emilia Romagna, che pure ha una popolazione 14 volte superiore: 83 a 80. Eccoli i numeri: 48 auto di servizio fra le Province (14 con autista), 42 in Regione (12 comprese di chauffeur), 25 nelle comunità montane, 24 nell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (fra cui prestigiose Lancia, Mitsubishi, Wolkswagen e perfino una Subaru) e 21 l’agenzia per lo sviluppo dell'agricoltura, dove spiccano due potenti Rover. Nemmeno la minuscola università del Molise fa eccezione: 10 auto a fronte di appena 10 mila iscritti e 276 dipendenti (qui la precisazione dell'Università del Molise). Per avere un’idea: la Sapienza, prima università d’Italia coi suoi 130 mila studenti e 8 mila lavoratori, di macchine ne ha 6. Un’ossessione, quella per la macchina istituzionale, dilagata perfino nei paesi. Montenero di Bisaccia, ad esempio, il paese divenuto celebre per avere dato i natali ad Antonio Di Pietro, ha meno di 7 mila abitanti ma ben tre auto di servizio. Il record spetta però al piccolo comune Campochiaro: appena 650 anime ma quattro vetture nel parco auto, una assegnata in via esclusiva e un’altra addirittura dotata di autista.

La casta a statuto speciale. Conti, privilegi e sprechi delle regioni autonome. La trama di La casta a statuto speciale. Conti, privilegi e sprechi delle regioni autonome. I dentisti gratis per buona parte della popolazione, i buoni vacanza, il riscaldamento pagato, la tata familiare, le sovvenzioni a pioggia per aziende e privati, le migliaia e migliaia di dipendenti assunti senza controlli. Ecco alcuni dei privilegi di cui godono - chi più chi meno - le cinque Regioni a statuto speciale. Privilegi pagati dagli altri italiani, quelli che in quelle Regioni non vivono. Perché tra i tanti scandali italiani, l'esistenza delle Regioni a statuto speciale è davvero un relitto del passato. È caduta l'Urss, si è riunificata la Germania ma le Regioni autonome non si toccano, così che nel nostro Paese continuano a esistere cittadini di serie A e cittadini di serie B. Per la prima volta un libro presenta i veri conti, e ricostruisce i contorni di una anomalia che economicamente e storicamente appare sempre più. Un’analisi complessiva delle differenze (con dati e tabelle) delle spese generali tra le regioni a statuto speciale e quelle ordinarie. Cinque capitoli, uno per ogni regione speciale per elencare i singoli privilegi e gli sprechi. Sanità, dipendenti, trasporti, spese per gli organismi istituzionali. I maggiori favoritismi sono al Trentino seguito dalla Valle d’Aosta, i maggiori sprechi in Sicilia. In questo caso le differenze sono nelle prestazioni sociali o di assistenza alle imprese che alcune regioni speciali offrono a differenza del resto del paese. Esempio: il Trentino che ha il dentista pagato per i ragazzi entro i 15 anni e nel resto d’Italia no etc, le imprese hanno una rete di assistenza e di finanziamenti e gli altri no... Insomma, una disamina spaventosa di una parte degli sprechi italiani che non mancherà di far discutere.

Privilegi fiscali e grandi sprechi. Ecco la Casta a statuto speciale - Gli enti autonomi godono di vantaggi che il resto del Paese si sogna da Il Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione del 3 Dicembre 2013. Esce domani in tutte le librerie "La casta a statuto speciale" di Pierfrancesco De Robertis, capo della redazione romana del Quotidiano Nazionale, già autore sempre per Rubbettino de "La casta invisibile delle Regioni" che un anno fa anticipò lo scandalo delle Regioni. "La casta a statuto speciale" è il primo libro-inchiesta completo di dati inediti pubblicato in Italia sulle Regioni a statuto speciale. Batman in confronto non è niente. Così come svaporano gli scontrini del bagno pubblico rimessi dal consigliere emiliano, o le motoseghe di quello piemontese. Sì, certo, tutti particolari divertenti e raccapriccianti insieme, segno di un mondo marcio fin nell'anima. Ma la vera 'ciccia', quando si parla di Regioni e in fin dei conti di finanza pubblica, sta altrove. Sta nelle cinque Regioni a statuto speciale. I Batman d'Italia costano qualche milione di euro, le 'magnifiche cinque' rappresentano, per le casse pubbliche, miliardi. Miliardi che paghiamo tutti noi che abitiamo nelle Regioni ordinarie e ci sveniamo per garantire un welfare da sogno a trentini, altoatesini e valdostani, e sprechi alla Sicilia, oltre a una serie di facilitazioni varie a sardi e friulani. Il meccanismo è semplice e diabolico insieme: in queste cinque Regioni, quasi tutte le imposte statali raccolte sul territorio restano alle Regioni per finanziarie competenze 'autonome' (nel 2010 solo l'Irpef nelle cinque Regioni ammontava a 12,5 miliardi), nelle Regioni ordinarie queste tasse vanno allo stato per la fiscalità generale. Così dopo aver appreso che esiste la 'casta nazionale' che ha sede in parlamento, quella 'invisibile' sparsa per tutte le Regioni d'Italia, adesso emerge l'esistenza della casta delle caste, la 'Casta a statuto speciale', fatta non solo dai politici, perché è troppo riduttivo dire che tutto è sempre e solo colpa della politica, ma di dieci milioni di cittadini italiani a cui gli altri pagano il caffè, e in molti casi anche l'ammazzacaffé. I privilegi delle Regioni autonome non nascono adesso, ma il discorso torna più che mai ora d'attualità un po' perché sono le uniche a cui per una serie di guarentigie statutarie lo Stato non ha potuto chiedere i sacrifici che chiede invece a tutti, un po' perché la debolezza della politica non è riuscita a frenare le richieste autonomiste che così hanno guadagnato sempre più spazio. Il risultato è che esistono due Italie. Una che vive nelle Regioni ordinarie e una nelle Speciali. Nella prima le imprese lottano con il mercato, pagano le tasse e quando chiudono i battenti la gente perde il posto. Nella seconda o si è assunti dallo stato (è il caso dell'esorbitante numero dei dipendenti della Regione Sicilia, che nessuno conosce nemmeno bene, ma che paiono essere intorno ai ventimila, ossia sette volte più della Lombardia, senza contare i trentamila forestali stagionali) oppure le aziende fronteggiano una pressione fiscale inferiore (per dirne una: nel Trentino per le startup l'Irap è azzerato per cinque anni) e nel caso di difficoltà possono contare su una serie di aiuti e salvagente pubblici che nell'Italia normale neppure si sognano. Un eldorado, anche per le famiglie: i valdostani hanno parte del riscaldamento domestico pagato dalla Regione, i trentini si vedono rimborsato in molti casi le vacanze al mare, il dentista, le badanti, esiste il reddito minimo, ci sono case per chi si separa, i pannolini per i bambini. Sempre in Valle d'Aosta è a carico della Regione addirittura la tata familiare. Un welfare efficientissimo che alle casse pubbliche costa miliardi, pagati in parte da valdostani, trentini e via dicendo, in parte da chi in quelle Regioni non abita. Lo Stato centrale ha a volte tentato di limitare questi privilegi, ma dieci milioni di abitanti sono molti voti, e nessuno ha avuto la forza di intaccare i privilegi, che, anzi, sono cresciuti. E non è ragione di pensare che uno stato che non riesce a portare a casa una riforma su cui bene o male sono tutti d'accordo come l'abolizione delle province, possa in un tempo ragionevole affrontare un tema spinoso come questo.

Un libro che ha creato scalpore negli ultimi giorni perché ha dato occasione a Bruno Vespa, in un'intervista al neo-governatore sudtirolese Arno Kompatscher, per un attacco frontale alle autonomie speciali, scrive Thomas Benedikter. Un libro polemico dall'inizio alla fine, ma anche un libro inevitabile dopo quel suo volume sulle caste invisibili delle Regioni in generale. Da una parte certamente un testo fazioso, ostile all'autonomia territoriale in generale, che tende a fare di tutt'erba un fascio. L'autore non risparmia colpi bassi, confronti fuori luogo, dati statistici mescolati senza logica chiara, luoghi comuni che ora fanno il giro nei media, senza riflessione sulle ragioni delle autonomie speciali e delle responsabilità per le disfunzioni nello stato regionale italiano. Dall'altra parte il testo riporta un gran mole di dati e grafici comunque già pubblici, e sarà difficile contestare che le fonti utilizzate - dalla Camera di Commercio di Mestre al Ministero dello sviluppo economico, dalla Corte dei Conti all'ISTAT – siano serie: da anni questi dati indicano sprechi nella finanza regionale, costi della politica ingiustificabili, squilibri nel sistema di finanziamento delle Regioni speciali. Prendiamo per esempio il capitolo "L'Eldorado delle famiglie". De Robertis fa un lungo elenco delle prestazioni sociali di tutti i tipi che le Regioni speciali, in virtú delle loro competenze, sono riuscite ad attivare a favore della propria popolazione. Effettivamente il divario fra le regioni speciali e quelle ordinarie del Nord, ma anche fra le Regioni speciali del Nord da una parte e la Sicilia e la Sardegna sono impressionanti. Nel capitolo iniziale sul "grande divario" afferma: "Regioni in cui vengono rimborsate le cure dentistiche, pagati i pannolini, c'è una pressione fiscale più bassa, gli stipendi dei pubblici dipendenti e degli amministratori sono mediamente più alti, le aziende godono di sovvenzioni pubbliche vicini ai limiti europei che vietano aiuti di Stato, e in invece Regioni in cui tutto questo è negato." In effetti, il livello generale di prestazioni pubbliche, servizi e strutture sociali e sanitarie nella nostra provincia come nel Trentino, Valle d'Aosta e nel Friuli è più avanzato. Questo però non è un privilegio, ma un frutto del nostro autogoverno locale, delle nostre scelte democratiche di spesa pubblica. Che il livello delle entrate delle Regioni a statuto speciale sia relativamente alto, forse troppo alto, è nient'altro che un risultato di accordi fra Stato e Regioni autonome. Ogni Regione e Provincia, che sia speciale o meno, cerca di assicurarsi quello che può, per cui il bersaglio vero di tali critiche sarebbe lo Stato incapace di organizzare bene il federalismo fiscale. Va ribadito a questo punto che la specialità è fatta per consentire ad alcune Regioni uno spazio di autogoverno più ampio. per motivi ben precisi. È rimesso alla loro autonomia e ai rappresentanti eletti in queste regioni di creare un sistema di welfare regionale secondo le preferenze locali. È questo il senso di autonomia territoriale. Ed è questo che De Robertis non sembra aver capito affatto. Capitolo invece assai azzeccato quello sul costo della politica nelle Regioni a statuto speciale e sul "dipendentificio federale". Benché le Regioni ordinarie, e soprattutto quelle del Sud, non scherzassero con gli stipendi dei loro politici, in quelle a statuto speciale consiglieri, governanti, sindaci e sottgoverno sembrano essersi scatenati, e, a differenza dei loro colleghi delle regioni ordinarie sono usciti quasi indenni dalle sforbiciate del Governo Monti. Sarà risaputo, ma l'analisi del "dipendentifico" (De Robertis) siciliano con tanti esempi al limite dell'assurdo potrà servire per ripensare non certo l'autonomia, ma l'approccio assistenzialista che regna nella politica di questa realtà a scapito degli stessi siciliani. L'autore non risparmia le critiche neanche alla "casta" locale, agli stipendi dei politici del Trentino-Alto Adige, ai negoziati fra ministri, partiti al governo e parlamentari SVP ("Quegli sporchi ricatti"). Dopo la bordata generale contro le Regioni speciali – se si salva una è solo il Friuli Venezia Giulia che effettivamente ha un livello di entrate minore rispetto le altre 4 Regioni – non può stupire la terapia suggerita dall'autore: abolire le Regioni speciali che De Robertis definisce "un relitto del passato", un'anomalia che economicamente e storicamente a lui appare sempre più priva di significato. Con tali sentenze l'autore non solo fa torto alle amministrazioni virtuose che - a parte certi sprechi e investimenti malriusciti – possono presentare risultati migliori in un'ampia gamma di politiche sociali, economiche, della formazione, della sanità, dell'ambiente, che li avvicinano alle realtà regionali più avanzate in Europa. Ma De Robertis dimostra anche una fatale ignoranza delle ragioni di fondo dell'istituzione delle Regioni speciali: la diversità etnico-culturale, la tutela delle minoranze nazionali, le peculiarità storiche. La tutela delle minoranze linguistiche è prevista dalla Costituzione e le autonomie speciali non sono altro che lo strumento giuridico e politico per garantire questo obiettivo di fondo. Questi motivi per almeno 4 di queste regioni e province non sono per niente relitti del passato. In fondo il suo è un attacco al regionalismo e federalismo in quanto tale per invocare un nuovo accentramento che in Italia è già risultato fallimentare.

Pierfrancesco De Robertis:La casta a statuto speciale – Conti, privilegi e sprechi delle Regioni autonome, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2013, pp.148, Euro 10; L'autore è responsabile della redazione romana del "Quotidiano Nazionale", giornalista parlamentare, e ha pubblicato anche: "La casta invisibile delle Regioni".

La Casta a Statuto speciale. Conti, privilegi e sprechi delle regioni autonome. «Campioni del mondo, campioni del mondo». L’urlo del telecronista risuonava ancora nell’aria quando in tutte le piazze della Penisola il delirio era appena agli inizi. Scrive "Soverato web". E non appena Fabio Cannavaro alzò la coppa – in quella magica notte di Berlino nel 2006 – la gioia fu irrefrenabile in tutto il Paese. Tutto. «Dalle Alpi fino alla Sicilia le piazze si sono riempite in un battibaleno. La festa non ha fine», titolarono i giornali la mattina successiva. Non ci fu uno che in quella notte – in nessuna delle venti Regioni italiane – pensò di non essere italiano. Nessuno. Ma l’incanto dura sempre una notte, e dal mattino successivo in diecimilioni si ricordarono di essere meno italiani degli altri. O più italiani, dipende dai punti di vista. Sono quei diecimilioni di cittadini che vivono in una delle cinque Regioni a Statuto speciale, e che per questo godono di privilegi che non condividono con gli altri. Specialità che nacquero una sessantina di anni fa, – come spiega Pierfrancesco De Robertis nel suo ultimo libro La Casta a Statuto speciale. Conti, privilegi e sprechi delle regioni autonome, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubbettino, – quando il mondo era molto diverso da adesso, ed esistevano ragioni di ordine politico, internazionale, sociale ed economico che le giustificavano: la Sicilia e l’Alto Adige erano sull’orlo della secessione, la Valle d’Aosta era mezzo francese, la Sardegna durante la guerra appena conclusa era stata considerata al pari di una portaerei, il Friuli Venezia Giulia (speciale solo nel 1963) era più al di là che al di qua della Cortina… Tutte ragioni valide, che oggi non ci sono più. Neppure una. Come in fondo è naturale che sia: è morta l’Urss, si sono riunificate le due Germanie, possiamo pensare che solo in Italia tutto resti com’era sessanta anni fa? Di quell’assetto istituzionale restano solo i privilegi e le ingiustizie. Perché garantire a diecimilioni di cittadini un trattamento di favore rispetto agli altri quarantotto è, con i chiari di luna economici attuali, qualcosa di pazzesco. Inaudito. A questo punto c’è da augurarsi che nell’imminente confronto sulle riforme istituzionali, di cui pare siamo alla vigilia, del tema «Regioni speciali» si possa parlare senza subire il solito ricatto che da quarant’anni le forze autonomiste locali avanzano alla classe politica «romana», garantendo appoggi parlamentari in cambio di soldi e concessioni. Loro l’interesse generale e l’idea di nazione se li sono scordati da tempo, e ragionano come un piccolo sindacato di territorio. I politici «nazionali» non hanno il coraggio di guardare oltre l’orizzonte del proprio piccolo futuro politico personale, e quei ricatti non hanno il coraggio di respingerli al mittente. Il resto dell’Italia rimane in mezzo a questo corto circuito, e affonda.

I MAGISTRATI: UNO SPRECO CONTINUO. LAVORANO POCO E MALE E NESSUNO LO DICE.

Filippo Facci: i magistrati lavorano poco. In ferie, imboscati o fuori stanza: trovare i magistrati è un’impresa. E poi protestano per la mancanza di risorse.  La Guardasigilli non ha voglia di litigare coi magistrati - non è proprio il momento - e questa è la spiegazione più seria che meriti la sua uscita di ieri, quella secondo la quale ci sono 9 milioni di fascicoli pendenti e però «l’Unione europea colloca la magistratura italiana ai primi posti in termini di produttività». Un’asserzione che non sta in piedi comunque la si metta, e che lascia intatta la nostra curiosità professionale di apprendere quali dati abbia consultato il Ministro: anche girovagando per i rapporti del Consiglio d’Europa (segnatamente del Cepej, Commission européenne pour l’efficacité de la justice) non abbiamo trovato alcun dato che giustifichi uscite del genere, anzi, risulta che l’Italia sia agli ultimi posti in tutto. Ma probabilmente ci sbagliamo noi.  Ecco perché lo confessiamo: siamo fermi al luogo comune, e questo pur frequentando i palazzi di giustizia spesso e malvolentieri. Il luogo comune resta questo: i magistrati lavorano mediamente poco, non di rado il dottore «oggi non c’è» mentre caio «oggi lavora a casa», con sempronio che «oggi non è venuto». Siamo fermi ai pochi che si sobbarcano il lavoro di molti, e ai molti che spesso sono imboscati o fuori stanza: che è ciò che capita ai funzionari e ai dipendenti statali come lo sono i magistrati, con la sola differenza che i togati non timbrano il cartellino. Ecco perché, a parlar con loro, sembra quasi di parlare col corpo docente della scuola italiana: le lamentele sono identiche e tra queste c’è «la mancanza di risorse», un classico. Se di pomeriggio i tribunali sono deserti (come nel periodo estivo: una cosa che non esiste in nessun altro paese serio) la colpa invece è della «cattiva organizzazione». Uno sgobbone come Francesco Ingargiola, presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta, però disse un’altra cosa: «Nei tribunali il problema principale è proprio questo, far lavorare e motivare i giudici; perché se la giustizia è al capolinea non è colpa solo di leggi farraginose, ma anche di molti colleghi che non lavorano a sufficienza». Ma guai a dirlo. Vanno in prescrizione 450 processi al giorno, ma siamo «ai primi posti in termini di produttività», l’ha detto il Ministro. Lentezza equivale a ingiustizia, ma i 51 giorni di ferie l’anno dei magistrati - record italiano - con questo non c’entrano niente. E chissà come mai, quando l’ex ministro Renato Brunetta propose i tornelli a palazzo di Giustizia, un sondaggio pubblicato dal Corriere della Sera (ottobre 2008) vide favorevole l’80 per cento dei votanti: forse tutti malinformati, vittime di percussive campagne berlusconiane. Anche Giuliano Pisapia, sindaco di Milano ma soprattutto avvocato, lo disse chiaramente: «Lavorano poco». Pisapia suggerì addirittura che si facesse come quel procuratore capo che, ogni mattina, bussava dai vari magistrati per dargli il buongiorno: una sorta di appello. Eppure, per qualche ragione che sa di sacralità, le toghe sono sottratte al computo dei fannulloni della pubblica amministrazione: forse perché affianco ai lavativi ci sono anche gli stakanovisti, quelli per fortuna ci sono sempre. A Napoli, dall’iscrizione alla richiesta di rinvio a giudizio per Berlusconi, il procedimento per il caso Saccà impiegò 32 giorni, feste comprese. L’Appello del caso Mills l’hanno sbrigato in un mese e mezzo e le motivazioni erano state depositate in 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione fu velocizzato. Il primo grado aveva fatto sfilare 47 udienze in meno di due anni, lavorando - sacrilegio - anche sino al tardo pomeriggio, talvolta nei weekend. Ma lasciamo perdere questo, non facciamoci fuorviare. Restiamo ai sette anni per mandare in primo grado un processo per usura (a Milano) e un minimo di cinque anni (nel resto d’Italia) per un qualsiasi penale. E perché? Perché mancano le risorse, certo, cattiva organizzazione, come no, e poi manca la carta per le fotocopie, del resto Tizio è in malattia, la segretaria è in maternità: le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda alle classifiche mondiali sulla giustizia. I nostri processi durano dieci volte più della Francia e cinquanta volte più della Gran Bretagna: forse è perché li facciamo meglio, anche perché - l’ha detto il ministro - la nostra magistratura è la più efficiente d’Europa. Forse è per questo che la paghiamo così bene: gli stipendi dei nostri togati sono tra i più alti d’Europa: se si mettono a confronto prima e dopo l’ingresso nella moneta unica, ci si accorge che sono cresciuti circa del 30 per cento in 5 anni, e circa del 60 per cento in 10 anni. È giusto, tanta efficienza va premiata. I ritardi nelle condanne comportano una rifusione danni di 387 milioni di euro a cura del contribuente (rileggere la cifra, grazie) ma abbiamo i magistrati più efficienti d’Europa, l’ha detto il ministro e quindi sarà vero.

Magistratura italiana: verità e omissioni, scrive “Vita” e Agora Vox. L'Associazione Nazionale dei Magistrati ha pubblicato sul proprio sito il documento “La verità dell'Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla ANM e parametrati su quelli della Comunità Europea. Un rapporto talmente lacunoso da essere sospetto. Ecco perchè. La Costituzione italiana assegna alla Magistratura il privilegio dell'autogoverno, cosicché essa si autogestisce senza rispondere a nessun altro che non a se stessa. Gestione del personale, organizzazione del lavoro, retribuzioni e rendiconti dei costi sono opzioni autonome prese dal Consiglio Superiore della Magistratura e fuori dal controllo dei cittadini. La Magistratura italiana è stata messa sotto accusa per molti motivi: gli stipendi e l'orario di lavoro dei magistrati, i costi, la lunghezza dei processi, la politicizzazione. A fronte delle critiche ricevute l'ANM, Associazione Nazionale dei Magistrati, ha pubblicato un documento (in allegato) “La verità dell' Europa sui magistrati italiani” basato su dati raccolti dalla Comunità Europea e ove vengono confrontati i sistemi giudiziari dei paesi membri della U (rapporto CEPEJ 2008). È un documento dettagliato ma è talmente lacunoso da essere sospetto, perché le verità citate sono solo alcune delle verità dell' Europa. Il fatto che i magistrati non hanno un orario di lavoro viene così motivato «essi sono equiparati a dirigenti che non hanno orario di lavoro». Succede però che i dirigenti, almeno quelli delle aziende private, avendo dipendenti lavorano in ufficio ben oltre l'orario di lavoro, invece i magistrati non hanno dipendenti e di fatto sono sul luogo di lavoro per poche ore alla settimana! Il rapporto ANM è interessante più per ciò che trascura che per ciò che esamina. Si parla del carico di lavoro dei magistrati e del loro stipendio per mostrare che la magistratura italiana non è sovrapagata e non è vero che produce poco. È una difesa corporativa con gravi omissioni perchè non si parla dell'argomento più importante: cioè del servizio reso ai cittadini. Ai cittadini interessa il costo che debbono subire per ottenere giustizia e il tempi di attesa per ottenere tale giustizia. Ho avuto esperienza di dovermi difendere da una pretesa di usucapione avanzata da un erede contro gli altri. L'usucapione richiede 20 anni di possesso incontestato per essere praticabile. Orbene le proprietà in oggetto provenivano da una altra successione di meno di 20 anni prima: una causa, inconsistente di partenza, durata 8 anni e per la quale mi è stato presentato una parcella di oltre 12mila Euro, quasi equivalente al valore del contendere! Come potere chiamare giustizia civile un processo che costa come il valore del contendere e che richiede anni prima di arrivare ad una risoluzione! Alla omissione del confronto tra la durata dei processi in Italia rispetto alla durata media negli altri paesi europei provvede peraltro un altro rapporto della UE del marzo 2013 (in allegato) da cui risulta che il tempo medio di durata dei processi in Italia è il più lungo tra i 27 paesi della UE, ecccetto Cipro e Malta. Questo report documenta anche come processi lunghi significhino alti costi per il cittadino. Il documento ANM cita perciò solo alcune delle verità dell'Europa. Colpisce il numero dei processi attivati in Italia: una quantità impressionante! Sembrerebbe perciò che gli Italiani siano il popolo più litigioso del mondo, ma pensando all' esempio che segue appare che la moltiplicazione dei processi non è tanto colpa del cittadino ma della Amministrazione della Giustizia. Ho avuto esperienze personali istruttive al proposito. Per un inquilino che non pagava, ho dovuto fare tre procedimenti distinti. La prima per lo sfratto, la seconda per liberare l' appartamento, la terza per ottenere un decreto ingiuntivo di pagamento che ha portato a risultato zero. Ogni volta pagando spese di tribunale, ufficiale giudiziario ed avvocati! Una giustizia che ha richiesto 3 cause, oltre 3 anni ed un costo assurdo. Interessante è l'analisi della produttività dei magistrati italiani espressa come rapporto tra il numero di nuove cause aperte ogni anno ed il numero dei magistrati in organico. Risulta che i magistrati italiani sono tra i più produttivi in Europa. Può trattarsi di un dato falso perché in Italia a lato dei magistrati ordinari esiste una magistratura Onoraria con 1981 Giudici Onorari e 2092 giudici di pace che sono fuori organico ma smaltiscono cause. ANM dichiara che i magistrati italiani non hanno né benefit né altri emolumenti, dimentica però di precisare che i magistrati italiani possano ricoprire altri incarichi retribuiti. Nella classifica mondiale stilata dal World Economic Forum la giustizia italiana è valutata al 68esimo posto nel mondo! Ai cittadini italiani è reso un servizio di Giustizia peggiore di quello di molti paesi del terzo mondo: peggiore per esempio di Egitto, Cile, Costa Rica, Gambia, Pakistan, Slovenia e perfino dell'Iran. Il CSM ha un bilancio quasi impossibile da reperire e talmente lacunoso da non potere essere neppure chiamato "bilancio". Cosicché i giudici così solerti nelle indagini alle imprese dovrebbero anzitutto auto-indagarsi. Il CSM ha 27 consiglieri e 20 autisti e auto blu ed i Consiglieri ricevono, oltre lo stipendio, 75mila Euro l'anno di indennità di carica oltre i rimborsi spese e gettoni di presenza. Sono talmente oberati di lavoro che sono presenti 4 giorni alla settimana per sole 3 settimane al mese. Il CSM ha un regolamento di Amministrazione e Contabilità del 15 dicembre 2005 che all'articolo 25, comma 1, definisce le indennità riconosciute ai propri membri per la partecipazione ai diversi Comitati di Gestione. Come se partecipare ai Comitati di Gestione non faccia parte del lavoro dei membri del CSM ma sia un lavoro extra. Vi è scritto che "l'indennità spetta per non più di 3 sedute giornaliere". Dal momento che non è scritto se tale limite è al mese, se ne potrebbe dedurre che un membro del CSM può ogni giorno chiedere tre indennità! Magari per sedute che durano 30 minuti! Sul sito web del CSM è introvabile il resoconto dettagliato delle spese. Se la Magistratura vuole davvero evitare di essere messa sotto accusa dalla opinione pubblica perché non comincia con il rispettare gli obblighi di trasparenza di bilancio? Il secondo passo sarebbe motivare perché nelle classifiche internazionali sulla Giustizia l'Italia risulta al 68mo posto ma soprattutto agire per cancellare questa ingiustizia ai cittadini italiani. Dare risposta ai cittadini italiani è opportuno e doveroso perché le classifiche internazionali mica le ha fatte Berlusconi!

Quanto costa, invece, la Giustizia? Si chiede Marco Caffarello. Un articolo di Libero fa le pulci ai conti del CSM per il quale è previsto un aumento della spesa. Si sa, in tempi di spending review si è molto più sensibili ai conti, ogni cosa ha il suo peso, e si è molto più attenti nel guardare da vicino i vari sprechi che in un modo o nell'altro negli ultimi anni hanno contribuito ad accrescere il famigerato debito pubblico. Delle ultime finanziarie di questi ultimi due anni ci si ricorda, infatti, che non c'è organo costituzionale, ente locale e servizio pubblico, come scuola, sanità e servizi comunali, che non abbia visto ridursi il proprio budget per alleggerire la pesante macchina statale, troppo dispendiosa anche per i burocrati di Bruxelles, sempre pronti, come anche la cronaca degli ultimi tempi racconta, a "farci le pulci". Eppure, come segnala il giornale di Maurizio Belpietro, Libero, ci si accorge tuttavia che non proprio tutte le realtà dello Stato hanno visto tagliarsi i propri "averi"; è il caso della famigerata classe dei Magistrati, parte, com'è noto a tutti, di infinite polemiche negli ultimi vent'anni tra potere dello Stato e potere giudiziario, una polemica che a posteriori per molti, data la contingenza dei gravi problemi che hanno colpito il paese, ha avuto il torto di aver impedito importanti politiche per questioni sociali che scongiurassero una così violenta crisi. Se si leggono infatti i dati del bilancio di previsione del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) relativo al 2014 si nota che per l'anno che verrà, più che un alleggerimento della spesa dell'organo di Stato, è già previsto l'aumento della spesa; rispetto al 2013 la spesa del CSM crescerà per un equivalente del 34%. Le spese che il CSM potrà effettuare il prossimo anno sono pari infatti a circa 44 milioni di euro, 12 milioni in più rispetto all'anno che si appresta a chiudersi. Chi è abituato alla politica, conosce bene quelle che sono le posizioni e le considerazioni del giornale di Belpietro nei riguardi del potere delle "toghe", ma non può comunque rimanere inosservato al pubblico, sopratutto in una fase storica come quella attuale caratterizzata dall'incremento della povertà tra le fasce sociali, il fatto che al CSM, come scrive Libero: "Basta elencare le proprie esigenze, senza porsi il problema di contenere il budget; anzi, arrotondando ogni voce per eccesso che il ministro del Tesoro, poi, provvede a staccare l'assegno, senza battere ciglio". Certamente parlare di "giustizia" rappresenta una questione molto sottile, persino filosoficamente, figuriamoci quindi nella sua pratica, e non sorprendono quindi più di tanto le "giustificazioni" della Magistratura che sostengono la necessità delle proprie spese per evitare al paese rischi come il terrorismo, il traffico di droga o la criminalità organizzata, una ragione che il Csm difende con indubbia certezza, e a cui diamo infatti merito. Ma come giustificare tuttavia, si chiede Libero, le tante spese che con la giustizia hanno poco a che vedere? Come giustificare, infatti, un esborso superiore del 20% rispetto al 2013 per il cosiddetto "Assegno dei componenti"? E sopratutto, si chiede Belpietro, come giustificare il rialzo della spesa per viaggi all'estero pari al 37% in più rispetto al 2013? Una questione questa a cui le "toghe" hanno risposto adducendo un accrescimento delle attività di indagine all'estero; una realtà, spiega il quotidiano, che coinvolge tuttavia per sua natura anche magistrati segretari. Il loro rimborso spese è previsto crescere da 34mila a 110mila euro, il 224% in più rispetto all'anno che si va a chiudere. Non solo, ma è già stato rendicontato l'aumento per la previdenza integrativa, l'assicurazione sanitaria e la formazione dei dipendenti, per un equivalente del 48% in più rispetto al 2013, da 885mila a 1,31 milioni complessivi. Tra le spese è previsto anche l'aumento dei "buoni pasto", per i quali sono già stati messi in bilancio 370mila euro, per un aumento rispetto al 2013 del 10%. Curioso anche il fatto che, nonostante la certificata riduzione della spesa dell'energia elettrica, il CSM abbia inserito nel bilancio un aumento della spesa pari al 51% in più rispetto al 2013, per un equivalente di 550mila euro. Insomma, se è vero che un po' tutte le parti tirano la cinghia, si chiede Libero, perchè la giustizia "è più uguale rispetto agli altri"? Gli errori giudiziari commessi negli anni hanno cagionato esborsi milionari a carico dello Stato per gli indennizzi aventi valore riparatorio che sono stati concretamente versati. Molte vittime della malagiustizia però non sono mai state risarcite o perché non hanno fatto apposita richiesta o perché le proprie istanze indennitarie sono state rigettate. Nel 1988 lo Stato introdusse una misura che potesse almeno lenire le conseguenze di palesi ingiustizie: fu così creato l'istituto della riparazione per ingiusta detenzione introducendo due specifici articoli il 314 ed il 315 nel codice di procedura penale. Dopo oltre 24 anni dall'introduzione del suddetto istituto ciò che stupisce profondamente è il dato relativo al numero di persone rimasti vittime della giustizia dal Dopoguerra: oltre 4 milioni. Dati che non riguardano solo errori giudiziari o ingiuste detenzioni ma, anche uomini e donne finiti negli ingranaggi della giustizia e poi usciti assolti o prosciolti completamente. Sono circa 50 mila, infatti, i cittadini che hanno ricevuto il relativo indennizzo per una spesa complessiva che tocca quasi i 600 milioni di euro. Basta scorrere negli anni la tabella del ministero dell'Economia e delle Finanze per verificare che sono stati spesi oltre 56 milioni del 2004, 49 milioni e passa nel 2002, più di 47 milioni nel 2011. Il dato più basso riguarda il 1997 con un milione e mezzo di euro complessivamente registrati. Si tratta in media di circa 30 milioni di euro all'anno che sono stati prelevati dalle casse dello Stato per indennizzare le vittime d'ingiuste detenzioni e di errori giudiziari. Nella colonna degli importi pagati per errore giudiziario, per esempio, balza agli occhi come il 2012 sia stato l'anno in cui più si è speso per i soli errori (poco meno di 7 milioni di euro).

MALA GIUSTIZIA: IN ITALIA 22.300 ERRORI GIUDIZIARI ACCERTATI, MEZZO MILIARDO DI EURO GLI INDENNIZZI PAGATI. Mala Giustizia. 22300 errori giudiziari accertati ad oggi, per mezzo miliardo di euro di indennizzi complessivamente versati. I dati depositati presso il Ministero dell’Economia e Finanze e che pochi hanno il coraggio di denunciare, scrive Giovanni D'Agata. Un fenomeno di massa che ha fatto nascere associazioni, siti specializzati, blog, e movimenti d’opinione perché ha riguardato e continua a riguardare milioni d’italiani e di cittadini residenti sul territorio nazionale. Parliamo degli errori giudiziari che nel corso degli anni hanno comportato esborsi milionari da parte dello Stato per gli indennizzi aventi valore riparatorio che sono stati concretamente versati. Anche se migliaia di vittime della malagiustizia non sono mai state risarcite perché o non hanno fatto apposita richiesta forse perché quasi mai l’indennizzo versato dallo Stato può riparare i danni che un errore può portare ad una vita e a quella dei propri cari o perché le proprie istanze indennitarie sono state rigettate. E così sono passati oltre 24 anni dall’introduzione dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, ed oggi ciò che colpisce profondamente è il dato relativo al numero di persone rimasti vittime della giustizia dal Dopoguerra: oltre 5 milioni. Non si tratta solo di errori giudiziari o ingiuste detenzioni in senso stretto, quanto di uomini e donne finiti nelle maglie della giustizia e poi usciti assolti o prosciolti completamente. I dati precisi relativi agli individui per i quali è stato accertato che sono finiti ingiustamente in carcere o hanno subito incolpevolmente una misura restrittiva ed ai quali è stato “concesso” l’indennizzo previsto dallo Stato sono depositati presso l’Ufficio IX del Ministero dell’Economia e delle Finanze e fino ad oggi pochi sono andati a spulciarli e altrettanto pochi ne hanno denunciato le dimensioni. Sono circa 50 mila, infatti, i cittadini che hanno ricevuto il relativo indennizzo per una spesa complessiva che tocca quasi i 600 milioni di euro. Correva l’anno 1988 quando, finalmente, lo Stato si decise ad introdurre una misura che potesse almeno lenire le conseguenze di palesi ingiustizie: fu così creato l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione introducendo due specifici articoli il 314 ed il 315 nel codice di procedura penale. Le prime liquidazioni, però sono arrivate solo tre anni più tardi, ossia nel 1991 e contabilizzati nel 1992: nel periodo compreso tra il 91 ed oggi, a distanza di 22 anni, dunque, sono oltre 22 mila e 300, per la precisione 22.323, le persone per le quali è stata accertata l’ingiusta detenzione o un errore giudiziario per il quale è stato riconosciuto il relativo indennizzo. Secondo alcuni analisti, però le cifre sarebbero destinate più che a raddoppiare se si contano anche coloro che fanno richiesta del risarcimento che viene rigettata. Corrisponderebbero solo ad un terzo, al massimo due terzi, le domande che hanno un esito positivo. Anche il dato complessivo degli esborsi è esorbitante: oltre mezzo miliardo di euro. Tra riparazioni per ingiusta detenzione e indennizzi per gli errori giudiziari veri e propri (quelli cioè sanciti dopo un processo di revisione nei confronti di un condannato con sentenza definitiva, da cui quest’ultimo è stato dichiarato innocente), lo Stato ha sborsato dal 1991 (anno dei primi 5 casi di risarcimento contabilizzati) a oggi ben 575.698.145 euro. Quasi tutto (545.460.908) per risarcire le decine di migliaia di ingiuste detenzioni scontate da innocenti in carcere o agli arresti domiciliari. Basta scorrere gli anni gli nella tabella del ministero dell’Economia e delle Finanze per verificare che sono stati spesi oltre 56 milioni del 2004, 49 milioni e passa nel 2002, più di 47 milioni nel 2011. Il dato più basso riguarda il 1997 con un milione e mezzo di euro complessivamente registrati. Si tratta in media di circa 30 milioni di euro all’anno che sono stati prelevati dalle casse dello Stato per indennizzare le vittime d’ingiuste detenzioni e di errori giudiziari. Nella colonna degli importi pagati per errore giudiziario, per esempio, balza agli occhi come il 2012 sia stato l’anno in cui più si è speso per i soli errori (poco meno di 7 milioni di euro). Ciò che colpisce ulteriormente è però ciò che sta accadendo negli ultimi anni nei quali la famigerata spending review sta colpendo anche questo settore nel quale lo Stato dovrebbe farsi garante degli errori commessi a danno dei cittadini senza consentirsi alcun risparmio sulla pelle di chi ha sofferto e soffre. Fonti del Ministero dell’Economia e delle Finanze riferiscono che negli ultimi due anni, gli importi liquidati e le domande di risarcimento sono nettamente diminuiti quali conseguenza diretta della ridotta disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio, con ulteriore probabile effetto di una stretta nella valutazione delle istanze di risarcimento. Una politica, quella tenuta in questo settore in questi ultimi anni da parte dei governi succedutisi che non è tollerabile per le ragioni poc’anzi individuate, spiega Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, associazione da anni impegnata in maniera attiva anche nella tutela delle vittime della Malagiustizia. Ecco perché nei casi che verranno affrontati non lesineremo la possibilità di rivolgerci sino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed alla Corte di Giustizia Europea affinché ogni cittadino che abbia subìto queste gravissime forme d’ingiustizia da parte della stessa Giustizia, sia assicurato adeguato ristoro a carico dello Stato che serva almeno a lenire le sofferenze patite.

LA GIUNGLA DELLE SOCIETA’ IN MANO PUBBLICA.

La giungla delle società in mano pubblica. Oltre 7mila spa, perdono 2,2 miliardi. Il Tesoro pronto a intervenire. Solo l'Automobile Club ha 153 partecipazioni. I Comuni in testa con oltre 29mila presenze dirette o indirette. Per la prima volta il governo fa i conti di tutte le quote detenute da Stato ed enti pubblici, scrive Federico Rubini su “La Repubblica”. Per la precisione, sempre che essa non sia una chimera in questo campo, sono 7.340 le società di cui risultano azionisti ministeri, enti locali, enti pubblici di previdenza, l'Automobile Club d'Italia, le case di riposo o varie altre articolazioni dello Stato. Una selva inestricabile di 30.133 "legami", come il Tesoro chiama pudicamente le partecipazioni dirette e indirette. Il 15 gennaio 2014 il ministero dell'Economia ha pubblicato il primo rapporto mai visto in Italia - meglio tardi che mai - sulle partecipazioni detenute dalle amministrazioni, i loro guadagni e soprattutto le perdite di esercizio da 2,2 miliardi di euro l'anno. E qualunque siano i dettagli di ciò l'indagine ha scoperto, essa pone prima di tutto una questione di buon senso. Perché se una holding privata vedesse che un terzo delle società di cui essa è azionista viaggia in rosso e che quelle perdite sono così pesanti da portare in rosso il saldo totale, le opzioni sarebbero chiare: vendere, oppure ristrutturare al più presto le imprese in perdita per arrestare l'emorragia; la terza ipotesi, fingere di non vedere perché così conviene a qualche manager corrotto, non atterrerebbe neppure sul tavolo. Il problema con le 7.340 società partecipate dalle amministrazioni italiane è che il più delle volte, finora, si è imboccato quest'ultima strada. Solo i Comuni italiani dichiarano l'esorbitante cifra di 29.583 partecipazioni dirette e indirette che, spesso, si accavallano fra loro nelle stesse imprese: in tutto le giunte cittadine sono presenti in circa 5.000 società. L'Automobil Club d'Italia dice di avere molte più partecipazioni di qualunque fondo d'investimento italiano, a quota 153 imprese.

I PRIVILEGI DEGLI STATALI.

Nella pubblica amministrazione ci sono dirigenti che prendono stipendi d'oro, centinaia di migliaia di euro l'anno (e qualcuno più di mezzo milione). Forse sarebbe il caso che la mitica 'spending review' iniziasse da lì. Solo nei Palazzi della politica ci sono ottanta 'ministeriali' che si portano a casa quasi 200 mila euro a testa. Settantanovemilacentocinquantanove euro. E' lo stipendio medio, al lordo delle tasse, dei 48.083 dirigenti pubblici italiani, che tutti insieme appassionatamente si aggiudicano un monte-retribuzioni pari a 3 miliardi e 806 milioni. Se dunque il commissario alla spending review, Enrico Bondi-"Mani di forbice", riuscirà a far passare il taglio del 20 per cento della dirigenza statale che ha messo sul tavolo del governo si avrà un risparmio di circa 760 milioni. Ma sarà dura. «Non si può colpire alla cieca», mette le mani avanti il capo della Funzione pubblica Cisl, Giovanni Faverin. I nostri capi-travet guadagnano bene. La media, che "l'Espresso" ha calcolato sulla base del "Conto annuale 2010" della Ragioneria generale dello Stato, nasconde situazioni molto diverse. Ed è livellata verso il basso dai 20.374 dirigenti non medici del Servizio sanitario nazionale (64.654 euro a testa, sempre lordi) e dai 9.165 della scuola (66.677 euro). Tutti gli altri stanno molto meglio. Basta pensare che, in media, incassano il 49 per cento più dei loro pari-grado impiegati nelle aziende private. Prendiamo un dirigente ministeriale di prima fascia (sono 80). La sua busta-paga è un autentico rebus (nel 2007 i ricercatori dell'Ocse hanno ricostruito le retribuzioni pubbliche coreane e australiane, ma si sono arresi davanti alla complessità di quelle italiane). Alla fine si capisce però che si mette in tasca 50.556 euro di stipendio (compresa la cosiddetta indennità integrativa speciale), ai quali somma 2.990 euro di "Retribuzione individuale di anzianità" e altri 12.214 di tredicesima. Si arriva così a quello che i tecnici della Ragioneria chiamano "Totale voci stipendiali", che è però solo il 34,2 per cento dell'importo finale. Per arrivare al quale bisogna aggiungere 124.594 euro di "Indennità fisse" e 1.902 di "Altre accessorie". Alla fine, fa 192.256 euro lordi. Una bella cifra, ma comunque molto al di sotto del misterioso tetto imposto dal governo alle retribuzioni pubbliche (sembra uno scherzo e invece è vero: a seconda di chi fa i calcoli, oscilla tra i 296 mila e i 305 mila euro). Gli alti papaveri dello Stato italiano (che secondo l'indagine dell'Ocse "Government at a glance 2011" sono i meglio pagati al mondo, con una media di 308 mila euro per i top manager) riescono addirittura a doppiarlo. In base all'incompleto elenco che il ministro della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi, ha consegnato alla fine di febbraio al Parlamento, il capo della Polizia, Antonio Manganelli, è il dirigente pubblico meglio pagato d'Italia, con 621.253 euro e 75 centesimi l'anno. A titolo di raffronto, Bernard Hogan-Howe, che non è un viandante ma il capo della Metropolitan Police di Londra, è fermo a quota 298 mila euro. Negli Stati Uniti, il capintesta dell'Fbi, Robert S. Mueller, ha uno stipendio base di 120 mila euro, che sale a 153 mila con le indennità. E in Spagna il direttore generale della Polizia non va oltre i 71 mila euro, meno dunque di un travet con i galloni di capo di seconda fascia e la scrivania a palazzo Chigi (73.783 euro). I dirigenti pubblici italiani, insomma, non si possono davvero lamentare dei loro stipendi. Ma non è questo il punto. Più che a sforbiciarla, bisognerebbe riuscire ad agganciare la busta-paga di Manganelli alle statistiche sui reati commessi nel Paese e sui presunti responsabili assicurati alla giustizia. E su questo fronte siamo davvero indietro. Nella pubblica amministrazione la meritocrazia rimane una bestemmia. Perché, al di là delle tante parole in libertà, i sindacati, che hanno nei travet (e nei pensionati) il loro zoccolo duro, continuano a non volerne sapere. E il 68,08 per cento dei dirigenti pubblici ha in tasca la tessera con il logo di Cgil, Cisl o Uil (contro una media nazionale del 33,7 per cento), sigle con le quali spesso si crea un rapporto incestuoso: solo di recente ai capi del personale delle amministrazioni è stato vietato di assumere incarichi sindacali e di giocare così due parti in commedia (leggendaria è la vicenda del dirigente-sindacalista di palazzo Chigi la cui firma appariva due volte in calce ai contratti: nella casella del datore di lavoro e in quella della controparte). Il risultato è che a ogni passo avanti compiuto in direzione di un riconoscimento dei meriti individuali ne seguono almeno due indietro. Racconta Renato Brunetta, l'ex ministro della Funzione Pubblica che aveva introdotto sistemi di valutazione dei singoli dipendenti: «Patroni Griffi ha cercato di tornare al voto di merito attribuito agli uffici nel loro complesso. Tra l'altro, se fosse passata la sua linea, che subordinava ogni forma di mobilità alla concertazione con i sindacati, oggi Bondi avrebbe le mani legate». Se il blitz del nuovo ministro non è andato in porto, tutti i meccanismi premiali timidamente introdotti negli anni sono stati di fatto sabotati. Dice Alberto Stancanelli, dirigente generale di palazzo Chigi, già capo di gabinetto alla Funzione Pubblica: «L'indennità di posizione, che doveva essere diversificata in relazione alla responsabilità dell'incarico, alla fine viene riconosciuta a tutti in una misura molto simile». Per non parlare dei bonus legati al raggiungimento dei risultati messi in bilancio, che negli ultimi anni secondo la Corte dei conti sono cresciuti del 30 per cento. Il dubbio che si tratti di una cosa poco seria viene anche solo dalla lettura dell'ultimo contratto collettivo dei dirigenti pubblici, dove all'articolo 26 si dice che le amministrazioni non devono sganciare l'extra se il target annuale da centrare non è stato neanche stabilito. Conferma Stancanelli: «Gli obiettivi assegnati ai dirigenti spesso sono tutt'altro che impegnativi. Così, il premio di merito è concesso a tutti e ancora oggi non rappresenta affatto il 30 per cento della retribuzione complessiva, come prevedeva la riforma Brunetta». Nella busta paga del dirigente di prima fascia di palazzo Chigi, per esempio, pesa per un misero uno per cento. Diceva Sabino Cassese: «(Nel pubblico impiego) chi vuole, lavora; chi no, se ne astiene». Sono passati tanti anni ma poco è cambiato (a parte il numero dei direttori generali, cresciuti dai 351 del 2001 ai 500 tondi del 2006). La prova del nove la fornisce il Comitato dei garanti della dirigenza pubblica istituito a palazzo Chigi, al quale le amministrazioni devono ricorrere se licenziano (o non confermano) un travet con i gradi per mancato raggiungimento degli obiettivi o inosservanza delle direttive. Nel 2008 il suo capo mandò una tragicomica lettera al ministro in carica, Luigi Nicolais, lamentando di non essere mai stato interpellato una sola volta nell'arco di tre anni. La musica non è cambiata: negli ultimi dodici mesi ai cinque del comitato non è restato che girarsi i pollici. Come a tanti dirigenti pubblici. Stefano Livadiotti - L'Espresso -  9 luglio 2012.

PARLIAMO DEI DIRIGENTI PUBBLICI.

Stipendi d’oro ai dirigenti pubblici «Sono il triplo della media Ue». Dopo greci, portoghesi e spagnoli siamo il Paese europeo che ha gli stipendi più bassi. Ma i nostri dirigenti pubblici sono i più pagati d’Europa con compensi pari a quasi il triplo della media Ocse. Secondo un rapporto dell’Organizzazione a cui aderiscono i 34 Paesi più sviluppati, la ..., scrive Achille Perego sul “Quotidiano Nazionale”. Dopo greci, portoghesi e spagnoli siamo il Paese europeo che ha gli stipendi più bassi. Ma i nostri dirigenti pubblici sono i più pagati d’Europa con compensi pari a quasi il triplo della media Ocse. Secondo un rapporto dell’Organizzazione a cui aderiscono i 34 Paesi più sviluppati, la media degli stipendi percepita dai dirigenti pubblici italiani era due anni fa di 650mila dollari (483mila euro) contro i 232mila (172mila euro) degli altri Paesi. Ai dati dell’Ocse, che ha anche evidenziato la nostra bassa fiducia nei Governi (28%), nel sistema giudiziario (38%) e in quello sanitario (55%), ha fatto subito le pulci il ministero della Funzione pubblica ricordando che da noi incidono tasse e contributi molto più alti (circa il 40%) e che i dati si riferiscono al 2011, mentre dal 2012, con il decreto Salva-Italia di Monti, è stato imposto un tetto di 302.937 euro lordi per i dirigenti pubblici, che corrisponde al trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione. Ma la legge non vale per tutti, mentre, in base alle norme introdotte quest’estate dal Governo Letta dovrebbe scattare per i manager delle aziende pubbliche che non rientrano nel tetto, un taglio dei compensi del 25%. Esiste poi la galassia di enti e società locali, sulle quali potrebbe cadere la scure del commissario alla spending review Carlo Cottarelli (che già percepisce uno stipendio di 260mila euro, cioè inferiore al tetto). In attesa dei tagli, secondo l’Ocse, che ha fatto la classifica considerando i ministeri degli Interni, Finanze, Giustizia, Istruzione, Salute e Ambiente, dopo gli stipendi dei manager pubblici italiani vengono quelli dei neozelandesi (397 mila dollari). In Francia la media è di 260 mila dollari, in Germania 231 mila, in Gran Bretagna 348 mila e negli Usa di 275mila. Ad alzare la media c’è l’onorario di Obama (circa 300mila euro: ad aprile aveva ridotto del 5% il suo stipendio). Ma quanto prendono i dirigenti della pubblica amministrazione in Italia? Secondo i dati resi noti a febbraio del 2012 dall’ex ministro Filippo Patroni Griffi, l’ex Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio percepiva 562mila euro; il capo di gabinetto del Mef, Vincenzo Fortunato prendeva 536mila euro, 481mila il direttore dei Monopoli Raffaele Ferrara, 412mila il segretario generale degli Esteri Giampiero Massolo e 364mila il capo della Protezione Civile Gabrielli. Tra i presidenti delle Authority si andava dai 387mila di Vegas (Consob) ai 475mila di Pitruzzella (Antitrust) e Borboni (Energia). Il comandante generale dei Carabinieri, Leonardo Gallittelli guadagnava 462mila euro e quello del Corpo Forestale, Cesare Patrone, 362mila. Un po’ di più dei 304mila di Attilio Befera (Agenzia delle Entrate), esclusi però i compensi in Equitalia, mentre Antonio Mastrapasqua da presidente Inps si fermava a 216mila — ma prenderebbe almeno quattro volte di più sommando gli altri incarichi. Certo, c’è chi, come il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha dato il buon esempio tagliandosi da solo del 30% la busta paga a 495mila euro. Che restano però sempre superiori ai 377mila di Draghi (Bce) e allo stipendio dell’ex numero uno della Fed, Ben Bernanke che, pur essendo il banchiere più potente del mondo, si accontentava di 146mila euro.

PARLIAMO DEI DIRIGENTI DI PALAZZO CHIGI.

Così Palazzo Chigi si sottrae alla spending review dei dirigenti. Niente taglio del 20 per cento al numero dei direttori generali. Una decina di troppo: dovevano essere considerati esuberi e subito pensionati, scrive Federico Fubini su “La Repubblica”. Ricordate quei giorni? L'Italia sembrava percorsa dalla frenesia di mettersi in regola, con sé stessa prima ancora che con l'Europa o i mercati finanziari. Andavano ridotti i privilegi dei mandarini di governo. Tagliati gli sprechi utili solo a gonfiare la pressione fiscale. Sotto il capitolo "Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica", appellandosi alla "straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni", il governo di Mario Monti nel 2012 agì: via dai ministeri un direttore generale di ministero su cinque. Avanti veloce di un anno e mezzo e cosa resta di quella frenesia? Be', c'è stato un intoppo. Informatico, a prima vista. Perché per decidere se un organico è in soprannumero bisogna prima sapere com'è composto. E per scoprirlo vanno pubblicati dall'amministrazione coinvolta i "ruoli dirigenziali", un elenco di coloro che ne fanno parte e da quando. Peccato che sul sito del governo quell'aggiornamento sui dirigenti di prima fascia di Palazzo Chigi sia fermo al primo giugno 2012. Cioè a due settimane prima che il decreto di Monti lanciasse i tagli in caso di soprannumero (peraltro, per tutto il resto dei dati il sito è aggiornatissimo). Anche così però un'occhiata più attenta ai ruoli di Palazzo Chigi rivela due punti essenziali. Il primo è che i direttori generali sono in soprannumero rispetto alle norme di Monti. Il secondo è che non sono stati dichiarati esuberi e pensionamenti.

PARLIAMO DELLA CORRUZIONE DEI DIPENDENTI PUBBLICI E DELLE TRUFFE DEI CITTADINI.

Tre miliardi di euro rubati in un anno allo Stato a causa della corruzione dei dipendenti pubblici e delle truffe dei cittadini. E' la fotografia scattata dalla Guardia di Finanza sul 2013, ed è una fotografia allarmante. Come riporta il Corriere della Sera, "i danni erariali provocati da funzionari e impiegati infedeli fino allo scorso ottobre ammontano a 2 miliardi e 22 milioni di euro; quelli per le truffe sono pari a un miliardo e 358 milioni di euro". Sono stati invece 5.073 i dipendenti pubblici denunciati nei primi dieci mesi dell’anno. Una delle principali fonti di guadagno indebito (e conseguente esborso per le casse dello Stato) sono le "consulenze" affidate a presunti esperti, un fenomeno definito dalla Finanza "una piaga". Tra gennaio e ottobre 2013 la Guardia di Finanza ha denunciato alla Corte dei Conti 150 casi di consulenze non necessarie, per un totale di 8,454 milioni letteralmente "regalati". C'è poi la questione degli alloggi popolari assegnati con affitti a prezzi stracciati (un danno di oltre 170 milioni di euro), della mancata riscossione di tasse e tributi (150 milioni), delle frodi relative ai finanziamenti erogati da enti pubblici nazionali e comunitari (353 milioni). Gli appalti truccati sono costati allo Stato 330 milioni di euro, con 360 funzionari pubblici segnalati alla Corte dei Conti. Particolarmente danneggiato il settore sanità, con danni per oltre 230 milioni di euro. E qui si sovrappongono le truffe dei pubblici dipendenti e quelle messe in atto dai "normali" cittadini. Innanzitutto, quelle relative alla fruizione dei ticket sanitari e delle prestazioni sociali agevolate. In due parole, i "falsi poveri": "Su 8.000 controlli effettuati - si legge nel rapporto -, sono stati trovati 2.500 soggetti che hanno indebitamente beneficiato di prestazioni sociali agevolate come l’accesso in corsia preferenziale ad asili nido ed altri servizi per l’infanzia, la riduzione del costo delle mense scolastiche, i buoni libro per studenti e le borse di studio, i servizi socio sanitari domiciliari, le agevolazioni per i servizi di pubblica utilità, quali luce o gas. Sono state accertate frodi al sistema previdenziale ed assistenziale per oltre 77 milioni di euro. Le principali truffe hanno riguardato la corresponsione del cosiddetto assegno sociale a favore di cittadini extracomunitari fittiziamente residenti, l’indennità per falsi invalidi, le misure di sostegno alla disoccupazione per falsi braccianti agricoli ed il pagamento di pensione a soggetti deceduti".

Il 2013 doveva essere l’anno dei tagli e dei risparmi. Invece la spesa pubblica in Italia è rimasta ancora una volta su livelli da record, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Perché la corruzione dei dipendenti pubblici e le truffe dei cittadini continuano a drenare le casse dello Stato provocando una vera e propria voragine nei conti. È l’ultimo rapporto della Guardia di Finanza, che ha intensificato i controlli riuscendo così ad incrementare l’entità delle somme recuperate rispetto all’anno precedente, a fornire il quadro desolante di quanto accaduto nei dieci mesi appena trascorsi. E a confermare come i «furbetti» - dai falsi poveri ai finti consulenti - abbiano avuto ancora una volta vita facile. Bastano due cifre per mostrare l’entità del fenomeno: i danni erariali provocati da funzionari e impiegati infedeli fino allo scorso ottobre ammontano a 2 miliardi e 22 milioni di euro; quelli per le truffe sono pari a un miliardo e 358 milioni di euro. I dipendenti pubblici denunciati nei primi dieci mesi dell’anno sono stati 5.073, ma numerose indagini sono tuttora in corso.

I falsi poveri. Rubano gli amministratori, ma non sono gli unici. Perché sfruttando i mancati controlli interni ai vari enti, decine di migliaia di persone riescono ad ottenere benefici senza averne i requisiti. Scrivono nella relazione gli specialisti della Finanza: «Nell’ambito delle verifiche imposte dai processi di spending review sono state predisposte campagne massive di controllo su forme diffuse di irregolarità, relativamente alla fruizione dei ticket sanitari e delle prestazioni sociali agevolate, per incrementare i livelli di compliance tra i potenziali beneficiari di tali agevolazioni». A goderne sono soprattutto i «falsi poveri». E infatti viene evidenziato come «su 8.000 controlli effettuati, sono stati trovati 2.500 soggetti che hanno indebitamente beneficiato di prestazioni sociali agevolate come l’accesso in corsia preferenziale ad asili nido ed altri servizi per l’infanzia, la riduzione del costo delle mense scolastiche, i “buoni libro” per studenti e le borse di studio, i servizi socio sanitari domiciliari, le agevolazioni per i servizi di pubblica utilità, quali luce o gas. Sono state accertate frodi al sistema previdenziale ed assistenziale per oltre 77 milioni di euro. Le principali truffe hanno riguardato la corresponsione del cosiddetto “assegno sociale” a favore di cittadini extracomunitari fittiziamente residenti, l’indennità per falsi invalidi, le misure di sostegno alla disoccupazione per falsi braccianti agricoli ed il pagamento di pensione a soggetti deceduti».

Le consulenze inutili. Quella dei cosiddetti «esperti» assoldati dalla pubblica amministrazione continua ad essere una vera e propria «piaga». Perché serve a moltiplicare gli incarichi, nella maggior parte dei casi, inutili. E a provocare una vera e propria emorragia di fondi. È solo uno dei casi contestati agli amministratori pubblici «corrotti». Ma certamente è tra i più odiosi. Tra gennaio e ottobre 2013 la Guardia di Finanza ha denunciato alla Corte dei Conti 150 casi di consulenze non necessarie, calcolando un esborso illecito pari a 8 milioni e 454 mila euro. Ben più alte sono le altre spese causate dalla mala gestione delle istituzioni. Le truffe e gli abusi compiuti nel settore del patrimonio pubblico - primi fra tutti gli alloggi popolari spesso assegnati con affitti a prezzi stracciati - hanno causato un danno di oltre 170 milioni di euro. La mancata riscossione di tasse e tributi ha fatto perdere ben 150 milioni 480 mila euro, mentre le frodi relative ai finanziamenti erogati da enti pubblici nazionali e comunitari hanno provocato un mancato introito di ben 353 milioni di euro.

Gli appalti truccati. Il capitolo relativo alle gare di appalto «truccate» ha portato a un «buco» nei bilanci statali pari a 330 milioni di euro. Sono 360 i funzionari pubblici segnalati alla Corte dei Conti per il danno causato all’erario e molti di loro dovranno subire anche il procedimento penale visto che la maggior parte ha percepito tangenti per orientare le scelte dell’amministrazione. Uno dei casi più eclatanti è certamente quello scoperto dal Nucleo di polizia tributaria a Brindisi dove è finita sotto inchiesta l’attività dell’Area Tecnica della Asl per l’assegnazione di lavori a ditte «amiche» dei componenti delle commissioni aggiudicatrici. Annotano gli investigatori: «Il meccanismo fraudolento prevedeva l’apertura e successiva chiusura delle buste contenenti le offerte economiche delle ditte concorrenti; la comunicazione a ditte conniventi delle informazioni così acquisite, affinché fosse possibile formulare l’offerta più idonea per vincere la gara; la sostituzione furtiva delle buste contenenti le originarie offerte presentate dalle medesime imprese con delle nuove predisposte fraudolentemente in base al vantaggio conoscitivo indebitamente ottenuto». Risultato: 19 commesse truccate per un danno di 23 milioni e 161 mila euro.

La sanità malata. Il settore della salute pubblica è certamente uno dei più «saccheggiati». Sono 626 i dipendenti pubblici che dovranno rendere conto dei propri illeciti e di aver provocato un danno di ben 233 milioni di euro. E sono migliaia i cittadini che hanno truffato lo Stato riuscendo ad ottenere prestazioni pur non avendone i requisiti o comunque rimborsi non dovuti. Le denunce finora presentate nel 2013 sono state 5.300 con un danno calcolato di oltre 9 milioni di euro. Vicenda simbolo - molte altre analoghe sono state verificate in numerose parti d’Italia - è stato scoperta dai finanzieri di Caserta dove la Asl non aveva aggiornato da anni gli iscritti nelle liste dei medici di base. Sfruttando sia pur inconsapevolmente queste omissioni circa 400 dottori di tutta la provincia hanno continuato a percepire compensi relativi a «1.215 soggetti deceduti, 2.010 emigrati all’estero e 2.763 emigrati fuori provincia». Danno accertato: 1,5 milioni di euro.

Le case e i buoni scuola. Da Padova a Lecco, arrivando a Roma, sono migliaia i casi di «falsi poveri» scoperti dai finanzieri. A Padova è stata denunciata una pensionata settantenne che abitava in una villa con piscina, aveva altri 14 immobili di proprietà affittati «in nero» per un canone mensile che oscillava tra i fino a 4.600 e i 5.000 euro al mese. Non solo non aveva denunciato introiti per oltre 220 mila euro, ma negli anni scorsi aveva ottenuto il rimborso delle tasse universitarie sostenute per il figlio e chiesto al Comune le prestazioni economiche assistenziali, dichiarando di appartenere a un nucleo familiare indigente. A Lecco sono state denunciate 53 persone che hanno percepito illecitamente dal Comune il sostegno dovuto a chi si trova in «stato di bisogno». Si tratta di una somma mensile che oscilla tra i 500 e i 3.000 euro al mese, quindi un vero e proprio stipendio pur non facendo nulla e soprattutto potendo contare su altre «entrate». Lungo il litorale laziale, da Civitavecchia fino a Nettuno, sono stati scovati 207 cittadini titolari di buoni scuola, borse di studio, gratuito patrocinio legale e altri benefici che però vivevano in ville prestigiose e si spostavano su auto di lusso. Alcuni di essi sono risultati proprietari di prestigiose dimore nelle zone di Casal Palocco e dell’Infernetto, periferia sud di Roma, «con un tenore di vita inconciliabile con l’indicatore della situazione economica equivalente (Isee), determinato sulla base delle autodichiarazioni presentate».

PARLIAMO DELLA CONSIP E DEGLI SPRECHI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

Ministeri, enti locali, scuole e università per comprare tutto quello di cui hanno bisogno, dai computer alle risme di carta, devono passare attraverso Consip, la società del ministero dell'Economia e delle Finanze creata per razionalizzare la spesa pubblica, scrive Luca Chianca ed Emanuele Bellano su “Il Corriere della Sera”. La torta è enorme: nel 2012 la Consip ha “presidiato” una spesa complessiva di oltre 30 miliardi di euro. Eppure invece di risparmiare, comprando attraverso Consip, scuole,università ed enti locali talvolta spendono più che andando dal fornitore di fiducia. Poi ci sono i grandi appalti. Consip gestisce le gare per i servizi di manutenzione di tutti gli edifici pubblici: dal parlamento ai tribunali, dai ministeri a regioni province e comuni. Si tratta di appalti da oltre un miliardo di euro. Chi sono le aziende che accedono a questo mercato e come sono entrate nel settore? Parliamo di poche aziende che oggi si spartiscono, come fossero un cartello, una grande fetta degli appalti Consip, mentre da anni finanziano in maniera trasversale la politica italiana. Il sistema adottato da queste imprese, i legami con la politica e gli amministratori della Consip emergono da alcune intercettazioni inedite di cui Report è venuta in possesso.

Dal ministro Giulio Tremonti al commissario della spending review Enrico Bondi, passando per il premier Mario Monti, tutti a spingere affinché gli acquisti della pubblica amministrazione passino per Consip, la società del Ministero Economia e Finanze che dovrebbe gestire gli acquisti di scuole, enti locali e ministeri per razionalizzare la spesa pubblica. Siamo andati a verificare come funzionano le cose per esempio nelle università e in alcuni comuni. Il paradosso è che invece di risparmiare, con gli acquisti centralizzati, si spende talvolta di più che andando dal fornitore di fiducia. E questo già per i piccoli acquisti di cancelleria, acqua per i laboratori, personal computer. Invece alcuni comuni hanno utilizzato i fornitori selezionati da Consip per servizi rilevanti come l’illuminazione pubblica, con pessimi risultati e costi superiori al previsto. Ma come può avvenire tutto ciò? Chi fa i controlli in Consip sui fornitori, sulla loro serietà e sulla qualità dei prodotti? Chi ha controllato per esempio che i vincitori della gara per l’informatizzazione dei documenti del Ministero del Tesoro abbiano tutti i requisiti richiesti? C’è poi la gestione dei grandi appalti. La Consip gestisce gare per i servizi di manutenzione di tutti gli edifici pubblici, comprese le scuole italiane. Parliamo di appalti da oltre un miliardo di euro che si dividono poche società. Chi sono e come sono entrate nel settore? Le stesse aziende, oggi, a dieci anni di distanza, si spartiscono come fossero un cartello, una grande fetta degli appalti Consip mentre da anni finanziano in maniera trasversale la politica italiana. Il sistema adottato da queste imprese, i legami con la politica e gli amministratori della Consip emergono da alcune intercettazioni inedite di cui Report è venuta in possesso. La torta Consip è enorme: oggi Comuni, Province, Regioni, ministeri ed enti di ricerca spendono circa 115 miliardi di euro all’anno. Nel 2012 la Consip ha “presidiato” una spesa complessiva di oltre 30 miliardi di euro, bandendo gare su convenzioni e appalti specifici per un valore complessivo di 6,1 miliardi, mentre le amministrazioni hanno effettuato acquisti per 3,4 miliardi di euro.

Così lo Stato spreca 30 miliardi. Per comprare una scrivania le amministrazioni pubbliche dovrebbero, per legge, pagare 282 euro. Invece molti enti scelgono di acquistarne una simile, che però costa quasi il triplo. Un comportamento che, moltiplicato per migliaia di beni, fa gonfiare enormemente la spesa statale, scrive Gustavo Piga su “Panorama”. Gustavo Piga è professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, ex presidente Consip. Un uomo solo al comando. Speriamo proprio di no. Carlo Cottarelli, economista esperto e persona dura ma pragmatica, ha accettato una sfida ben più ambiziosa di quella che gli hanno posto sinora i paesi emergenti, di cui doveva esaminare i conti pubblici e stabilire se meritavano o meno i finanziamenti del Fondo monetario internazionale, dove ha lavorato per una vita, con incarichi sempre più importanti: essere il capo della spending review italiana, con il compito di razionalizzare la nostra spesa pubblica senza farci cadere ulteriormente in recessione. Perché funziona proprio così: se trovi lo spreco e lo abbatti, non causi dolore all’economia e all’occupazione. Ma se tagli a casaccio, come è stato sinora, allora sì che sono guai. Un esempio potrà bastare per comprendere questa semplice logica che spesso sfugge a chi chiede di «tagliare tagliare tagliare», senza specificare come, la presenza dello Stato nell’economia. Immaginate due amministrazioni, A e B, che spendono in totale 60 mila euro per comprare due ambulanze, identiche, utili ambedue per il Paese. Tuttavia una, (A), l’acquista a 20 mila euro e l’altra, (B), l’acquista a 40 mila. Essere così bravi da individuare lo spreco insito nei 40 mila euro e obbligare B a comprare a 20 mila riduce la spesa di 20 mila euro senza ridurre l’assistenza sanitaria sul territorio e senza creare più disoccupazione tra i lavoratori che producono ambulanze: sempre due ambulanze si acquistano. Anzi, si avranno a disposizione 20 mila euro con cui potremo comprare la terza ambulanza, se necessaria, o diminuire le tasse sui cittadini. Insomma, tagliare gli sprechi non è recessivo ma, al contrario, espansivo. Quello che viene a essere tagliato è un mero trasferimento che con lo spreco portava risorse dei contribuenti a imprenditori (e funzionari pubblici?) che si arricchivano indebitamente o più del necessario. Vero è che se le nostre due amministrazioni erano brave e compravano già le due ambulanze a 20 mila ognuna, senza sprechi, il taglio a casaccio di 20 mila incide, eccome: si potrà comprare solo un’ambulanza, con minori servizi sul territorio, più disoccupazione nel settore delle ambulanze e un aggravamento della recessione con cui conviviamo da due anni. Ecco la sfida che aspetta Cottarelli: non buttare il bambino con l’acqua sporca, evitare di ridurre la spesa in modo sbagliato inviluppandoci in una instabilità sociale che rischia di far saltare il banco. Ma esistono questi sprechi? In abbondanza. Uno studio di tre economisti italiani, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Tommaso Valletti, pubblicato sulla American economic review, una delle riviste scientifiche più prestigiose al mondo, ha dimostrato, sulla base di tutti gli appalti fatti in beni e servizi in Italia a metà del trascorso decennio, come, se tutte le amministrazioni comprassero lo stesso bene allo stesso prezzo, potremmo ridurre la spesa del 2 per cento circa del pil, 30 miliardi di euro, senza ridurre la qualità dell’azione pubblica e senza ridurre l’occupazione nelle aziende che vendono alla pubblica amministrazione. Trenta miliardi non sono noccioline (a cui andrebbero aggiunti gli sprechi sui lavori pubblici e quelli non solo di prezzo ma di quantità di beni inutili comprati). Sul sito del ministero dell’Economia potrete trovare una serie incredibile di dati che confermano l’esistenza di questi sprechi, la cui eliminazione è dunque a portata di mano. Cominciamo dalle scrivanie direzionali? Perché no. Le amministrazioni centrali sono obbligate ad acquistarle dalla Consip, la società delegata a tali acquisti, dove potevano trovarle a 282,71 euro. Eppure molte di queste invece le hanno acquistate per conto loro, contravvenendo al disposto normativo, a un prezzo medio di 723,63 euro. Le amministrazioni locali, libere di acquisirle in proprio ma obbligate ad avere come riferimento il prezzo Consip, le hanno comprate a «solo» 470,03 euro. Come è stato possibile evadere le prescrizioni normative? Semplice: in assenza del gatto (i controlli), i topi ballano. Personal computer? Prezzo Consip 483 euro, ma qualcuno che avrà preferito una marca diversa ci deve pur essere stato, visto che il prezzo medio per le amministrazioni è stato di 629 euro. E così via. Come farà Carlo Cottarelli a entrare in questa giungla di sprechi e uscirne ancora vivo e vincitore? Domanda tanto più rilevante dato che il suo predecessore, Enrico Bondi, non l’ultimo arrivato quanto a capacità di tagliare, ha miseramente fallito durante il mandato ricevuto dal governo Monti. La risposta è sì semplice, ma articolata. Prima di tutto dovrà avere un mandato forte ed esplicito dal presidente del Consiglio Enrico Letta. Che lo difenda e lo sostenga in ogni dove, internamente e con appropriata comunicazione esterna. Certo non aiuta che Letta non abbia nemmeno menzionato la spending review nel suo discorso di investitura alle Camere, ma la nomina di Cottarelli potrebbe essere un segnale di ravvedimento. Un sostegno interno non può che passare per l’attribuzione a Cottarelli di una gigantesca squadra di esperti (un centinaio?) che lo sostengano nelle ispezioni a campione che da subito dovrà mettere in atto sul territorio, se vuol far sentire alle amministrazioni pubbliche il sentore che la musica è cambiata. Non tanto giuristi dunque, ma persone esperte di audit e controlli, merceologici raffinati e ingegneri competenti. E poi il sostegno totale degli uomini e donne della Guardia di finanza, della Consip stessa, dell’Autorità anticorruzione, dell’Antitrust. Saprà Letta mobilitarsi in questa direzione? Il buongiorno si vede dal mattino e sapremo presto: basterà vedere quanti spazi riserveranno a Cottarelli a via Venti Settembre nella sede del ministero. E dove risiederà. Già, perché si dice che Bondi avesse chiesto una stanza presso il piano nel ministero dove è localizzata l’istituzione che detiene l’elemento fondamentale per qualsiasi tipo di controllo, ovvero il dato: stiamo parlando della Ragioneria generale dello Stato. Eppure Bondi quella stanza contigua non l’ha mai avuta, segno di un rapporto di totale chiusura fra l’amministrazione del Tesoro e il capo della spending review. Problema che non dovrebbe più sussistere ora con il nuovo ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, amico e collega di Cottarelli da tanti anni. È proprio dalla Ragioneria che potrebbe venire il più formidabile supporto informativo. Ma comunque non sarebbe mai sufficiente: nemmeno alla Ragioneria hanno una banca dati che in tempo reale dica al primo ministro chi compra cosa, quando e come, vero incomprensibile scandalo a cui nessuno sembra voler rimediare, e in assenza della quale siamo destinati a chiudere le porte della stalla quando i buoi sono già scappati, come è sempre avvenuto sinora. Riuscirà Cottarelli a ottenere un minifinanziamento per avere per qualche milione quella piattaforma informatica dove centralizzare tutte le gare delle singole stazioni appaltanti italiane e che genererebbe miliardi di risparmi? Perché è di questo che si tratta: non centralizzare le gare, fenomeno che uccide le piccole e medie imprese, ma centralizzare il dato, così che appena una scrivania direzionale verrà offerta a 700 euro l’affare verrà bloccato. Semplice, no? No, non è semplice. Richiede uno sforzo organizzativo notevole e, val la pena ripeterlo, tutta la forza di volontà dell’esecutivo a sostegno. Un uomo solo non potrà mai farcela. Una squadra di intoccabili come quelli che sconfissero Al Capone nemmeno. Ma un leader intelligente sì.

PARLIAMO DI AMBASCIATORI. AMBASCIATOR PORTA PRIVILEGIO.

I nostri 916 diplomatici sono tra i meglio pagati al mondo: un console con qualche anno di carriera percepisce più di un parlamentare, mentre un ambasciatore prende circa il doppio. E questo quando sono in sede, a Roma. A spanne, cioè, prendono sui 180-200 mila euro netti l’anno. Sono alcuni dei risultati di un’indagine condotta da Panorama nel mondo dorato della diplomazia italiana. Agli stipendi si aggiunge l’Ise, l’«indennità di servizio all’estero» di cui godono i dipendenti della Farnesina non appena mettono il naso fuori dall’Italia, e altre indennità sempre esentasse. Quanto fa, in tutto? Per i consoli andiamo da 16 a 25 mila euro al mese, netti, che si aggiungono allo stipendio. Per gli ambasciatori si arriva a 40 mila euro. Sempre al mese.

Italiani all’estero, Ambasciator porta privilegio – di Laura Maragnani. I nostri 916 diplomatici sono tra i meglio pagati al mondo: quando sono in sede, a Roma, prendono sui 180-200 mila euro netti l’anno. E quando sono in missione all’estero? Oltre al cosiddetto stipendio metropolitano di 108.889 euro (pagato in Italia e tassato al 43 per cento), ricevono esentasse, e dietro semplice autocertificazione, un assegno per gli oneri di rappresentanza che a Parigi, giusto per fare un esempio, è di 125 mila euro l’anno. Il grosso della torta è però rappresentato dalla famosa Ise...scrive Laura Maragnani su Panorama e su ItaliaChiamaItalia. Avevano chiesto 15 milioni di euro per il 2014. La commissione Bilancio del Senato gliene ha concessi solo 5. Per forza, direte voi. In questi tempi di vacche magre bisogna stare attenti a tutto, anche al centesimo. Come no? Infatti i 15 milioni che i senatori Claudio Micheloni,  Renato Turano, Francesco Giacobbe e Salvatore Tomaselli avevano chiesto di inserire nel patto di stabilità non erano per maggiori spese: erano tagli. Obiettivo: i privilegi di una delle più intoccabili super-caste italiane, quella dei diplomatici. «In nome del risparmio, il ministero degli Esteri sta tagliando selvaggiamente tutto ciò che riguarda i rapporti con gli italiani oltre confine e la cooperazione internazionale: sedi consolari, uffici, servizi. Si taglia di tutto ma non i privilegi di cui godono i membri del felice piccolo mondo della Farnesina»»  si indigna Claudio Micheloni, eletto in Svizzera, primo firmatario dell’emendamento 11.179. Presidente al Senato del Comitato per la questione degli italiani all’estero, Micheloni da anni chiede di finanziare i servizi alle nostre comunità tagliando l’ammontare dell’Ise,  la generosissima «indennità di servizio all’estero» di cui godono i dipendenti della Farnesina non appena mettono il naso fuori dall’Italia. Non ce l’ha fatta nel 2012, quando aveva chiesto un taglio del 20 per cento. Non c’è riuscito nel 2013, quando si sarebbe «accontentato del 4 per cento: 15 milioni su 368, un’inezia. Ma per i nostri connazionali all’estero, soprattutto quelli indigenti e privi di assistenza, avrebbe fatto un’enorme differenza». Gli iscritti all’Aire, l’anagrafe dei residenti oltreconfine, sono 4,5 milioni. Un altro paio di milioni di emigrati non sono iscritti. Il numero è in crescita rapidissima grazie a una ripresa dell’emigrazione che ricorda gli anni Cinquanta. «Abbiamo ragazzi che sbarcano dai pullman in Germania con un biglietto di sola andata e 20-30 euro in tasca, dormono in dieci in una stanza senza bagno, vengono sfruttati dai caporali e mangiano coi buoni pasto della Caritas» racconta Aldo Di Biagio, senatore di Scelta Civica eletto in Europa. «A questi giovani non sappiano dare risposte o assistenza. Non c’è un soldo». C’è da stupirsi se i nostri emigranti sono in rivolta contro l’Italia matrigna? Se i 18 parlamentari eletti all’estero, già nella scorsa legislatura, avevano avviato un’indagine conoscitiva sulle spese della nostra diplomazia e oggi cominciano a chiedere apertamente una commissione d’inchiesta? Tra la cosiddetta “diaspora italiana” e  la Farnesina siamo arrivati alla guerra. Con un ottimo motivo: cherchez l’argent. Nel 2007, col governo Prodi, quando Massimo D’Alema era ministro, l’argent per la Farnesina era parecchio: 3.278 milioni di euro. Un picco storico. Da allora il bilancio del Ministero degli affari esteri, noto agli intimi come Mae, è sceso notevolmente a furia di tagli; nel 2013 ha raggiunto i 1.980,57 milioni e nel 2014 dovrebbe scendere ancora. Ma i tagli hanno finora riguardato praticamente solo le sedi consolari; sono rimaste intatte, invece, quelle spese fisse che assorbono l’83 per cento del bilancio, cioè stipendi del personale di ruolo, contributi obbligatori alle Nazioni unite (375 milioni nel 2011)  e soprattutto l’Ise, l’indennità di servizio all’estero che fa magicamente lievitare le buste paga dei diplomatici. Sono stipendi già in partenza notevoli, soprattutto per i dirigenti. Oggi il segretario generale della Farnesina, equiparato a un ambasciatore di fascia A, tra stipendio tabellare, retribuzione di posizione, retribuzione di risultato, guadagna un totale lordo di 389 mila 27 euro e 70 centesimi. Il capo di gabinetto del ministro, ambasciatore di fascia B1, supera i 280 mila. I dirigenti del Mae equiparati a ministri plenipotenziari di fascia C1 viaggiano sui 192 mila e quelli di fascia C sui 185 mila, mentre i pari grado dei consiglieri d’ambasciata vanno dai 125 ai 171 mila. I nostri 916 diplomatici sono tra i meglio pagati al mondo: «Un console con qualche anno di carriera percepisce più di un parlamentare, mentre un ambasciatore prende circa il doppio. E questo quando sono in sede, a Roma» calcola Micheloni. A spanne, cioè, prendono sui 180-200 mila euro netti l’anno. E quando sono in missione all’estero? Oltre al cosiddetto stipendio metropolitano di 108.889 euro (pagato in Italia e tassato al 43 per cento), ricevono esentasse, e dietro semplice autocertificazione, un assegno per gli oneri di rappresentanza che a Parigi, giusto per fare un esempio, è di 125 mila euro l’anno. Il grosso della torta è però rappresentato dalla famosa Ise, variabile a seconda del ruolo e della sede, cui si aggiungono altre indennità, sempre esentasse. Quanto fa in tutto? Da presidente del comitato per gli italiani all’estero, Micheloni s’è fatto qualche idea: «Per i consoli andiamo da 16 a 25 mila euro al mese, netti, che si aggiungono allo stipendio. Per gli ambasciatori si arriva a 40 mila euro». Un ambasciatore italiano a Londra o a Parigi, sedi non proprio disagiate, può contare su un’Ise di 320 mila euro all’anno, al netto di tasse ed eventuali aggiunte per coniuge (+ 64 mila euro annui) e prole (+16 mila per ogni figlio). E a Parigi di ambasciatori ne abbiamo ben tre (ce n’è anche uno all’Ocse e uno all’Unesco). Quattro ambasciatori sono invece di stanza a Bruxelles. Uno è indispensabile a Strasburgo, per il Consiglio d’Europa, e tre in Svizzera. E via moltiplicando. Vogliamo farci del male? Il nostro ambasciatore a Berlino porta a casa, solo di extra, più di 30 mila euro netti al mese, mentre Angela Merkel, a capo di 80 milioni di tedeschi, ne guadagna solo 9 mila. L’ambasciatore della regina Elisabetta in servizio a Roma prende un lordo di 110-115 mila sterline l’anno, meno di 140 mila euro. E la Francia? «Lo stipendio degli ambasciatori francesi è circa la metà di quello italiano. L’Ise francese, a seconda delle sedi, va da 6.500 a 25 mila euro mensili; per esempio a Berlino è di 8.500 euro, a Kabul 25 mila» scrive  Italiachiamaitalia.it. A godere di questi bei privilegi, ovviamente in proporzione all’incarico ricoperto, è tutto il nostro personale all’estero. Compresi gli autisti, così indispensabili al funzionamento delle sedi oltre confine che li trasferiamo dall’Italia a carissimo prezzo. Un semplice impiegato di ruolo, come un archivista di livello B2, ha uno stipendio base in Italia sui 1200-1300 euro al mese, ma basta che riesca a farsi assegnare oltreconfine e può portare a casa dai 5 agli 8000 euro (netti) al mese in più, a seconda della sede e dei carichi familiari. Un bottino clamoroso, soprattutto se paragonato allo stipendio percepito dal personale a contratto assunto sul posto con legge locale: solo 400 euro al mese in Zimbabwe, ben al di sotto della soglia di povertà, e 250 in India, dove la Farnesina è stata addirittura accusata di discriminazione razziale davanti all’Alta corte di giustizia di New Delhi. A gonfiare gli stipendi non c’è però solo l’Ise. C’è l’indennità di sistemazione per i nuovi arrivati da Roma e per il loro richiamo: la Farnesina ci ha speso quasi 13 milioni di euro nel 2013. C’è il contributo spese per l’abitazione (3 milioni), le provvidenze scolastiche per i figli, il parziale pagamento delle spese di viaggio per  tornare in Italia in congedo o ferie ogni 18 mesi (anche per i familiari a carico), il volo in business class se il viaggio supera le 5 ore, il trasporto gratuito di bagagli, mobili e masserizie … Ai titolari di sede spetta pure un’indennità di rappresentanza a fondo perduto, e per gli ambasciatori c’è una bella residenza di servizio. Districarsi tra tanti privilegi è un’impresa: le spese della nostra diplomazia sono un segreto custodito meglio del terzo segreto di Fatima. Eppure, «basterebbe ridurre l’Ise del 20 per cento per risparmiare circa 80 milioni l’anno, senza mettere i nostri diplomatici in condizione di indigenza. Saranno sicuramente ancora in grado di ben rappresentare l’Italia» ride amaro Micheloni. Sempre lui, da buon mastino, ha presentato una proposta di legge sulla riorganizzazione della nostra rete diplomatica consolare che potrebbe far risparmiare agilmente «ben 100 milioni l’anno» senza tagliare i servizi alla comunità italiana; anzi migliorandoli, addirittura. In un attimo ha raccolto oltre 50 firme di senatori. Tutti rigorosamente bipartisan. Con la sola eccezione dei grillini.

LEGGI INCOSTITUZIONALI SUL FINANZIAMENTO AI PARTITI.

"Le leggi sul finanziamento ai partiti sono incostituzionali". E' quanto sostiene il procuratore della Corte dei Conti De Domenicis, che ha sollevato la questione di legittimità in occasione dell'ultima udienza del processo all'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi. "Il referendum è stato ignorato", scrive Domenico Lusi su “L’Espresso”. Per venti anni la politica italiana ha sostanzialmente eluso il risultato del referendum del 1993, mantenendo il finanziamento pubblico ai partiti bocciato nelle urne dalla stragrande maggioranza degli elettori. Per questo motivo tutte le leggi che dal 1997 ad oggi hanno regolato la materia vanno dichiarate incostituzionali in quanto viziate da «evidente arbitrarietà ed irragionevolezza». A sostenerlo è il procuratore regionale per il Lazio della Corte dei conti, Angelo Raffaele De Dominicis, che ha sollevato in via incidentale la questione di legittimità costituzionale delle norme in questione. L'occasione è stata l'ultima udienza del processo per danno erariale all'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, per il quale De Dominicis ha chiesto la condanna alla restituzione integrale dei 22,8 milioni sottratti alle casse del partito. Lusi, tramite i suoi difensori, gli avvocati Guido Romanelli, Luca Petrucci e Renato Archidiacono, si è invece dichiarato responsabile solo per i 16,5 milioni che, con una ordinanza dello scorso 13 giugno, il collegio presieduto dal giudice Ivan De Musso gli aveva ordinato di restituire all'Erario. I giudici hanno respinto tutte le istanze di rinvio avanzate dal collegio difensivo, hanno preso atto che le trattative tra Lusi e il ministero dell'Economia per la restituzione dei 16,5 milioni non sono andate a buon fine e si sono riservati di decidere nel merito sia sull'entità del “risarcimento” dovuto da Lusi allo Stato italiano, sia sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale. Dal processo è stata invece esclusa la Margherita che, tramite l'avvocato Fabio Cintioli, aveva sollevato l'eccezione di giurisdizione, sostenendo l'incompetenza del giudice contabile a decidere sulla materia e il diritto della Margherita ad agire contro Lusi per ottenere la restituzione di quanto indebitamente sottratto per poi restituirlo allo Stato. I giudici hanno ritenuto l'eccezione infondata, estromettendo la Margherita, il cui intervento sarebbe stato ammissibile solo se a supporto della posizione dell'accusa. Ma a tenere banco è stata soprattutto la questione di legittimità costituzionale delle norme sulle erogazioni pubbliche ai partiti. Le leggi che dal 1997 al 2012 hanno «introdotto, facendo ricorso ad artifici semantici, il rimborso elettorale ai partiti al posto del finanziamento pubblico», ha argomentato De Dominicis, «vanno ritenute apertamente elusive e manipolative del risultato referendario dell'aprile 1993». Secondo il procuratore regionale, le leggi sono anzitutto contrarie all'articolo 75 della Costituzione che «vieta il ripristino della normativa abrogata mediante referendum, quale massima espressione della sovranità popolare: i privilegi abrogati nel 1993 sono stati reintrodotti con “disposizioni camuffate” del medesimo tenore». La stessa legge numero 96 del 2012, secondo De Dominicis, «ha malamente abrogato le precedenti disposizioni sui rimborsi elettorali al solo fine di obliterare le possibili questioni di costituzionalità». Se è infatti vero che la disciplina del 2012 ha introdotto un sistema misto di finanziamento in parte pubblico e in parte privato, ha proseguito il pm, «permane il quadro improponibile di contribuzione alla politica con l'elargizione del 70% erogato dal fondo di rimborso per le spese elettorali e con il restante 30% relativo all'autofinanziamento. Il quale, tuttavia, deriva da erogazioni liberali da parte di privati che, per questo, beneficiano di detrazioni fiscali addossate al bilancio statale». Il procuratore regionale ha puntato il dito anche contro la “mille proroghe” del 2006 che ha attribuito ai partiti il diritto di percepire «i famigerati “rimborsi elettorali” per i cinque anni successivi anche dopo lo scioglimento anticipato della legislatura. Le elezioni anticipate del 2008 si sono così rivelate un grande “affaire” per i partiti che nei tre anni successivi hanno incassato il doppio di quanto loro dovuto, senza contare che alcuni partiti, come la Margherita, hanno percepito introiti contributivi anche dopo la loro estinzione o fusione con altre forze politiche». Insomma, per il procuratore De Dominicis «si può fondatamente parlare di sperpero di denaro pubblico e di violazione delle più elementari regole di giustizia e di democrazia: i rimborsi sono stati vere e proprie regalie concesse a partiti defunti o privi di rappresentanza parlamentare». I “rimborsi” ai partiti sarebbero anche contrari all'articolo 81 della Costituzione in quanto «sia il principio del pareggio di cassa che il patto di stabilità esterno appaiono ostili al mantenimento di spese automatiche estese a più esercizi nel caso in cui queste non si mostrino giustificate da esigenze di straordinarietà ed urgenza». Per De Dominicis le spese per i rimborsi elettorali, dopo il primo anno, devono quindi «ritenersi affette da nullità assoluta per inesistenza del titolo giuridico e, nel caso di mancata rappresentanza elettorale, addirittura per inesistenza fisica del soggetto legittimato al beneficio economico». Resta la violazione del principio di uguaglianza. «Gli articoli 3 e 49 della Costituzione», ha ricordato il procuratore regionale, «proclamano la “par condicio” tra i partiti e dei cittadini che, tramite essi, intendono concorrere a determinare democraticamente la politica nazionale». Ebbene, secondo De Dominicis, a partire dal 2006, il meccanismo del rimborso quinquennale «è stato uno strumento di discriminazione tra i partiti, e quindi dei cittadini, perché la posizione di vantaggio di alcuni di essi veniva, dopo il primo anno, consolidata nel tempo, anche grazie alla maggiore contribuzione pubblica, con materiale alterazione del gioco democratico».

PARLIAMO DELL’AVVOCATURA DELLO STATO.

Avvocatura di Stato, casta da 160 milioni, scrive Ulisse Spinnato Vega su “Economia Web”. Tanto costa ai contribuenti l'istituzione. Oltre 100 milioni vengono spesi per le retribuzioni. Una bolgia infernale con mille persone che urlano e fischiano. Tutto per “tre posti in paradiso” e una prova di concorso annullata dopo ore e ore di attesa con tanto di intervento di polizia e carabinieri per sedare i tafferugli. Il 12 giugno scorso, all’Hotel Ergife di Roma, è successo di tutto nella giornata del test scritto per accedere all’avvocatura di Stato: qualche candidato con i codici già commentati, i tablet che sfuggivano agli sguardi dei commissari, gli scarsi controlli su borse e cartelle. E la tensione che cresceva mentre il ritardo si accumulava per colpa dell’appello e delle solite formalità burocratiche. Poi si è deciso di dare comunque il via all’esame, nonostante stranezze e sospetti. I concorsisti però hanno iniziato a gridare «buffoni, buffoni» e a cantare l’inno di Mameli, mentre le frizioni e le baruffe montanti hanno reso necessari l’irruzione delle forze dell’ordine e l’annullamento della prova. Ben 3mila candidati che si accapigliano per tre posti da assegnare danno comunque l’idea di quanto sia ambita la carica di avvocato dello Stato. La parola «avvocato» non deve trarre in inganno: qui si parla di tutto un altro mondo rispetto alla giungla italiana di 240mila professionisti con tanti giovani senza tutele e senza soldi. Piuttosto siamo di fronte a un esclusivo e ovattato club di circa 360 persone che non devono neppure sgomitare per portare a casa compensi a cinque zeri. Si parte da 88mila euro lordi per gli avvocati di prima nomina e si arriva a ai 220 mila dei vice avvocati generali inquadrati nella quarta classe di stipendio. L’avvocatura dello Stato è l’istituzione che per legge garantisce la tutela nei contenziosi alle amministrazioni statali e a quelle locali che ne hanno diritto. I professionisti che ne fanno parte sono equiparati agli alti gradi delle magistrature, non hanno spese per gestire l’ufficio (che è a carico dell’erario), godono di una clientela garantita per legge, non affrontano il rischio di impresa e poi, oltre ai lauti compensi, hanno anche qualche benefit che non fa mai male, per esempio una decina di auto blu. Gli avvocati dello Stato intascano stipendi da magistrati, 53milioni di euro complessivi per 360 professionisti, ma a questi sommano le cosiddette «propine», un termine spagnoleggiante che significa «mance» e che indica le spese legali loro elargite per le cause che patrocinano. Le mance, a dispetto della parola, sono alquanto laute se si pensa che rappresentano altri 55milioni di euro e in pratica raddoppiano gli stipendi. Giusto per fare un esempio, il capo dell’ufficio, Ignazio Francesco Caramazza, beneficia di un emolumento base di 289mila euro a cui si aggiunge una «propina» da 324mila euro. Come se non bastasse, queste cifre sono integrate da incarichi fuori ruolo, arbitrati, docenze e consulenze extragiudiziali, per cui gli avvocati di Stato hanno introiti da vera e propria casta, degni dei più facoltosi «grand commis» della Pubblica amministrazione. Tra l’altro, anche in considerazione del (teoricamente) ampio carico di lavoro che si trovano davanti (in media circa 400 nuovi contenziosi all’anno per ciascuno di loro), spesso trascurano l’attività di difesa, a volte non si presentano nemmeno o si costituiscono in giudizio con una memoria meramente formale. Sarà forse per questo che, mediamente, l’avvocatura dello Stato perde quasi regolarmente in appello (70%), dinanzi al giudice di pace (70%) e a quello del lavoro (90%). «Chiediamo la compensazione delle spese di lite, rimettendoci a giustizia»: è una formula che si sente spesso pronunciare in questi casi. Tanto le «propine» sono per lo più garantite (lo Stato vince circa due terzi delle cause in cui è coinvolto) e in parte confluiscono in un fondo comune che ogni trimestre gli avvocati di Stato si spartiscono. Assicurata è pure la clientela, dato che molti degli enti difesi dall’avvocatura (a esempio le amministrazioni statali) fruiscono di un patrocinio obbligatorio.

La risposta piccata e intimidatoria dell’Avvocatura di Stato, casta da 160 milioni.

«Illustre Direttore, con riferimento all’articolo intitolato “Avvocatura dello Stato, casta da 160 milioni”, pubblicato in data 18 giugno 2012 a firma di Ulisse Spinnato Vega sul sito Economia web, ritengo necessario fornire alcune precisazioni, onde rettificare gli errori ed imprecisioni presenti nel suddetto articolo, tali da indurre ad una lettura della realtà non conforme al vero. L’articolo riferisce, in primo luogo, la notizia dell’annullamento della prova preselettiva del concorso a tre posti di procuratore dello Stato, che avrebbe dovuto svolgersi in Roma in data 12.6.2012, ed al quale – secondo l’articolo – si sarebbe deciso di dare il via “nonostante stranezze e sospetti”, salvo interromperla a causa dei disordini. In effetti, la prima prova scritta del concorso a tre posti di procuratore dello Stato è stata sospesa ed annullata dalla Commissione esaminatrice attesi i gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati, che protestavano soprattutto contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell’inizio della prova (tempi in massima parte dovuti all’appello – previsto da regolamento – di ben 975 candidati), così impedendo il regolare svolgimento della prova, nonostante l’intervento delle forze dell’ordine. L’articolo prosegue, poi, rappresentando che gli avvocati dello Stato beneficerebbero di “clientela garantita per legge”, auto blu e remunerativi incarichi ma, al tempo stesso, trascurerebbero l’attività di difesa, risultando soccombenti nei giudizi in grado di appello ed in quelli innanzi al giudice di pace nel 70% dei casi, nonché innanzi al giudice del lavoro addirittura nel 90% dei casi. In proposito, non posso esimermi dal rilevare che l’Avvocatura dello Stato, lungi all’essere, per usare le irriverenti parole dell’autore, “un esclusivo ed ovattato club di circa 360 persone che non devono neppure sgomitare per portare a casa compensi a cinque zeri”, è invece un istituto cui si accede attraverso un pubblico concorso, altamente selettivo, e che i risultati da esso conseguiti sono ben diversi da quelli riferiti nell’articolo. I dati relativi al reale andamento del contenzioso (facilmente disponibili, in quanto contenuti in vari miei interventi pubblici, ad esempio nella Relazione svolta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, nonché nei risultati di un recente studio svolto da un organo indipendente quale è la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, ripresi anche dal Sole24Ore del 10.12.2007) mostrano che le cause vinte sono pari a circa i due terzi del contenzioso. L’autore non sembra neppure essersi avveduto della palese contraddizione fra tale ultimo dato (da lui stesso riportato in un altro passaggio dell’articolo), e quello del preteso esito sfavorevole del 70% -90% degli appelli, delle cause innanzi al giudice di pace e delle cause in materia di lavoro. Deve inoltre considerarsi che, nel novero delle cause “perse” rientrano anche quei contenziosi – ad esempio in materia di equa riparazione per eccessiva durata del processo, pari a circa il 17% del contenzioso dell’Avvocatura Generale – il cui esito sfavorevole all’Amministrazione è, per la natura stessa del giudizio, inevitabile. Nonostante l’elevatissimo carico di lavoro che grava sugli avvocati dello Stato (gli affari contenziosi nuovi annui pro capite sono infatti pari a circa 400), e la conseguente necessità di dare talora priorità alla trattazione delle questioni più delicate, le difese vengono di regola svolte con la massima diligenza. La richiesta di compensazione delle spese e la “rimessione a giustizia” ricorrono solo in casi particolari, nei quali non vi sia un effettivo interesse pubblico all’esito della lite, ovvero ragioni di giustizia sostanziale inducano a non chiedere la condanna della parte privata. Il fatto – poi – che l’Avvocatura abbia una clientela “garantita”, comporta in realtà solo l’impossibilità di declinare la difesa dei soggetti a patrocinio obbligatorio (previsto, ad esempio, per le Amministrazioni statali), anche laddove l’eccessivo carico di lavoro suggerirebbe ad un libero professionista di operare in tal senso. Venendo alla questione delle “auto blu”, a parte l’autovettura in uso esclusivo a mia disposizione, sono disponibili in tutto sei autovetture per soddisfare le esigenze istituzionali dell’Avvocato Generale Aggiunto, di otto Vice Avvocati Generali dello Stato, del Segretario Generale, dei 129 Avvocati dello Stato in servizio presso l’Avvocatura Generale e degli Uffici amministrativi di quest’ultima. Quanto agli incarichi extragiudiziali, la compatibilità degli stessi con l’attività istituzionale è oggetto di puntuale valutazione da parte dell’organo di autogoverno. L’Avvocato dello Stato che svolga un incarico extragiudiziale non ha alcuna diminuzione nel lavoro dell’Istituto. Laddove, invece, il professionista sia collocato fuori ruolo – nelle ipotesi espressamente previste dalla legge – egli non percepisce gli onorari di causa. Attualmente, sono collocati fuori ruolo solo undici avvocati dello Stato, su un plafond di ventisei. In ordine alla spettanza agli Avvocati dello Stato di un compenso ulteriore rispetto al trattamento stipendiale, l’articolo suggerisce surrettiziamente che gli Avvocati dello Stato conseguano importi estremamente elevati, a prescindere dall’esito dei giudizi e dall’attività svolta. Tale affermazione è sotto più profili erronea e fuorviante: gli onorari di causa sono infatti riscossi in misura variabile, ed unicamente nell’ipotesi di giudizio integralmente vittorioso; (per chiarire meglio, sono considerate vinte solo le cause in cui la domanda avversaria è totalmente rigettata: se chi pretendeva 1.000 ha ottenuto 1, la causa si considera persa); gli onorari nei confronti delle parti private soccombenti sono liquidati dal Giudice, il quale dispone degli strumenti per graduare la condanna all’attività defensionale effettivamente svolta ed alla condotta processuale. Quanto all’entità degli emolumenti stipendiali riportati nell’articolo, preciso che il trattamento annuo lordo che compete all’Avvocato Generale dello Stato ammonta ad € 308.428,59, mentre del tutto fantasioso è il dato relativo ad una “propina” da € 324.000,00. Nell’articolo viene poi assai enfatizzato il costo annuo per il funzionamento dell’Avvocatura, pari a circa 160 milioni di euro annui. Tale dato, comprensivo di ogni voce (stipendi, fitti figurativi degli immobili, spese di funzionamento ed addirittura onorari di causa recuperati nei confronti delle controparti soccombenti, che vengono incassati dal Tesoro e solo poi pagati agli avvocati), non può, peraltro, non essere messo in relazione con il numero di nuovi affari impiantati ogni anno (circa 200.000): il rapporto tra il costo di funzionamento ed il numero degli affari evidenzia che la spesa sostenuta dall’Erario per ciascuna causa (spesso articolatasi in tre gradi di giudizio) è pari a meno di € 800,00, evidentemente di gran lunga inferiore a quella che andrebbe sostenuta rivolgendosi ad avvocati del libero foro, come confermato da recenti esperienze scaturite dalla privatizzazioni di enti pubblici. Nel fare riserva di valutare ogni ulteriore iniziativa in ordine alle affermazioni contenute nell’articolo, chiedo formalmente la pubblicazione della presente nota di rettifica. Accolga i migliori saluti. L’Avvocato Generale dello Stato, Ignazio Francesco Scaramazza.»

PARLIAMO DEGLI AVVOCATI PUBBLICI E DEGLI INCASSI PRIVATI.

Avvocati pubblici, incassi privati. Hanno lo stipendio fisso dallo Stato, ma anche la parcella per le cause vinte. Era previsto che perdessero metà degli onorari, ma nell'iter parlamentare la riduzione si è alleggerita, scrive Corrado Giustianian su “L’Espresso”. Sono i dottor Jekyill e mister Hyde del pubblico impiego. Lavoratori dipendenti e liberi professionisti insieme. Come i primi hanno il posto fisso e una busta paga a fine mese, come i secondi gli onorari per le cause vinte: le propine, secondo il termine ancora in voga, attinto dal latino medievale. Senza timbrare cartellini o strisciare badge. E senza affrontare il rischio d’impresa: non hanno studi in affitto, né segretarie da pagare e non debbono sgomitare per conquistare un cliente, dal momento che le cause piovono loro addosso dal cielo, ovvero dagli enti di appartenenza. Sono gli avvocati pubblici, che hanno attirato l’attenzione della legge di stabilità: i 356 dell’Avvocatura generale dello Stato, come i 273 originari dell’Inps (a cui si sono poi aggiunti 50 ex-Inpdap e 5 ex- Enpals), i 218 dell’Inail e le truppe di legali disseminate negli enti locali. Un esercito che supera abbondantemente le mille unità. Secondo il provvedimento del governo, così come uscito dal Consiglio dei ministri, gli avvocati pubblici avrebbero dovuto sacrificare, e per sempre, la metà dei loro onorari. Poi, in una notte, tutto è cambiato: non il 50, ma il 25 per cento e non una rinuncia definitiva, ma per tre anni, dal primo gennaio 2014 al 31 dicembre 2016. Il disegno di legge è all’esame del Senato e non si escludono altre sorprese. Ma quanto guadagnano i legali del pubblico impiego? Iniziamo da quelli dell’Avvocatura dello Stato, che obbligatoriamente difende in giudizio tutte le amministrazioni statali, la Corte costituzionale, le Authority. Secondo il conto annuale della Ragioneria generale, il loro stipendio medio, nel 2011, era di 160 mila euro lordi, onorari esclusi. E a quanto ammontano questi ultimi? Abbiamo girato la domanda a Michele Dipace, avvocato generale dello Stato dall’ottobre 2012, classe 1940 (per loro la pensione scatta a 75 anni, dieci in più degli avvocati degli enti). Per tutta risposta ci è giunto il suo discorso di insediamento, che puntava il dito contro la mole di lavoro (488 nuove cause per avvocato solo nel 2012) e vantava la quantità di vittorie: oltre il 70 per cento. Nulla sugli onorari, certo consistenti con tutti questi successi. A versarli sono le amministrazioni “esterne” che sono state difese. Per questa ragione, le propine non farebbero neppure parte della retribuzione. Inutile cliccare l’opaco bottone “trasparenza amministrativa” del portale dell’Avvocatura: nessuna traccia dei guadagni. Tenendosi molto bassi, a quei 160 mila euro ne vanno aggiunti, in media, almeno altri 50 mila. Ma le retribuzioni apicali sono ben più elevate e diversi avvocati, con gli onorari, hanno raggiunto 301 mila euro lordi, l’attuale limite effetto del decreto del 23 marzo 2012, che ha agganciato la retribuzione pubblica massima a quella del primo Presidente della Corte di Cassazione. Sorge però il dubbio che le propine di questi legali, in quanto non formano retribuzione, possano superare il tetto. Una classifica non smentita del trattamento economico fondamentale annuo lordo 2011 degli avvocati dello Stato dava in testa l’allora avvocato generale Francesco Caramazza, con 308 mila euro. Poi una trentina di posizioni tra i 254 e i 246 mila euro. Se il tetto imbriglia e appiattisce davvero i loro trattamenti globali, c’è pur sempre un articolo della legge di stabilità che dà la possibilità agli alti funzionari, compresi dunque gli avvocati dello Stato, di non conteggiare tutte le “collaborazioni occasionali”. Non faranno cumulo, insomma, collaudi, arbitrati, incarichi extragiudiziali autorizzati, commissioni. A meno che il Parlamento non corra ai ripari. All’Inps e all’Inail, a differenza che nell’Avvocatura, c’è un fondo interno di bilancio da cui vengono attinti gli onorari, nel caso più tipico di vittoria: quello con “compensazione delle spese”, quando il giudice decide che ciascuna parte paghi le sue. E lo fa quasi sempre, visto che la controparte è generalmente debole: pensionati, invalidi, persone che reclamano contributi aggiuntivi. Gli onorari non vengono ripartiti secondo i meriti, di più a chi vince, di meno oppure niente a chi perde. Ma secondo la gerarchia professionale: avvocati di Cassazione coefficiente 3, avvocati con più di tre anni di servizio 2,1, altri legali coefficiente 1. Il fondo ad hoc, secondo il Preventivo finanziario 2013, è di 31 milioni e 430 mila euro. Diviso per 228 avvocati fa 96 mila euro a testa. Un calcolo certo rozzo, la classica statistica dei polli, ma che rende l’idea. La retribuzione a cui vanno aggiunti gli onorari è di 150-180 mila euro lordi per gli avvocati di primo livello e di 110 per quelli di secondo. Sino al 2009 gli avvocati dell’Inps incassavano la parcella anche senza andare in giudizio. Una doppia determinazione di Antonio Mastrapasqua, prima come commissario, poi come presidente, nel regolamento 2010 sulla determinazione degli onorari in caso di vittoria ha previsto l’obbligo di partecipazione “a tutte le udienze, anche avvalendosi di idonea sostituzione”. Risultato: fino al 2008 l’Istituto soccombeva nel 63 per cento dei casi, oggi vince nel 58 per cento. È stato inoltre sfoltito il contenzioso: nel 2008 le cause pendenti erano un milione, il 25 per cento di tutte quelle civili nel Paese; oggi sono 600 mila, un terzo delle quali per la pensione di invalidità. Il Fondo per gli onorari dell’Inail è di 15 milioni di euro, in media circa 70 mila euro lordi a testa. Anche questi distribuiti secondo criteri di status e non di merito. Nel 2011 si contavano ben 65 retribuzioni attorno ai 200 mila euro tutto compreso, grosso modo 100 di stipendio e 100 di propine, e molti altri legali erano a quota 160 mila. «Ma sugli onorari vi sono trattenute previdenziali del 38 per cento», osserva Luigi La Peccerella, che dell’Inail è l’avvocato generale, «paghiamo infatti anche gli oneri normalmente a carico del datore di lavoro». Il suo lordo è attorno ai 240 mila euro. «Il vero spreco», sostiene l’avvocato generale, «viene da chi non ha legali interni. All’Inail si contano 18-20 mila cause nuove l’anno, che succhierebbero non meno di 3 mila euro di parcella ognuna, ovvero 50-60 milioni. Noi vinciamo il 66 per cento delle cause e non costiamo certo così». Un punto a favore del popolo dei dipendenti con propina è il rispetto delle quote rosa: anzi, le donne all’Avvocatura dello Stato sono 280, dunque quattro più della metà; 142 tra i legali storici dell’Inps, 12 più degli uomini; 109, la metà esatta, all’Inail. E poi va detto che gli avvocati col cedolino pagano per intero le tasse. A meno che qualcuno di loro non violi il patto di esclusiva, collaborando con lo studio di cui magari, una volta in pensione, diventerà consulente. Infine, il Comune di Roma. I legali si sono tenuti la retribuzione lorda di 43 mila 310 euro, rinunciando a quella di posizione, che arriva sino a 68 mila euro. Per un motivo molto semplice. Preferiscono di gran lunga concentrarsi sul monte onorari, che per quest’anno è pari a qualcosa come 3,5 milioni di euro. Diviso 23, quanti sono oggi, fa 152 mila euro teorici pro capite.

Anche qui la risposta piccata dell’avvocato. Avvocati, sempre a loro l’ultima parola.

«Dopo aver letto l’articolo “Avvocati pubblici, incassi privati” (“l’Espresso” n. 47), mi preme sollevare alcune osservazioni. In primo luogo, la cinematografica premessa, se pur suggestiva, appare quanto meno viziata. Gli avvocati pubblici vengono paragonati a esseri ibridi per metà lavoratori dipendenti e metà liberi professionisti. Si esordisce con un palese ossimoro: se si è lavoratori dipendenti non si può essere, nel contempo, “liberi “ professionisti ma esclusivamente professionisti che, in quanto dipendenti, sono assoggettati ad una serie di doveri imposti dall’ente di appartenenza. La premessa è, altresì, inficiata da un vizio ab origine perché trascura del tutto di considerare che non si diventa avvocato pubblico per intercessione divina o per diritto ereditario ma in quanto si affronta e si supera un concorso pubblico che richiede anni di preparazione, sacrificio, dispendio economico e, se permette, un minimo di capacità. Pertanto, le “agevolazioni” rispetto agli altri avvocati del libero foro, di cui si parla nell’articolo, sono la naturale conseguenza di un processo selettivo lungo e faticoso. Ora, veniamo al profilo prettamente economico. Se esiste un’avvocatura pubblica dipende evidentemente dalla incontrovertibile ed assoluta antieconomicità dell’affidamento del servizio legale di un ente pubblico all’esterno. In materia esistono approfonditi ed analitici studi che, il cui esteso e complesso contenuto non può di certo essere riportato in tale sede. Ma, si tratta di una circostanza pacifica e acclarata, a più riprese, anche dalla Corte dei Conti. Chiarito ciò, deve evidenziarsi come altro aspetto che nell’articolo viene completamente ignorato riguarda la notevole delicatezza e rilevanza delle funzioni esplicate da un avvocato pubblico, il quale, in molti casi, è costretto ad operare in condizioni di estrema criticità a causa del fenomeno, ormai tristemente noto, dell’inflazione del contenzioso (mi riferisco, in particolare, a quello previdenziale che coinvolge l’Inps che difendo) soprattutto in alcune aeree del paese. Tutto ciò senza voler considerare l’attività di recupero dei crediti nonché di consulenza e pareristica volta a indirizzare l’attività dell’amministrazione nel senso del perseguimento di finalità di interesse generale per la collettività. A fronte di un impegno costante e importante, che richiede una professionalità elevata, e una responsabilità esclusiva, i compensi riconosciuti appaiono, in tutta onestà, adeguati. Basti pensare, a titolo esemplificativo, che, prendendo spunto da una piccola parte degli studi cui accennavo in precedenza e che si riferiscono all’Inps, la spesa lorda, sostenuta dall’Istituto per ogni singolo professionista legale nel 2007, è stata di circa € 105.209,00 di cui circa il 64 per cento costituisce retribuzione “variabile”, mentre solo il 36 per cento rappresenta una componente “fissa”. Se si prendono in esame, invece, i dati forniti dall’Istituto, e pubblicati dalla Corte dei Conti(periodo di riferimento 2007), la spesa lorda annua, sostenuta per ciascun professionista, ammonterebbe ad € 150.022,27, di cui circa il 74 per cento costituirebbe retribuzione “variabile”, mentre solo il 26 per cento rappresenterebbe una componente “fissa”. Tenuto conto, dunque, che gli avvocati in servizio, all’epoca, erano 313, che l’Inps ha pagato per ciascuno di essi una media di € 105.209,00 euro, lordi, e che la media degli affari trattati sul territorio nazionale corrispondeva a 956, ne è derivato un costo annuo per singolo professionista pari a circa € 110 a pratica! (€ 156 secondo i dati Inps-Corte dei Conti). Non mi pare si possa parlare, nella fattispecie, di spreco di denaro pubblico, da rinvenire con ogni probabilità altrove. Potrei dilungarmi ancora, ma devo occuparmi della predisposizione di un ricorso in Cassazione (lavoro in avvocatura centrale, responsabile della rappresentanza e difesa dell’Inps nelle cause innanzi la Suprema Corte, Corte Costituzionale , Consiglio di Stato e altre giurisdizioni superiori) relativo a un contenzioso, il cui valore ammonta a € 150.000.000,00 (si faccia un po’ il conto della parcella che l’Inps dovrebbe liquidare a un avvocato del libero foro solo per una controversia del genere). Lelio Maritato, Avvocato Inps»

Ecco la mia busta paga. Avvocato (di provenienza ex Inpdap) in servizio all’Inps al massimo della carriera (2° livello differenziato, cassazionista e coordinatore centrale) in un mese in cui non percepisco le Propine, guadagno 2.877 euro netti comprensivi di tutte le indennità e con orario 12 h su 24. Pertanto la mia posizione non può essere equiparata a quella di un avvocato dello Stato. Sono tra i dipendenti privatizzati (a differenza degli avvocati dello Stato) e il mio contratto, come quello di tutti gli altri dipendenti pubblici non è stato rinnovato dal 2009. Per le Propine, versiamo gli oneri riflessi alla nostra amministrazione (circa il 21 per cento del lordo) poi sulla cifra rimanente versiamo l’Irpef (al massimo dell’aliquota) nonché gli oneri previdenziali nella misura del 9 per cento. E poiché non siamo liberi professionisti non possiamo fare attività professionale neanche per difendere i nostri interessi privati, ma paghiamo di tasca nostra i contributi al consiglio dell’ordine degli avvocati dove siamo iscritti in albi speciali, nonché un’assicurazione professionale che ci tuteli in caso di errori che potrebbero esporci a danno erariale nei confronti del nostro datore di lavoro. Lettera firmata.

All’avvocato dell’Inps Lelio Maritato faccio notare che l’articolo non ha criticato affatto la professionalità degli avvocati pubblici, i quali, ovviamente, hanno vinto un concorso per ottenere il posto, secondo le norme del pubblico impiego. Il punto era che, oltre alla retribuzione, percepiscono anche gli onorari, senza peraltro affrontare un rischio d’impresa. Conviene averli? Lo sostiene anche l’avvocato generale dell’Inail, da noi intervistato. All’avvocato che ci ha inviato la busta paga rispondo che sapevamo che gli avvocati di provenienza ex-Inpdap hanno una retribuzione un po’ più bassa. Ma perché non farci avere una certificazione comprensiva di propine? Nessun dubbio, infine, che l’Avvocatura dello Stato sia il vertice della casta.

I FURBETTI DELLE BORSE DI STUDIO.

Università, i "furbetti delle borse di studio" sono ovunque. In un anno più di mille i casi registrati. I controlli intensificati dagli Atenei italiani hanno portato alla scoperta di numerosi studenti che hanno dichiarato un reddito più basso per ottenere agevolazioni e privilegi, scrive Luca Pierattini su “La Repubblica”.  - I "furbetti delle borse di studio" sono in mezza Italia. Oltre al caso clamoroso di Roma, dove il 62% degli studenti controllati nei tre atenei capitolini - Roma Tre, Tor Vergata e La Sapienza - ha dichiarato un reddito più basso, sono numerose le segnalazioni effettuate dalle università italiane, seppur in maniera meno eclatante. Gli studenti che dichiarano meno del dovuto lo fanno per ottenere borse di studio, alloggi o anche solo per avere agevolazioni per trasporti pubblici o mense in diverse università. Un danno non solo per gli atenei, che elargiscono servizi gratuiti a chi non ne avrebbe diritto, ma soprattutto per gli studenti che avrebbero davvero diritto a tali agevolazioni e che invece finiscono per essere esclusi. Secondo la legge, chi ha dichiarato il falso rischia una denuncia per falsa autocertificazione e truffa. Le università stanno correndo ai ripari e hanno stretto accordi con la Guardia di finanza, con l'Inps (è il caso di Roma) o con l'Agenzia delle entrate per incrociare le informazioni delle banche dati del Fisco con quella anagrafica e confrontare la situazione patrimoniale degli studenti. Un ulteriore strumento di contrasto contro le false autocertificazioni è stata l'introduzione, qualche anno fa, della certificazione del reddito con l'Iseeu, l'indicatore della situazione economica pensato specificatamente per l'università. Un calcolo rilasciato da organismi riconosciuti come i Caf. In alcuni casi è servito, in altri meno. Ecco una sintetica mappa del fenomeno che va da nord a sud senza eccezioni.

Palermo. L'università di Palermo ha firmato un protocollo con la Guardia di finanza per arginare l'evasione tra gli studenti, ma i controlli, effettuati a campione, hanno scovato gli ultimi casi nel 2008. L'Ateneo tre anni fa ha aperto un Ufficio controlli riservato agli studenti che si dichiarano lavoratori autonomi, che sono circa il 10% del totale. Le verifiche sono a tappeto e il lavoro di questa task force contro l'evasione ha permesso di recuperare 400mila euro solo nel 2012.

Torino. A Torino il controllo delle autocertificazioni avviene nel 100% dei casi, almeno così dicono dall'Azienda regionale del diritto allo studio. Sui 12 mila domande per le borse di studio sono stati recuperati 700mila euro dovuti alla compilazione 'errata' dei moduli.

Genova. A Genova sono 290 le borse di studio revocate nel 2012: l'accertamento ha consentito di recuperare 300mila euro, la cifra necessaria per finanziare le agevolazioni per le matricole del 2013. I controlli nell'Ateneo vengono effettuati in collaborazione con l'Agenzia dell'entrate.

Padova. Nel 2012 un'inchiesta della Guardia di finanza di Padova aveva scoperto che su circa 400 controlli, uno su quattro risultava irregolare. Sui circa cento 'infedeli', diciotto avevano addirittura effettuato trasferimenti di capitali all'estero (per un totale di oltre 700mila euro), nonostante avessero dichiarato un reddito delle fasce più basse.

Emilia Romagna. In Emilia Romagna, l'Azienda regionale per il diritto allo studio ha trovato irregolarità nelle autocertificazioni di uno studente su cinque. Non casi eclatanti, ma omissioni nell'ordine di diecimila euro. Nel 2013 sono state ritirate 180 borse di studio (circa l'1% del totale delle domande) negli atenei di Bologna, Parma, Modena-Reggio Emilia e Ferrara.

Toscana. Nelle università toscane - Firenze, Pisa e Siena - sono state registrate più di 400 dichiarazioni irregolari su un campione di oltre 5400 controlli.

Bari. Un'isola felice sembra essere Bari, dove non si segnalano casi sospetti. Anche qui l'università ha stretto un accordo con la Guardia di finanza, ma, a causa del taglio ai finanziamenti pubblici, possono essere effettuati solo controlli a campione. Ciò significa che potrebbero esserci degli evasori, ma, allo stato attuale, non sono stati individuati. L'aumento dei controlli ha senz'altro disincentivato le false dichiarazioni sul patrimonio. L'estensione del malcostume rimane comunque una costante in tutta la penisola, anche se il caso di Roma, che ha destato grande scalpore per le sue dimensioni, sembra essere un fatto isolato.

CHE CAZZO DI FINE FANNO I NOSTRI SOLDI? ITALIA. I CODARDI DEL TAGLIO DELLA SPESA PUBBLICA ED I SUICIDI DI STATO.

Spesa pubblica: manca il coraggio politico di tagliare. Basterebbe una massaia, scrive Ester Faia su “Panorama”. Ormai è evidente: si cambiano i governi, si cambiano i ministri economici, ma le politiche economiche sono sempre uguali, anzi sempre più recessive. Ogni governo annuncia il taglio della spesa pubblica: costi della politica, costi di province, regioni e comuni (l’Italia è l’unico Paese che copre a piè di lista i colossali e immancabili buchi di bilancio locali), costi delle amministrazioni pubbliche, costi di uno stato sociale iniquo... Non si riesce mai a tagliare un singolo euro. Le riforme strutturali poi ormai sono diventate una leggenda. E allora come si fa a coprire una spesa che non diminuisce (anzi aumenta)? Si aumentano le tasse. E quali? Quelle su spese e beni inelastici: casa, Iva. Giulio Tremonti aveva introdotto l’Imu (che sostituiva l’Ici), Monti-Grilli l’avevano aumentata (portandone il gettito vicino a quello di Francia, Germania e Regno Unito), Fabrizio Saccomanni introduce nuove tasse sulla casa portandone quindi il gettito al di sopra di quello dei principali paesi europei (la Corte dei conti stima un gettito più elevato rispetto all’Imu di Monti). Va poi sottolineato che è sbagliato equiparare il gettito delle tasse sulla casa in Italia a quello di stati come Germania o Regno Unito: questi sono paesi dove la capacità contributiva è molto più alta perché i salari medi sono superiori a quelli italiani. Le tasse in Italia stanno invece aumentando drammaticamente la soglia di povertà. In Italia poi si insiste nel voler assegnare all’imposta sulla casa la progressività che è normalmente dell’imposta sul reddito, che in Germania e Francia è infatti molto più progressiva. Insomma, per non fare una vera riforma fiscale si fanno male degli aggiustamenti estemporanei. La desolante constatazione è che le politiche economiche non cambiano e diventano più recessive. Perché scomodarsi a cambiare governo o ministro, basta mettere il pilota automatico. Un altro interessante fatto ricorrente è la consuetudine dei governi-ministri tecnici ad appaltare ad altri tecnici la spending review: il governo Monti l’aveva affidata a Enrico Bondi, Giuliano Amato a Francesco Giavazzi, il governo Letta ha addirittura reimportato in Italia gli esperti del Fondo monetario internazionale (Carlo Cottarelli). Non c’è dubbio: economisti eccellenti. Ma perché scomodarli? Tanto nessuno riesce a tagliare le spese in Italia. Non è un problema di capire come si fa, il problema è di avere governi con il coraggio politico di farlo. Se si ha quello, forse è sufficiente una massaia.

Crisi: se i debiti, la disoccupazione o un fallimento portano al suicidio. Ben 119 dall'inizio dell'anno e quasi 500 tra il 2008 e il 2011. E' il numero di persone che si sono tolte la vita per difficoltà economiche. Ecco le ragioni che spingono al tragico gesto, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Al primo posto ci sono la mancanza di denaro e il sovraindebitamento, seguiti dalla perdita del lavoro e dall'impossibilità di pagare le tasse o le cartelle esattoriali. Sono le ragioni che ogni anno spingono decine e decine di italiani a togliersi la vita a causa di problemi economici che appaiono insormontabili. E' un fenomeno, quello dei suicidi, che ovviamente si è intensificato con la crisi degli ultimi 5 anni e che è tuttora allarmante. Secondo uno studio condotto da Link Lab, centro studi della Link Campus University di Roma, sono in totale 119 gli italiani che, nei primi 10 mesi del 2013, hanno deciso di farla finita perché schiacciati dal peso delle difficoltà economiche. Soltanto a ottobre, ci sono stati 16 morti, in aumento rispetto ai 13 registrati nel mese di settembre. Quello dell'ateneo romano non è però l'unico studio sul fenomeno dei suicidi legati alla crisi. Anche la Cgia, la confederazione degli artigiani di Mestre, lo scorso anno ha pubblicato dati molto preoccupanti su questo tema: tra il 2008 e il 2010, secondo l'associazione veneta, il numero di persone in difficoltà economica che si sono tolte la vita è cresciuto di oltre il 24%, da 150 a 187 all'anno, mentre il tentativo di suicidi è passato da 204 a 245. Entrambe le analisi sottolineano che la maggior parte delle vittime, cioè quasi la metà, è rappresentata da imprenditori, seguiti a distanza dai lavoratori dipendenti che restano disoccupati. Un altro dato molto significativo è che il numero più alto di suicidi non si registra nelle aree depresse del paese bensì nelle regioni più ricche e produttive come il Veneto e nell'intero Nord Est, dove le persone che si sono tolte la vita nei primi 10 mesi del 2013 sono state 28, contro le 27 dell'intero 2012. Per Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, alla base di questa distribuzione geografica delle morti per motivi economici c'è una ragion d'essere ben precisa. Il perché Bortolussi lo ha spiegato in un libro (l'Economia dei suicidi, pubblicato qualche mese fa con edizioni Marciuanum Press), mettendo in evidenza come gli imprenditori della sua terra, il Veneto, abbiano un senso profondo dell'onore, che misurano con il successo professionale. Per questo, quando si trovano in difficoltà, molti di loro decidono di farla finita, quasi illudendosi che una soluzione così drammatica possa rappresentare una sorta di liberazione per sé e per i propri figli o congiunti. Imprenditori suicidi, tutti i numeri del dramma dei fallimenti

Tra il 2008 e il 2011 hanno chiuso oltre 39.500 aziende. Una crisi su tre è causata dai ritardi dei pagamenti soprattutto da parte della pubblica amministrazione. Ritardi che sono raddoppiati negli ultimi quattro anni. Con picchi di 180 giorni. È questa una delle cause che porta alla disperazione gli imprenditori italiani. E li avvicina all'usura, scrive Giuseppe Cordasco su “Panorama”. Sono numeri davvero preoccupanti quelli che definiscono lo scenario di crisi in cui si vanno ad inserire i due drammatici episodi di cronaca che negli ultimi due giorni hanno visto un imprenditore e un operaio darsi fuoco per manifestare il proprio disagio economico. Sono dati che parlano di fallimenti e da soldi che non arrivano, soprattutto da parte della pubblica amministrazione . È la Cgia di Mestre a snocciolare i numeri e a dirci che nel 2011, quasi un fallimento su tre è stato causato proprio dai ritardi nei pagamenti.

A fronte di 11.615 imprenditori italiani che hanno portato i libri contabili in Tribunale infatti, circa 3.600 (pari al 31% del totale) lo hanno fatto per l’impossibilità di incassare in tempi ragionevoli le proprie spettanze. Una situazione, purtroppo, che tra l’altro non ha eguali in Europa. Nel nostro Paese infatti i ritardi superano la media europea di 26 giorni, il che significa circa un 30% di tempo in più di attesa. Che purtroppo per molte piccole e medie realtà spesso è fatale. Indubbiamente anche la crisi economica ha contribuito ad aggravare questa situazione. Infatti, il trend dei ritardi in Italia in questi ultimi 4 anni è quasi raddoppiato (+97,5 %). Se, infatti, nel 2008 la media era di 27 giorni, l’anno scorso gli imprenditori italiani sono stati pagati mediamente con 53 giorni di ritardo. Se poi teniamo conto che i tempi medi effettivi di pagamento che si registrano in Italia sono i più elevati d’Europa (180 giorni se il committente è la pubblica amministrazione , 103 giorni se il committente è un’azienda privata), la situazione appare in tutta la sua drammaticità: tra il 2008 ed il 2011 infatti sono fallite oltre 39.500 aziende. Nel 2011 poi a livello territoriale è la Lombardia la Regione che ha subito il numero più elevato di fallimenti, sia in termini assoluti, sia quando si prende in considerazione l’incidenza ogni 10.000 imprese attive. L’anno scorso 2.613 imprenditori lombardi hanno portato i libri in Tribunale: praticamente ci sono stati 31,5 fallimenti ogni 10 mila aziende attive. A seguire c’è il Lazio con 1.215 fallimenti e una percentuale del 26,1% ogni 10 mila imprese. La terza posizione di questa poco invidiabile graduatoria, in termini assoluti, è invece occupata dal Veneto con 1.122 fallimenti e una percentuale del 24,4% ogni 10 mila aziende attive. E come se non bastasse all’orizzonte si profila un’altra calamità per le aziende, una minaccia nascosta, ma tra le più insidiose: l’usura, verso cui sono spinte sempre più imprese incapaci di far fronte ai pagamenti a causa dei ritardi negli incassi. “La mancanza di liquidità – commenta infatti amaramente Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre - sta facendo crescere il numero degli "sfiduciati", ovvero di quegli imprenditori che hanno deciso, nonostante i grossi problemi che si sono accumulati in questi ultimi anni, di non ricorrere all’aiuto di una banca. È un segnale preoccupante che rischia di indurre molte aziende a rivolgersi a forme illegali di accesso al credito, con il pericolo – conclude Bortolussi - che ciò dia luogo ad un aumento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico”.

Crisi, boom dei suicidi. Sono state 32 le persone, tra imprenditori e disoccupati, che si sono tolte la vita a causa delle difficoltà economiche, scrive Giuseppe Cordasco su “Panorama”. E’ uno dei conteggi più amari e dolorosi che negli ultimi tempi tocca fare quando si parla di crisi economica. Ci riferiamo a quello dei suicidi che purtroppo continuano a rimanere drammaticamente una delle spie più evidenti di come le difficoltà economiche continuino letteralmente a strozzare migliaia di imprenditori e lavoratori. A raccogliere i dati è Link Lab, il Laboratorio di ricerca socio-economica dell’Università “Link Campus University”. E se nel 2012 i suicidi totali imputabili a ragioni di carattere economico e finanziario erano stati 89, nel primo trimestre di questo 2013 siamo purtroppo già arrivati a quota 32, ossia circa il 40% in più di quelli registrati l’anno scorso nello stesso periodo. Una vera e propria recrudescenza che segnala una fase quanto mai acuta di difficoltà, in perfetta antitesi rispetto a chi ritiene che saremmo già in una situazione di fuoriuscita dalla crisi. Una recrudescenza che tra l’altro si è fatta evidente soprattutto nell’ultimo mese di marzo quando ben 16 tra imprenditorie lavoratori si sono tolti la vita, al ritmo impressionante di 2 al giorno. L’oppressione dei debiti, il baratro del fallimento o la perdita di un’occupazione sembrano essere particolarmente insopportabili per i soggetti che vanno dai 45 ai 54 anni. E’ proprio in questa fascia di età infatti, che si registrano i maggiori suicidi con un’incidenza del 34,4%. A seguire quella dai 35 ai 44 anni, con il 32,1%. Tra essi la maggioranza è rappresentata da lavoratori disoccupati. Sono stati ben 16, il triplo rispetto ai primi tre mesi del 2012, quelli che hanno scelto l’insano gesto sopraffatti dalle difficoltà economiche dovute alla perdita del lavoro. Sono stati invece 14 gli imprenditori spinti al suicido dal rischio di insolvenza e fallimento. Particolare forse macabro, ma significativo, è quello riguardante la modalità scelta per togliersi la vita. Ben 13, la maggioranza, ha scelto infatti l’impiccagione. Solo in 4 casi invece è stato registrato invece l’uso di un’arma da fuoco. Per quanto riguarda poi l’area del Paese più colpita dalla tragedia dei suicidi di imprenditori, in testa si conferma il Nord, e in particolare la Regione Veneto, che con 8 decessi guida questa triste classifica. Nel dettaglio, nelle Regioni settentrionali in questi primi tre mesi del 2013 sono stati 29 gli imprenditori che si sono tolti la vita, poi a seguire il Sud con 6, il Centro con 5 e le Isole con 2. E a fronte di chi riesce purtroppo a portare a compimento il proposito di togliersi la vita, ci sono invece una serie di casi in cui l’insano gesto, fortunatamente, va a vuoto. Un numero però quello dei tentati suicidi anch’esso in preoccupante aumento. Sono stati ben 11 i casi registrati nel primo trimestre del 2013, di cui otto nel solo mese di marzo.

Austerity, tutti i numeri della crisi. Dal Pil alla disoccupazione, dai consumi all’inflazione, le ragioni per cui siamo in recessione, scrive Giuseppe Cordasco su “Panorama”. Stipendi che non cresceranno e che (se va bene) resteranno costanti, pil in netto calo, disoccupazione che raggiungerà livelli record: non è lo scenario di un Paese in guerra, ma quasi. E riguarda l'Italia. Sono queste le previsioni sul futuro economico del nostro Paese presentate dall’Istat. I numeri certificano una condizione di austerity che la gente sente sulla propria pelle, che vive ogni giorno e che la spinge a scendere in piazza e a protestare. In un clima di tensione sociale sempre più aspro. Si tratta infatti di dati che lasciano ben poche speranze su un futuro economico migliore almeno nell'immediato. Scenari foschi, confermati d’altronde anche dalla Corte dei Conti, dal Fondo monetario internazionale e dalle maggiori banche d’investimento mondiali, tutte concordi nel sostenere che la ripresa in Italia, se arriverà, non ci sarà prima del 2015. Eccoli i numeri che stanno dietro alle proteste.

Prodotto interno lordo

È di oggi la notizia che, secondo i dati Istat, il terzo trimestre 2012 è il quinto consecutivo in cui si registra un calo congiunturale del Pil: -0,2%. Siamo quindi ancora in piena recessione. Allargando però lo spettro d’osservazione, bisogna fare i conti con il fatto che per tutto il 2012, l’Istat stima che ci sarà una flessione del Pil pari al 2,3%, un trend negativo che continuerà anche per tutto il 2013, anche se a livelli meno pesanti, che si fisseranno a quota -0,5%.

Domanda interna e mercati esteri

Il calo sensibile del Pil si spiega soprattutto con il crollo della domanda interna che nel 2012 farà registrare un complessivo -3,6%. Una contrazione i cui effetti si faranno sentire, in maniera un po’ più contenuta anche nel 2013 quando si registrerà un -0,5%. In questo quadro l’unica ancora di salvataggio per il nostro Paese resteranno i mercati esteri, la cui domanda crescerà nel 2012 del 2,8% e nel 2013 dello 0,5%. Risultati positivi che però non riusciranno a compensare in maniera adeguata il tonfo interno.

Industria

E proprio il principale settore produttivo del Paese, quello industriale e manifatturiero, subirà gli effetti peggiori dal calo della domanda interna. L’industria italiana infatti registrerà nel 2012 una caduta del fatturato rispetto al 2011 pari al 5,3% con livelli produttivi che torneranno ai minimi del 2009.

Disoccupazione

Come facilmente pronosticabile, gli scenari descritti non potranno che abbattersi a cascata sui livelli occupazionali, che caleranno in maniera drammatica. Il tasso di disoccupazione infatti, quest’anno crescerà al 10,6%, e nel 2013 arriverà addirittura a toccare la quota record dell’11,4%.

Stipendi, consumi e investimenti

I livelli delle retribuzioni subiranno un vero e proprio stop e anche pesanti contrazioni. A dimostrarlo sono i numerosi contratti collettivi che attendono da tempo di essere rinnovati. Ovvia conseguenza di questa diffusa incertezza, sarà il calo dei consumi, che in questo 2012 si attesterà a quota 3,2% e per il 2013 si fisserà invece a un livello pari a -0,7%. E come se non bastasse, a tutto ciò bisogna aggiungere una notevole riduzione degli investimenti che nel 2012 sarà dell’ordine del 7,2%, mentre nel 2013 ci sarà un -0,9%.

Inflazione

Gli ultimi dati riferiti a ottobre registrano un’inflazione al 2,6%, in calo rispetto al mese di settembre quando aveva toccato quota 3,2%. Un segnale, forse uno dei pochi, in parte positivo: stiamo evitando la miscela esplosiva di economia in recessione con aumento esponenziale dei prezzi, che va sotto il nome di stagflazione. Dubbi però vengono espressi sul futuro immediato dall’Istat, tenendo conto degli aumenti dell’Iva, in parte già assorbiti, che potrebbero far nascere nuove spinte inflazionistiche. Le prospettive poco entusiastiche descritte portano i ricercatori dell’Istat a concludere che la crisi attuale potrebbe colpirci con tempi molto più dilatati sia di quella del biennio 2008-2009, che durò 5 trimestri, sia di quella del periodo 1992-1993 che interessò l’Italia per ben 6 trimestri. Insomma, il clima non sembra promettere niente di buono, e le proteste di piazza ne sono la spia più allarmante.

PARLIAMO DI UNA TASSA CHIAMATA ACI: 191 MILIONI DI EURO PER UN REGISTRO INUTILE.

Anche se pochi ormai se la ricordano, quella storia Pier Luigi Bersani certo non l’ha dimenticata, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Non fosse altro perché è una delle sconfitte più brucianti che da ministro delle liberalizzazioni abbia dovuto subire ad opera di una lobby. Due volte ha provato ad abolire il Pubblico registro automobilistico, e due volte è stato respinto con perdite. La prima, nel 2000; la seconda, sette anni più tardi. Poco importava che i cittadini italiani avrebbero potuto risparmiare un bel po’ di quattrini su ogni passaggio di proprietà, e che dal 1992 il Pra fosse un inutile doppione degli elenchi della Motorizzazione civile. Prima di Bersani, anche i sostenitori di un referendum promosso nel 1995 da un comitato presieduto dall’ex direttore del Sole24ore Gianni Locatelli e composto da una serie di associazioni e dalla rivista Quattroruote si erano dovuti arrendere. Le firme vennero raccolte in abbondanza, ma la Corte costituzionale dichiarò il quesito inammissibile. Tanto è misteriosamente potente, la lobby del Pra, da essere sfuggita alle grinfie della spending review, risultando appena sfiorata dal decreto semplificazioni: gli automobilisti non dovranno più comunicare le perdite di possesso e i cambi di residenza, che saranno acquisiti d’ufficio. Troppa grazia... Sopravvive così uno degli ultimi residui della normativa fascista, considerato che l’iscrizione dei veicoli al Pra è prevista da un decreto del 1927. Ma ciò che conta di più, questa tassa occulta da circa 200 milioni l’anno, cifra pari a sei volte e mezzo lo stanziamento 2014 per il dissesto idrogeologico in tutta Italia, rappresenta una formidabile assicurazione sulla vita per un carrozzone chiamato Automobile club d’Italia. L’unica federazione sportiva dipendente dal Coni che oltre a gestire per legge una funzione statale obbligatoria per i cittadini riscuote pure una imposta: il bollo auto. Ovviamente non gratis. Per la riscossione di quella tassa ha incassato lo scorso anno 41 milioni, che sommati ai 191 introitati grazie alla gestione del Pubblico registro automobilistico fanno 232 milioni. Somma alla quale vanno aggiunti 14 milioni di ricavi «diversi» dalle amministrazioni statali e dalle Regioni per i servizi di informazione sulla mobilità. Totale del fatturato pubblico, 246 milioni: vale a dire l’84,8 per cento delle entrate complessive, risultate pari a 290 milioni. Proporzioni che ben descrivono l’anomalia della quale stiamo parlando, ma non dicono proprio tutto. Perché se fino a qualche anno fa i soldi comunque giravano, la botta che negli ultimi tempi ha preso il mercato dell’auto, sceso ai livelli di cinquant’anni fa, ha fatto emergere di colpo tutto il peso di una struttura elefantiaca: tremila dipendenti, 106 strutture provinciali e Dio solo sa quante società appese. L’Aci nazionale controlla innanzitutto la Sara assicurazioni, cui fanno capo altre nove partecipazioni. C’è il 21% della compagnia turistica Valtur di Carmelo Patti, finita in amministrazione straordinaria. C’è il 10% della società finanziaria Zenit. C’è l’87% della Ala assicurazioni e il 100% della Sara vita. Nonché una piccola quota in Nomisma, il centro studi bolognese fondato da Romano Prodi. Ma non è finita di sicuro qui. Nel portafoglio dell’Aci c’è per esempio l’Aci informatica, cui era stata assegnata l’architettura informatica del costosissimo sito turistico nazionale Italia.it, protagonista di innumerevoli disavventure. E poi una impresa di progettazione, studi e consulenze (Aci Consult), quindi la società proprietaria dell’autodromo di Vallelunga nei pressi di Roma (Aci Vallelunga), una ditta di «assistenza tecnica ai veicoli e assistenza sanitaria alla persona» (Aci Global), una immobiliare (Aci Progei), una società sportiva (Aci sport) e un’agenzia di viaggi (Ventura). Ciliegina sulla torta, la joint venture al 50 per cento con la casa editrice di Silvio Berlusconi (Aci Mondadori), costituita nel 2000: il bilancio dello scorso anno si è chiuso con una perdita di 257 mila euro. E non è stato il solo buco. Senza poi contare il diluvio di controllate e collegate alle Aci provinciali. Trovarle tutte è un lavoro di ricerca estenuante: il loro numero è dell’ordine del centinaio. C’è di tutto, dall’autodromo di Monza a società immobiliari, a imprese turistiche, ad aziende che gestiscono parcheggi. Soltanto di «Aci service» se ne contano sedici diverse.Da questo ai bilanci colabrodo, il passo è breve. Su Repubblica Antonio Fraschilla ha raccontato l’anno scorso che di quelle 106 associazioni locali ben 57 risultavano in perdita. Dai 6 milioni di Palermo ai 4 di Lecco, ai 5 di Roma, ai 2 di Venezia, al milione di Cagliari, Catanzaro, Padova... Ma è niente al confronto della voragine dell’Aci nazionale. E qui attenti ai giochini. Il bilancio 2010 si è chiuso con una perdita di 30,3 milioni, ma sarebbero stati più di 41 senza gli 11 milioni di proventi straordinari: 9,8 di «utilizzo fondi di accantonamento» e un milione di cancellazione di residui passivi. Quello del 2011 è andato in attivo per 26,6. Attivo puramente contabile, conseguito grazie a plusvalenze per 48,8 milioni. Anch’esse puramente contabili, perché ottenute con la cessione per quasi 53 milioni di un fabbricato in via delle Perle a Roma alla immobiliare del gruppo Aci Progei. Traduzione, venduto a se stesso. Azzardiamo: senza quella curiosa partita di giro il bilancio si sarebbe chiuso in rosso per 22 milioni? Lo schema si è ripetuto nel 2012, con plusvalenze contabili per 7,6 milioni: la vendita delle sedi di Roma e Palermo alla solita Aci Progei e di un terreno alla società, sempre controllata dall’Aci, che ha in gestione l’autodromo di Vallelunga. Ma stavolta l’«ammuina» non è servita se non a mitigare il drammatico passivo: 28,7 milioni la perdita netta. Risultato, senza considerare quei singolari proventi straordinari, negli ultimi tre anni nei conti dell’Aci si sarebbe aperta una voragine di un centinaio di milioni. E quest’anno? Taglia di qua, taglia di là, il preventivo dice che si chiuderà in pareggio. Già. Ma anche qui con la previsione di una plusvalenza di 8 milioni: visto che ormai si dev’essere raschiato il fondo del barile con gli immobili, ecco che si pensa di cedere una fettina della compagnia di assicurazioni. Che però nessuno ancora ha comprato. Di fronte a una situazione del genere qualunque governo sarebbe già intervenuto da tempo con la dovuta decisione. Tanto più dopo le solenni bacchettate della Corte dei conti. Oltre ad evidenziare alcune irregolarità, la magistratura contabile non ha mancato di sottolineare la vistosa entità di certi emolumenti dei vertici. Il segretario generale Ascanio Rozera, potentissimo factotum da 41 anni dipendente dell’Aci, viaggia intorno ai 300 mila euro annui. Mentre al presidente Angelo Sticchi Damiani, nominato ai vertici dell’ente come ha raccontato il Fatto quotidiano alla vigilia di una sentenza della stessa Corte dei conti che l’ha condannato in primo grado a pagare 21.986 euro per un presunto danno erariale arrecato proprio all’Aci riguardo alcune sponsorizzazioni per i campionati automobilistici italiani di tanti anni fa, ne toccano 236 mila. E ai tre vicepresidenti tre? La Corte dei conti dice che ciascuno di loro ha diritto a 105.799 euro l’anno. Un piccolo obolo, a giudicare dal calibro della terna, nella quale spicca un nome: quello dell’ex potentissimo Pasqualino De Vita, classe 1929. Da ben 18 anni, ancora prima di essere nominato a capo dell’Unione petrolifera, occupa la poltrona di presidente dell’Automobile club di Roma. Ed è stato anche presidente di Aci informatica e Aci Mondadori, quindi consigliere della Sara. Un caso tipico, il suo, di come funzionano le cose in quel mondo chiuso e autoreferenziale nel quale gruppi di potere ristretti e intramontabili fanno il bello e cattivo tempo, passando da un incarico di vertice all’altro. Rosario Alessi, classe 1932, è diventato presidente dell’Aci a cinquant’anni, nel 1982. Dopo 18 primavere, nel 2000, ha passato la mano: «Ritengo di essere un uomo col senso della misura e penso non si possa stare diciott’anni seduto allo stesso posto». Ad aprile scorso, in prossimità dell’ottantunesimo compleanno, è stato confermato alla presidenza della Ala assicurazioni. Nel 2012 era stato nominato presidente della Sara. Prima ancora Sara Life, Sara immobili, Banca Sara, Holding Banca Sara... Va detto che talvolta si registra anche qualche spettacolare new entry, come quando all’Aci di Milano arrivò il commissario Massimiliano Ermolli, figlio di quel Bruno Ermolli tra i consiglieri più fidati di Berlusconi. E come da commissario diventò presidente, ecco sbarcare in consiglio Geronimo La Russa, figlio del ministro Ignazio e già consigliere della Premafin della famiglia di Salvatore Ligresti, insieme a Eros Maggioni: il consorte di Michela Vittoria Brambilla, allora ministro del Turismo. Del resto, quello che proprio all’Aci non manca sono i posti. Ognuno delle 106 strutture provinciali ha un consiglio di amministrazione, di regola formato da cinque persone (a Milano sono sette), più un collegio di tre revisori. Fate il conto: superare quota 800 poltrone è un attimo. I governi, dicevamo. Forse anche questo spiega perché l’Aci sia stato sempre trattato con i guanti. Basta pensare all’ultimo regalino: il decreto ministeriale con il quale sono state graziosamente aumentate le tariffe dovute all’Aci in debito d’ossigeno per la tenuta dell’inutile Pra. Era il 21 marzo del 2013 e il governo di Mario Monti autore del provvedimento, dimissionario da tre mesi, fremeva per passare il testimone. Ma se si eccettua la reazione della Unasca, l’associazione delle autoscuole, che fece ricorso al Tar lamentando per i cittadini un salasso ulteriore da almeno 30 milioni (contestato dall’Aci), nel Palazzo nessuno fiatò.

DISOCCUPAZIONE E RICERCA DEL LAVORO. LO SPRECO DEI CENTRI PER L’IMPIEGO.

Ad accorgersi della loro esistenza non sono i 642 mila italiani con meno di 25 anni che stanno disperatamente cercando un lavoro. Né quel milione e 706 mila disoccupati di lungo periodo, cioè a spasso da almeno un anno, censiti dall’Istat, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Che i centri per l’impiego pubblici siano vivi e vegeti ne hanno contezza soprattutto i loro 9.865 dipendenti nonché il Tesoro, che secondo un rapporto dell’ufficio studi Confartigianato ogni anno tira fuori in media per mantenere quelle strutture la bellezza di 464 milioni di euro: somma per tre quarti destinata agli stipendi. Ovvero una cifra, per capirci, nettamente superiore al gettito dell’Imu sui terreni agricoli che sta facendo ammattire il governo Letta, alla disperata ricerca delle coperture per eliminare quella tassa. Qualcuno potrà sbandierare i dati Eurostat, per i quali la nostra spesa pubblica per i servizi sul mercato del lavoro tocca appena lo 0,03 per cento del Prodotto interno lordo, meno di un decimo rispetto a Germania e Regno Unito, un ottavo della Francia e un terzo della Spagna. Il problema, però, sono i risultati. E i numeri, come quasi sempre, rappresentano una sentenza inappellabile. Negli ultimi sette anni hanno trovato occupazione attraverso i centri per l’impiego mediamente non più di 35.183 persone ogni dodici mesi. Questo significa che ciascun posto di lavoro è costato oltre 13 mila euro. L’equivalente di un’annualità del reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle. Con tanto di tredicesima. Tanto basterebbe per decretare un’immediata e radicale riforma. Vedremo ora quella cui sta lavorando il ministro Enrico Giovannini, già sapendo che è destinata a rincorrere il mostro galoppante della disoccupazione. L’Ocse ha appena diffuso dati raccapriccianti sullo stato del nostro mercato del lavoro. A settembre i giovani italiani di età compresa fra 15 e 24 anni in cerca di occupazione hanno raggiunto la spaventosa quota del 40,4 per cento, con un aumento di oltre 5 punti e mezzo rispetto all’anno precedente. E quel che è più grave, il tasso dei giovani senza lavoro risulta superiore di oltre due terzi rispetto alla media dei paesi sviluppati, pari nello stesso mese al 24,1 per cento. Tutto questo mentre la cancrena della disoccupazione dilaga senza particolari riguardi nemmeno per l’età. Dice la Confartigianato nel suo studio basato su dati dell’Unioncamere e del ministero del Lavoro che il numero di quanti erano rimasti a casa da oltre un anno alla fine di giugno scorso risultava superiore di 911 mila unità a quello del giugno 2008, quando la crisi è esplosa. L’aumento è del 114,6 per cento: complice anche una crescita da 400 mila a 810 mila dei disoccupati di lungo periodo under 35. Il che fa apparire ancora più avvilenti certe performance degli uffici incaricati di mettere una pezza a una situazione così pesante. Tanto avvilenti che il nuovo presidente dell’organizzazione degli artigiani, Giorgio Merletti, scongiura il governo di astenersi anche soltanto dal pensare «di attribuire altri soldi per uno strumento che esce bocciato dall’esame dei dati, perché errare è umano ma perseverare diabolico. Piuttosto, destiniamo le risorse straordinarie disponibili dal primo gennaio 2014 ai giovani che vanno in azienda a fare tirocini o stage, anziché impiegarle per creare altri posti inutili in quegli uffici pubblici». Basta dire che soltanto il 2,2 per cento delle imprese italiane gestisce le assunzioni passando attraverso i centri per l’impiego. Una quota infinitesima, di poco superiore rispetto a quella degli annunci sulla stampa specializzata (1,5 per cento), e decisamente inferiore a quella appannaggio di società di lavoro interinale e internet (5,2), alle banche dati aziendali (24,4) e soprattutto alle segnalazioni di conoscenti e fornitori che rappresentano il canale in assoluto più utilizzato con il 63,9 per cento del totale. Per giunta, negli ultimi tre anni il peso di questi centri è drammaticamente crollato. Dal 2010 a oggi è passato infatti dal 6,3 a poco più del 2 per cento. Al Sud, poi, è letteralmente inesistente: appena l’1,1 per cento delle imprese si rivolge alle strutture pubbliche. In Calabria siamo all’1 per cento. In Campania, Basilicata e Sicilia addirittura allo 0,8. Calcolando il rapporto fra le 31.030 aziende che nel 2013 hanno utilizzato i centri e gli 8.781 dipendenti di quelle strutture pubbliche materialmente destinati alle attività di inserimento lavorativo, la Confartigianato arriva alla conclusione che ciascun addetto segue un’azienda ogni tre mesi e dodici giorni. Gestendo allo stesso ritmo da lumaca l’accesso al lavoro dei disoccupati: uno a trimestre. E con una spesa che è andata crescendo in modo abnorme pure rispetto agli altri apparati pubblici. Negli anni compresi fra il 2005 e il 2011 il costo per il personale dei servizi per l’impiego è lievitato da 309 a 384,5 milioni di euro, con una progressione irresistibile: +24,4 per cento. Il triplo dell’incremento messo a segno dalle retribuzioni degli impiegati pubblici, salite invece complessivamente nello stesso periodo dell’8,3 per cento. Per non parlare della differenza enorme di produttività fra gli uffici del Sud e quelli del resto del Paese. Gli addetti nelle regioni meridionali sono ben 5.093, contro 2.099 del Centro, 1.503 del Nord Est e 1.336 del Nord Ovest, dove peraltro si riscontra il miglior livello di efficienza: se soltanto tutte le strutture funzionassero così, argomenta il rapporto degli artigiani, «per gestire gli utenti di tutti i centri italiani sarebbero necessarie 3.692 unità di meno». Con un risparmio quantificabile in 141 milioni di euro, cinque volte lo stanziamento al fondo per l’infanzia previsto dalla legge di stabilità.

SOLIDARIETA’, CATASTROFI E GLI SMS. DOVE CAZZO VANNO A FINIRE LE DONAZIONI?

Terremoto dell’Abruzzo. I soldi degli SMS imboscati dalle banche. I circa cinque milioni di euro donati dagli italiani per "dare una mano" alla ricostruzione dei luoghi colpiti dal sisma del 2009, sono fermi nei forzieri degli istituti di credito. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato e spiega come li ha spesi, scrive Emiliano Liuzzi su “Il Fatto Quotidiano”. Gira e rigira sono finiti alle banche i 5 milioni di euro arrivati via sms dopo il terremoto dell’Aquila sotto forma di donazione. E la loro gestione è stata quella prevista da qualsiasi rapporto bancario: non è bastata la condizione di “terremotato” per ricevere un prestito con cui rimettere in piedi casa o riprendere un’attività commerciale distrutta dal sisma. Per ottenerlo occorreva – occorre ancora oggi – soddisfare anche criteri di “solvibilità”, come ogni prestito. Criteri che, se giudicati abbastanza solidi, hanno consentito l’accesso al credito, da restituire con annessi interessi. I presunti insolvibili sono rimasti solo terremotati. Anche se quei soldi erano stati donati a loro. Il metodo Bertolaso comprendeva anche questo. È accaduto in Abruzzo, appunto, all’indomani del sisma del 2009. Mentre Silvio Berlusconi prometteva casette e “new town”, l’ex numero uno della Protezione civile aveva già deciso che i soldi arrivati attraverso i messaggini dal cellulare non sarebbero stati destinati a chi aveva subito danni, ma a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos, che avrebbe poi usato i fondi per garantire le banche qualora i terremotati avessero chiesto piccoli prestiti. E così è stato. Le donazioni sono confluite in un fondo di garanzia bloccato per 9 anni. Un fondo che dalla Protezione civile, due mesi fa, è stato trasferito alla ragioneria dello Stato. La quale, a sua volta, lo girerà alla Regione Abruzzo. E di quei 5 milioni i terremotati non hanno visto neanche uno spicciolo. Qualcuno ha ottenuto prestiti grazie a quel fondo utilizzato come garanzia, ma ha pagato fior di interessi e continuerà a pagarne. Altri il credito se lo sono visto rifiutare. Bertolaso, allora, aveva pieni poteri. Come capo della Protezione civile, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma soprattutto nella veste di uomo di fiducia del premier Silvio Berlusconi. I primi soldi che Bertolaso si trovò a gestire furono proprio i quasi 5 milioni donati dagli italiani con un semplice messaggio del cellulare. Ma lui, “moderno” nella sua concezione di Protezione civile, decise che i milioni arrivati da tutta la penisola sarebbero stati destinati al post emergenza e alle banche, non all’emergenza. Questo aspetto non venne specificato al momento della raccolta, ma Bertolaso aveva il potere di decidere a prescindere. Spedì poi un suo emissario alla Etimos di Padova, consorzio finanziario specializzato nel microcredito, che raccoglie al suo interno, attraverso una fondazione, molti soggetti di tutti i colori, da Caritas a Unipol. Quello che è successo in questi 3 anni è molto trasparente, al contrario della richiesta di donazione via sms che non precisò a nessuno dove sarebbero finiti i soldi. Nemmeno a un ente, la Regione Abruzzo che, paradossalmente, domani potrebbe usare quei soldi per elicotteri o auto blu. La Etimos, accusata nei giorni scorsi su alcuni blog di aver gestito direttamente il patrimonio, ci ha sì guadagnato, ma non fatica ad ammettere come sono stati usati i soldi: dei 5 milioni di fondi pubblici messi a disposizione del progetto dal dipartimento della Protezione civile, 470 mila euro sono stati destinati alle spese di start-up e di gestione del progetto, per un periodo di almeno 9 anni; 4 milioni e 530 mila euro invece la cifra utilizzata come fondo patrimoniale e progressivamente impiegata a garanzia dell’erogazione dei finanziamenti da parte degli istituti di credito aderenti. Intanto sono state 606 le domande di credito ricevute (206 famiglie, 385 imprese, 15 cooperative). Di queste 246 sono state respinte (85 famiglie, 158 imprese, 3 cooperative) mentre 251 sono i crediti erogati da gennaio 2011 a oggi per un totale di 5.126.500 euro (famiglie 89/551mila euro, imprese 153/4 milioni 233mila e 500 euro, cooperative 9/342mila euro). Infine 99 domande sono in valutazione (68 famiglie, 28 imprese, 3 coop). Al termine dell’operazione quello che è successo è semplice: i soldi che le persone hanno donato sono serviti a poco o a niente. Non sono stati un aiuto per l’emergenza, ma – per decisione di Bertolaso – la fase cosiddetta della post emergenza. Che vuol dire aiuti sì, ma pagati a caro prezzo. Le persone si sono rivolte alle banche (consigliate da Etimos, ovviamente) e qui hanno contrattato il credito. Ma chi con il terremoto è rimasto senza un introito di quei soldi non ha visto un centesimo. Non è stato in grado neppure di prendere il prestito perché giudicato persona a rischio, non in grado di restituire il danaro. I terremotati sono stati praticamente esclusi. Se qualcosa hanno avuto lo hanno restituito con un tasso d’interesse inferiore rispetto agli altri, ma pur sempre pagando gli interessi. Chi ha guadagnato sono le banche, sicuramente, e la Regione Abruzzo che, al termine dei 9 anni stabiliti, si troverà nelle casse 5 milioni di euro in più. Vincolati? Questo non lo sappiamo. Ne disporrà come meglio crede, sono soldi che entreranno nel bilancio. Fino a oggi, scoperto il metodo Bertolaso, il consorzio finanziario Etimos si è preso le accuse. Ma il presidente dell’azienda padovana al Fatto Quotidiano spiega che il loro è stato un lavoro pulito e trasparente. “Se qualcuno ha mancato nell’informazione”, dice il presidente Marco Santori, “è stata la Protezione civile che doveva precisare che i soldi erano destinati al post emergenza e non all’aiuto diretto. Noi abbiamo fatto con serietà e il risultato è quello che ci era stato chiesto”.

TRASPORTI: SPESE E FALLIMENTI.

Ieri era Napoli, con gli autobus costretti a rimanere in deposito senza benzina. Oggi è Genova, dove il Comune sta cercando di risanare un’azienda che fa acqua da tutte le parti, scrive Valentina Santarpia su “Il Corriere della Sera”. Ma la protesta dei lavoratori dell’Amt, che sta paralizzando la città, scoperchia un vaso enorme: è la crisi del trasporto pubblico locale (Tpl), che tra bilanci dissestati, personale in esubero, disservizi, evasori, e troppe deroghe, rischiano il collasso. In Campania sono fallite già tre società: l’Ente autonomo Volturno, il Cstp salernitano, l’Acsm a Caserta. Molte altre hanno sfiorato il tracollo: come l’Atac di Roma, travolta da un miliardo e 200 milioni di debiti, dove un supermanager sta cercando di rimettere a posto i conti e far dimenticare gli scandali delle assunzioni pilotate e dei biglietti duplicati. Ma su un esercito di 1.140 aziende, pubbliche e private, «il 43-44% è tecnicamente fallito», denuncia il sottosegretario ai Trasporti Erasmo De Angelis. Pesano i pesanti tagli ai finanziamenti statali: il Fondo unico nazionale è di 4,9 miliardi rispetto al fabbisogno di 6,4. È vero che le Regioni sono riuscite, presentando entro ottobre il piano di riprogrammazione dei trasporti, a evitare le penalità. Ed è vero che una sentenza della Corte costituzionale ha respinto il ricorso del Veneto contro il Fondo unico nazionale: «La mobilità è finalmente riconosciuta servizio pubblico essenziale la cui garanzia deve essere lasciata allo Stato centrale», spiega Marcello Panettoni, dell’Asstra, che raccoglie le società pubbliche di Tpl. Ma il ripristino dopo sette anni del fondo di 500 milioni per la manutenzione dei mezzi - vecchi 12 anni contro una media Ue di 7- è una goccia nel mare per le aziende di trasporto e per i Comuni, che dovendo raggiungere il pareggio di bilancio non riescono più a coprire i buchi. E così guardano ai privati: una necessità dettata anche dall’obbligo, fissato dall’Europa, di assegnare con gara la gestione dei trasporti pubblici locali entro il 2019. È proprio questo che sta accadendo a Genova, come già successo a Firenze: l’Amt, ha assicurato il sindaco, resterà una società in house del Comune fino al 31 dicembre 2014. Ma nel 2015, come prevede la legge regionale appena approvata, verrà indetta una gara per il trasporto unico regionale. Il Comune punta a far partecipare anche l’Amt, purché sia in buone condizioni economiche: secondo le stime, nonostante i contratti di solidarietà per i 2.300 lavoratori, anche quest’anno si chiuderà con un bilancio in passivo di 8,3 milioni, e il capitale sociale è ancora troppo esiguo, 7-8 milioni. La parola d’ordine è: risanamento. Basta guardarsi intorno, per capire che grandi alternative non ci sono. L’Eav napoletana, per essere risollevata da debiti per 500 milioni, è stata sottoposta ad un piano ministeriale di ristrutturazione, e i 2.300 lavoratori hanno accettato grossi sacrifici per conservare il posto. L’Actv veneziana quest’anno è riuscita a dimezzare i 17 milioni di debito solo con 200 pensionamenti e 130 spostamenti interni. A Torino il Comune ha messo in vendita la gestione dei parcheggi di Gtt, perché non è ancora riuscito a risolvere il nodo politico per cedere il 49% della società di Tpl ai privati. A Napoli l’Anm si sta rialzando grazie alla fusione con Metro Napoli, e a una iniezione di 200 milioni dal decreto salva imprese. A Bologna il Comune è riuscito a far passare l’aumento del biglietto e un taglio alle corse per puntare all’utile nel 2014. E a Milano, dove la virtuosa Atm chiuderà l’anno con un utile di 3 milioni, il Comune, che incamera l’utile dei biglietti, ha deciso l’aumento degli abbonamenti mensili e annuali.

LO SPRECO NON SI FERMA. ISTITUZIONI ALLA SBARAGLIO. LE MANGIATOIE. ALTRO CHE PARLAMENTO: CSM E REGIONI.

La tasse aumentano, sempre più italiani non arrivano a fine mese, alle prese con Imu e accise. Tempo di sacrifici per salvare l’Italia e mentre il Paese cerca di far fronte alla crisi, per non finire come la Grecia, i parlamentari continuano a spendere e spandere. L’ultima spesa folle che ha fatto indignare, a ragione, il popolo del web è quella che riguarda le agendine. Palazzo Madama, come riportato da Libero, ha pubblicato un bando per la fornitura di ben 5mila e 200 agende da   tavolo e 16mila e 800 tascabili per 315 senatori. Conti alla mano, ogni eletto ne avrà a disposizione circa una settantina. Il costo? 950mila euro, più Iva. Ma non è tutto. A questo si aggiunge anche il bando triennale, concluso lo scorso dicembre, per confezionare le agende degli onorevoli seduti a Montecitorio: oltre 3 milioni di euro, più Iva, per produrre 32mila e 800 agende per 630 deputati, ovvero 52 a testa. Ma nella serata di mercoledì arriva la precisazione dell’ufficio stampa della Camera sul numero di agendine realizzate che “per l’edizione 2012 sono state 21mila e non 32mila e 800, per una spesa complessiva, al netto dei ricavi delle vendite, pari a 107mila euro”. Al di là dello scontro sui numeri, di questi tempi risparmiare qualche milione di euro di certo non salverà il debito pubblico, ma sicuramente sarebbe utile per far diminuire parte degli sprechi. Che, a quanto pare, continuano alla faccia dei cittadini-contribuenti. La questione delle agende con il logo di Camera e Senato è la classica goccia che rischia di far traboccare il vaso. Soprattutto in rete dove la notizia ha scatenato molti commenti indignati. Il clima di questi giorni, quindi, rimane infuocato. Che poi il costo delle agendine è poca cosa paragonato ai casi di soldi pubblici sottratti dai bilanci dei partiti. A gennaio nell’occhio del ciclone finì Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, reo di aver fatto sparire la bellezza di 13 milioni di euro dalle casse del partito. Il Partito Democratico è stato travolto dall’indagine che ha riguardato Filippo Penati, ex capo della segreteria politica di Pierluigi Bersani, accusato di aver intascato presunte tangenti. Nichi Vendola, leader di Sel e governatore della Puglia, è indagato per un presunto abuso d’ufficio teso a favorire la nomina di un primario di chirurgia all’ospedale San Paolo di Bari. E il più recente scandalo è quello che ha gettato la Lega Nord nel caos: i soldi del Carroccio sarebbero stati usati per le spese della famiglia Bossi. Milioni di euro, denaro dei contribuenti, usati per altri fini che hanno portato alle dimissioni, dopo 30 anni, di Umberto Bossi dalla segreteria del partito. Un passo indietro seguito anche dal figlio Renzo, da Monica Rizzi e Davide Boni. Indagato, anche in questo caso, l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito che avrebbe sottratto undici diamanti, cinque chili d’oro e altri beni del Carroccio nella mala gestione dei rimborsi elettorali. “Abolire i rimborsi elettorali sarebbe drammatico”, hanno dichiarato all’unisono Bersani, Alfano e Casini nei giorni scorsi. “Cancellare del tutto i finanziamenti ai partiti, già tagliati drasticamente dalle manovre 2010-11, sarebbe un errore – si legge nella relazione allegata alla legge per la trasparenza a firma dei tre leader – punirebbe tutti allo stesso modo, anche quelli che hanno rispettato scrupolosamente le regole e metterebbe la politica nelle mani delle lobby”. A fare da eco ci ha pensato anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “I partiti non sono il regno del male, del calcolo particolaristico e della corruzione. Guai a fare di tutta l’erba un fascio, a demonizzarli, a rifiutare la politica”. Un fiume in piena, però, quello dell’antipolitica che sembra ingrossarsi giorno dopo giorno. I sondaggi per la prossima tornata di amministrative parlano di un altissimo numero di astensionisti: non è certo un caso. Mentre la maggior parte degli italiani si sente strangolato da una pressione fiscale alle stelle, la casta dei politici si continua a concedere lussi impensabili. A partire dal ristorante. Non è un mistero che la buvette di Montecitorio offra prelibatezze ai deputati a prezzi stracciati. E sempre per rimanere in tema, ogni anno il Senato cambia le posate, acquistando 2mila e 500 set di coltelli e forchette, spendendo circa 40mila euro all’anno. Ancora su Libero, in un pezzo di qualche mese fa, si legge che per l’acquisto di prodotti igienici la Camera, da inizio legislatura, ha speso 200mila euro. Il Senato conta la metà di eletti e a rigor di logica dovrebbe dimezzare l’importo di spesa. Macchè: ha sborsato, invece, 630mila euro. Particolari, certo, ma sempre di soldi pubblici si tratta. Insomma, che le agevolazioni per i rappresentanti del popolo siano molte, si sa. Ma non se la passano affatto male neppure segretari, semplici impiegati e perfino i barbieri di Montecitorio che alla fine dell’anno possono arrivare a guadagnare oltre 100mila euro all’anno.

Attenti, si spende troppo, e non riuscite a stare dentro la riduzione dei costi chiesta dalla legge, scrive Franco Bechis suLibero Quotidiano”. L’allarme viene suonato ormai ripetutamente al Consiglio superiore della magistratura dal presidente del Collegio dei revisori dei conti dell’organo di autogoverno della magistratura. È accaduto nel 2012, riaccade in questo 2013, visto che ancora una volta vengono integrati  capitoli di spesa che riguardano forfait per le sedute dei componenti del consiglio (che hanno sostituito i gettoni di presenza) e alcuni trattamenti accessori, dagli straordinari alle spese di staff. I revisori inviano lettere con formule di rito, autorizzando senza coinvolgersi troppo le maggiori spese «prendendo atto che le proposte variazioni sono ritenute corrispondenti alle effettive esigenze dell’amministrazione». Ma poi aggiungono sempre di volere verificare a consuntivo se queste improvvise integrazioni di bilancio si «rapporti alle economie di spesa a suo tempo perseguite, nella materia, con apposite modifiche regolamentari».  Nel bilancio 2012 il problema si era presentato con un aumento rispetto alle previsioni di 248 mila euro al capitolo stipendi e assegni fissi a favore del personale di ruolo, e di 70 mila euro per il capitolo «spese per indennità di sedute dei componenti del Consiglio», che pure era divenuto forfettario proprio per non doverlo integrare con questo o quel gettone extra di presenza. Eppure su personale e staff si continua ad integrare i bilanci di previsione. Evidentemente Michele Vietti e i suoi principali collaboratori sono lavoratori instancabili. Tanto è che aumenta sempre la voce delle spese per straordinario che riguardano quegli staff. Si capisce anche dal consuntivo per gli straordinari militari. Al Csm si lavora così tanto da dovere pagare circa 10 mila euro di straordinari (circa 900 euro al mese) all’unico vigile urbano che nei momenti di punta deve regolare il traffico davanti alla sede Csm di piazza Indipendenza. Lo stesso Vietti deve fare le ore piccole al lavoro, visto che vengono pagati in media circa 600 euro al mese di straordinari a ciascuno dei sei militari che compongono la sua scorta. Un po’ di più - circa 700 euro medi al mese di straordinari  vengono pagati dal Csm  per l’extra lavoro compiuto da ciascuno degli 8 militari che fanno da autisti e scorta al primo presidente e al procuratore generale della Corte di Cassazione. E circa 500 euro al mese di straordinari vengono pagati regolarmente a ciascuno dei 13 carabinieri distaccati presso l’organo di autogoverno della magistratura. Evidentemente i carichi di lavoro sono così alti che bisogna fare le ore piccole. E ovviamente si spende non poco pure per gli straordinari del personale civile. Ma non è solo questa voce a preoccupare i revisori dei conti del Csm. Qualche problema è nato quest’anno dall’appalto biennale per il catering necessario per eventi (convegni, presentazioni, conferenze) organizzati dal Csm. La cifra in sé non sembra enorme: 50 mila euro. Ma si è scoperto che è quanto si è speso a consuntivo nel 2012 per 20 appuntamenti. In media dunque si è speso 2.500 euro di catering a presentazione. Naturalmente la spesa dipende dagli invitati e da che cosa si offre loro. In metà dei casi si è trattato di organizzare un buon coffee break. Negli altri un «light lunch» o un buffet durante la pausa pranzo dei lavori. Partecipanti? Risposta dell’amministrazione: «Da un minimo di 10 a un massimo di 80 persone». Tradotto in numeri: la spesa pro capite per evento oscillerebbe fra 31 e 250 euro. In ogni caso una follia se si tratta di semplici coffee break, ma improponibile anche in caso di pranzi-buffet di 10, 20 o 30 persone, a meno che sia usanza del Csm fare scorrere champagne a fiumi e servire agli ospiti tartine al caviale e terrine di fois gras. E così si è aperto un «dossier catering» in tempi di crisi che può fare andare di traverso il boccone ai vertici del Csm...

Le spese pazze del Csm, 350 mila euro solo per i pasti, e 6,8 milioni per "studiare". Il Consiglio nel 2012 ci è costato 34,5 milioni. Due milioni solo per le indennità di presenza. I togati portano a casa pure la doppia busta paga..., scrive “Libero Quotidiano”. Spese pazze al Csm. Il Consiglio Superiore della Magistratura non bada a spese. Il tribunale dei pm ci è costato 34,5 milioni solo nel 2012. Dieci milioni sono stati spesi solo per le indennità di presenza, altri 6,8 per l'aggiornamento professionale. Ma guardando il bilancio dell'ultimo anno pubblicato in Gazzetta Ufficiale, l'ultimo rendiconto è lievitato a 40 milioni includendo anche i 5 milioni "risparmiati" nell'esercizio del 2011. Su una cosa al Csm non si risparmia: la buona cucina. I buoni pasto per i magistrati e per il personale amministrativo sono costati 350 mila euro, mentre per viaggi e missioni sono stati spesi 1 milione e 200 mila euro. Cifre da capogiro, ovviamente tutte a carico dei contribuenti. Poi c'è il nodo formazione. I nostri magistrati hanno sempre bisogno di aggiornarsi e allora per "studiare" e "ripassare" il codice hanno speso ben 6 milioni e 800 mila euro. Ma a pesare sul bilancio sono soprattutto gli stipendi. Gli assegni destinati ai componenti del Csm ammontano a 5 milioni e 530mila euro. Il vicepresidente Michele Vietti si porta a casa 140,904mila euro mentre i membri laici hanno guadagnato 111mila euro a testa. Totale: un milione e 272mila euro. L'istituzione conta circa 243 dipendenti che costano allo Stato 11 milioni di euro. Poi c'è chi gode pure della doppia paga. I 16 membri togati guadagnano circa 75mila euro l'anno per la loro presenza nel consiglio. Ma contemporaneamente percepiscono la retribuzione da magistrato. Anche qui il conto è salato: un milione e 990mila euro. Il tutto per sole 3 settimane di lavoro. Infine nell'era di internet le toghe continuano a usare la carta. Nel 2012 il noleggio delle fotocopiatrici è costato 409mila euro e altri 200 mila euro sono stati spesi per l'acquisto della carta. La spending review tra le toghe non è mai arrivata.

Sprechi Regioni: le spese dei consiglieri dal Piemonte in giù. Libri per l'orgasmo, frigoriferi e limousine, scrive  L'Huffington Post. Frigoriferi griffati, libri "hard", limousine. Era luglio quando i consiglieri regionali dell'Emilia Romagna Marco e Roberto Montanari, cuore nella sinistra Pd, dovevamo partecipare al congresso di Areadem. Ma per spostarsi da Napoli ad Amalfi perché non prendere una Limousime da 900 euro a viaggio? Poi, all'arrivo, un soggiorno da re: all'Hotel Bussola di Amalfi, "panorama privilegiato in una scenografia ineguagliabile tra terra e mare". Ma al Fatto quotidiano, che ricostruisce la vicenda in un'inchesta, Montanari dice: "Non sono mai salio su ua limousine. Chi mi conosce sa che non è il modo di vivere e di operare. Sono andato su un auto a noleggio con conducente. La cifra riportata dagli organi di informazione non la conosco. Sono certo ce le indagini sapranno chiarire ogni questione". Sta di fatto che gli 800 euro di albergo e i 900 di automobile sono piaciuti ai magistrati di Bologna.

Si legge sul Fatto Quotidiano: Il dubbio è: per gestire i cittadini emiliani e romagnoli serviva andare alla convention di partito spendendo soldi pubblici? Non de provvedere il Pd ai raduni Pd". Se si passa alla Regione Sardegna poi si vede che i consiglieri si sono concessi molti sfizi. 27 personal computer, 50 notebook, 53 stampanti, 23 monitor, 45 attrezzature speciali, 106 tra telefoni e tablet, 27 televisori, 490 accessori vari. E il Trony di Cagliari ha battuto lo scontrino: il televisore meno caro è un Lcd da 40 pollici costato 499 euro, gli altri sono al plasma e grandi fino a 50 pollici, comprati a prezzi tra i 649 ei 1368 euro. E il consigliere marchigiano dell'Udc, Luca Marconi? 760 euro per gli esercizi spirituali. Raffaele Bucciarelli, collega comunista, 16,80 euro per il volume: "Il segreto delle donne, viaggio nel cuore del piacere". Bè del resto "il consigliere è da sempre impegnato nelle pari opportunità" dice il suo ufficio stampa.

Si legge ancora sul Fatto Quotidiano: Pura galanteria invece i 164 euro destinati all'acquisto di mimose per l'8 marzo del Pd, cui si aggiungono 3.300 euro per ristoranti e caffè. Pratico infine l'approccio di Dario Latini, Api: "150 euro per un frigo, 2.100 euro per le coppe del Torneo di calcio, mentre il suo gruppo ha rendicontato 8.500 euro per penne e matite. E il Piemonte? Se Cota si è fatto beccare con il videogame, il Pdl ha pestato duro sul look. Valerio Cattaneo tra Louis Vuitton e simili ha raggiunto 6.100 euro. Roberto Boniperti si è elevato a 7mila euro. Nessuno batte Marco Botta, che oltre a Hermes (3.500 euro) ha messo in conto parrucchiere e doccia solare.

Consiglieri regionali, fondi e 'spese pazze': pecore, penne e le (proprie) tasse sui rifiuti. In 16 Regioni inchieste per peculato, truffa e concussione sui rimborsi dei gruppi nei 'parlamentini'. Ma indulto e amnistia potrebbero rappresentare un colpo di spugna normativo, caso Fiorito in primis. A deputati e senatori il compito di decidere quali reati condonare. Nel 2013, intanto, sforbiciate sui fondi: da 47 milioni di euro a 9 milioni, scrive Michela Scacchioli su “La Repubblica”. Sono finiti sotto inchiesta per peculato, truffa e concussione. Un'indagine che - da nord a sud - si è allargata a macchia d'olio su un 'esercito' di consiglieri regionali. Un pentolone di 'spese folli' che la magistratura ha iniziato a scoperchiare più di un anno fa ma che ora rischia di esplodere in un nulla di fatto in virtù dell'indulto e dell'amnistia. Caso Fiorito in primis (l'ex capogruppo del Pdl in Lazio è già stato condannato in primo grado). Nei giorni scorsi il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha invocato provvedimenti di clemenza per scongiurare il sovraffollamento nelle carceri: ma sarà compito di deputati e senatori (serve l'accordo dei due terzi del parlamento) 'perimetrare' tali misure e decidere quali reati infilare sotto l'ombrello del condono (della pena) e dell'oblìo (dei reati). Il dibattito imperversa sulle sorti di Silvio Berlusconi, condannato in Cassazione per frode fiscale, e sulle ripercussioni reali di tali misure. I dubbi, però, ora investono anche lo scandalo sui rimborsi spese dei gruppi consiliari regionali, e serpeggia il timore che la gestione 'allegra' di tali fondi possa chiudersi con un colpo di spugna normativo. Ci si aspetta il braccio di ferro in aula visto che sarà compito di deputati e senatori fare sì che reati considerati di particolare 'allarme sociale' rimangano fuori dalla cornice. Di sicuro c'è che, accanto alle inchieste penali, a spulciare scontrini, fatture e ricevute di dubbia provenienza ci si è messa ovunque la Corte dei conti: ai giudici contabili rimarrà comunque la  facoltà di sanzionare coloro che saranno ritenuti colpevoli, e di obbligarli alla restituzione del maltolto laddove ci sarà chi deciderà di costituirsi parte civile. Il denaro a disposizione dei 'parlamentini'. Spalmati lungo tutta Italia, nel 2011 i soldi pubblici a disposizione dei consiglieri regionali eletti sono stati ben 47 milioni di euro. Rimborsi extra destinati ai gruppi, s'intende, che sono andati ad affiancarsi al lauto compenso percepito mensilmente. Ma complici le inchieste giudiziarie che hanno aperto uno squarcio inquietante sulla gestione 'allegra' del denaro versato dai contribuenti e destinato - sulla carta - al funzionamento dei singoli parlamentini, la mannaia normativa ha tentato di ridimensionare la portata dello scandalo sulle 'spese pazze' e di calmierare l'ammontare dei rimborsi elargiti a uso e consumo dei singoli gruppi consiliari. Nell'elenco degli acquisti effettuati negli anni passati col denaro di rappresentanza, infatti, è finito davvero di tutto: dai profumi alle penne d'oro, dalla lap dance alle pecore, passando per il buffet a base di cornetti, paste secche e latte di mandorla offerto, dopo un funerale, ai parenti del caro estinto. Ma c'è stato perfino chi ha usato quei soldi per saldare la propria tassa sui rifiuti. A pagare, in realtà, i cittadini.

Parlamentini e 'spese pazze', la mappa delle inchieste, scrive “La Repubblica”. In Emilia-Romagna le inchieste (che sono più d'una) scuotono tutti i partiti presenti in Regione. Dal pasticcio delle carte sparite dagli uffici dell'Idv alle indagini sul presidente Vasco Errani, accusato di falso ideologico per aver favorito il fratello, e poi assolto. Tutto però è cominciato a emergere nel 2012 con le interviste a pagamento fatte con i soldi dei gruppi consiliari: interviste che hanno coinvolto Pd, M5S, Sel, FdS, Lega e Udc. Nel Pdl, invece, il consigliere Alberto Vecchi è già stato rinviato a giudizio per truffa: deve rispondere degli 80mila euro di rimborsi chilometrici ricevuti dopo aver spostato nel 2006 la residenza da Bologna a Castelluccio di Porretta Terme, a 60 km dal capoluogo. Nel mirino, anche le auto blu del presidente dell'assemblea legislativa, Matteo Richetti (Pd).  La lente della magistratura sta scandagliando il budget regionale a partire dal 2005: tra i particolari che emergono, oltre alle spese destinate a ristoranti, alberghi e regali di Natale (dallo zampone ai panettoni, dai vini agli spumanti), al vaglio anche i costi per le varie consulenze che i gruppi hanno accordato. Indagati, intanto, tutti i 9 capigruppo. Quello del Pd, Marco Monari, si è dimesso. E' accusato, tra le altre cose, di aver speso 1.200 euro per un week end a Venezia. Sotto inchiesta per truffa, inoltre, è Zoia Veronesi, storica segretaria di Pierluigi Bersani ed ex dipendente della Regione: nei giorni scorsi i magistrati emiliani hanno inviato le carte a Roma per competenza territoriale. Sul conto corrente cointestato con l'ex segretario Pd ora indaga la procura della Capitale. E così, dalla Calabria al Piemonte, la sforbiciata imposta dalla nuova legge varata alla fine dello scorso anno dal governo Monti ha sottratto 37,3 milioni di euro dalle tasche delle singole assemblee legislative. Di fatto, una riforma del finanziamento pubblico ai gruppi politici, dettata da Roma ai territori. Peccato che si sia deciso di 'chiudere la stalla' quando ormai i buoi erano scappati. Tuttavia, a partire dal 1° gennaio 2013 i fondi a disposizione sono, complessivamente, poco più di 9 milioni. Il calcolo è presto fatto: 5mila euro per ciascun consigliere più 0,05 euro per abitante di ogni regione. Da sinistra a destra, dentro allo scandalo ci sono finiti tutti. Ma se dal punto di vista mediatico la stretta sui costi è stata anche un modo per provare a contenere l'indignazione popolare generata negli anni dai diffusi sentimenti anti casta e riesplosa furiosa dinanzi a vicende come il 'caso Fiorito', sul fronte giudiziario le singole procure sono ampiamente al lavoro. Dopo le segnalazioni legate a presunte irregolarità riscontrate negli anni passati e inviate dalla Corte dei conti ai tribunali, 16 Regioni su 20 sono finite, una dietro l'altra, nel mirino della magistratura. Che in queste ore continua ad analizzare le note spese dei gruppi consiliari accusati, a seconda dei casi, di peculato, di truffa e/o di concussione. Il quadro a oggi è complesso e variegato, a partire dalle teste già saltate. In Sardegna, Umbria e Basilicata alcuni politici sono finiti a processo, mentre in Friuli Venezia Giulia talune posizioni sono appena state archiviate. Altrove sarebbe in dirittura d'arrivo l'avviso di conclusione delle indagini. Accade anche che gli indagati fossero già stati rieletti nell'attuale legislatura: sulla base della legge Severino, i consigli voteranno la sospensione (ma non la decadenza) dalla carica qualora arrivassero condanne di primo grado.

Rimborsi ai politici, le spese folli dei consiglieri regionali, scrive “Nano Press”. Dal PdL, al PD, passando per il M5S, sembra che tutti i consiglieri regionali dell’Emilia si siano messi all’ingrasso. In realtà i conti delle amministrazioni regionali, da nord a sud, fanno impallidire e tocca tutti i partiti, maggioranza e opposizione. Il dato dell’Emilia è un esempio che chiarisce come, arrivati a Palazzo, qualcosa sfugge sempre, anche a chi contabitalizza tutto. Scorrendo i dettagli dell’inchiesta “spese pazze” che ha portato la Procura a indagare su tutto l’arco politico che siede in viale Aldo Moro, sotto la voce cene, si trovano i 18mila euro a testa per i consiglieri del PdL, seguiti dai leghisti a quota 13mila euro, il M5S con 9mila, più del PD che viaggia a 6mila per ciascun consigliere. Il tutto in 19 mesi. Le spese nei consigli Regionali sono ora al vaglio delle varie Procure d’Italia: su venti regioni, sedici sono alle prese con accertamenti, indagini o processi. Il fiume di denaro pubblico che da Roma arrivava in tutto il paese è stato in qualche modo frenato: se nel 2011 i fondi pubblici per i consiglieri regionali eletti erano di 47 milioni di euro, con la legge varata lo scorso anno dal governo Monti, si sono chiusi i rubinetti, arrivando a circa 9 milioni di euro: 5mila per ogni consigliere a cui si aggiungono 0,05 euro per ogni abitante della regione. Il taglio però è iniziato nel 2013: chi sedeva nei consigli regionali prima dell’inizio dell’anno ha avuto accesso a un mare di soldi pubblici e lo ha usato, tutto.

Emilia-Romagna

Ristoranti di lusso, spese e rimborsi per la qualunque, senza nessuna differenza tra destra, sinistra e movimenti civili. In Emilia, il PdL strappa la palma dei spendaccioni: i 12 consiglieri hanno speso 220mila euro, con 18mila euro per ognuno e la voce “cene” che per l’ex capogruppo Villani, sospeso per l’inchiesta di Parma, tocca i 43mila euro. Dalle parti della Lega Nord si arriva a 53mila euro, divisi però in quattro consiglieri, il che equivale a circa 13mila euro cadauno. Capitolo M5S. Anche loro non sono immuni alle spese pazze e in due hanno speso 18mila euro: uno è Giovanni Favia, prima della cacciata dal movimento, l’altro è Andrea Defranceschi che hanno speso 9mila euro a testa. Più del PD, ma solo se si contano i singoli. I democratici hanno un totale di 145mila euro per 24 consiglieri, il che fa scendere la quota personale a 6mila euro a testa, con alcune eccezioni. L’ ex capogruppo Marco Monari, che ha dato le dimissioni, in 19mesi ha speso 30mila euro in ristoranti di lusso.

Piemonte

La regione governata dalla Lega Nord è alle prese con un’inchiesta penale in cui sono indagati 52 consiglieri su 60, a iniziare dal governatore Roberto Cota, per peculato e truffa. Soldi pubblici spesi per qualsiasi cosa da tutti i partiti, destra, sinistra e M5S: la procura ha chiarito che per ogni posizione ci sono motivazioni e ammontare diversi, ma le indagini sono in corso. A ostacolarle però potrebbe arrivare la sentenza della Corte dei conti piemontese, pubblicata lo scorso luglio: i consiglieri regionali hanno nell’esercizio delle loro funzioni, l’immunità sulle spese. Non si può rendere conto a un parlamentare regionale dei fondi spesi “in servizio”, come invece aveva chiesto la Procura dal 2003.

Calabria

Peculato, falso e truffa sono le accuse su cui stanno indagando gli inquirenti nei confronti di 23 consiglieri regionali in Calabria. Tra questi Giovanni Bilardi, ex capogruppo della lista Scopelliti, e l’ex governatore di centrosinistra Agazio Loiero: sotto osservazione le spese dal 2010 al 2012, periodo in cui sono stati gestiti da ogni gruppo politico 4.462.000 euro ogni anno. Tutti spesi, tra corsi di ballo, acquisto di parabole e satellitari, fino a profumi e ai ‘banchetti’ in omaggio ai defunti.

Lazio

La madre di tutti gli scandali delle spese pazze arriva dal Lazio. L’ex capogruppo del PdL, Franco Fiorito, ‘Er Batman’, è stato condannato in primo grado a 3 anni e 4 mesi, con 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, per appropriazione indebita di 1,3 milioni di euro. Il “sistema Fiorito” però è ancora sotto la lente degli investigatori che stanno facendo accertamenti su altri 13 ex consiglieri in quota PdL.

Umbria

Il PD finisce nello scandalo in Umbria con Eros Brega, presidente del Consiglio Regionale, imputato nel processo per peculato, falso ideologico, calunnia e concussione: alla base delle accuse la gestione dei fondi tra il 2001 e il 2005.

Lombardia

Non solo Renzo Bossi ‘Il Trota’ e Nicole Minetti. Le indagini della magistratura per le spese pazze al Pirellone, in Lombardia, sono partite nel 2012 da PdL e Lega e sono arrivata al PD e a tutti i partiti, anche i più piccoli: la magistratura ha passato al vaglio tutti gli scontrini arrivando a individuare i rimborsi che non erano dovuti. In testa Lega Nord con 597.525 euro in un anno. A seguire il PdL, con 297.721 euro, l’UdC con 48.886 euro, il PD con 46.256 euro, l’IdV con 12.365 euro, SEL con 10.308 euro: persino il Partito pensionati è finito sotto la lente della Corte dei Conti con un consigliere e 827 euro non dovuti.

Basilicata

Un sistema creato da “un vero specialista”, come scritto dal gip di Potenza, per gonfiare fatture di ristoranti con la semplice aggiunta di un numero nel conto. Così gli assessori Vincenzo Viti (PD) e Rosa Mastrosimone (esterno in quota IdV), con il consigliere regionale Nicola Pagliuca, capogruppo PdL, sono finiti agli arresti domiciliari ad aprile: Viti, secondo il gip, era l’ideatore del sistema: un conto da 23 euro diventava 230, da 92 saliva a 292, andando ad arricchire le tasche dei parlamentari regionali. Quando lo scandalo tocca il governatore Vito De Filippo, per l’acquisto di oltre 3mila euro in francobolli, la giunta cade a seguito delle sue dimissioni.

Liguria

Spese folli anche in Liguria, dove la magistratura indaga per il periodo tra il 2010 e il 2012. Al vaglio degli inquirenti il presidente Rosario Monteleone (UdC) e i due vicepresidente vicari Michele Boffa e Luigi Morgillo (PdL): si va da scontrini di cento euro a rimborsi di 3mila euro. Capitolo a parte le l’IdV per le cui sole spese sono stati emessi 4 avvisi di garanzia.

Sicilia

A ottobre dello scorso anno, il presidente dell’Ars, Francesco Cascio, consegna spontaneamente in Procura i documenti sulle spese dei gruppi parlamentari: 12,6 milioni di euro solo per il 2012. I magistrati vagliano le carte e scoprono cifre e giustificazioni interessanti, tanto da disporre accertamenti su tutti i capigruppo: Antonello Cracolici (PD), Giulia Adamo (PdL), Francesco Musotto (MpA) e Rudy Maira (PiD).

Marche

Si attendono gli esiti delle indagini della procura di Ancona sulla gestione dei fondi consigliari nelle Marche per il periodo 2008-2011: l’accusa potrebbe essere quella di peculato per 40 consiglieri e un totale di 300mila euro.

Friuli-Venezia Giulia

La procura ha chiesto il proscioglimento per il presidente del Consiglio Regionale, Franco Iacop, del PD, dall’accusa di peculato per tre ricevute in hotel tra il 2011 e il 2012. A Trieste però sono in corso altre indagini, comprese quelle su 5 nuovi consiglieri della giunta Settachiani.

Molise

Uso improprio di denaro pubblico destinato ai partiti. Sarebbe questa l’accusa della procura di Campobasso che indaga sui consiglieri regionali della scorsa legislatura, chiusa nel 2011. Si parla di 2,5 milioni di euro per cene, night, serate e locali su cui i magistrati stanno ora indagando.

Campania

Sessanta consiglieri indagati, dal PdL al PD, compresi coloro che nel frattempo sono diventati deputati. In Campania le indagini sulle spese folli sono partite con l’arresto del consigliere PdL Massimo Ianniciello, a cui è stato anche confermato il sequestro patrimoniale di 192mila euro. Da lì gli inquirenti hanno seguito la pista dei soldi, arrivando a tutti i gruppi politici: ‘Caldoro Presidente’, PdL, PD, UdC, Udeur, Noi Sud, Moderati, Centro democratico e l’Idv, oggi gruppo Misto. I parlamentari avrebbero sperperato 2,5 milioni di euro, tra cenoni, cialde dei caffè e 11mila euro di caffè e pasticcini. I consiglieri Udeur, tra cui spicca Sandra Lonardo, moglie di Mastella, hanno spiegato come li hanno usati: per pagare, in nero, i collaboratori.

Trentino

Da Bolzano è partita l’indagine sulla gestione dei 72mila euro annui a cui ha avuto diritto il governatore Luis Durnwalder: la Corte dei Conti ha passato al vaglio la gestione del fondo che, sommando i 17 anni di gestione, arriva a 1,65 milioni di euro e ora i magistrati stanno agendo. Il governatore avrebbe usato parte di quei soldi per spese personali, compreso il pagamento Ici delle sue case. Secca la smentita di Durnwalder.

Sardegna

Le indagini e l’accusa successiva di peculato ai danni dell’ex capogruppo Mario Diana, PdL, per l’uso improprio di 250mila euro di soldi pubblici, si allarga a macchia d’olio. A oggi sono 53 i consiglieri indagati, di cui 18 in attesa di processo. Tra i 33 nuovi iscritti nel registro degli indagati anche Francesca Barracciu, neo vincitrice delle primarie del centrosinistra.

Valle d’Aosta

Membri di sei gruppi del Parlamento regionale (Union Valdotaine, Federation autonomiste, Stella Alpina, PdL, Alpe e PD), sono sotto inchiesta per diversi reati, tutti al vaglio della magistratura per i fondi dal 2009: le indagini sono partite all’interno del PD in cui si contestavano spese per alimenti e premi per le feste e i contributi dei consiglieri.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

CONTRAPPASSO: SERGIO RIZZO, L'ANTICASTA CON LO SPRECO IN CASA.

La sorella della penna del Corriere è commissario prefettizio in Calabria: chiede tablet e scorta, scrive “Libero Quotidiano”. Un tablet con relativo abbonamento internet per tre anni. Poi 1.500 per gli straordinari dei vigili che le fanno da scorta. E ancora i rimborsi spesa: 1.179 euro solo per il suo soggiorno da maggio a giugno. Più, ovviamente, lo stipendio. Lo stesso che percepiva il sindaco: circa 2.500 euro lordi. Soverato, Catanzaro. È uno dei quasi quaranta comuni calabresi commissariati. Qui non c’entrano le infiltrazioni malavitose. La giunta di centrodestra è andata gambe all’aria per motivi politici, con dieci consiglieri che si sono dimessi mandando a fondo il sindaco azzurro Leonardo Taverniti. E il prefetto, avendo il personale già impegnato altrove, ha chiesto una mano a Roma. Da dove hanno spedito un viceprefetto d’esperienza, già al timone di Coriano quando nel paesino vicino a Rimini si celebrarono i funerali di Marco Simoncelli. Parliamo della dottoressa Maria Virginia Rizzo, sorella del giornalista del Corriere della Sera Sergio Rizzo e autore – con Gian Antonio Stella – del libro di successo «La Casta» contro gli sprechi della politica.

SERVIZI PUBBLICI E SPESA PUBBLICA. SACRIFICI, MA NON PER TUTTI.

Parola d’ordine: risparmiare. È in vigore la spending review, il decreto del governo Monti che taglia le spese eccessive. No! No si toccano gli sprechi o i privilegi delle caste, compresa la più onerosa: la magistratura. Ferie di quasi 2 mesi e stipendi esorbitanti. No! Si tagliano ospedali e tribunali. La spending review prevede il taglio di tre miliardi di euro per il fondo sanitario nazionale nel 2012-2013, con un miliardo in meno quest’anno e due miliardi a partire dal 2013. Per il ministro Renato Balduzzi saranno 7.000 dal prossimo anno i posti in meno negli ospedali: «una razionalizzazione», nell’ottica di raggiungere lo standard di 3,7 posti letto per mille abitanti, invece dei 3,9 attuali (secondo stime della Cgil i posti a rischio sarebbero invece molti di più: circa 80.000). Particolarmente critiche le Regioni: con questi tagli, dicono, il sistema non può reggere. Il decreto interviene anche in materia di giustizia. Stabilisce la soppressione di 37 tribunali e di 38 procure, e delle 220 sezioni distaccate esistenti in Italia. Nessun taglio agli organici, però: i dipendenti amministrativi e i magistrati saranno «redistribuiti sul territorio». La riduzione degli uffici giudiziari comporterà risparmi di spesa, pari a circa 3 milioni di euro per il 2012, 17 milioni per il 2013 e 31 per il 2014. La crisi c’è per tutti, ma non per i magistrati: si sono aumentati lo stipendio del 5%. La crisi non è uguale per tutti. La retribuzione di giudici e pm scongelata dopo un pronunciamento della Corte Costituzionale. Aumenta del 5 per cento lo stipendio dei giudici. In media, circa 8 mila euro all’anno in più. I magistrati, insomma, non conoscono crisi. Anche perché l’ha stabilito la Corte costituzionale. Cioè altri giudici. Si tratta di un incremento del trattamento economico complessivo, da maturare entro il 2014 ma con effetto retroattivo dal 2012. Nel 2010, infatti, il governo Berlusconi aveva congelato per 5 anni gli aumenti per le toghe, con la Finanziaria che mirava a risparmiare un po’ di soldi. Ora, però, dopo ricorsi in tutte le sedi (Tar compreso), la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo quel provvedimento. E il decreto è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale. Nella motivazione della Corte costituzionale si legge che il blocco dell’aumento degli stipendi è “una violazione del principio di indipendenza della magistratura, in quanto le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, i quali finirebbero con il controllare, in maniera arbitraria, la magistratura e, quindi, a comprometterne l’indipendenza”. Giusto per fare un esempio, un magistrato della Corte dei Conti che nel 2011 ha guadagnato 174.690 euro, dal 2012 incassa 182.287 euro. Alla faccia della crisi.

Una Casta intoccabile. Magistrati, ok all'aumento dello stipendio: le toghe guadagneranno 8 mila euro in più. Il Cav nel 2010 bloccò l'incremento del 5% della busta paga fino al 2015. Ma la Corte Costituzionale (e Monti) sbloccano tutto e riempiono le tasche dei magistrati, scrive Ignazio Stagno su “Libero Quotidiano”. Si può tagliare tutto in nome dell'austerity. Ma non toccate gli stipendi dei magistrati. Quelli devono crescere nonostante il blocco agli aumenti che la finanziaria del 2010 aveva previsto per le buste paga delle toghe. Una sentenza della Corte Costituzionale ha ribaltato la decisione dell'allora ministro dell'Economia Giulio Tremonti che aveva chiuso i rubinetti delle casse togate fino al 2015. La decisone fu presa dal governo Berlusconi per risparmiare qualcosa nelle casse dello stato strozzate da spread e debito pubblico. Il provvedimento prevedeva un blocco dell'aumento del 5 per cento per 5 anni. I giudici sono subito entrati in guerra con ricorsi al Tar e richiami alla Corte costituzionale che li ha accontentai. Un decreto del presidente del Consiglio, firmato Mario Monti si dà semaforo verde all'aumento degli stipendi con retroattività fino al 2012. Una decisone quella della Corte Costituzionale che testimonia come la busta paga delle toghe sia ritenuta inviolabile. A sostenerlo è proprio la Corte Costituzionale.  Per la Corte il blocco dell'aumento è un attentato all'indipendenza dei giudici, "una violazione del principio di indipendenza della magistratura, in quanto le decurtazioni dello stipendio, incidendo sullo status economico del giudice, creerebbero una sorta di dipendenza del potere giudiziario dal potere legislativo ed esecutivo, i quali finirebbero con il controllare, in maniera arbitraria, la magistratura e, quindi, a comprometterne l’indipendenza". Dunque le buste paga dei magistrati sono intoccabili e inviolabili. Così grazie alla sentenza e al decreto del Loden un magistrato che nel 2011 guadagnava 174 mila euro all'anno, ora ne guadagnerà 182 mila. Insomma 8 mila euro in più in tempo di crisi non sono pochi.  Inoltre le toghe godranno ancora di un “indennità giudiziaria”. Si tratta di un importo fisso che tutti i magistrati percepiscono in misura eguale, cioè a prescindere dal grado di carriera che, stando al legislatore, viene corrisposta in relazione agli oneri che gli stessi incontrano nello svolgimento della loro attività. Secondo la Corte questa indennità costituisce “compenso all'attività dei magistrati di supplenza alle gravi lacune organizzative dell'apparato della giustizia”. L'indennità corrisponde ad un sesto della busta paga. La percepiscono tutti. Pure chi non lavora in condizioni disagiate. La magistratura potrebbe dunque non avere nessun interesse ad avere una giustizia efficiente perchè sistemate le carenze verrebbe meno il diritto ai quattrini perchè si possa far fronte alle carenze strutturali.  Eppure, già nel 1992, Giuliano Amato aveva messo mano alla busta paga dei magistrati. Anche quello era un periodo di austerity. Le cose erano andate per il verso giusto. ora invece le toghe si aggrappano allo stipendio con le barricate. Sono state accontentate. La busta paga, come la legge, non è uguale per tutti.

Consulta: "Niente tagli a stipendi di giudici e manager pubblici". Vietato toccare i privilegi della magistratura e gli stipendi dei manager statali. La Consulta: "Incostituzionali". Perché i sacrifici sono chiesti solo ai cittadini? Scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Guai a toccare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Non possono essere sforbiciati nemmeno di un centesimo. Mentre la crisi economica fa schizzare alle stelle il numero dei disoccupati e l'Unione europea chiede, contestualmente, al nostro governo sempre maggiori sacrifici che vanno a pesare sui portafogli dei contribuenti, la Corte costituzionale ha stabilito che le retribuzioni dei magistrati non possono essere abbassate. Non solo. La Consulta si è anche opposta anche alla riduzione dei dipendenti pubblici con stipendi superiori ai 90mila euro lordi all'anno. "Il Parlamento decide in modo sacrosanto di mettere dei limiti a stipendi fuori da ogni logica - tuona la Lega Nord - e la vera casta si difende". Altro che la casta dei politici. In parlamento, per lo meno, qualche taglio di facciata lo stanno facendo. Nei tribunali e nella pubblica amministrazione, invece non si può. A difendere i privilegi dei giudici e i maxi stipendi dei manager pubblici ci ha pensato la Consulta con due sentenze che legano le mani al governo in tema di spending review e che sono destinate a far sicuramente discutere. "I tagli sulla retribuzione dei magistrati previsti dal decreto legge sulla manovra economica 2011-2012 sono incostituzionali", ha spiegato la Corte stabilendo, appunto l’illegittimità del decreto nella parte in cui dispone che ai magistrati non vengano erogati gli acconti per il triennio tra il 2011 e il 2013 e il conguaglio del triennio tra il 2010 e il 2012 e nella parte in cui dispone tagli all’indennità speciale negli anni 2011 (15%), 2012 (25%) e 2013 (32%). Non solo. La Consulta ha, poi, azzerato i tagli per i dipendenti pubblici con stipendi superiori ai 90mila euro lordi all'anno (-5% per la parte eccedente questo importo) e 150mila euro (-10%) dal momento che, come già sostenuto dal Tar, la norma introdurrebbe "un vero e proprio prelievo tributario a carico dei soli dipendenti pubblici". Per la Consulta un’imposta speciale prevista nei confronti dei soli dipendenti pubblici "viola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta" dal momento che "il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici". Morale? La Consulta arriva addirittura a proporre al legislatore rimodulare i tagli con "un universale intervento impositivo", andando quindi a colpire tutti i cittadini. Contro la Consulta si è subito levata una selva di critiche da parte della politica. Ad attaccare duramente i giudici della Corte costituzionale sono stati soprattutto i parlamentari leghisti secondo i quali "non è possibile che si voglia trasformare la nostra Repubblica in una regime governato" dalle toghe. Il responsabile del Dipartimento Fisco, Finanze ed Enti Locali, Massimo Garavaglia, ha chiesto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di intervenire per "eliminare questa vergogna". "Non si può chiedere alla gente di andare in pensione a settant'anni e di vedere aumentare disoccupazione e crisi per rispetto dei vincoli europei - ha concluso l'esponente del Carroccio - quando poi i cosiddetti dirigenti dello Stato, veri e propri burocrati nel senso peggiore del termine, continuano ad avere privilegi ingiustificati".

Gli stipendi pubblici non si tagliano, parola di giudici, scrive Lorenzo Dilena su “L’Inkiesta”. La Corte Costituzionale ha detto no: il taglio degli stipendi pubblici sopra i 90 mila euro è illegittimo. Una raffinata sentenza per dire che sarebbe come mettere una tassa su alcuni mentre su altri (i privati) no. A noi resta la sensazione che, in questo paese, la revisione della spesa abbia troppi nemici potenti. Ma che cosa bisogna fare per tagliare la spesa pubblica e risanare questo Paese? Lo chiediamo ai signori giudici della Corte Costituzionale. I quali hanno appena deciso che sono incostituzionali i tagli agli stipendi dei dirigenti pubblici superiori a 90mila euro, decisi con decreto legge 78 del maggo 2010 (v. sentenza 223 del 2012). Qualcuno se ne ricorda ancora? Era una delle poche decisioni ragionevoli che ogni tanto spuntavano nelle manovre governo Berlusconi: un taglio del 5% per la parte compresa fra 90mila e 150mila euro, e del 10% oltre i 150 mila euro. E invece no: la scelta di tagliare gli stipendi, cosa peraltro fatta in diversi paesi europei, comporta un «irragionevole effetto discriminatorio». Idem per il blocco degli incrementi automatici per i magistrati, per i quali si configurerebbe addirittura una lesione dell’autonomia e indipendenza. Senza farla troppo lunga con le disquisizioni giuridiche, di cui peraltro siamo men che incompetenti, la cosa viene spiegata così: poiché la riduzione dello stipendio viene imposta, si tratta di tributo, indipendentemente da come viene chiamato. Perciò, limitarlo ai dipendenti pubblici vìola il principio della parità di prelievo a parità di capacità contributiva. Se la riduzione fosse stata estesa a tutti i cittadini con reddito superiore a 90mila euro (= aumento Irpef), non ci sarebbero stati problemi. Giustizia è fatta? Per i giudici lo Stato deve garantire «il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza». La coerenza giuridica è salva, i conti dello Stato e il senso di equità possono aspettare. La decisione ha tutta l’aria di uno di quei casi in cui la somma giustizia diventa ingiustizia. Nel decidere che il taglio alle retribuzioni di dirigenti pubblici e magistrati è in sostanza un’imposta, con tutto quel che ne consegue, la Corte ha fatto una scelta. Avrebbe potuto farne altre? Di sentenze “innovative”, se non creative, in questi anni ne abbiamo lette tante. Stavolta, evidentemente, nessuno ha pensato che l’«irragionevole effetto discriminatorio» non è nient’altro che l’equivalente delle riduzioni salariali che si vedono nel mondo privato. Ma forse la Corte immagina un governo che si siede al tavolo con i sindacati e dichiara migliaia e migliaia di esuberi per arrivare magari a un “contratto di solidarietà”: taglio agli stipendi in cambio di una riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti pubblici. Questo sì che sarebbe ragionevole, no? Ma quando la Corte prende una decisione, c’è poco da discutere: la questione si chiude lì. Ora la grana è tutta del governo Monti ma anche dei cittadini, su cui potrebbe ricadere il costo della suprema giustizia della Consulta. A meno che non si trovi il modo di riconfigurare giuridicamente il taglio. A noi resta la senzazione che, in questo paese, la riduzione della spesa pubblica abbia troppi, potenti nemici. Specialmente quando si toccano i “mandarini” dello Stato. Specialmente fin quando la logica (per carità, impeccabile) di difesa dei privilegi continuerà ad andare a braccetto con un apparato pubblico elefantiaco, costoso e incapace di fornire servizi accettabili. Ma tutto questo è legittimo e non discriminatorio: e quindi ragionevole, anche se ci sembra assurdo.

PARLIAMO DELLE TOGHE IN FERIE.

«E così l’onorevole Mazziotti (Andrea Celso, deputato di Scelta Civica) vuol ridurre le ferie ai magistrati... Che ne penso? Beh, che si può fare». Francesco Nitto Palma, presidente della commissione Giustizia del Senato, è uno di qui politici a cui piace procedere con cautela, SCRIVE Enrico Paoli su “Libero Quotidiano”. Del resto le esperienze professionali, maturate in magistratura, e quelle politiche, accumulate dentro al Pdl, gli hanno insegnato che il passo deve essere sempre commisurato alla lunghezza della gamba. E siccome non conosce nel dettaglio la proposta dell’esponente di Scelta Civica, prima intervista noi e poi dice la sua. Dunque rapido riassunto per i distratti. Giovedì il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, lancia la proposta di ridurre le ferie ai magistrati. Secondo il calendario delle toghe, che non combacia con quello dei comuni mortali, l’attività si ferma dal primo agosto al 15 settembre. Ovviamente l’inizio del mese è solo indicativo, visto che  molti giudici sono già in vacanza. L’onorevole Mazziotti, che aveva presentato un emendamento al decreto del Fare, anticipa a Libero la proposta di legge depositata ieri. Taglio delle ferie e una corposa serie disposizioni per accelerare la giustizia civile, che incide pesantemente sulla vita degli italiani. «Certo non sono quindici o venti giorni in meno che cambieranno le cose», spiega il senatore del Pdl Nitto Palma, «però si tratta di un adeguamento necessario. Lo spirito con il quale era stata scritta la legge del 1969 (che dà diritto ai magistrati a oltre 50 giorni di ferie) è stato ampiamente superato dai fatti. Quei quindici giorni  in più rispetto alla media sono solo un privilegio e non una necessità». Dunque il senatore Nitto Palma è pronto a sottoscrivere, dopo averla letta e studiata, la proposta di legge del collega di Scelta civica? «Dico che si può fare». Eppure l’onorevole Mazziotti, proprio a Libero, ha detto che il Pdl «ha qualche remora nell’affrontare la materia». Come se fosse una questione di lobby. «Sono contento che l’esponente montiano sostenga questo», afferma l’ex ministro della Giustizia, «è la dimostrazione che il Pdl non  ha nessuna posizione preconcetta nei confronti delle toghe. Le maggiori resistenze al mantenimento dell’attuale status quo dei magistrati arrivano dal Pd, non da noi. Quindici giorni  in più di vacanza a cosa servono? Sono un privilegio inaccettabile o una necessità? Basta rispondere a questa semplice  domanda e si chiarisce tutto». E, tanto per comprendere quanto sia importante questa iniziativa parlamentare, l’onorevole Mazziotti, depositando la proposta di legge ha spiegato che l’accelerazione della Cassazione sul processo Mediaset per Silvio Berlusconi «è stata dovuta proprio alla sospensione feriale». E poi dicono che non c’è stato un «avviso» da parte della «stampa amica». Tornando alla proposta di legge, e all’aspetto politico della questione,  anche l’ex ministro Stefania Prestigiacomo si è detta pronta a sottoscrivere l’iniziativa parlamentare di Mazziotti.  «Non è più concepibile che mentre tutto il Paese è in affanno con i problemi di un’economia in recessione che stenta a ripartire», sostiene l’esponente del Pdl, «la giustizia chiude i battenti e se ne va in vacanza per un periodo così lungo. Il sistema giudiziario ha bisogno di essere riformato, e presto, in tutti i suoi aspetti perché così com’è oggi non funziona, non è efficiente e non è all'altezza degli standard europei. Una realtà che, a maggior ragione in questo difficile periodo, il Paese non si può assolutamente permettere». Altro che Pdl «titubante». Se l’esponente montiano andava cercando degli alleati li ha già trovati. Del resto come ha spiegato il primo firmatario della proposta di legge, il responsabile Giustizia di Scelta civica, «non si tratta di togliere le ferie, basta stabilire dei turni in modo da assicurare che a settembre ci sia un funzionamento pieno così come la prima settimana di agosto». Altro che guerra ai magistrati e voglia di persecuzione. 

Le toghe e i 51 giorni di ferie: confessioni di un magistrato. Se ne vanno in vacanza a fine luglio e tornano il 15 settembre: parla il giudice Cappello con Annalisa Chirico su “Panorama”. Alessandro Apostoli Cappello, presidente della sezione penale del Tribunale di Padova, andrà in ferie a fine luglio e rientrerà in ufficio il 15 settembre, salvo una settimana di turno a Ferragosto.

Presidente, non sono troppi 51 giorni di ferie?

«È un “privilegio” antico, fondato sulla presunzione che un magistrato, seppure in ferie, ha spesso del lavoro da smaltire. Alle ferie assegnate a ogni altro dipendente pubblico si sono aggiunti 15 giorni. Si tratta di una presunzione, che in quanto tale lascia il tempo che trova. Sicuramente ci sono magistrati che in ferie non staccano del tutto. Ma sono solo alcuni casi e non è facile individuarli».

Con quasi 9 milioni di procedimenti pendenti, non si potrebbero ridurre queste ferie?

«La rinuncia ai 15 giorni avrebbe un impatto positivo sull’arretrato, pur non essendo di per sé risolutiva. Si potrebbe ridurre ad un mese il periodo di sospensione dell’attività, che va dal 1° agosto al 15 settembre. Probabilmente gli avvocati non sarebbero d’accordo».

Da qualche parte bisognerà pure cominciare.

«Sono d’accordo. Non deve essere un alibi per non far nulla».

Con gli automatismi di carriera i magistrati, sgobboni o pigroni che siano, percepiscono gli stessi stipendi.

«E’ un problema più avvertito di quanto non si creda».

Il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha tentato di introdurre un criterio di valutazione per i magistrati, ma il Csm lo ha stroncato.

«Quella proposta era meritoria. Si è detto di un rischio di interferenza perché sarebbe spettato ai giudici  valutare i pm. Tale rischio però sussiste già oggi a causa della unitarietà delle carriere. Io non sono contrario alla separazione».

Per uscire dalla crisi dobbiamo spendere. E spendere bene. Il governo parla di tagli agli sprechi, scrive “Libero Quotidiano”. Ma la vera risorsa sta nell'uso adeguato dei fondi strutturali europei. Una pioggia di miliardi che Bruxelles manda in giro per l'Italia e che spesso gli amministratori locali non sanno spendere. A fotografare la situazione è uno studio di Confindustria Assoconsult, l’associazione che rappresenta le più significative imprese di consulenza in Italia, indica nell’utilizzo dei Fondi strutturali europei una chiave di volta per uscire dall’impasse, ricordando, dati alla mano, come l’Italia stia sprecando una grande opportunità. A lanciare l'allarme sui problemi di spesa dei fondi europei è stato anche il ministro Coesione territoriale, Carlo Trigilia, che ha parlato di un bottino da 30 miliardi che se non speso riprende la via di Bruxelles. Un tesoretto per battere la crisi - I 30 miliardi devono essere spesi entro il 31 dicembre 2015. Se così non fosse il finanziamento viene revocato. Questi 30 miliardi sono costituiti da circa 17 miliardi di euro di fondi europei assegnati all’Italia e da 13 miliardi di cofinanziamenti nazionali. La somma è quello che resta dei 49,5 miliardi di euro dei fondi strutturali europei per il 2007-2013 destinati al nostro Paese. Questi finanziamenti vanno attribuiti entro la fine dell’anno, poi ci sarà tempo fino al 2015 per spenderli. Finora l’Italia ha speso il 40,27% di quanto poteva, ben sotto la media europea che si aggira attorno al 51%. Solo la Romania (26,20% speso) e la Bulgaria (40%) fanno peggio di noi. L’Italia è terz’ultima in questa speciale classifica, superata da Francia (52,97%), Belgio (55%), Spagna (58,82%), Germania (60,82%), Lituania (70,83%), quest’ultima prima della graduatoria. "Lo Stato – sostiene Ezio Lattanzio, presidente Confindustria Assoconsult – non ha più soldi da spendere. L’utilizzo dei fondi europei è un possibile volano per l’economia, per progetti di riforme e sviluppo del Paese. Il fatto che i fondi abbiano una durata di sette anni, una durata di medio termine, dà anche un metodo alle riforme. Per il periodo 2007-2013, l’Ue ha stanziato complessivamente 347 miliardi, cifra che arriva 700 miliardi se si considera il cofinanziamento da parte di Stati e Regioni. L’Europa chiede metodo e programmazione, e la consulenza organizzata può essere un valido supporto.  Prepariamoci ad affrontare la programmazione 2014-2020, con fondi complessivi per 60 miliardi assegnati all’Italia".

Bisogna spendere, ma spendere bene!

SALERNO REGGIO CALABRIA: L’ETERNA INCOMPIUTA.

Inchiesta di Danilo Loria su StrettoWeb: Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, l’eterna incompiuta. L’autostrada A3 Napoli-Reggio Calabria ha un’estensione totale di 494,9 km. Rappresenta il secondo tratto della cosiddetta Autostrada del Sole, arteria che collega il nord con il sud dell’Italia, da Milano a Reggio Calabria. Si divide in due tratti principali che corrispondono alle tratte in gestione di due società: la Sam concessionaria del Gruppo Autostrade per l’Italia, da Napoli a Salerno e l’Anas da Salerno a Reggio Calabria. È affiancata dalla SS 18, che parte da Napoli e arriva a Reggio Calabria e che costituisce il percorso alternativo per chi non vuole prendere la SA-RC. La A3 attraversa tre regioni meridionali: la Campania per 171,0 km, la Basilicata per 30,0 km, la Calabria per 293,9 km.

Il 1962 è l’anno decisisvo per la costruzione dell’opera. Difatti, il governo di Amintore Fanfani decise di finanziare la costruzione di un’autostrada che collegasse il resto dell’Italia al profondo Sud. Nel 1966 il governo italiano, guidato da Aldo Moro, inaugura il primo lotto completato. Ecco le fasi di apertura dei vari tratti:

1966: apertura tratto Salerno – Lagonegro

1968: apertura tratto Lagonegro – Cosenza tratto difficilissimo da costruire data la conformazione del territorio, ricco di montagne e viadotti

1969: apertura tratto Cosenza – Gioia Tauro

1972: l’autostrada viene completata fino a Reggio Calabria.

A lavori ultimati, l’autostrada aveva più “sembianze” di una strada statale che ad una arteria ad alta velocità, viste le curve continue, la ristrettezza della carreggiata, priva, tra l’altro, di corsie d’emergenza. Per di più, nel corso delle giornate di maggior percorrenza della strada, persistono numerosi ingorghi ed incidenti in vari punti dell’A3. Cosicchè, alla fine degli anni ottanta, i vari governi che si sono succeduti si resero conto che l’autostrada doveva essere assolutamente modificata. Ciò nonostante la situazione non cambiò, cosicchè l’Unione Europea, ha obbligato l’Italia a far sì che la Salerno-Reggio Calabria corrispondesse a chiare normative Europee.

Nel 1997 si decise di dar vita a lavori di ammodernamento dell’arteria, che dovevano essere ultimati in pochi anni. L’anno di conclusione doveva essere il 2003, ma nulla, poi con la legge obiettivo n° 443 del dicembre 2001, si parlò del 2005 ma men che meno. Successivamente i tempi si allungarono a dismisura: si parlò del 2011, ma l’incompiutezza rimase, ad oggi i lavori non sono ultimati. Alcuni giurano che finiranno entro l’anno, altri, con più accuratezza, entro il 2018. Un disastro epocale, quindi, per la più grande opera mai realizzata direttamente dallo Stato.

A luglio 2012, sono stati completati 271 km, 91,5 km sono in fase di ammodernamento o ricostruzione, mentre 75.5 km devono ancora essere appaltati.

I tratti già completati sono quelli tra gli svincoli di:

Salerno Centro – Lagonegro nord (123 km)

Sibari – Cosenza (51 km)

Altilia – Lamezia Terme (31 km)

Sant’Onofrio – Mileto (22 km)

Rosarno – Bagnara (26 km)

I tratti dell’autostrada attualmente in fase di ammodernamento sono tra gli svincoli di:

Lagonegro Nord – Laino Borgo (29 km)

Campotenese – Morano (11 km)

Lamezia Terme – Pizzo (11 km)

Mileto – Rosarno (10 km)

Bagnara Calabra – Campo Calabro (30 km)

I tratti da ammodernare sono 75.5, cioè tra gli svincoli di:

Laino Borgo – Campotenese (21,5 km)

Morano – Sibari (21,5)

Cosenza – Altilia (26 km)

Pizzo Calabro – Sant’Onofrio (9,5 km)

Campo Calabro – Reggio Calabria (8,5 km)

E’ opportuno sottolineare che, sulla costruzione dell’A3 e sui lavori di ammodernamento, ha avuto un peso rilevante la mafia calabrese. Nella fase iniziale della costruzione le ditte che vincono gli appalti si organizzano con la ndrangheta per la fornitura del calcestruzzo e l’assunzione di personale. Nel 1997 con l’inizio dei lavori per l’ammodernamento comincia la vera e propria infiltrazione della malavita. Le ditte vengono obbligate a pagare il pizzo, pena intimidazioni. La magistratura inizia un lavoro enorme: varie le cosche che, come polipi, si avvinghiano sull’opera: Dieco, Giampà, Iannazzo, Mancuso, Pesce, Piromalli, Tripodo. Varie inchieste portate avanti: “Tamburo”, operazione “Arca”, “Alba di Scilla 2”. Coinvolti imprenditori, sindacalisti, gente insospettabile. Ad oggi viaggiare sulla Salerno-Reggio Calabria è un vero e proprio strazio: un labirinto infinito in cui è facile incontrasi con traffico, con incidenti spesso mortali, con rallentamenti, con uscite autostradali chiuse, con illuminazione precaria. Siamo consapevoli delle difficoltà, ma è opportuno completare e definire un opera che rappresenta una vera e propria vergogna: anni ed anni di lavori infiniti senza riuscire ad arrivare alla meta, ossia dar vita ad un arteria di “decente” percorrenza per tutti coloro che la percorrono.

LA SALERNO REGGIO CALABRIA FINISCE NEL LATO OSCURO DEL POTERE.

Un reportage estero tratto dalla testata: Die Welt; articolo originale di Rachel Donadio del 11 ottobre 2012 tradotto da Claudia Marruccelli, Valeria Lucchesi e Elena Acquani per Italiadallestero.info e pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”.

L’incompiuta A3 finisce nel lato oscuro del potere. Il lavori di costruzione della A3, che va da Salerno a Reggio Calabria, durano da decenni ed è soprattutto la criminalità organizzata a trarne vantaggio. Un esempio di come i fondi europei possano consolidare strutture corrotte. Iniziata negli anni ‘60, l’autostrada italiana A3 inizia poco lontano da Napoli, vicino a Salerno e termina 480 chilometri più a sud, diventando una strada secondaria nel bel mezzo di Reggio Calabria, il capoluogo. A circa 50 anni di distanza la realizzazione dell’A3 ancor oggi non è stata portata a compimento. In numerosi punti l’autostrada si riduce a due sole carreggiate con un percorso a ostacoli fatto dai cantieri stradali. Cavalcavia a due campate si allungano pericolosamente sui burroni, mentre l’acqua piovana filtra nelle gallerie senza illuminazione, in cui le auto che passano vengono colpite da pezzi di cemento o altri materiali da costruzione. Non esistono opere simili a quest’autostrada del sud Italia che rappresentino in modo così emblematico il fallimento dello stato italiano. Alcuni detrattori la definiscono il frutto marcio di una “cultura basata sui posti di lavoro in cambio di voti” che, alimentata dalla criminalità organizzata, ha frodato sistematicamente lo stato, indebolendo i cittadini e isolando geograficamente e politicamente la Calabria.

Simbolo dei timori dei paesi del Nord Europa.

L’autostrada rappresenta anche i timori di alcuni paesi del Nord Europa che fanno parte della zona euro: lo sviluppo di un sistema di trasferimento, in base al quale il nord appoggia un’Europa del Sud bloccata e in cui troppo spesso le sovvenzioni spariscono finendo nei favoritismi e nella corruzione, mentre ai governi locali sembra mancare la capacità o la volontà di fare qualcosa per impedirlo. L’autostrada incompiuta dimostra che i sussidi erogati in passato non sono stati destinati agli investimenti auspicati per il futuro. Questo alimenta i dubbi sulla validità di simili aiuti finalizzati a consentire all’Europa del sud di uscire dall’attuale crisi economica.

Il denaro finisce alla mafia.

In Italia l’uso improprio dei fondi europei “ha arrecato enormi danni, dato che sono stati utilizzati in maniera scorretta e quindi, secondo alcuni giudici, hanno favorito anche la criminalità organizzata” sostiene Sergio Rizzo, coautore di successi editoriali sulla corruzione politica. Da quando in Europa si discute di favorire la crescita economica, i funzionari europei raccomandano con sempre più enfasi una maggiore responsabilità. “Più i fondi europei vengono considerati un viatico per la crescita, come espediente per uscire dalla crisi economica, più occorre intensificare i controlli” sono le parole di Giovanni Kessler, capo dell’ufficio dell’UE per la lotta antifrode. Dal 2000 al 2001 l’Italia ha ricevuto più di 47,7 miliardi di euro, finalizzati al consolidamento delle infrastrutture e per l’agricoltura in alcune regioni. La maggior parte è stata in sostanza destinata al sud del paese, che ora non può vantare altro se non un’autostrada completata solo in parte.

Risanamento della A3 dal 2001.

L’Italia ha iniziato il risanamento della A3 sin dal 2001, con l’inserimento di un’adeguata corsia di emergenza. Da allora sono stati investiti nel progetto quasi 7.6 miliardi di euro. Dopo che la magistratura italiana ha messo in luce numerose prove di frode, le autorità europee quest’estate hanno imposto al paese di far confluire in altri progetti i 389 miliardi stanziati dall’Europa per l’autostrada. Percorrendo la A3, si può allo stesso tempo percorre il lato oscuro della recente storia italiana. Una storia in cui un misto di corruzione e clientelismo ha contribuito a incrementare la seconda montagna di debiti d’Europa, misurato sul PIL. La A3 è la principale arteria stradale in una regione in cui manca l’alta velocità ferroviaria e la disoccupazione arriva al 20 percento.

Sguardo sul lato oscuro della storia italiana.

Si passa per Rosarno con le sue squallide case di cemento ancora da ultimare, un territorio noto per i problemi legati agli stranieri presenti sul territorio. Si passa la città portuale di Gioia Tauro, dove le tombe del cimitero sono tenute quasi meglio di certe case. Il porto è noto alle autorità come punto di arrivo della maggior parte della cocaina proveniente dal Sudamerica e diretta in Europa. Da quando è stata inaugurata la A3, si sono succedute tre generazioni di aziende in subappalto, nominate da personaggi politici di altrettante generazioni. Dal 2000 sono state arrestate centinaia di persone, coinvolte nei cantieri dell’autostrada, per lo più  accusati di corruzione ed estorsione.

Strutture mafiose.

La Calabria è soggiogata dalla ‘Ndrangheta, considerata dalle autorità come l’organizzazione criminale più pericolosa. “Le grandi opere pubbliche attirano l’interesse della ‘Ndrangheta“, afferma il magistrato Roberto di Palma, che ha presieduto due processi per corruzione legati all’A3. Esistono stretti legami tra la criminalità organizzata e i politici locali. Recentemente il governo italiano ha addirittura ordinato lo scioglimento del Consiglio Comunale di Reggio Calabria per contiguità con la mafia e ha commissariato l’amministrazione comunale. Secondo il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, tra l’altro, non si è indagato abbastanza sui rapporti che legherebbero appalti pubblici e malavita. Solo lunedì sono stati arrestati 3 dei 51 membri della giunta regionale calabrese con l‘accusa di concorso in associazione mafiosa.

Mancanza di responsabilità.

Per molti aspetti la Calabria spiega la mancanza di responsabilità all’interno dell’EU. La commissione europea, diversamente dal Fondo Monetario Internazionale, non sarebbe in grado di stabilire le condizioni per l’assegnazione di crediti, dice Massimo Florin, docente di economia presso l’università di Milano. Inoltre mancherebbe il potere di un’autorità di controllo che sorvegli le uscite. In Calabria, questa situazione è stata un chiaro invito alla corruzione. In uno dei tanti processi legati all’A3, gli accusatori hanno spiegato che non meno di una dozzina di cosche della ‘Ndrangheta ha elaborato “un accordo di pace” per spartirsi lavoro e tangenti.

La regola del 3 %

In un altro processo, in cui sono state condannate 22 persone per concorso in associazione mafiosa e per altri reati, gli accusatori, esaminando uno dei sei più grandi cantieri dell’autostrada, hanno trovato ampie prove della cosiddetta “regola del 3 %“. Ciò vuol dire che i subappaltatori chiedono allo stato un 3 % in più che poi finisce nelle tasche delle cosche. E’ stato addirittura  documentato come le famiglie mafiose decidano gli appalti e stabiliscano chi deve essere assunto – spesso si tratta di amici e parenti. Nel corso degli anni sono stati assunti circa 6000 lavoratori da centinaia di subappaltatori.

Il sud è una terra di lavori mai terminati, poiché un lavoro finito non frutta più”, dice Aldo Varano, giornalista e autore di diversi libri sulla Calabria.

Il problema sta nel sistema politico.

Ma il problema va oltre la corruzione. E’ insito nel cuore del sistema politico di molti paesi dell’Europa del sud, nella tradizione che prevede che i politici offrano lavori statali ai cittadini in cambio di voti. “Il sud un tempo era un serbatoio di manodopera che negli anni ’70 ha subito un cambiamento diventando un gigantesco bacino di consensi elettorali“, dice Varano. Si riferisce ai voti della Calabria che hanno aiutato tutti i governi degli ultimi 25 anni a restare al potere. Per assicurarsi questi voti, i governi hanno dovuto sborsare soldi, “non per investimenti e sviluppo, ma in modo clientelare.“

Ormai senza fiducia.

Secondo la società italiana autostrade, nei lavori dell’ A3 sono stati sempre impiegati circa un migliaio di lavoratori, ma negli ultimi tempi, percorrendo l’autostrada, si intravedeva a fatica una manciata di operai. Pochi sono i calabresi che nutrono ancora fiducia nel loro governo e che credono che l’A3 sarà un giorno completata. Eppure non è tutto così desolante. Oggi 270 chilometri dei 500 totali sono stati risanati e circa 400 chilometri sono percorribili. Gli ultimi 120 chilometri, dicono le autorità, dovrebbero essere terminati entro la fine del 2013. A Roma Fabrizio Barca, ministro per la coesione territoriale, afferma che per lungo tempo sono stati stanziati pochi fondi per il sud. “In Calabria la situazione è particolarmente problematica”. Alla domanda se lì abbia alleati politici, cambia espressione e conclude così: “Diciamo che il rinnovamento del sud non partirà dalla Calabria”.

ENTI, LO SPRECO INTERNAZIONALE.

Enti, lo spreco è internazionale, scrive Carmine Gazzanni su “L’Espresso”. Dovrebbero svolgere attività di studio, ricerca e formazione nel campo della politica estera e dei rapporti commerciali e culturali con il resto del mondo. Più spesso servono solo ad assicurare poltrone e prebende a politici vari. Quasi sempre gli stessi che dovrebbero vigilare sul loro operato. Cosa diremmo se dirigenti di un ministero che deve vigilare su un dato ente sedessero anche nel comitato direttivo dell'ente vigilato stesso? E cosa, ancora, se in tante di queste associazioni finanziate con soldi pubblici ritrovassimo diversi parlamentari, di destra e di sinistra, oltreché esponenti di governo? Domande, queste, che sorgono spontanee se si vanno a spulciare i direttivi dei cosiddetti "enti internazionalistici", enti "sottoposti alla vigilanza del ministero degli Affari Esteri" e che, come recita la legge del 28 dicembre 1982, "sono ammessi al contributo annuale ordinario dello Stato" per aver svolto "attività di studio, di ricerca e di formazione nel campo della politica estera o di promozione e sviluppo dei rapporti internazionali". Stando all'atto del governo sottoposto a parere parlamentare e presentato il 16 luglio, infatti, il finanziamento disposto quest'anno per tali associazioni ammonta a 1 milione 438 mila euro, in lieve aumento peraltro rispetto all'anno scorso quando ci si fermava a 1,3 milioni. A godere del fondo saranno ben quindici enti che, secondo la tabella illustrativa presentata alle Commissioni, godranno di 536 mila euro di "contributi ordinari", più 247.150 euro di "contributi straordinari" per "singole iniziative di particolare interesse o per l'esecuzione di programmi straordinari", per un totale di 783.150 euro. A questa somma, poi, si aggiungono ulteriori due contributi: centomila euro per l'Unidroit, l'Istituto Internazionale per l'Unificazione del Diritto Privato che "promuove l'unificazione del diritto privato degli Stati ad esso aderenti"; e 555 mila per la Società Dante Alighieri, "ente morale" che "ha lo scopo di tutelare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo". Nobili iniziative, sembrerebbe. Non c'è che dire. Eppure qualche dubbio sorge spontaneo se si vanno a spulciare i comitati direttivi degli enti beneficiari. Sebbene infatti la partecipazione alla maggior parte degli enti sia a titolo gratuito o siano previsti solo gettoni di presenza o rimborsi spese (almeno per i membri del direttivo, non per gli incarichi dirigenziali per i quali è previsto un vero e proprio stipendio), a sedere nei consigli non ritroviamo soltanto ambasciatori, giuristi, accademici e diplomatici, ma anche (e soprattutto) una sfilza di dirigenti ministeriali. Prendiamo l'Iai (Istituto Affari Internazionali) per il quale sono stati disposti 103 mila euro. Nel direttivo, tra gli altri, spuntano Emma Bonino e Fabrizio Saccomanni, gli stessi ministri che, in concerto, hanno disposto gli stanziamenti. Un strano caso di "controllato e controllore"? Sembrerebbe proprio di sì. Ma non è questo l'unico caso. Il viceministro degli Esteri Marta Dassù è membro del direttivo non solo dell'Iai, ma anche del comitato strategico dell'Ipalmo (a cui andranno 54 mila euro) e direttrice di Aspenia, la rivista dell'Aspen Institute, altro ente beneficiato con 20 mila euro. E ancora: il segretario generale della Farnesina Michele Valensise compare, oltre che nel direttivo dell'Iai, anche in quello della Sioi (Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale, che beneficerà di 103 mila euro), insieme peraltro al suo vice, Sebastiano Cardi, e a Giampiero Massolo, capo del Dis, il Dipartimento informazioni per la sicurezza (l'organo di coordinamento dell'intelligence italiana interna ed esterna), il quale siede, anche lui, nel direttivo dell'Iai. Non solo dirigenti. Anche i politici sembrerebbero essere spasmodicamente interessati a svolgere attività all'estero. E, peraltro, in perfetta logica bipartisan. Nell'Iai, ad esempio, ritroviamo gli ex parlamentari Pdl Margherita Boniver e Alfredo Mantica, il finiano Adolfo Urso e il democratico Piero Fassino, il quale, peraltro, siede anche nel Cespi (Centro Studi Politica Internazionale) - ente diretto dall'ex senatore comunista Silvano Andriani e a cui andranno 40 mila euro - insieme ad altri suoi compagni di partito: Livia Turco, Gianni Pittella, il consigliere regionale romagnolo Luciano Vecchi, l'ex onorevole Umberto Ranieri, il senatore Paolo Guerrieri e l'ex sottosegretario agli Esteri nel secondo governo Prodi Donato Di Santo. Non mancano, poi, uomini di governo: nel comitato, infatti, siedono anche l'altro viceministro di Emma Bonino, Lapo Pistelli, il ministro dell'Integrazione Cécile Kyenge e lo stesso Presidente del Consiglio Enrico Letta. C'è da stupirsi? Probabilmente no. Che negli organi direttivi abbondino uomini di governo, in effetti, non è una novità. Nella Sioi, ad esempio, troviamo ben tre ex ministri: nel direttivo siede Giulio Terzi di Sant'Agata, Giovanni Conso è vicepresidente e Franco Frattini presidente (il quale, stando alla relazione della Corte dei Conti dell'11 giugno 2012, viene "coccolato" con un'indennità annua di 40 mila euro). Gli intrecci, però, non finiscono qui. Il già citato sindaco di Torino, infatti, oltre che nell'Iai e nel Cespi, compare anche nell'Ipalmo (54 mila euro) in qualità di vicepresidente, insieme a Dario Rivolta, ex parlamentare di Forza Italia, e all'ex viceministro Michel Martone (a cui si aggiungono anche volti storici della politica italiana come il democristiano Gilberto Bonalumi e il socialista Giuseppe Scanni). Sullo scranno più alto, invece, siede un altro ex ministro, Gianni De Michelis, il cui nome però spicca anche tra i presidenti onorari dell'Aspen Institute insieme a quelli di Giuliano Amato (il quale è anche presidente del Centro Studi Americani, ente a cui andranno 11 mila euro), Cesare Romiti e Carlo Scognamiglio (che compare anche nell'Iai e nel Cespi). Altro particolare: a capo dell'Aspen ecco un altro big, Giulio Tremonti. E nel direttivo tanti uomini di calibro della politica italiana: da Romano Prodi a Mario Monti, passando per gli ex ministri Lorenzo Ornaghi e l'onnipresente Franco Frattini. Il quale, peraltro, è presidente anche della Fondazione De Gasperi che fino all'anno scorso rientrava tra gli enti beneficiati. Infine la Società Dante Alighieri, presieduta dall'ex segretario generale del ministero degli Esteri (e membro anche del direttivo della SIOI) Bruno Bottai, a cui andranno 555 mila euro. Tra i vicepresidenti troviamo due ex sottosegretari alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Paolo Peluffo e Gianni Letta, nome quest'ultimo che compare anche nel direttivo dell'Aspen. E tra i consiglieri della Alighieri, ancora una volta, Giampiero Massolo. Convegni, studi, seminari, master e corsi di formazione: queste le principali iniziative degli enti. Basti, d'altronde, sfogliare l'ultima relazione relativa al 2011 e presentata lo scorso ottobre sulle attività svolte dalle associazioni per rendersene conto: nel corso dell'anno, si legge, "gli enti hanno privilegiato nelle loro attività di analisi e ricerca temi che approfondiscono molte delle questioni di maggiore attualità nello scenario internazionale, cercando di assicurare un'adeguata copertura dei principali teatri geopolitici, dalla dimensione comunitaria alle vecchie e nuove aree di crisi internazionali, senza trascurare tematiche di respiro globale". Eppure non in tutti i casi le tematiche affrontate sembrerebbero rispecchiare soltanto un forte interessamento per la politica internazionale. Nel corso del 2011, ad esempio, uno degli enti beneficiari, Magna Carta, il cui presidente è l'attuale ministro Gaetano Quagliariello, ha organizzato eventi e convegni che di "internazionalistico" hanno poco o nulla come, ad esempio, quello tenuto il 29 luglio dal titolo "I giovani, la politica e il futuro del centrodestra". Relatori: Gaetano Quagliariello stesso e Giorgia Meloni. O "I conti a destra si fanno con le idee". Relatori: ancora Quaglieriello e Adolfo Urso. Stesso dicasi per alcune pubblicazioni, a firma sempre del presidente della fondazione, come "Il centrodestra e l'unità nazionale". Insomma, dove si portino avanti "attività di studio, di ricerca e di formazione nel campo della politica estera" e dove, invece, si faccia propaganda, appare molto difficile da discernere. Ma non sono questi gli unici esempi che lasciano più di un dubbio. E' il caso, ad esempio, della tavola rotonda promossa dal Cespi di De Michelis dal titolo "La politica italiana per il Mediterraneo: da Craxi a Berlusconi". O come quella promossa dalla Fondazione per la Sussidiarietà del ciellino Giorgio Vittadini che, si legge sempre nella relazione, annovera tra i convegni e i seminari "la presenza al XXXII Meeting di Rimini". A sentire le associazioni, però, i finanziamenti per l'anno corrente, nonostante il lieve aumento, appaiono estremamente esigui. Basti pensare che per i soli enti internazionalistici sottoposti a vigilanza, nel 2005 il fondo superava 1,4 milioni di euro. Il doppio di quanto disposto oggi, in pratica. Basti pensare che, sempre secondo l'ultima relazione disponibile, "l'incidenza media del contributo (ordinario, ndr) è pari a circa il 5,45%" delle entrate. Le associazioni, però, sono riuscite comunque ad attirare risorse aggiuntive da privati ma anche dagli enti locali che, peraltro, le foraggiano corposamente. Al Cespi nel 2011 sono andati dalle regioni ben 106 mila euro, al Cipmo oltre 40 mila euro. Non solo. Alcuni enti, oltre a godere del fondo previsto in quanto "enti internazionalistici", godono di ulteriori finanziamenti che la Farnesina concede in altre vesti: è il caso, ad esempio, dei già citati Cipmo (70 mila euro) e Cespi (30 mila). Non mancano, ovviamente, gli alti contributi dei privati di cui, peraltro, gli enti pullulano. Su tutti spicca l'Aspen: i 160 sostenitori hanno versato nel 2011 oltre 5,5 milioni di euro. Curioso il caso anche del Cespi: la sola Compagnia di San Paolo ha contribuito con 157 mila euro. Ecco, allora, che a conti fatti le entrate dei maggiori istituti sono piuttosto sostanziose: 1,5 milioni di euro per la Sioi e per l'Ipalmo; 2,6 per l'Iai; 3,4 per l'Ispi; addirittura oltre 7 milioni per l'Aspen. Nonostante questo, però, non tutti gli enti hanno i conti in attivo. Il Cespi, ad esempio, risulta in rosso per oltre 300 mila euro, il Cipmo per oltre 70 mila euro, la Sioi per 365 mila euro. L'Ipalmo, invece, presenta un debito di 175 mila euro nei confronti degli enti previdenziali. Gran parte del disavanzo, stando perlomeno ai consuntivi, sarebbe conseguenza delle altissimi spese per consulenze, collaborazioni esterne e spese per il personale. Prendiamo proprio la Sioi, unico ente ancora sottoposto al controllo della Corte dei Conti. Secondo l'ultima relazione dei magistrati contabili, il personale è costato ben 600 mila euro a cui si affiancano i 50 mila euro spesi in consulenze. L'Iai, addirittura, ha speso oltre 800 milioni in consulenze, molto di più rispetto ai 500 mila euro per il personale. E così anche il Cespi (575 mila contro 258).

MEGLIO LA CASTA REGIONALE DI QUELLA PARLAMENTARE?

Mi chiedo spesso se è giusto nascondere le verità che tutti dovrebbero conoscere e perchè la stampa si sia sempre scagliata contro la casta dei parlamentari omettendo realtà che invece dovrebbero essere esplicitate e che continuano a dissipare ingenti risorse economiche, scrive Lucio Marengo su “Radio Made in Italy”. Parlamentari, senatori e consiglieri regionali percepiscono emolumenti più o meno uguali, godono degli stessi benefit ma, mentre i nominati nelle Camere alte della politica devono essere presenti almeno 3/4 giorni alla settimana a Roma ( pagarsi da dormire, mangiare,spostarsi avere una segreteria sul territorio, con relative spese, i sigg. consiglieri regionali vivono praticamente a casa, ricevono anche loro la diaria e le spese di spostamento, e nel caso fossero liberi professionisti potrebbero tranquillamente a svolgere le loro professioni mentre i parlamentari non potrebbero. Salto altri dettagli e concludo questa prima parte con il precisare che i vitalizi dei consiglieri regionali sono di gran lunga superiori a quelli dei deputati. Un parlamentare o senatore, oggi rappresentano solo un numero ed un dito che vota a seconda delle indicazioni di chi ti ha consentito di essere nominato grazie a questo  ignobile porcellum che nessuno vorrebbe cambiare, mentre il Consiglio Regionale assegna nelle mani di un rappresentante politico eletto più poteri e più prebende. Qualche cosa va detta anche per i rimborsi ai gruppi consiliari per i quali l’armata regionale è stata frustata dalla Corte dei Conti per le allegre spese che si riferiscono a regalini, viaggi, esosi conti ai ristoranti, pieni di carburanti per le autovetture personali e per i super moderni telefonini e tablet “necessari”per svolgere l’importante ruolo di consigliere regionale della Puglia. Tutto il mondo è Paese, e quello che è  accaduto in altri consigli regionali si è puntualmente verificato nella nostra regione, fatta una sola eccezione per il movimento che fa capo a Rocco Palese, attualmente deputato nazionale. Chissà cosa ne pensa il moralista Vendola che continua ad ignorare quell’altra vergogna di una PET a noleggio montata su un tir all’interno del policlinico di Bari che costa alla comunità circa ottomila euro al giorno da ben sette anni, mentre l’oncologico è ancora in attesa  di averne una.

Spending review. la Corte costituzionale salva gli sprechi regionali. Il governo Monti aveva imposto di chiudere o accorpare società partecipate per tagliare del 20% gli oneri. Ma per la Consulta la norma è illegittima, scrive “Libero Quotidiano”. In fondo nel Paese in cui un governo ha l’ardore - e l’ardire - di battezzare del Fare un decreto, c’è sempre la speranza di fare a modo proprio. In fondo c’è sempre un magistrato, un Tar, una Consulta, pronta ad accogliere un ricorso. Che riporta tutto a zero. Anche quelle azioni della politica che muovono nella direzione indicata dai cittadini. E dal buonsenso, soprattutto in  tempi di  crisi. Stavolta è toccato, in modo particolare, alle Regioni evitare la mannaia  dei tagli. La  prossima chissà. E così la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma del decreto legge sulla spending review che prevedeva che Regioni, Province e Comuni sopprimessero o accorpassero enti, agenzie e organismi comunque denominati per contenere le spese. La via indicata era quella della privatizzazione o della loro dismissione. Invece tutto resta come prima. «Sopprime in modo indistinto tutti gli enti strumentali che svolgono funzioni fondamentali o conferite di Province e Comuni senza che questi siano sufficientemente individuati», si legge nella sentenza 236 della Consulta che ha giudicato fondati i rilievi avanzati dalle regioni Veneto, Lazio, Sardegna e Friuli Venezia Giulia. Secondo quel provvedimento Regioni, Province e Comuni dovevano sopprimere o accorpare o, in ogni caso, ridurre del 20% gli oneri finanziari di enti, agenzie e organismi comunque denominati e trascorsi i nove mesi dall’approvazione del decreto dovevano essere soppressi tutti gli enti a cui non fossero stati applicati i tagli. 

REGIONI, L'ALTRA CASTA.

Regioni, l'altra casta, scrive Mauro Munafò su “L’Espresso”. Stipendi sui 10 mila euro, nessun bisogno di pernottare fuori, parcheggi gratis in centro, palco riservato alla Scala, voli gratis a Roma e un iPad in regalo per tutti: un consigliere lombardo ci guida tra i privilegi suoi e dei suoi colleghi. Stipendio che sfiora i 10 mila euro al mese, e senza neppure la scomodità di doversi pagare un albergo a Roma. Calcolo delle presenze "elastico", parcheggi e biglietti gratis, iPad omaggio e persino un palco riservato a teatro. E' la vita dei consiglieri regionali, non molto diversa da quella dei deputati e dei senatori. Certo, in busta paga ci sono un paio di migliaia di euro in meno, ma con il fatto che si risparmia i pernottamenti nella capitale, il netto finisce per essere simile. A condurre L'Espresso tra i privilegi della "castina" delle Regioni è Gabriele Sola, consigliere della Lombardia per l'Italia dei Valori, da sempre impegnato sul fronte della riduzione dei costi della politica. E la Lombardia non è certo il consiglio più spendaccione (anzi, in rapporto agli abitanti è tra i più sobri), specie a confronto con casi disperati come la Sicilia. Proprio su proposta di Sola e del consigliere Cavalli (ex Idv, ora Sel) è stata di recente approvata una mozione per la riduzione dei privilegi dei politici del Pirellone. «Adesso c'è stato un leggero taglio a stipendi e benefit, ma comunque la retribuzione rimane su livelli importanti, tra gli 8.500 e i 9.500 euro al mese», spiega Sola mostrando la sua ultima busta paga. «Abbiamo inoltre tutta una serie di privilegi per il nostro ruolo». Partiamo quindi dallo stipendio, calcolato attraverso una serie di parametri non proprio intuitivi. I consiglieri hanno diritto a un'indennità e a una diaria collegata al numero di presenze in assemblea e in commissione: per ogni assenza, viene scalato un gettone di circa 140 euro. Ma è proprio sul calcolo di queste presenze che si generano le prime storture. «C'è un registro delle presenze compilato dai commessi, e il consigliere deve firmarlo presentandosi in aula entro 15 minuti dall'inizio della seduta», spiega Sola. «Il problema è che, una volta firmato, volendo si può anche lasciare l'aula». Lo stesso presidente Formigoni risulta uno dei beneficiari di questo sistema. «Quest'anno, essendo i 150 anni dell'Unità d'Italia, all'inizio delle sedute suona l'inno nazionale», dice Sola «E Formigoni lo vediamo quasi solo in questi minuti iniziali». Insomma, prende i soldi e scappa. Va però segnalato che in Lombardia, a differenza di altri casi, la partecipazione a un convegno non può essere avanzata come giustificazione per l'assenza in aula. «Non ci sono assenze giustificate, per malattia o per altro», dice Sola. «Solo le missioni istituzionali possono valere in questo senso, ma è difficile che un consigliere possa accedervi». Un'eccezione la fanno quelle che Sola chiama le "gite di gruppo", ovvero missioni istituzionali a cui sono invitati tutti i consiglieri e che si rivelano un'enorme spesa per il bilancio pubblico. Di recente la Regione Lombardia ha invitato assessori e consiglieri all'inaugurazione degli uffici a Bruxelles: una due giorni di viaggio che «di certo non era low cost», spiega Sola. Le proteste dei partiti di opposizione ha poi ridimensionato la "gita di classe", a cui hanno partecipato solo alcuni rappresentanti e non l'intero consiglio. Oltre all'indennità calcolata sulle presenze effettive, lo stipendio dei consiglieri prevede anche un rimborso variabile in base alla distanza degli uffici dalla propria residenza: in questo modo un consigliere di Sondrio riceve un compenso superiore a uno di Milano. L'importo di questo rimborso può arrivare fino a un massimo di circa 1.900 euro al mese. Su tutto il fronte trasporti comunque i consiglieri lombardi non possono lamentarsi. Innanzitutto hanno diritto a una tessera per l'auto che permette di accedere a tre privilegi non da poco nella città della Madunina: possibilità di parcheggiare in tutta Milano, diritto ad utilizzare le corsie riservate a taxi e autobus e accesso illimitato alla Ztl. Per chi alle ruote preferisce i binari, c'è invece la tessera de Le Nord, il servizio ferroviario locale compartecipato dalla Regione, che permette di andare su tutti i treni della società. Ma il capitolo viaggi si arricchisce anche della possibilità di volare gratis, con un tetto massimo di 11 voli l'anno calcolati sulla tratta Roma-Milano e «da giustificare per esigenze di servizio». Se si è invece alla ricerca delle famigerate auto blu, bisogna salire di un livello e andare all'Ufficio di Presidenza, i cui componenti percepiscono una cifra intorno ai 30 mila euro l'anno se rinunciano a questi veicoli. «In pratica a fine mandato», chiosa Sola «con tutti i soldi messi da parte possono aprirla loro una concessionaria di auto blu». I benefit si estendono anche ai gadget tecnologici. Appena entrati in carica ai consiglieri viene infatti chiesto se preferiscono un computer fisso in ufficio o uno portatile per svolgere il proprio lavoro, ed è inoltre possibile richiedere un cellulare regionale (pare vada molto di moda il BlackBerry), con delle tariffe agevolate fornite grazie a delle convenzioni stipulate con gli operatori. Con l'arrivo dei tablet è poi scattata la possibilità di ottenere gratuitamente un iPad. Tra le altre voci dei privilegi vale la pena segnalare la possibilità di accedere al teatro La Scala, visto che due palchi sono riservati proprio alla Regione e ai suoi rappresentanti: una domanda al capogruppo e la segreteria fornisce i biglietti, anche per un accompagnatore.

Regioni, i tagli sono un bluff. Passata la tornata elettorale, nei consigli e nelle giunte di tutta Italia sono ricominciatele spese folli. E così, in barba alle promesse fatte agli elettori, c'è chi si tiene il vitalizio, chi si aumenta l'indennità, chi va in viaggio a spese dello Stato e chi fa costruire grattacieli, Antonio Calitri su “L’Espresso”. Abbiamo scherzato. Devono aver pensato così tanti consiglieri e amministratori regionali che, dall'Emilia Romagna alla Sicilia, dal Piemonte alla Sardegna, appena superato lo scoglio delle elezioni politiche, sono tornati sui loro passi e stanno lavorando per riprendersi i privilegi tagliati soltanto pochi mesi fa. O per continuare gli sprechi. Partendo dall'ultimo caso, bisogna andare a Trieste, nella sede del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia dove Debora Serracchiani appena eletta aveva ottenuto il via libera da tutti i capigruppo per un consistente taglio della busta paga, da 10.291 a 6.300 euro lordi. Un risparmio che rischia di trasformarsi in un boomerang per l'immagine della neo governatrice e che farebbe addirittura festeggiare i consiglieri regionali. Sembrerebbe impossibile a fronte di un taglio così consistente ma c'è il trucco. Secondo quanto trapela dalla quinta commissione regionale (affari istituzionali e statutari) che sta preparando il testo, alla somma che già è stata sbandierata come un successo si aggiungerà un rimborso di 3500 - 3700 euro per coprire le spese di trasporto, abitazione e quant'altro di ogni consigliere. Una somma che, non solo farebbe raggiungere la cifra dell'attuale busta paga, ma la farebbe addirittura superare visto che sarebbe netta. Non solo. Questo rimborso sarebbe forfettario e quindi eviterebbe la rendicontazione delle spese, cosa che spunterebbe le armi anche alla magistratura che sui rimborsi dei gruppi regionali ha aperto inchieste in tutta la Penisola facendo emergere situazioni incresciose come i rimborsi degli slip, delle tinture per capelli o delle feste di comunione. A opporsi a questo finora sono stati soltanto i rappresentanti del M5S che oltre ai 2.500 euro che trattengono per loro sul percepito, si sono dati una soglia massima di 1.000 euro per i rimborsi ma solo dietro giustificativi. Restando nell'alveo dei consigli regionali, a Bologna, dove ha sede l'assemblea dell'Emilia Romagna, sembra di assistere a una partita di rugby, almeno a giudicare dal risultati di 30 a 21. Invece è la partita dei vitalizi tra i consiglieri che indossano la casacca della casta che hanno sconfitto di nove lunghezze quelli dell'anticasta. Lo scontro è scoppiato grazie a Matteo Richetti, pupillo di Matto Renzi, che con la legge regionale 17/2012 non solo aveva cancellato il vitalizio a partire dalla prossima legislatura, ma lo aveva anticipato alla legislatura in corso, seppur su base volontaria causa diritti acquisiti. A gennaio però, soltanto 17 dei 50 consiglieri avevano volontariamente rinunciato al vitalizio. Il resto aveva preso tempo per capire meglio, dando appuntamento alla finestra prevista dalla legge per metà luglio. Nel frattempo Richetti (che coerentemente ha rinunciato al suo vitalizio) è stato uno dei pilastri della campagna di Renzi per le primarie ed è approdato sotto in Parlamento. Intanto però, gli altri consiglieri che avevano promesso di rinunciare o almeno valutare l'ipotesi, soltanto 4 si sono aggiunti ai primi 17, tre del Pd e uno del Pdl. In 30 hanno deciso di tenersi stretto il vitalizio che così scatterà al raggiungimento del sessantesimo anno di età. Tra i gruppi il Pd è quello con più consiglieri rinunciatari, 12 più l'ex Richetti sugli attuali 24. Bassissima la percentuale del Pdl con appena due su 11, mentre alla LegaNord hanno detto addio al vitalizio tre dei quattro consiglieri regionali. Passando dalla penisola all'isola più grande, l'ultima partita che si sta giocando nell'assemblea regionale siciliana è quella in difesa della poltrona di consigliere, che qui si chiama deputato regionale e si difende dalla possibilità che arrivino più donne a palazzo del Normanni. Con l'elezione di Rosario Crocetta, un po' come poi è avvenuto in Parlamento, sono venuti fuori i limiti della legge elettorale regionale che non garantisce la governabilità quando ci sono più di due coalizioni in campo. La priorità è stata quella di modificare la legge in maniera che, se dovesse cadere la giunta, si possa andare alle elezioni con un nuovo testo. E lo stesso governatore, insieme a tanti "deputati", aveva sbandierato i punti anti-casta che doveva avere la nuova legge, a partire dall'abolizione del listino del presidente che ha permesso di fare entrare per conto dei partiti consiglieri non votati, come nel caso di Nicole Minetti in Lombardia.

«Stretta per i governatori con le mani bucate», titolava l'Ansa il 26 luglio del 2011, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Per il quarto governo di Silvio Berlusconi erano gli ultimi mesi di vita. Mentre la lettera della Banca centrale europea che chiedeva all'Italia un altro pesante giro di vite stava per partire da Francoforte, la commissione bicamerale sul federalismo preparava una sorprendente quanto inedita ghigliottina politica per chi avesse male amministrato le Regioni. Un decreto legislativo, frutto di un accordo fra i relatori Enrico La Loggia (Pdl) e Antonio Misiani (Pd) che prevedeva lo scioglimento immediato del consiglio regionale e la rimozione contestuale del governatore in caso di grave dissesto finanziario della sanità. Un dissesto nel quale, naturalmente, la Corte dei conti avesse accertato la responsabilità gestionale del presidente della giunta regionale. E la rimozione non avrebbe rappresentato che una parte della sanzione politica a carico del governatore. Forse addirittura la meno pesante. Perché il politico rimosso non avrebbe potuto candidarsi per dieci anni alla Regione, alla Provincia e al Comune, né tantomeno al Parlamento nazionale o europeo. Ma neppure aspirare, per un periodo così lungo, a un qualunque posticino di sottogoverno. Tutto questo valeva fino al 16 luglio scorso, quando la Consulta l'ha dichiarato costituzionalmente illegittimo. La sentenza, chilometrica, è stata pubblicata tre giorni dopo. L'ha originata un ricorso presentato da tutte le Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Valle d'Aosta e Trentino Alto-Adige), dalle Province autonome di Trento e Bolzano nonché dalle Regioni Calabria, Lazio, Umbria, Emilia Romagna e Campania. Obiettivo, demolire tanto quel decreto legislativo come pure la legge voluta dal governo di Mario Monti, uno degli ultimi provvedimenti approvati nella scorsa legislatura, anche per arginare scandali come quello dei fondi del consiglio regionale del Lazio. Il successo dell'offensiva, condotta al pari di quella che alla Consulta pochi giorni prima aveva salvato le Province anche da alcuni avvocati chiamati a far parte del comitato di saggi incaricato dal Parlamento di studiare le riforme costituzionali, non è stato certo schiacciante. Ma i segni sono stati comunque profondi, compresa una limatura ai poteri della Corte dei conti, che erano stati rafforzati sul finire del 2012 dal provvedimento del governo Monti. Oltre alla sanzione politica prevista per il governatore la Corte costituzionale ha fatto ad esempio saltare l'interdizione decennale da qualsiasi incarico in enti vigilati o partecipati da enti pubblici a carico dei direttori generali, dei direttori amministrativi e sanitari del servizio sanitario regionale, del dirigente dell'assessorato competente nonché dei revisori dei conti coinvolti nel dissesto finanziario della sanità. Per i revisori era prevista anche la comunicazione, da parte della Corte dei conti, all'ordine professionale di appartenenza. Allo stesso modo è saltata la «relazione di fine legislatura regionale». Ovvero, una specie di due diligence della situazione finanziaria della Regione, che il presidente uscente era tenuto a sottoporre all'esame di un «tavolo tecnico interistituzionale», organismo composto pariteticamente da esponenti ministeriali e regionali. La relazione avrebbe dovuto chiarire le eventuali carenze nella gestione, denunciando le spese incompatibili con i vincoli di bilancio e rendendo pubblici i rilievi della Corte dei conti. Gli stessi magistrati contabili avrebbero poi dovuto esprimere una valutazione sulla due diligence , che sarebbe stata resa nota con la pubblicazione sul sito della Regione. Bollata di incostituzionalità come la norma che consentiva alla Ragioneria di attivare «verifiche sulla regolarità della gestione amministrativo-contabile» anche nei confronti delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, nel caso di evidenti «situazioni di squilibrio finanziario», quali il «ripetuto utilizzo dell'anticipazione di tesoreria». Oppure anomalie «nella gestione dei servizi». O anche «l'aumento non giustificato delle spese in favore dei gruppi consiliari e degli organi istituzionali»: una previsione introdotta dal provvedimento anti Batman. Dulcis in fundo, la Consulta ha cancellato le sanzioni a carico delle Regioni autonome e delle Province di Trento e Bolzano per il mancato rispetto del patto di Stabilità interno. Cose come il divieto di assumere o di indebitarsi per investire, ma anche l'obbligo di tagliare almeno del 30 per cento le indennità del governatore e degli assessori. L'altro punto doveva essere la doppia preferenza per favorire l'accesso delle donne. In tempi rapidissimi per la politica siciliana, la I commissione regionale ha preparato e mandato in aula il testo per la discussione. Soltanto che i 15 componenti della commissione, tra i quali c'è una sola donna (Alice Anselmo) fatti due conti con al penuria di poltrone che ci sarà alle prossime regionali (quando l'assemblea verrà ridotta dagli attuali 90 posti a 70) hanno "dimenticato" il voto di genere. Per i 75 deputati regionali maschi (appena 15 sono state le donne elette lo scorso ottobre) è troppo rischioso dover perdere oltre i 20 posti previsti dallo statuto anche le poltrone che con la doppia preferenza avvantaggerebbero le donne. Passando dalle assemblee ai governatori, spunta il comportamento doppio di Roberto Cota nei confronti dell'archistar Massimiliano Fuksas. Appena eletto, il governatore aveva intrapreso una battaglia contro la parcella da 22 milioni di euro dell'architetto per la progettazione del grattacielo della regione, che diventerà l'edificio più alto d'Italia. E aveva fatto anche un esposto alla magistratura sulla questione. Adesso che sono finiti i lavori alle fondamenta e il grattacielo inizia a crescere in superficie però, il governatore ha mandato l'assessore Gilberto Pichetto a ricucire con Fuksas e a chiedergli una nuova consulenza per il grattacielo: la supervisione artistica. Insomma, da una parte gli contesta il pagamento della parcella, puntando almeno a una revisione, e dall'altra gliene propone una nuova. E che dire del governatore sardo Ugo Cappellacci che il 7 luglio è partito per un viaggio top secret in Argentina e Brasile. Viaggio istituzionale accompagnato da una delegazione della regione composta dall'assessore al Lavoro, Mariano Contu, dal consigliere Franco Meloni, dal direttore generale della presidenza della giunta Gabriella Massidda e dal consulente di giunta Franco Manca, senza che nessuno in Regione sapesse nulla. Dopo le proteste da parte di consiglieri e della stampa locale, soltanto il 12 luglio, una parte delle motivazioni sono state svelate con un comunicato della presidenza che recita: "il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, ha consegnato il simulacro della Madonna di Bonaria richiesto in dono dalla comunità di Buenos Aires, che l'ha scelta come patrona della polizia municipale della città". Insomma, se con Mario Monti a Palazzo Chigi e l'antipolitica di Beppe Grillo nelle piazze, si iniziava a vedere qualche segnale contro la casta, passato lo scoglio elettorale i giochi sono ripresi come e più di prima.

Casta, la cresta sui rimborsi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”.

Ai consiglieri regionali, oltre allo stipendio, viene dato un bel gruzzolo per gli spostamenti in auto fino al palazzo. Ovviamente non ai prezzi delle tabelle chilometriche Aci, per carità. Ma l'aspetto più incredibile è che i viaggi vengono remunerati anche se i politici poi non li fanno. Ecco come. Rimborsi per le spese di trasporto. Una piccola voce fra le varie indennità e la diaria che ogni consigliere regionale d'Italia percepisce mensilmente, ma una spesa che a guardarla bene non è poi così minuta. In Emilia Romagna negli scorsi giorni è scoppiato lo scandalo: non solo il rinvio a giudizio del consigliere Pdl Alberto Vecchi per aver falsificato la propria residenza così da aumentare i costi del tragitto per le sedute, ma anche i rimborsi chilometrici più alti d'Italia. Erano 0,81 centesimi a chilometro, il doppio della media delle tariffe Aci, fino a qualche giorno fa. Ora la giunta di Errani ha approvato una riduzione a 0,50 cents per le sole effettive presenze dei consiglieri. Ma com'è messo il resto d'Italia? Molto bene, per i consiglieri, un po' meno per i contribuenti. Un consiglio al neo commissario Bondi su dove, forse, si può andare a risparmiare. Per il rimborso delle spese di trasporto molte regioni assumono un numero di ingressi forfettario cui fare riferimento. In Lombardia, Toscana, Molise, Lazio e Basilicata i consiglieri vengono rimborsati per diciotto viaggi al mese. Il record lo detiene il Friuli Venezia Giulia, che presume i suoi consiglieri arrivino a palazzo almeno 21 volte. Peccato che dall'inizio dell'anno i giorni effettivi di lavoro del consiglio Trieste siano stati solo 40 (in tutto): meno della metà di quelli rimborsati. Lo stesso vale per le altre Regioni. Nel 2011 il consiglio regionale lombardo si è riunito in tutto l'anno 26 volte. Ci sono i lavori delle commissioni, è vero, 206 riunioni registrate, ma il più delle volte accorpate negli stessi giorni perché nelle regioni d'Italia, si sa, raramente si lavora il lunedì e il venerdì. Così i consiglieri lombardi si vedono comunque in busta paga un bel gruzzolo relativo a 212 presenze. A guadagnare di più in questo modo sono però i consiglieri della Basilicata, che ricevono 0,63 centesimi al chilometro per il doppio della distanza da casa. Assumendo che abiti a 50 chilometri dal capoluogo, un consigliere si trova così 13.600 euro l'anno di rimborso spese, una mancia di 1.134 euro al mese solo per muoversi in macchina. Solo sei regioni su ventuno si basano sulle tariffe aggiornate dall'Aci. In molti casi nelle leggi istitutive o nei decreti dell'ufficio di Presidenza viene indicato genericamente il valore relativo al costo di un litro di benzina. In quest'articolo abbiamo tenuto come riferimento la cifra di 1,897 euro al litro, media nazionale per Quotidiano Energia al 30 aprile 2012. In tutta Italia i prezzi così calcolati variano dagli 0,25 centesimi al km stabiliti dalla Regione Puglia agli 0,63 della Basilicata. In media i valori si aggirano fra 0,37 e 0,47 cents a chilometro. Sembrano briciole, ma bastano un paio di moltiplicazioni per ottenere dei rimborsi che assomigliano a veri e propri stipendi. Stando in Lombardia, si passa da un minimo di 295 a un massimo di 2.360 euro al mese per la distanza limite di 240 chilometri da Milano. In Calabria, ad esempio, i residenti nelle zone del Nord della regione vengono rimborsati per 300 chilometri: sono 120 euro in tasca al giorno. Bisogna poi stabilire qual è invece il tragitto minimo che bisogna esser costretti a compiere per aver diritto al rimborso: in Puglia sono 40 chilometri, nel Lazio 15, in Liguria si restituiscono le spese di traspoto anche a chi risiede nel capoluogo. I conti sono più semplici quando le regioni stabiliscono un forfait corrispondente alle varie distanze. Lo fa, abbiamo visto, il Friuli Venezia Giulia. Ma i numeri li dà sul serio la Sicilia: per le spese di trasporto ferroviario, aereo e marittimo prevede per i suoi deputati un rimborso "forfetario" di 10.095 euro l'anno. Non basta, perché naturalmente comanda il trasporto su gomma. Siamo così a 13.293 euro l'anno per chi percorre al massimo 100 km, 15.979 per chi li supera. Non si vorrà negare qualcosa anche a chi è residente a Palermo, nonostante la macchina forse la prenda ben poco: infatti, sono 6.646 euro all'anno. Cifre, in realtà, simili alle spese delle altre regioni, se non fosse per l'attenzione riservata ai deputati palermitani. Tutti questi conti, naturalmente, vengono fatti al netto dei conti di telepass, pedaggi e parcheggi: considerateli gratis per ogni consigliere in Toscana, Veneto, Liguria, Calabria e quasi tutte le altre. Anche se vanno fatte delle distinzioni. In Valle d'Aosta, ad esempio, i consiglieri non hanno diritto solo al pedaggio per arrivare in regione, ma anche il telepass gratuito su tutta l'A22, 7 giorni su 7. In Sardegna hanno invece abolito tutti i rimborsi spese. Niente più scontrini o ricevute. Ma i consiglieri che abitano a oltre 35 chilometri di distanza da Cagliari non dovranno comunque sudare in bicicletta: per partecipare al consiglio ricevono un'integrazione di 1.050 euro alla diaria mensile. Per chi era preoccupato, almeno una cosa è certa: Presidente e assessori con auto blu almeno il rimborso chilometrico hanno la decenza di non prenderlo.

GOZZOVIGLI ALLA REGIONE.

La Corte dei Conti «frusta» i politici alla Regione e boccia il 90 per cento dei bilanci dei gruppi consiliari, scrive Nicola Pepe su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Conti del bar, ristorante, biglietti della Fiera, spese astronomiche di telefonini e spese di rappresentanza ingiustificate. Per non parlare di pieni fatti contemporaneamente nello stesso giorno (di diesel e benzina) o di conti «salati» al ristorante pagati cash in barba alle regole sulla tracciabilità finanziaria. Pur se la Regione Puglia non può essere paragonata (per ora) al Lazio, alla Lombardia o alla Basilicata dove si sono abbattuti cicloni giudiziari sugli sprechi a carico di Pantalone, i giudici contabili pugliesi richiamano all'ordine i partiti politici dettando la linea sul rispetto di regole. Una decisione, quella pubblicata l'altro giorno dalla sezione di controllo dopo il «faro» acceso un mese fa con le richieste di chiarimenti, che passa in rassegna i rendiconti dei vari gruppi consiliari di via Capruzzi facendo emergere uno spaccato di «consuetudini» che la dicono lunga sulla gestione allegra dei contributi. Ad onor del vero, va detto che la Puglia è una delle regioni italiani che «regala» ai gruppi il minor numero di fino: fino all'anno scorso erano 750 mila euro, mentre da quest'anno - con le nuove regole - arriveranno a non più di 350 mila (5mila euro a poltrona) salvo poi ridursi quando si ridurrà il parlamentino.

La scure della Corte dei conti è stata un po' inaspettata per tutte le regioni italiane: occorre fare un passo indietro e arrivare alla legge 213 del 2012, varata dal governo Monti prima di Natale scorso) che ha previsto l'obbligo di rendicontazione da parte dei gruppi consiliari regionali sulle entrate e sulle spese rappresentate dall'utilizzo dei contributi pubblici, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Le spese per l’automobile del gruppo Pdl, quelli per i manifesti di Sel, ma anche - ad esempio - i biglietti aerei del Pd, e le consulenze stipulate da vari partiti. Nonostante qualche timore nei corridoi di via Capruzzi, quella avviata dalla Corte dei Conti sul Consiglio regionale della Puglia è una verifica di routine, in applicazione della nuova disciplina introdotta dal governo Monti dopo il caso-Lazio: da quest’anno in poi, infatti, i rendiconti dei gruppi politici saranno sempre sottoposti a controllo. Le richieste di chiarimento recapitate dai giudici contabili lunedì, tramite la Finanza, richiamano infatti le disposizioni della legge 2013/2012. Non ci sono, al momento, contestazioni di tipo penale, anche perché la Puglia è tra le Regioni con la minor spesa di funzionamento per i gruppi politici: 736mila euro totali nel 2012 (anno di riferimento della verifica), che scenderanno a 350mila nel 2013. I gruppi politici pugliesi non erogano rimborsi a piè di lista ai consiglieri, come avviene altrove: più che altro sostengono spese varie di funzionamento e propaganda politica. Ad esempio al Pd, che nel 2012 ha speso in totale 83.000 dei 133.000 euro assegnati (il resto è stato restituito alle casse del Consiglio), i giudici contabili chiedono lumi in merito all’acquisto di biglietti aerei per una trasferta a Roma: le spese per viaggi - rileva la Corte - vengono infatti sostenute direttamente dal Consiglio. La lettera più lunga è quella recapitata ai Moderati e Popolari, di cui all’epoca era capogruppo Antonio Buccoliero: sono 12 i punti evidenziati dalla Corte dei Conti, che chiede di specificare (ad esempio) quando e dove sono stati esposti i manifesti pagati con i soldi del gruppo, di giustificare alcuni acquisti di carburante e di consegnare le copie dei contratti di collaborazione con un commercialista e con l’addetto stampa. Quello delle consulenze è un oggetto di chiarimento per molti dei 10 gruppi oggetto del rilievo, perché non tutti hanno allegato documentazione idonea a valutare il merito della consulenza: anche se, in ogni caso, le cifre in gioco sono mediamente basse. Stesso discorso per le manifestazioni politiche e le spese di rappresentanza, per le quali le fatture di diversi gruppi appaiono generiche: la Corte dei Conti chiede dunque di giustificare le spese, così da poterne valutare la rilevanza rispetto alle attività politiche.

INVITO A CENA CON CARABINIERE.

Invito a cena con carabiniere, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Il 'vizietto' del generale dell'Arma Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 comandante della Regione Lazio. Organizzare cene di rappresentanza utilizzando mezzi e personale dell'Arma per trasportare i tavoli e servire i commensali. Come documentano le foto che siamo in grado di mostrarvi. La cena del 23 settembre 2008 cui partecipò anche Francesco Cossiga. Prima in divisa, con i gradi da brigadiere cuciti addosso. Poi, nelle foto successive, in giacca bianca e cravatta nera, intenti trasportare piatti, a stappare bottiglie, a mescere vino nei calici e a chinarsi per porgere con deferenza il vassoio dei salatini agli ospiti attovagliati al desco del loro Generale. Ospiti illustri, se è vero che tra di essi è possibile riconoscere il defunto Presidente Francesco Cossiga, il segretario generale della UIL Luigi Angeletti, Giancarlo Elia Valori, ex presidente della holding regionale Sviluppo Lazio e di Confindustria Lazio, famoso anche per essere stato l'unico iscritto alla P2 a subire l'espulsione dalla loggia massonica. Intorno a loro si muovono carabinieri tramutati in camerieri, ufficiali di polizia giudiziaria immortalati mentre servono ai tavoli di una cena organizzata nei locali della caserma "Giacomo Acqua" di Piazza del Popolo a Roma, sede del Comando Regionale del Lazio. Risalgono al 2008, ma conservano intatto l'effetto del classico pugno nello stomaco le istantanee che sgusciano fuori dal seno dell'Arma. La documentazione in fotogrammi di una pratica, quella di utilizzare militari professionali per scopi di rappresentanza e in mansioni estranee e "degradanti" rispetto alle loro reali funzioni, più volte aspramente stigmatizzata dalle rappresentanze di base delle Forze Armate e dai sindacati di polizia. Critiche e proteste che evidentemente non hanno fatto breccia nell'animo del Generale di Corpo d'Armata Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 il comandante della Regione Carabinieri Lazio. E' lui l'organizzatore della cena documentata nelle foto ottenute dal sito de "l'Espresso", risalente al 23 settembre 2008, con i due carabinieri (di stanza nella caserma di Piazza del Popolo) impegnati a servire ai tavoli negli ambienti dell'ex Circolo Ufficiali interno alla struttura, pallide comparse tra un brindisi e l'altro dei partecipanti alla cena. Tra cui si riconoscono anche i due figli dell'allora comandante regionale, il "padrone di casa". Oggi Favara, in pensione, fa il consigliere regionale del Lazio, eletto alle ultime elezioni nel listino del Presidente Nicola Zingaretti. Durante il suo comando il generale con il pallino della politica ha usufruito appieno dei locali della caserma "Giacomo Acqua", anche di quelli non destinati al suo alloggio di servizio: per esempio la terrazza panoramica con splendido affaccio su Piazza del Popolo, utilizzata la sera del 21 e quella del 25 luglio 2008 per ospitare cene con invitati di rispetto. Tavoli trasportati per l'occasione, bottiglie in ghiaccio e raffinate decorazioni floreali, sullo sfondo la magia di Roma: scampoli di una vita un po' meno spartana di quanto si è soliti immaginare in una caserma. Niente di particolarmente eclatante né di illecito. Tra le fila dell'Arma però, dove una parte dei militari semplici ha i nervi a fior di pelle per il blocco degli stipendi in vigore dal 2010 e i sacrifici quotidiani imposti dai tagli della spendig review, fa male constatare come in entrambe le occasioni, nuovamente, siano stati utilizzati due brigadieri nelle vesti di camerieri. Chi nei giorni scorsi ha ascoltato l'allarme preoccupato lanciato dal Comandante Generale dell'Arma Leonardo Gallitelli sui mezzi che rischiano di rimanere senza benzina, osserva con perplessità anche un altro particolare che emerge dalle foto fornite al sito de "l'Espresso": un Ducato militare utilizzato apposta per trasportare tavoli, poltrone e sedie in almeno tre occasioni, dalla cena con i comandanti provinciali del 7 luglio 2008 a quella del 13 settembre 2008 con autorità varie, passando per il pranzo del 26 aprile 2008 in occasione del battesimo del nipote di Favara. Tra i fondi previsti in base alla legge nel bilancio del ministero della Difesa, accanto a quelli per l'acquisto di riviste, per conferenze, cerimonie, convegni, raduni, congressi, mostre, figurano anche quelli destinati a finanziare le spese per scopi di rappresentanza, da intaccare in occasione di cerimonie ed eventi istituzionali. Nulla, peraltro, autorizza ad escludere che il generale Favara - nell'invitare a cena i suoi ospiti in caserma - abbia utilizzato soldi propri. In entrambe le ipotesi - si chiede però con amarezza una fonte dall'interno dell'Arma - non si capisce a quale titolo il servizio ai tavoli, come anche il ricevimento e l'accompagnamento degli ospiti all'ascensore e il compito di addetti al guardaroba, siano stati svolti da appuntati, marescialli e brigadieri interni alla "Giacomo Acqua", impiegati in attività non affini a quelle istituzionalmente esercitate. Da anni ormai, e certamente già all'epoca delle cene in questione, i servizi di mensa all'interno delle caserme sono svolti da ditte civili che li ricevono in appalto. Mentre tra i compiti dei carabinieri addetti al "minuto mantenimento" nelle sole strutture appartenenti al Ramo Difesa possono rientrare - in base ai regolamenti - esclusivamente piccoli lavori di ordinaria manutenzione, come quelli di falegnameria. Nel luglio del 2012 persino la domanda del consiglio di rappresentanza di base della legione Friuli Venezia Giulia per la costituzione anche a livello provinciale di un'aliquota di personale "a doppio incarico" da impiegare - dopo corsi di formazione - nella manutenzione delle caserme è stata respinta dall'ufficio personale: "l'attribuzione di un secondo incarico distrarrebbe indubbiamente il personale", è stata la motivazione. Anche se nel 2008 la spending review non aveva ancora infierito su stipendi e organici, c'è da immaginare che la stessa intransigenza sarebbe stata usata dall'Arma di fronte alla richiesta di usare degli ufficiali di polizia giudiziaria (come quelli immortalati nelle foto) per il servizio ai tavoli. Eppure non è la prima volta che il tema dell'impiego di personale per compiti non attinenti al servizio nell'ambito delle Forze Armate balza all'onore delle cronache. Nell'ottobre dello scorso anno ha suscitato scalpore - non solo tra i militari - la pubblicazione di una "comunicazione di servizio permanente" del comandante in seconda della nave da guerra "Francesco Mimbelli". Un elenco dettagliato delle disposizioni per l'accoglienza del Comandante in Capo della Squadra Navale, l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, in occasione della sua visita a bordo avvenuta l'8 settembre 2012. A colpire l'attenzione, in quell'occasione, fu soprattutto l'ordine impartito all'Ufficiale in Comando d'Ispezione: accertarsi ogni mattina della "effettiva presenza in quadrato Ufficiali di una idonea bottiglia di spumante/champagne tenuta in fresco in riposto Ufficiali, nonchè biscotti al burro e mandorle da tostare al momento a cura del cuoco di servizio". "Il Capo Reparto Logistico, avvalendosi del Capo Gamella dovrà accertarsi che sia prontamente reperibile dal personale addetto al quadrato Ufficiali il materiale di consumo sopra indicato", continuava la circolare. Suggellata da un'ultima perentoria intimazione, che ha fatto infuriare più di ogni altra cosa le rappresentanze di base. "Alla chiamata 'Il Comandante in Capo della Squadra Navale a Bordo-Alza Insegna' il personale addetto al Quadrato Ufficiali o l'addetto ai Quadrati Unificati (durante il fine settimana/giornate festive) dovrà essere in tenuta di rappresentanza pronto a servire mandorle tostate e spumante/champagne". Parole che sono la radiografia dall'interno di un mondo ancora in parte legato a privilegi e rituali scavalcati dal presente, trattato con guanti di velluto dagli ultimi governi. Nessuna norma di riduzione della spesa è intervenuta finora per eliminare - per esempio - la SIP, speciale indennità pensionabile che spetta ai Vice Comandanti Generali dei carabinieri e della guardia di finanza. Negli ultimi 15 anni ben 22 generali di corpo d'armata dei carabinieri (tra loro anche Clemente Gasparri, fratello di Maurizio) si sono avvicendati nel ruolo di Vice Comandanti, restando in carica per periodi brevissimi (anche meno di un mese) sufficienti a maturare il diritto a una pensione da 14.000 euro, somma dei 6.000 euro di stipendio (oltre a varie indennità) più un maxi incremento di 8.000 euro che non trova riscontro nei contributi versati. Ai piedi della piramide, invece, le cose sono andate diversamente. Con le retribuzioni e gli aumenti legati alle promozioni congelati dal 2010 e fino al 2014 - come in tutto il comparto pubblico - i carabinieri semplici (stipendio da 1.300 euro al mese, spesso prosciugato da un affitto da pagare nel luogo di servizio) ingoiano rabbia e frustrazione ormai da troppo tempo. E iniziano a valutare con insofferenza crescente la forbice che separa il vertice dalla base.

DA UN GENERALE AD UN ALTRO. DA FAVARA A SPECIALE.

E che dire di un altro Generale.

Mogli e amici a bordo di un aereo del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle Dolomiti. Gite in montagna e pesce fresco in baita così Speciale usava l'Atr della Finanza, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Roberto Speciale con coppola e montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice Vincenzo Visco. Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la benzina nelle sue macchine. Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la 55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42 turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi compiaciuta della regia. Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe. La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un affettuoso bacio. Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola, giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio. Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il lavoro agiografico del cine-operatore. Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare. Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va con gli ospiti. Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque, dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42 con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del prezioso carico in montagna. Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al pilota. E la storia smette di essere un segreto.

Spigole con l'aereo di Stato Conto da 200mila euro per l'ex generale Speciale. Nel 2005 l'ex ufficiale si era fatto spedire il pesce in Trentino con un Atr-42 dalla base di Pratica di mare. Oggi la Corte dei conti lo ha condannato a pagare, scrive “Libero Quotidiano”. Costerà bello caro, il banchetto a base di pesce che il generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale si fece spedire  in Trentino con un Atr-42 militare. Il caso passò alle cronache come quello delle "spigiole col volo di Stato" e risale all'estate 2005. Nell'agosto di quell'anno, il generale si trovava a Predazzo in vacanza coi famigliari. E per allietare i suoi ospiti fece decollare appositamente dalla base di Pratica di Mare un aereo carico di spigole e altro pesce. Aereo adibito, normalmente alla sorveglianza delle coste per contrastare reati come il contrabbando o l'immigrazione clandestina. La vicenda venne denunciata due anni più tardi da Repubblica e sul piano penale (reati di abuso d'ufficio e peculato) si è conclusa con la prescrizione. Ma il danno patrimoniale, quello non si è prescritto e così a otto anni da quella storia la Corte dei Conti ha imposto all'ex ufficiale delle Fiamme Gialle il pagamento di un "conto" da 200mila euro  in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze: circa 30mila euro per il consumo del carburante dell’aereo, altri 7mila euro per le spese del personale impegnato nell’organizzazione di quel viaggio; ben 170mila euro a titolo di risarcimento del danno di immagine. Gabriella Bottone, 67 anni, un passato alla Gucci e moglie di un militare Ha fatto causa all'ex comandante generale della Guardia di Finanza.

"Speciale pretendeva orologi e argenteria per anni ho pagato, ora rivoglio tutto", scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Sostiene la signora Gabriella che le spigole di Passo Rolle non sono state un inciampo. Perché "Roberto Speciale è sempre stato ossessionato dalla roba. Dall'idea del potere come privilegio". Gabriella Bottone è una donna di 67 anni dai modi e il portamento eleganti. Nipote di una medaglia d'oro, moglie del generale della riserva Gualberto Peri. Per oltre dieci anni, Gabriella e Gualberto sono stati amici di Roberto Speciale e della moglie Maria Antonietta. Ne hanno frequentato la casa, le feste, le cene. Fino a quando non si sono sentiti "traditi". Gabriella, a metà anni '90, era stata testimone chiave di importanti inchieste condotte dalla Procura militare di Roma su episodi di malversazione nell'Esercito. Una scelta - racconta - che avrebbe pagato con "minacce", "aggressioni" e quasi due anni di vita sotto scorta. Con "l'umiliazione" inflitta al marito di un congedo "senza avanzamento di grado, come pure avrebbe avuto diritto". Roberto Speciale, allora, era sottocapo di Stato Maggiore. "Dopo averci usato per una vita, ci abbandonò. Ora, non mi voglio vendicare, ma far sapere a chi è stato affidato per anni prima il grado di sotto capo di stato maggiore e poi di comandante generale della Guardia di Finanza".

Come ha conosciuto Speciale?

"A metà anni '80 lavoravo alle pubbliche relazioni della 'Gucci'. Avevo rapporti istituzionali con lo Stato Maggiore dell'Esercito cui facevo applicare sconti del 50 per cento sulla merce acquistata per occasioni di rappresentanza. Speciale era tenente colonnello. Mi avvicinò e mi disse che aveva bisogno di foulard. Cominciammo a frequentarci. E dai foulard si è passato ad altro".

Cosa vuole dire?

La signora Gabriella estrae da una ventiquattro ore una lista dattiloscritta con tanto di protocollo e bolli di deposito giudiziari. Si legge: "Bicchieri da acqua e da vino in argento marca "Brandimarte"; bicchieri da liquore in argento (6) "Brandimarte"; vassoio grande in argento martellato con frutta ai lati "Brandimarte"; vassoio rotondo in argento con bordo di rose e nomi incisi "Brandimarte"; cornice in argento con specchio "Brandimarte"; oliera in argento e cristallo "Brandimarte"; caraffa da un litro in argento "Brandimarte"; cestino da pane tipo paglia in argento "Brandimarte"; litro in argento "Brandimarte"; orologi di varie marche, di cui due in oro, uno per Roberto Speciale, uno per il figlio; collana in oro con croce; collana di perle per la moglie; anello in oro con tre pietre per la figlia; antico porta vaso cinese; vestiti, scarpe, slips; piatti da parete 'Versace'".

E questa lista cosa sarebbe?

"E' l'inventario di merce che, nel tempo, il generale Speciale ha ricevuto dalla sottoscritta e per la quale la sottoscritta ha pagato dal primo all'ultimo soldo. Lui chiedeva e noi, per evitare ripercussioni negative, lo accontentavamo. Sono arrivata al punto di acquistare un paio di mocassini che aveva chiesto e di doverli cambiare perché, dopo averli provati in ufficio, li sentiva un po' stretti. Voleva gli si comprassero persino le mutande. Non le dico poi mio marito, un ufficiale che ha servito in Albania e Somalia. All'epoca, lavorava al comando "Ftase" (Forze Alleate terrestri Sud-Europa) di Verona. Lo spaccio era duty-free. E allora giù a chiedere scatole di antichi toscani e stecche di sigarette. E bottiglie di whisky. Ordinava direttamente lui e poi si occupavano del resto la sua segretaria di allora, Concetta Giuliano, o il suo segretario, il maresciallo Romani. Entrambi, a quel che mi risulta, sistemati al Sismi una volta assunto il comando della Finanza. Si occupavano anche dei biglietti per la tribuna di onore della Juve dove spesso andava il figlio del generale, Massimo. All'epoca sottotenente a Torino e poi finito al Sismi".

Lei dice che non erano regali. Ma forse il generale li riteneva tali.

"Questo lo deciderà il tribunale civile di Roma dove pende una mia causa contro Speciale per ottenere indietro parte di questa merce. Vedremo. Ma il motivo per cui le mostro la lista è per dimostrarle che Roberto è ossessionato dalla roba. E dal cibo. Il pesce a Passo Rolle mi ha fatto ripensare a cosa arrivava dalla Sicilia nella sua villa alle porte di Roma".

Cosa?

"Pesce, aragoste, frutti di mare. Spiedini di carne siciliani. Montagne di marzapane. Era cibo buonissimo. E quando andavo via, spesso, mi dava anche la "mappatella", come direbbero a Napoli, con i fruttini di marzapane, che mi piacevano moltissimo".

Magari erano regali anche quelli. Oppure merce regolarmente spedita da altrettanto regolari fornitori.

"Io non ho controllato se avessero una bolla di accompagno. Ma, per dire il tipo, so per certo, ad esempio, cosa accadde un giorno in cui mio marito fu convocato in gran fretta alla Difesa. Speciale gli mise in mano un bustone in cui c'erano due leoni d'argento alti una settantina di centimetri, simbolo della brigata "Aosta" di Messina, che lui aveva comandato per un anno. Speciale disse: "Fateci qualcosa. Se potete "scioglierli" da Brandimarte per farne dei sottopiatti...". Ero fuori di me. Presi quei due leoni e li feci depositare al monte dei Pegni. Forse sono ancora lì".

ITALIANI IGNAVI.

Perché l'Italia non va in piazza, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. In tutto il mondo milioni di persone protestano per i propri diritti e contro la corruzione: da Rio de Janeiro a Istanbul, dal Cairo a Sofia. Ma nel nostro Paese, nonostante le ragioni non manchino, non succede nulla. Volti, scritte, colori. Bocche aperte per le urla o chiuse, serrate, per evitare i gas. Braccia in alto in segno di pace, braccia in basso, sulla nuca, per difendersi dai calci e dalle manganellate. Dita che puntano il cielo, dita che puntano gli scudi dei poliziotti. Occhi, scuri, azzurri, verdi. Nerissimi. Teste rasate, totalmente, parzialmente, orecchini, tatuaggi, cravatte. Giacche, magliette, torsi nudi. Seni nudi o corpi totalmente coperti. Gonne e pantaloni. Lacrimogeni, getti d'acqua. Bolle sulla pelle, escoriazioni. Lacrime. Risate. Danze e rabbia. Corpi immobili o fermati in movimento. E poi un viso che spunta ovunque, dall'America all'India. La maschera di Guy Fawkes indossata in V per Vendetta, il simbolo sorridente della rivolta al potere, sorpreso nel suo aspetto più dispotico e descritto nell'urgenza vitale di sovvertirlo. Milioni di persone stanno ribellandosi tornando a occupare strade e piazze. Dall'India al Cile, dall'Egitto al Brasile, alla Bulgaria. Milioni di persone manifestano mettendo in gioco la loro stessa vita. Milioni di persone chiedono, vogliono, pretendono una vita diversa. Le piazze di Rio, di Istanbul, di Sofia, sono piazze in rivolta. Una rivolta non conclusa in un preciso programma di riscatto, assai meno decodificabile delle istanze degli Anni Settanta. E' questa la reale novità sancita definitivamente con Occupy Wall Street. Per tutti gli anni '80 e '90 era sembrato che ogni focolaio di rivolta, manifestazione, occupazione, dovesse utilizzare sintassi e grammatiche degli anni '60 e '70. Una musealizzazione di quegli anni e di quei concetti. Una sorta di riproposizione con partiture ed esecuzioni diverse degli spartiti scritti in quegli anni. La singolarità di queste piazze è che non hanno un unico vettore, nella maggior parte dei casi non hanno leader e non hanno partiti di riferimento. Qualcuno continua a vederci le istanze della classe operaia pronta all'assalto al cielo. Altri vedono solo giovani, giovani che cercano spazi. Gezi park per la Turchia e i mondiali per il Brasile sono fatti contingenti e aggreganti: queste piazze in rivolta non sono la talpa che scava ed emerge quando le contraddizioni maturano per costruire la fine del capitale. Queste piazze costruiscono qualcosa di diverso rispetto alle rivolte degli anni Settanta perché aggregano diversi mondi, diversi modi di sentire, diverse generazioni e, soprattutto, intendono codificare e forgiare diritti. Le manifestazioni in India contro le violenze sulle donne; quelle degli studenti in Cile che dal 2006 chiedono un'educazione gratuita, pubblica, laica e accessibile a tutti e una Costituzione nuova, senza l'ombra di Pinochet; quelle in Bulgaria contro la corruzione, che ha preso di mira il governo neo-eletto, contestando la nomina di una figura vicina ad ambienti criminali al vertice dei servizi segreti, tutte, hanno un denominatore comune: costruire diritti e combattere la corruzione. Non possono esserci diritti se c'è corruzione. Ogni diritto conquistato con il sangue o con il consenso, scritto nelle carte costituenti o nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo è immediatamente annullato e reso solo formale dalla corruzione. Un diritto può esser lì, chiaro, apparentemente pronto, utile ai governi per definirsi democrazie, ma è svuotato e castrato dalla corruzione. Queste piazze, infuocatesi per motivi e in contesti diversi, coltivano la stessa certezza. Un capitalismo criminale e una democrazia corrotta sono la distruzione di ogni diritto di fatto. Di ogni possibile realizzazione della felicità. Nelle foto che ci arrivano dal Brasile, dal Cile, dalla Turchia, dalla Bulgaria, dall'Egitto e dall'India è difficile trovare bandiere dello stesso colore. Spesso non ci sono affatto bandiere, ma striscioni colorati, striscioni sui cui è scritto quel che manca alla società perché sia rispettato chi ne fa parte, chi paga le tasse e non si sente compreso, rappresentato e ascoltato dalla politica. La politica è disprezzata in queste rivolte a ogni meridiano, perché divenuta scorciatoia per migliorare le vite di chi ha saputo farsi eleggere o magazzino che stipa interessi aziendali.  Non ci sono bandiere non perché si è dinanzi a orde di ignavi che corrono anonimi dietro a stracci amorfi. No. Non ci sono bandiere perché queste proteste hanno letteralmente cambiato la logica dello scendere in piazza. Quello che i manifestanti vogliono non è solo un mondo definito, chiaro, che conoscono o che qualcuno ha loro figurato. Non è un unico mondo che hanno disegnato e vogliono realizzare, non c'è socialismo da edificare, lotta di classe da realizzare, proprietà da bruciare e assaltare. O meglio, ci sono anche istanze di questo tipo, ma non sono queste a guidare le rivolte. A guidarle non c'è una sola idea. Sono manifestazioni che vogliono ottenere la possibilità che il proprio mondo sperato e immaginato ne contenga tanti. Si vogliono ottenere maggiori diritti e quindi l'idea di ciò che è già noto non è sufficiente. Nessuno scenario ideale, ma più scenari, tutti terreni, tutti da sperimentare ancor prima che edificare. E poi la protesta in Brasile, in India, in Turchia, in Egitto è donna, non per una volontà programmatica di ottenere parità tra i sessi, ma per una naturale presenza di donne in piazza che si sono rese protagoniste assolute di questi nuovi percorsi. Le piazze bulgare e turche chiedono una società non corrotta, una società che premi il talento e la bravura. Le donne da sempre sopportano la negazione del proprio talento e la costrizione della propria bravura. Non può esistere una società che lotta perché ci sia possibilità di concorrenza, che pretende che il talento sia premiato e, nello stesso tempo, vincoli la donna. Le militanti del movimento "Femen" hanno trovato il canale adatto a questi tempi per attirare attenzione contro la violenza sulle donne, il sessismo e le discriminazioni. Si mostrano a seno nudo: il loro corpo diventa terreno di battaglia. Sanno che il corpo nudo fa notizia, quindi ne capovolgono il senso: il messaggio da pruriginoso e scandalistico finisce per essere completamente diverso, opposto nel senso. Trucco semplice quanto efficace. Ma l'immagine che non dimenticherò è quella del cordone di protezione attorno alle donne in piazza Tahrir. Protezione necessaria perché in Egitto, come era accaduto in Iran, esiste una precisa strategia, quella di stuprare donne e poi lasciarle andare perché raccontino alle altre, perché siano monito per chi, tra loro, ha intenzione di scendere in piazza. Prese a caso con la forza, quando sono isolate o addirittura strappate al gruppo con cui sono in piazza a manifestare. Ecco, quell'immagine dello spazio tra i manifestanti e le donne non è segregazione - per la prima volta non lo è - ma protezione. In quel modo nessuna donna poteva essere sottratta al gruppo. Su nessuna poteva essere usata violenza. Ovunque, oltre che per chiedere diritti, si scende in piazza contro corruzione e autoritarismo e non si toglie fiducia alla legge, ma si dà piuttosto fiducia alla democrazia, entrambe divelte e modificate proprio da tangenti, familismo, mafie. Questo accade in territori ricchi di risorse e di energie. In Turchia, in Brasile, in India la corruzione diventa un vincolo alla felicità. Se c'è corruzione c'è meno lavoro, se c'è corruzione non ci sono idee migliori che vincono, ma solo idee protette che si impongono, e non c'è mercato vero. In Brasile si è manifestato non semplicemente perché è stato speso del denaro per i mondiali di calcio, ma perché si sono sprecate in maniera affatto trasparente risorse che potevano essere utilizzate altrove. Si è manifestato per spese fatte senza lungimiranza. Queste sono proteste di territori potenzialmente ricchissimi, dove esistono risorse che vengono dilapidate dalla cattiva gestione. La Bulgaria, tra i paesi balcanici, è quello che si trova in una fase di rinascimento economico potenziale, ed è saccheggiato dalle famiglie mafiose. Eppure in questi luoghi, nei luoghi delle manifestazioni, la corruzione è completamente diversa dalla corruzione in Europa e in Italia. Da noi è un vincolo di accesso: corrompi, puoi lavorare. Corrompi, ottieni un diritto per te. Un diritto che spetterebbe a tutti, lo ottieni solo corrompendo. Nei paesi in cui si manifesta, eliminata la corruzione - posto che si riesca a farlo - c'è un'infinita ricchezza da gestire. Nel nostro paese, tolta la corruzione, il rischio è che non ci sia niente che possa sostituire quel sistema di mediazione. La corruzione qui da noi è avvertita, incredibilmente, come necessaria. Mentre altrove la lotta alla corruzione è una possibilità di trasformazione, in Italia si teme che debellando quella non resterà nessuna altra risorsa. Apparentemente tutti la detestano, ma in realtà diventa una sorta di scorciatoia per l'accesso al lavoro e al diritto negato. La corruzione mafiosa, per esempio, è ormai l'unica premessa per un'economia florida: con mazzette e percentuali si aprono cantieri, si avviano lavori, si assume. Senza questo, in molti casi, tutto sarebbe fermo. Ecco perché talvolta la domanda "ma se le cose vanno così male perché non scendiamo in piazza anche noi?" sembra più che altro un artificio retorico. Certo i sindacati, i lavoratori, gli studenti manifestano, ma lo fanno con linguaggi assai diversi dalle rivolte che qui stiamo raccontando e il messaggio che passa è che manifestino per sé, che manifestino escludendo, per difendere categorie, in alcuni casi rendite di posizione. Ecco perché guardiamo a queste piazze in rivolta con un senso di nostalgia, come fossero rappresentazione di qualcosa che qui da noi non potrà più accadere. Perché in fondo, questo è il sottinteso, "in Italia la ricchezza privata si mantiene sopra la soglia minima sopportabile, il welfare è ancora sostenibile, quindi di cosa ci lamentiamo". A falsare tutto si aggiunge questo clima di apparente pacificazione, finalizzato unicamente alla conservazione dell'esistente. Non ci sono prospettive. Crediamo di vivere in uno Stato di Diritto ma a ben guardare questo Stato agisce con comportamenti criminali verso gli immigrati e verso le minoranze. Basta osservare giustizia e carceri per renderci conto che la nostra non può essere considerata una democrazia. Non si trova unione nemmeno nella protesta perché abbiamo gli animi avvelenati dal livore, dalla mancanza di prospettive. Chi ce la fa è corrotto, chi non ce la fa è puro. Il mercato è considerato male, il denaro è considerato male, il potere è male. Governare è male, meglio essere eternamente opposizione. A tutto viene attribuita una categoria morale: fino che si ragionerà così, non ci saranno istanze di cambiamento perché non cambiare, in fondo, è bene. Gli italiani sono come gli anziani, preferiscono riflettere, pensare, interpretare il passato, rinchiudersi in un passato di glorie, perché temono che il loro futuro sia solo morte. Questa è la più grande delle disperazioni: vivere in un meccanismo che si regge sulla corruzione piuttosto che esserne ammorbato. Vedere la corruzione come un male contro cui urlare, ma da non risolvere e a cui piegarsi, quando necessità impone. Le piazze turche, bulgare, brasiliane, egiziane, nella loro diversità, mostrano la speranza del diritto e la convenienza dell'onestà. Da queste piazze - se riusciamo a scorgerla - la speranza.

IL COSTO DELLA POLITICA.

Il Parlamento italiano è l’unico posto di lavoro al mondo in cui esiste la «indennità di immissione dati», scrive Fausto Carioti su "Libero Quotidiano”. Significa che gente già pagata in modo ottimo e abbondante viene ulteriormente compensata per il sacrificio che compie nell’usare normalissimi computer. Cosa che nel terziario più o meno avanzato fanno tutti da una ventina d’anni, e che ormai è prassi comune anche nella Sierra Leone e nello Yemen meridionale. Ma il Parlamento italiano è un luogo dell’Altrove, un extramondo fuori dal tempo e dallo spazio. Una barriera invisibile impedisce alla crisi di entrare dentro al Palazzo: quelli che lavorano lì dentro non hanno idea di cosa sia. Non è colpa loro, è che quando si hanno certi stipendi risulta difficile provare empatia per gli sventurati abitanti del pianeta Terra. Il segretario generale della Camera, che di nome fa Ugo Zampetti, ha un imponibile annuo di 405.000 euro; i vicesegretari generali, due signori che si chiamano Guido Letta (cugino di Enrico, ma ovviamente è un caso) e Aurelio Speziale, quotano 305.000 euro. Sono solo gli esempi più clamorosi del Bengodi di Montecitorio. Ne vedremo altri. Prima, però, è il caso di raccontare quello che avviene in questi giorni alla Camera dei deputati. Dove la situazione è tesissima e la rivolta pare dietro l’angolo. Se però pensate che c’entrino il governo, le disavventure giudiziarie di Berlusconi e l’incavolatura del Pdl, sbagliate di brutto. Il dramma ruota attorno ai tagli alle prebende. Tagli è una parola grossa, per carità. Però Zampetti qualcosa deve combinare, per fare contenta Laura Boldrini. Niente di cruento, figuriamoci. Giusto qualche ritocchino qua e là, ma tanto basta a scatenare le undici sigle sindacali che rappresentano i 1.551 dipendenti della Camera. Succede, insomma, che Zampetti stia cercando la riconferma. Sarebbe potuto andare al Quirinale, a fare il segretario generale al posto di Donato Marra, che fu proprio il predecessore di Zampetti a Montecitorio. Un incarico al quale Zampetti ha tutto il diritto di aspirare, e che però non gli è stato assegnato perché il bis di Giorgio Napolitano ha comportato la conferma di Marra. Così ora Zampetti, che ricopre l’incarico alla Camera dall’11 novembre del 1999, quando presidente della Camera era Luciano Violante, vuole restare per altri due o tre anni. Può farcela, perché è uno potente: quando la deputata radicale Rita Bernardini presentò un ordine del giorno per farlo rimuovere, fu respinto dall’assemblea, che confermò Zampetti con un plebiscito. Lasciato sul trono da Pier Ferdinando Casini, Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini, adesso è chiamato a convincere la Boldrini. E per riuscirci deve dare una limatina ai costi di Montecitorio, con la quale la presidente della Camera possa farsi bella. Era stata lei, appena insediata, a promettere la fine della pacchia: «I tagli alle spese sono un segnale importante. Né io né Grasso apparteniamo alla casta». Ora si è capito che il risultato, se mai ci sarà, non sarà all’altezza della premessa. Eppure lardo da tagliare Zampetti ne avrebbe tantissimo. Il bilancio 2013 della Camera dei deputati è di 1.062.377.000 euro, dei quali 784.480.000 (oltre i tre quarti, quindi) se ne vanno in stipendi e pensioni per gli onorevoli deputati e per il personale in servizio. Per i dipendenti, in particolare, l’amministrazione di Montecitorio prevede di spendere nell’anno in corso 231.140.000 euro alla voce «retribuzioni» e 48.855.000 euro per i contributi previdenziali, mentre 217.505.000 euro se ne vanno sotto forma di assegni di pensione versati agli ex lavoratori. Il tutto al netto degli oneri accessori, come le imposte. Se si vuole fare un briciolo di spending review, è da qui che bisogna iniziare. Il progetto allo studio del segretario generale della Camera parte dalle cosiddette «indennità di incarico», per le quali nel 2013 sono stati messi a bilancio 4.490.000 euro. Si dividono in indennità di funzione, di cui godono circa 500 addetti, e indennità di natura contrattuale, che vanno a vantaggio di 235 dipendenti. Tra queste ultime figurano la indennità di rischio, quella meccanografica e quella per la immissione dati. L’idea consisterebbe nel tagliare del 40% le indennità di funzione, cosa che può essere fatta dall’ufficio di presidenza senza trattare con i sindacati (risparmio annuo previsto: 1,5 milioni) e dimezzare l’indennità di rischio, che consentirebbe minori spese per 300mila euro. A norma di contratto, però, quest’ultimo intervento può essere fatto solo d’intesa con i sindacati interni. Cioè al termine di una vertenza dall’esito incerto e che comunque durerebbe mesi. Lo stesso vale per le ricche indennità di missione (valgono 250mila euro l’anno), che si sogna di tagliare, e per le indennità di lavoro notturno e festivo (1,3 milioni), che Zampetti auspica di dimezzare: in ambedue i casi, occorre passare sotto le forche caudine delle trattative sindacali. Capitolo a parte merita la storia dei cosiddetti «aumenti biennali terminali». La carriera del dipendente di Montecitorio, infatti, prevede un’ascesa continua per anzianità sino al raggiungimento dell’ultima classe stipendiale. Arrivati a questa casella, i fortunati vedono la busta paga aumentare del 2,5% ogni biennio, ad eccezione del primo, in cui l’aumento è del 5%. Questo oltre al normale adeguamento Istat all’indice d’inflazione, ça va sans dire. Accade così che un semplice operatore tecnico di Montecitorio, categoria alla quale appartengono gli addetti ai telefoni che rispondono al centralino, dopo 25 anni abbia un reddito imponibile lordo di 111.315 euro. O che un ragioniere (impiegato di quarto livello) arrivi a quota 193.641 euro. Solo dimezzare l’entità di questi aumenti biennali garantirebbe un risparmio di 600.000 euro nel 2014. Ma anche in questo caso occorre venire a patti con le bellicose organizzazioni sindacali. La stessa logica di aumenti biennali del 2,5%, peraltro, è applicata ai già generosi stipendi iniziali del segretario generale della Camera e dei suoi vice. A conti fatti, i tagli ai costi del personale che la Boldrini si prepara a sbandierare, ammesso che vengano davvero tradotti tutti in pratica (ipotesi improbabile, visti gli ostacoli), sarebbero una carezza sulle buste paga pubbliche più pingui d’Italia. Resta da raccontare della storia del cumulo delle pensioni, anch’essa istruttiva. Come visto, ogni anno la Camera (ma meglio sarebbe dire: il contribuente) paga agli ex dipendenti pensioni per oltre 217 milioni di euro. Di questi, 3,3 milioni vanno a un gruppetto di anziani fortunati: dodici pensionati di Montecitorio che lavorano nella presidenza della Repubblica, nella Consulta, nel Consiglio di Stato e in alcune università statali. Fatti i conti, ognuno di questi, in media, incassa dalla Camera 275.000 euro di pensione l’anno, che sommati allo stipendio garantito dalla nuova occupazione fanno di loro i vecchietti più ricchi d’Italia. Tra costoro c’è il solito Marra, che unisce alla pensione di Montecitorio uno stipendio, pagato dalla presidenza della Repubblica, pari a quello di un consigliere di Stato integrato da una indennità di funzione e che, spiegò due anni fa lo stesso Marra al Corriere della Sera,  ammonta «al netto delle ritenute fiscali e previdenziali ad euro 294.315 in ragione d’anno». Trattamenti economici difficili da giustificare, tanto più in un periodo di vacche magre scannate come questo. Così gli uffici della Camera stanno timidamente valutando l’ipotesi di vietare il cumulo tra pensione e redditi di lavoro. In pratica, l’assegno erogato da Montecitorio verrebbe decurtato dell’intero stipendio incassato dal grand commis per il lavoro svolto in altri rami della pubblica amministrazione. Lo stesso Zampetti ha però messo in guardia che non si tratterebbe di un risparmio sicuro. Il nonnino potrebbe decidere infatti di smettere di lavorare: chi glielo fa fare, se non ne ha alcun vantaggio economico? Se tutti si comportassero così, il bilancio di Montecitorio non ne avrebbe alcun giovamento. E poi, manco a dirlo, anche in questo caso ci sarebbe il problemino dei sindacati, con i quali andrebbe raggiunta un’intesa. Risparmio incerto, beghe contrattuali a non finire: l’impressione è che Marra e i suoi undici amici possano continuare tranquilli ad accumulare megastipendi a maxipensioni. E che quando Zampetti prenderà la stessa strada del suo predecessore, nulla rispetto ad oggi sarà cambiato. 

“Il problema? Non è il non-voto ma che è tutto finito”, scrive Dario Ronzoni su “L’Inkiesta”. Primazia dell’economia; politica debole ed egoista. Così crolla un mondo, e la gente non vota più. La parola d’ordine è sempre la stessa: crisi. Riguarda l’economia e, da qualche anno, anche la politica. L’alto astensionismo delle ultime elezioni è un segnale inequivocabile. Il sentimento di impotenza delle istituzioni e dei partiti appare chiaro. Secondo Marco Tarchi, politologo, ordinario di Scienza politica all'Università di Firenze, il momento è quello della fine di un’epoca. Ma particolare: «perché non si vive nell’attesa della catastrofe, ma nell’indifferenza». 

Aumenta il disinteresse per la politica in gran parte dell’Europa. Si tratta di un fenomeno comune o di una particolarità italiana? Che osservazioni si possono fare?

I dati delle inchieste demoscopiche ci dicono che la disaffezione nei confronti della politica è in crescita un po’ ovunque, anche se l’Italia è uno dei paesi in cui tocca le cifre più elevate. Certo, ci sono alcune premesse da fare.

Quali?

Ad esempio che, se si va al di là della retorica sulle virtù della società civile, ci si accorge che da almeno mezzo secolo l’interesse per le vicende politiche ha toccato sempre una quota minoritaria della popolazione – i più si limitano a informarsi superficialmente e distrattamente attraverso i telegiornali. Ma è l’effettiva importanza della politica, oggi, ad apparire in piena crisi.

Perché?

Ogni giorno, di fatto, ci viene ripetuto che quel che conta è l’economia, soprattutto nella sua componente finanziaria. La nostra vita appare condizionata dai mercati, o meglio dagli speculatori che lì operano, e tutt’al più dai livelli di produzione e di occupazione, dal Pil, dai giudizi delle agenzie di valutazione, dai differenziali fra i titoli del debito pubblico e via dicendo. I politici appaiono impotenti di fronte a questi fattori e preoccupati esclusivamente di mantenere i propri privilegi: pure e semplici marionette incapaci di arginare la crisi economico-sociale o perlomeno di rallentarne il corso. Se a tutto ciò si aggiungono gli scandali che il ceto dei politici di professione proietta a ciclo continuo sullo scenario massmediale, con sprechi, ruberie e clientelismo, non si fatica a rendersi conto che la politica è screditata.

Non è conseguenza del decentramento politico a Bruxelles?

No. E lo spiego con una domanda: chi è in grado di capire quali vincoli le decisioni dell’Unione europea pone all’azione dei governi, e se essi agiscono in senso virtuoso o vizioso? Una ristretta élite di addetti ai lavori, che di solito si accapiglia in qualche talk show appena l’argomento entra in gioco. Non credo quindi che questo elemento incida davvero sull’opinione pubblica.

Tornando alla supremazia dell’economia sulla politica: quanto può avere influito nella percezione di una sostanziale inutilità del voto?

Molto, è chiaro. Ma non è l’unica causa. Anche se è evidente che c’è ancora chi presta loro orecchio, i politici durante le campagne elettorali fanno a gara nell’accumulare promesse che poi, regolarmente, non mantengono. Di conseguenza, cresce il numero di coloro che considerano il voto inutile e prevale l’opinione che, in fondo, candidati e partiti siano “tutti uguali”. Anche perché, quando alcuni di loro vanno al governo e sostengono di voler attuare il programma con cui si erano presentati, è ai vincoli di bilancio, al debito pubblico, allo spread, alla crisi economica globale che danno la colpa dell’obiettivo mancato. E sono sempre meno anche quelli che pensano che ai difetti della democrazia rappresentativa si potrebbe ovviare con la mobilitazione dal basso. Per qualche giorno o settimana compaiono movimenti di protesta – animati quasi solo da studenti – che scendono in piazza e chiamano a raccolta il “popolo”, indignandosi. Ma il popolo tace e le ondate defluiscono.

Anche l'alternativa di Beppe Grillo sembra sgonfiarsi. Per molti è una delusione, per altri il suo calo è un risultato prevedibile e fisiologico.

Il problema del M5S è dato dal fatto che ad attrarre un elettorato così ampio e variegato è stato esclusivamente il discorso pubblico di Beppe Grillo: un discorso forte, urlato, pieno di rabbia e di buonsenso populista. Gli eletti del movimento, invece di farsene megafoni ed imitarlo, si sono collocati su una diversa lunghezza d’onda dividendosi su temi tipicamente “politicisti” – se accettare un governo Bersani, chi votare per il Quirinale (con la proposta di un esponente della “casta” come Rodotà) ecc. –, proprio quelli che l’elettore medio grillino detesta. Scarsamente socializzati alla linea del leader e convinti, a torto, di essere stati premiati da un pubblico davvero interessato ai temi discussi nei Meetup o nei comitati. Questi esponenti istituzionali danno l’idea di un’armata Brancaleone incompetente e rissosa. Se continuano così, finiranno nel nulla, soprattutto gli scissionisti. La loro unica salvezza sarebbe restituire a Grillo il ruolo che gli compete: quello di unica calamita di consensi, con il suo repertorio populista di protesta.

Il Pd, invece, resiste grazie a uno zoccolo duro di fedeli, mentre il Pdl è ai minimi termini storici. Come potrebbe affrontare il futuro post-Berlusconi?

Questo è davvero un quesito per ora insolubile, credo anche per lo stesso Pdl. Non credo che il vagheggiato ritorno a Forza Italia possa cambiare lo stato di cose. In politica, peraltro, i vuoti sono destinati a riempirsi e, nello sgretolamento totale dell’area della destra post-neofascista, il centrodestra dovrà trovare nuove forme di espressione. L’assenza di elaborazione culturale per un ventennio e la rinuncia a coltivare una classe dirigente all’altezza rendono impossibile capire come ciò potrà avvenire nel breve periodo.

Insomma, a destra e a sinistra si ha la sensazione di un declino costante. Sembra si affondi sempre di più e più ci si muove e meno si fa. È la fine di un'epoca?

Penso di sì, ma di solito in circostanze simili si intravvede una via d’uscita, si vive in un clima d’attesa della catastrofe e di ciò che le seguirà. In questo caso, per riprendere la Sua metafora, sembra invece di assistere ad un inghiottimento nelle sabbie mobili dell’indifferenza, sia pur condita di disprezzo per tutto ciò che sta accadendo nella sfera pubblica.

Ma perché?

Buona parte della responsabilità di questo stato narcotico è nell’intensa opera di convinzione operata a partire dagli anni Novanta da intellettuali, politici e media per convincerci che quello in cui viviamo è comunque il migliore dei mondi possibili, che la Storia è finita, che il sistema politico ed economico che ci circonda non potrà mai essere sostituito e che ci dobbiamo accontentare di farlo guidare, in alternanza, oggi da una destra liberale, domani da una sinistra più o meno altrettanto liberale. Le minacce del salto nel buio, l’enfatizzazione delle minacce terroristiche sottese a uno scontro di civiltà, e soprattutto la retorica dell’inevitabilità della globalizzazione e dei suoi esiti, nella vulgata con cui sono state alimentate le opinioni pubbliche, hanno prodotto la paralisi di ogni autentica volontà di reazione.

Ma non ci sono movimenti alternativi?

No: i periodici sussulti giovanili, in stile indignados o Occupy Wall Street, non devono ingannare. Certo, prima o poi questa camicia di forza cederà, ma al momento non so prevedere né quando né come. 

Quella pericolosa deriva del M5S, scrive Alessandro Cicero su “Il Punto”. Il movimento pentastellato di Grillo ha rappresentato per molti mesi una speranza, per alcuni, quasi fosse una specie di grimaldello (figurato) in grado di far invertire una tendenza, quella di una politica sempre più grigia, autoreferenziale e consumata dai tipici vizi della “casta”. Il mantra dei costi della politica, della sobrietà, del taglio agli sprechi sono temi diventati prioritari certamente grazie alle campagne dei cosiddetti “grillini” e a loro va dato indubbio merito. Dopo il boom elettorale, c'era da aspettarsi una spasmodica attenzione dei media sul M5S - a volte anche eccessiva: il dibattito sull'espulsione della senatrice Gambaro ha occupato le prime pagine dei giornali quasi fosse il G8  e stupisce che con l'infornata di uomini esperti di comunicazione assoldati non si siano stati capaci di spostare l'attenzione dalle vicende interne al Movimento alle proposte politiche e, dunque, alle modalità di salvaguardia del consenso ottenuto. Stupisce soprattutto, da chi professava “umiltà, sobrietà e diversità”, l'adozione di comportamenti che ricordano le pratiche più deteriori della peggiore politica. Prendiamo ciò che è successo appena poche ore fa a Palazzo Madama. La già ricordata senatrice del Movimento 5 Stelle, Gambaro - che quindi qualcuno deve aver conosciuto e scelto di candidare alle elezioni politiche, non si diventa parlamentari per grazia ricevuta -, semplicemente perché nei giorni scorsi ha rivolto delle critiche al capo è stata oggetto di un dossieraggio che ricorda il modus operandi di vecchie e minacciose pratiche (ricordate il giudice Mesiano e i suoi calzini bianchi?) che speravamo tutti fossero patrimonio del (peggiore) passato. E, allora, quale sarebbe il peccato della senatrice? Addirittura quello di aver parlato con Antonio Razzi, l'ex deputato dell'Italia dei valori passato al centrodestra nella scorsa legislatura e rieletto al Senato col Pdl. Vista la scena (!), tre collaboratori del M5S a Palazzo Madama si sono mobilitati per immortalare in una foto i due parlamentari intenti a scambiarsi qualche battuta. Tra i collaboratori pare ci fosse anche Matteo Incerti, il vice di Claudio Messora, responsabile della comunicazione grillina al Senato, che si dice abbia esclamato: «Dai, dai, scatta una foto. Guardala là, falle una foto». L'effetto è duplice: tentare una ridicolizzazione del nemico (in questo caso la senatrice dissenziente) e, insieme, creare un precedente assai minaccioso del tipo: «Occhio che a chi dissente di nuovo potremmo riservare lo stesso trattamento liquidatorio». Ma orientare campagne di (in questo caso insulso) dossieraggio è antidemocratico, poco decoroso e, insieme all'espulsione dei dissenzienti, sintomo di una debolezza strutturale che, invece, andrebbe analizzata con raziocinio ed equilibrio. Per salvare un Movimento e, soprattutto, una speranza di vero cambiamento. Anche nei modi di fare politica.

Ecco tutti i numeri del dossier di Grillo sui costi del Palazzo, scrive Michele Pierri su “Formiche.net”. Il Movimento 5 Stelle lancia l’assalto ai costi della “Casta”. In una conferenza stampa a Montecitorio, i deputati grillini Riccardo Fraccaro, Riccardo Nuti e Luigi Di Maio hanno presentato un dossier che denuncia quelli che considerano gli “sprechi” del Parlamento.

IL COSTO DELLA CASTA.In questi momenti di crisi – dicono i tre – chi ha di più deve dare di più. Quasi due terzi del bilancio della Camera è destinato al pagamento di stipendi e pensioni a Montecitorio: una situazione insostenibile… 120 milioni circa di euro sono spesi per i vitalizi, 784 milioni per stipendi e pensioni parlamentari, 400 milioni per gli stipendi dei consiglieri. Poi 30 milioni di euro di affitti per gli immobili. 9 milioni di euro di stampe di atti parlamentari, 110 milioni di assicurazioni per la vita, 4 milioni per l’acquisto di software” e i “vitalizi”, che “ci costano 91,8 milioni di euro“.

LA DENUNCIA DEGLI SPRECHI. I deputati pentastellati denunciano anche una serie di erogazioni ad enti esterni: 100 mila euro per il circolo di Montecitorio, 20 mila per il rettore della Chiesa San Gregorio Nazianzeno, 260 mila per l’Unione Interparlamentare. E altri risparmi deriverebbero da un taglio drastico ai 7,1 milioni di euro l’anno per le pulizie, 3,8 per la gestione dei servizi informatici più altri 3,1 per la manutenzione software ed hardware, 3 milioni di euro per l’ufficio stampa.

TUTTI I DIPENDENTI: NUMERI E COSTI. Il contenuto del dossier del M5S è anticipato dal Fatto Quotidiano, che riporta nel dettaglio i dati raccolti dai grillini riguardo gli stipendi del personale di Montecitorio. I dipendenti pubblici in servizio alla Camera – si legge – sono 1521, divisi in cinque livelli a cui corrispondono diverse retribuzioni. Al quinto livello troviamo 183 consiglieri parlamentari: 121 generali, 33 con la funzione di stenografi, 18 bibliotecari e 8 tecnici. Questi arrivano a guadagnare fino a 400 mila euro lordi all’anno a fine carriera, dopo 41 anni di servizio. […] Il quarto livello invece riguarda 293 dipendenti pubblici, che comprendono documentaristi, tecnici e ragionieri. Cominciano con uno stipendio di € 1.876,57 netti al mese e dopo 25 anni hanno un guadagno pari a 227 786 lordi all’anno. […] Il terzo livello: comprende 777 dipendenti che svoglono la professione di segretari, assistenti di settore, infermieri di reparto, coordinatori. Il loro stipendio è di 40 968 euro lordi iniziali all’anno per poi crescere fino a 167 400 euro a fine carriera. Il secondo livello è composto da 262 persone tra segretari, assistenti parlamentari, collaboratori tecnici. La retribuzione iniziale è di circa 40mila euro all’anno lordi e a fine carriera arriva a 156mila euro circa. Il primo livello sono invece gli operatori tecnici. Un assunto risulta alla Camera, che guadagna dopo 25 anni circa 35 644 euro lordi.

Riccardo Fraccaro, deputato membro dell'Ufficio di presidenza è stato incaricato di raccogliere i dati sulle spese di Montecitorio: "Abbiamo incontrato un muro di gomma. Nessuno vuole che si tocchino questi privilegi". Ecco la presentazione del primo dossier a 5 Stelle sull'argomento con un'ipotesi di riduzione, scrive Martina Castigliani su “Il Fatto Quotidiano”. Una Camera “oscura” di conti, stipendi e privilegi intoccabili al prezzo di 280 milioni all’anno. Il Movimento 5 Stelle racconta così l’entrata nelle istituzioni e il tentativo di realizzare uno dei punti chiave del loro programma: l’abbattimento dei costi della politica. Tetti retributivi e tagli alle indennità, l’ipotesi di riduzione delle spese è già sul tavolo dei parlamentari a 5 Stelle. E’ l’impresa che sognano, ma che ha già una prima difficoltà: la resistenza dei protagonisti. “Non volevano darci i dati ufficiali, siamo stati ostacolati in tutti i modi”, raccontano i deputati. Riccardo Fraccaro, membro dell’Ufficio di Presidenza e del Comitato per gli Affari del personale è stato il parlamentare incaricato di raccogliere le informazioni, ma il risultato è stato “trovare un muro di gomma” e uno status quo difficile da toccare. “Fraccaro”, ha denunciato Beppe Grillo sul blog, “ha chiesto di conoscere il trattamento retributivo nominativo percepito mensilmente da tutti i dipendenti appartenenti alle diverse qualifiche. Gli è stato risposto che in capo al deputato non esiste “un interesse giuridicamente rilevante alla conoscenza dei dati”. All’appello mancano stipendi nominativi e il curriculum vitae dei dipendenti:”Nelle ultime ore”, ha dichiarato Riccardo Fraccaro, “è arrivata l’autorizzazione a pubblicare gli aumenti di stipendio e ci hanno dato accesso a 91 curriculum strutturali. E’ un passo avanti, ma non basta. Continueremo a chiedere”. Gli eletti a 5 Stelle hanno deciso di pubblicare un dossier sui costi di Montecitorio prima di affrontare la questione nell’ufficio di presidenza. “Noi pensiamo”, ha continuato il deputato Fraccaro, “che questa crisi si debba combattere chiedendo a chi ha di più di dare di più. E possiamo farlo solo chiedendo coerenza. Vediamo quello che ho scoperto: il costo per il personale è di 280 milioni di euro. Per i dipendenti in pensione 220 milioni di euro. Se aggiungiamo le spese per i parlamentari, quasi 2\3 del bilancio della Camera è destinato a pagare dipendenti di Montecitorio”. Le proposte di riduzione e trasparenza sono state in parte accolte dagli altri partiti: “Il problema è che non hanno intenzione di essere efficaci veramente, ma vogliono fare scelte di facciata. Ho chiesto di vedere i curriculum, ma si sono opposti Pd e Sel. La Boldrini ha scelto invece di pubblicare le curve retributive fino al 35esimo anno di carriera, ma si tratta di una presa in giro: gli stipendi aumentano automaticamente e senza merito”. Secondo Fraccaro, l’intervento annunciato sulle curve retributive “non intacca i diritti acquisiti e i tagli si applicheranno solo ai futuri dipendenti e per quelli attuali non è stata accettata neppure l’introduzione di un tetto massimo. “Tra le proposte che abbiamo avanzato, c’è quella di inserire il merito nell’aumento di stipendio. Provvedimenti sono stati presi sulle ferie, maggiori rispetto ai dipendenti pubblici al di fuori della Camera. Un’altra battaglia: divieto di cumulare le pensioni con ulteriori incarichi. Poi temporaneità degli incarichi e dei vicesegretari generali. Temporaneità che permette di non creare poli di potere“. La denuncia del Movimento 5 Stelle riguarda tutta l’attività parlamentare. “L’ufficio di presidenza”, ha aggiunto Luigi Di Maio, vice presidente della Camera, “non ha fatto che approvare privilegi. Tanti i capitoli da affrontare. Intanto i vitalizi ci costano 91,8 milioni di euron e con la nostra proposta di stipendi ridotti potremmo risparmiare 42 milioni di euro”. Per stipendi e pensioni di dipendenti, parlamentari ed ex vanno via 784 mln l’anno mentre gli stipendi apicali dei consiglieri ammontano a quasi 400mila. C’è poi il capitolo dell’affitto degli immobili, che costa alla Camera, “dunque ai cittadini, 30 milioni di euro l’anno”. Soldi spesi, a detta dei 5 Stelle, in barba a possibili e semplici risparmi. “Gli uffici degli ex presidenti Bertinotti e Fini sono incredibilmente ancora qui: 10 stanze del Theodoli-Bianchelli. Senza dimenticare gli appartamenti dei questori: la scorsa legislatura erano a palazzo Marini 1, edificio poi dismesso, ci si è affrettati ad adeguare il nuovo palazzo: costo 200 mila euro. Inizia nuova legislatura: li dismettiamo”. Spazi che Di Maio propone di utilizzare per farli diventare uffici, aspettando che scadano i gli affitti senza possibilità di recesso....Tanti gli sprechi denunciati: “Qui dentro si stampano atti parlamentari per 9 milioni di euro, è giunto il momento di informatizzarci. Si spendono ogni anno 4 milioni per l’acquisto software, noi proponiamo di usare i software open source. Poi l’assicurazione per la vita ci costa 110 milioni di euro. Si regge sui contributi dei parlamentari” . Nel dossier presentato alla stampa anche una lista di proposte: “Noi vogliamo aggredire i diritti acquisiti. Non lo dico solo per la Camera dei deputati. I vitalizi ad esempio sono una spesa enorme e credo che potremmo affrontare un ricorso per l’abolizione. Se non cominciamo, scarichiamo sempre sulla generazione futura”. Ci sono poi le erogazioni ad enti esterni: 100 mila euro per il circolo di Montecitorio, 20 mila per il rettore della Chiesa San Gregorio Nazianzeno, 260 mila per l’Unione Interparlamentare. Altri risparmi, secondo il dossier, si potrebbero ottenere intervenendo sui contributi alle assicurazioni dei parlamentari e tagliano di qualche punto percentuali altre spese: per esempio, 7,1 milioni di euro l’anno per le pulizie, 3,8 per la gestione dei servizi informatici più altri 3,1 per la manutenzione software ed hardware, 3 milioni di euro per l’ufficio stampa.

Ecco i primi dati che il Movimento 5 Stelle ha potuto consultare: Il personale e i livelli retributivi.

I dipendenti pubblici in servizio alla Camera sono 1521, divisi in cinque livelli a cui corrispondono diverse retribuzioni.

Al quinto livello troviamo 183 consiglieri parlamentari: 121 generali, 33 con la funzione di stenografi, 18 bibliotecari e 8 tecnici. Questi arrivano a guadagnare fino a 400 mila euro lordi all’anno a fine carriera, dopo 41 anni di servizio. Cominciano guadagnando € 2.920,44 netti al mese, e poi ogni due anni scatta l’aumento di stipendio. Così dopo 25 anni passano a 341, 947 annuali lordi. A cui si aggiunge, per 170 circa di loro, l’indennità di funzione che aumenta secondo il grado. Si parte con circa 3900 euro lordi per il segretario generale fino a scendere sui 600 euro mensili per le qualifiche minori.

Il quarto livello invece riguarda 293 dipendenti pubblici, che comprendono documentaristi, tecnici e ragionieri. Cominciano con uno stipendio di € 1.876,57 netti al mese e dopo 25 anni hanno un guadagno pari a 227 786 lordi all’anno. E a fine carriera arrivano a quasi 270mila euro. Senza dimenticare che 139 di questi godono di un aggiunta mensile, ovvero dell’indennità di funzione.

Il terzo livello: comprende  777 dipendenti che svolgono la professione di segretari, assistenti di settore, infermieri di reparto, coordinatori. Il loro stipendio è di 40 968 euro lordi iniziali all’anno per poi crescere fino a 167 400 euro a fine carriera. Di questi, 118 hanno lo stipendio aumentato grazie all’indennità di funzione.

Il secondo livello è composto da 262  persone tra segretari, assistenti parlamentari, collaboratori tecnici. La retribuzione iniziale è di circa 40mila euro all’anno lordi e a fine carriera arriva a 156mila euro circa. 

Il primo livello sono invece gli operatori tecnici. Un assunto risulta alla Camera, che guadagna dopo 25 anni circa 35 644 euro lordi.

Indennità. La proposta dei 5 Stelle riguarda anche la riduzione dell’indennità di funzione percepita dai dipendenti di Montecitorio. La spesa attuale complessiva arriva a 4 150 334, 16 euro lordi e l’idea è quella di dimezzarla a 2 594 534, 53 con riduzioni che vanno dal 70% per il segretario generale fino al 30% per i vice assistenti.

Camera, 30mila euro tra arance e cioccolatini. Tutte le spese folli 2012 dei deputati. Sono 124 milioni quelli "bruciati" in bon bon, toner, corsi di inglese, giornali e bandiere. Il documento che elenca tutte le spese fatte a Montecitorio per i fornitori e i costi di gestione, scrive Giuliana Grimaldi su TGCom. L’austerità non abita a Montecitorio. Anzi, non ci mette piede nemmeno per sbaglio. Il documento appena pubblicato sul sito dell’istituzione sulle “spese ordinate per lavori, servizi, forniture, consulenze e collaborazioni, risultanti dal sistema informativo contabile della Camera dei deputati” è pieno zeppo di voci quantomeno curiose e di importi che fanno rabbrividire: dai cioccolatini Venchi ai corsi di lingue per gli onorevoli, dalle bandiere agli arredi, dai facchini ai parcheggi. Solo per l’anno 2012 questo ramo del Parlamento ha speso nel complesso 124 milioni di euro. Tutti gli importi sono in euro, Iva e oneri di legge inclusi. E naturalmente, tutti a carico dei cittadini. Gli onorevoli deputati sono di bocca buona e per questo la Camera si preoccupa di viziare i loro palati raffinati ordinando dai principali marchi del cioccolato: Venchi ha fornito prodotti per 4mila euro, Nestlé per 5.338 euro, Baratti&Milano 3.976 euro, Perfetti 8.501 euro. Nel complesso, quasi 22mila euro in dolciumi. A cui si aggiungono i 107mila euro di caffè (Lavazza e Methodo). Tra le spese per la ristorazione (che ammonta alla splendida cifra di 4,8 milioni euro), nel bilancio compaiono 16.800 euro per la macelleria, 8.388 euro di arance fresche ordinate all’azienda Oranjet. Dopo aver pensato alla pancia dei deputati, la Camera si preoccupa anche della loro formazione offrendo corsi di lingue straniere e di informatica che per un anno costano 500mila euro. Sulla natura di tali corsi è mantenuto il massimo riserbo. Abbiamo sollecitato più volte un chiarimento su questa voce, ma non abbiamo ricevuto risposta. Quindi non è dato conoscere il tipo di lezioni erogate e l’effettiva presenza dei deputati sui banchi di scuola. Montecitorio è anche uno dei luoghi simbolo della Repubblica quindi non possono mancare bandiere e stendardi. Per i quali soltanto nel 2012 si è spesa la bellezza di 10.531 euro. Per la cancelleria invece, le spese correnti hanno sfiorato la cifra di 665mila euro. Vale a dire carta, graffette e dintorni. La fornitura di toner per le stampanti di tutti gli uffici è stata computata a parte e vale 398mila euro. Una delle voci più impressionanti è quella che riguarda le spese informatiche. Per l’acquisto di hardware sono stati spesi 1,2 milioni e per la manutenzione di questa apparecchiatura 666mila euro. Anche con i software non si è certo risparmiato, ordinando programmi informatici per 4,8 milioni di euro e spendendone altrettanti per gestirli.

Spese pazze al Senato, 950mila euro in agende. E la Camera ne spende oltre 3 milioni. Ogni deputato avrà più di 50 rubriche a testa, mentre i senatori ne hanno circa 70 ciascuno. Ecco quanto la Casta, in tempo di crisi, continua a spendere, scrive TGCom. Gli italiani tirano la cinghia, tra Imu e accise. Ma loro, i parlamentari, ancora spendono e spandono. L'ultima "spesa pazza" è per le loro agendine. Quelle con il logo di Camera e Senato, da regalare urbi et orbi come strenna natalizia. Il bando in questione, per la fornitura di rubriche a Palazzo Madama, pubblicato ieri, è di 950mila euro (più Iva) in due anni. La cifra si commenta da sé. I soldi del bando "da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso" sarà usata per produrre ben 5.200 agende da tavolo e 16.800 di quelle tascabili per i 315 senatori. Praticamente ogni eletto ne avrà a disposizione circa 70 in tutto. A questo si aggiunge il bando triennale, che si è concluso a dicembre, per produrre le agende degli onorevoli seduti a Montecitorio: oltre 3 milioni di euro (più Iva) per produrre 32.800 agende per i 630 deputati (circa 52 a testa) in tre anni. Le cifre, rilanciate in prima pagina dal quotidiano Libero, non possono che far indignare i cittadini-elettori a cui ogni giorno vengono chiesti sacrifici per "salvare l'Italia". Certo non saranno le agendine a salvare i bilanci dello Stato, ma se la "Casta" cominciasse sul serio a ridurre i suoi costi, dando il buon esempio, potrebbe almeno tornare a riconquistarsi più fiducia dai cittadini. E poi ci si lamenta dell'antipolitica.

Rimborsi: tutta l'Italia è Paese, scrive Clemente Pistilli e pubblicato da Valeria Di Corrado il 15 luglio 2013 su “La Notizia Giornale”. Tra chi si fa rimborsare anche il cappuccino e chi va in viaggio a spese dei contribuenti, le indagini in corso sull’impiego dei contributi da parte dei gruppi consiliari nelle Regioni sta facendo emergere uno spaccato di malcostume che tocca l’Italia da Nord a Sud e che coinvolge tutti i partiti, bruciando centinaia di migliaia di euro destinati al buon funzionamento della politica e nella pratica utilizzati per insopportabili privilegi di casta. Accertamenti iniziati dopo il cosiddetto “caso Fiorito”, il crollo della giunta Polverini nel Lazio e la presa di coscienza collettiva su quanto accadeva con i rimborsi ai consiglieri regionali. Tra inchieste penali, contabili e verifiche di bilancio compiute dalla Corte dei Conti, in base alla legge varata ad hoc il 7 dicembre scorso, in meno di un anno “Il Batman” di Anagni sembra sempre più il Mario Chiesa di “Tangentopoli”.

L’intervento della Corte dei Conti.

Nella regione retta dal leghista Roberto Cota, dove sul fronte penale per i rimborsi ai gruppi consiliari sono già indagati 56 politici ed è emerso che quel denaro è stato utilizzato persino per acquistare briglie da cavallo, la Corte dei Conti ha ritenuto non regolari i rendiconti dei gruppi “Moderati”, “Per la Federazione-Sinistra Europea” e “Uniti per Bresso”. Le spese effettuate non hanno convinto i giudici e ai tre gruppi sono stati dati trenta giorni di tempo per fare chiarezza sui rendiconti incriminati. Ritenuta irregolare, invece, nonostante le spiegazioni fornite, la rendicontazione di gruppi della Regione Emilia-Romagna, grillini compresi. Anche nel bolognese sono diverse le indagini aperte su tale fronte, contestando ai politici persino interviste a pagamento. La sezione di controllo non ha approvato i rendiconti da oltre 90mila euro della Federazione della sinistra, da 147mila dell’Idv, da 97.600 del gruppo Misto, da oltre 673mila euro del Pd, da 390mila del Pdl, da 193mila della Lega, da quasi 27mila del Movimento5Stelle, da 165.500 di Sel e da 47.800 dell’Udc. Le spese maggiori? Consulenze e rappresentanza, una voce in cui finisce un po’ di tutto. Una situazione segnalata anche alla Procura presso la Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica di Bologna.

Il caso Umbria

Particolare quanto riscontrato nel cuore verde d’Italia. La sezione di controllo della Corte dei Conti ha ritenuto solo parzialmente irregolari i rendiconti, ma “bocciato” le giustificazioni presentate dai politici dell’Umbria dinanzi alle richieste di chiarimenti sulle spese. Prima hanno detto che su quei conti c’era una certa riservatezza e poi che da loro è prassi fare l’autocertificazione per giustificare i rimborsi.

Non si salva (quasi) nessuno.

Meglio è andata in Abruzzo, dove la sezione di controllo contabile ha ritenuto non regolare solo il rendiconto del gruppo Misto. Ma pesante la situazione riscontrata in Molise, Veneto e Lombardia. Nella regione più piccola d’Italia sono stati ritenuti irregolari i rendiconti dei gruppi Grande Sud, Udeur, Pdl, Rifondazione, Molise Civile, Alternativa, Costruire democrazia, Alleanza di centro e Idv. Una situazione in cui, sul fronte penale, è spuntato fuori che alcuni consiglieri si sarebbero fatti pagare persino gelati e pizze. In Veneto, oltre a ritenere inadempiente sul rendiconto la Lega, i giudici hanno invece considerate irregolari le spese fatte da Unione (14.850 euro), Rifondazione, Pdl (273.573 euro), Pd (112.701 euro), Udc (90mila euro), Idv (33mila euro), Bortolussi presidente (1.300 euro) e gruppo Misto (15.200 euro). In Lombardia, dove sul fronte penale ha destato scalpore il fatto che Nicole Minetti si sia fatta rimborsare anche il libro “Mignottocrazia”, irregolari i conti del Pdl (297.721 euro), Pd (46.256 euro), Lega (597.525 euro), IdV (12.365 euro), Udc (48.886 euro), Sel (10.308 euro) e Pensionati (827 euro). In Calabria, infine, riscontrata una situazione tale da non consentire neppure l’avvio del controllo. Il tutto senza contare che Procure ordinarie e contabili stanno indagando anche sulla Campania, con 53 avvisi di garanzia, Friuli, Marche, Puglia, Liguria, Sicilia, Sardegna e Basilicata, dove ci sono stati anche arresti, oltre naturalmente al Lazio. Difficile che vi sia ora qualcuno che siede nei consigli regionali che possa dirsi senza peccato.

IL COSTO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

Il protrarsi della crisi sta evidenziando un sempre maggior scostamento tra due ali della società italiana. Tra chi sente e chi non sente nella pratica gli effetti della stessa. Ovvero, tra chi ha perso il lavoro, chi lavora in proprio (a qualsiasi livello) che è quasi come se lo avesse perso e tra chi ha uno stipendio fisso che, magari rimanendo sottotono visto il clima generale, non ha nel quotidiano modificato il suo tenore di vita, il suo regime di spesa. Perché lo stipendio, per quanto piccolo, a fine mese arriva sempre uguale. (...). Tra chi ha uno stipendio fisso ci sono i lavoratori statali. E Arnaldo Ferrari Nasi, su Libero di giovedì 18 luglio, ci presenta un sondaggio a sorpresa. Gli statali sono troppi? La risposta è sì. Chi lo dice? Loro stessi: lo ammettono. Il 75% di chi ha un dipendente pubblico in famiglia, infatti, confessa che l'apparato burocratico è eccessivo.

Premette di esser stato all’estero e quindi di non essersi ancora documentato a dovere. Perciò Massimo Bordignon, docente di economia della pubblica amministrazione alla Cattolica di Milano e già membro della commissione sulla spending review di Tommaso Padoa Schioppa, non vuole sbilanciarsi. A Massimo Degli Esposti su “Il Quotidiano Nazionale” dice:

«A grandi linee — dice però — mi pare che le misure annunciate mettano un po’ il carro davanti ai buoi».

In che senso, professore?

«I tagli al personale e alla dirigenza pubblica dovrebbero derivare dalla riorganizzazione complessiva della pubblica amministrazione. Qui invece, si perseguono risparmi a breve, mentre la razionalizzazione resta sullo sfondo, pur con apprezzabili indicazioni. Siamo insomma a metà fra spending review e manovra».

Cominciamo dalla parte apprezzabile...

«Accorpamenti di Province e uffici periferici dello Stato sono misure già individuate dalla nostra commissione. Significa spendere meno senza ridurre i servizi. Giusto anche efficientare gli acquisti di beni e servizi, che incidono per oltre 130 miliardi l’anno. Consip copre solo il 10%, ma ha dimostrato di poter realizzare risparmi consistenti».

Cosa non va, invece?

«La riduzione di personale e dirigenti a percentuale, ignorando le mille specificità dell’universo pubblico. Il numero totale di pubblici dipendenti è nella media Ocse, ma è mal distribuito. Ci sono troppi statali al Sud e pochi al Nord. Idem per le Regioni, con la Sicilia in testa. Nei Comuni, invece, la situazione si ribalta: al Nord gli Enti locali sono molto frammentati e questo genera un eccesso di personale».

Condivide allora la levata di scudi dei sindacati?

«Non mi stupisce: ci sono in ballo tante tessere e tanti voti. Però il pubblico ha goduto di molti vantaggi: stabilità di impiego anche durante la crisi e retribuzioni cresciute oltre la media negli anni 2000. Ora qualche sacrificio, come il blocco salariale di 3 anni, mi sembra dovuto».

Tutti invocano tagli agli sprechi. Dove sono?

«Sempre in casa degli altri....».

Intende dire che non c’era altro da tagliare?

«Acquisti e personale sono la quasi totalità della spesa pubblica. Restano i trasferimenti alle imprese, su cui ha lavorato l’economista Giavazzi. Sarei curioso di sapere con quali risultati».

Concludendo: bocciatura o promozione?

«Promuovo. L’unica alternativa era lasciar scattare l’aumento Iva in autunno, cioè aumentare la pressione fiscale, e questo sarebbe stato intollerabile. Quindi, il taglio alla spesa, anche se imperfetto, mi sembra l’unica strada».

Sprechi, gli statali inefficienti ci costano 73 miliardi di euro.

Il governo vuole tagliare 4,2 miliardi di spesa in sette mesi. E a Bondi sono già arrivati via web 40mila suggerimenti per i tagli, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”. Se il pubblico fosse stato amministrato come il privato, la spesa sarebbe più bassa di 73 miliardi di euro all’anno. Quindi di circa dieci punti percentuali in meno rispetto ai livelli attuali. Il nodo della spending review presentata da Piero Giarda lunedì scorso è, in gran parte, dentro questo dato che il ministro considera comunque il frutto di una tendenza «strutturale». Inevitabile, quindi. Fatto sta che «i costi di produzione dei servizi pubblici sono cresciuti nel tempo molto più rapidamente dei costi di produzione dei beni di consumo privati». Nel 2010, appunto, la distanza tra i due mondi è misurabile in 73 miliardi di euro. Negli anni, non si è fatto molto per ridurla. «Il differenziale di costo - osserva Giarda nella relazione - già esistente nel 1980 - è aumentato nei trenta anni successivi, fino al 2010, del 28,8% con una media di svantaggio annuo pari a 0,8%, una misura del costo della inferiorità tecnologica del settore pubblico». In sostanza, mentre il privato si attrezzava e migliorava i processi di produzione, il pubblico restava labour intensive. Troppi dipendenti. Questo il ministro non lo dice, ma osserva come, fatti salvi alcuni servizi, come l’istruzione dove «non ci potrà mai essere il tasso di progresso tecnico o di innovazione tecnologica che caratterizza la produzione di computer», è «certamente vero che la pubblica amministrazione non è il veicolo istituzionale più favorevole alle innovazioni dei processi. La conseguenza di questo stato di arretratezza è la necessità di continui aumenti di prezzo imposti alla collettività, ovvero l’aumento della pressione tributaria». Quanto il problema stia a cuore agli italiani è dimostrato dal boom di segnalazioni di sprechi via internet arrivate al governo. A due giorni dall’apertura del form nel sito dell’esecutivo sono stati circa 40mila. Uno ogni quattro secondi. Unico caso trapelato ieri quello di una statua da 186mila euro per abbellire il Palazzo di giustizia di Treviso. Ancora non è dato sapere cosa farà il governo di questa e delle altre segnalazioni. Per il momento l’attenzione è concentrata altrove. Ad esempio sul come saranno utilizzati i risparmi futuri della revisione della spesa pubblica, in particolare quando entrerà nel vivo il lavoro di Enrico Bondi. Giarda nella relazione alla spending review sostiene che deve essere «al servizio» della riduzione delle tasse. «Per alleviare le condizioni di vita dei soggetti in condizioni di difficoltà economica e con la speranza che l’idea di un avvio della riduzione del prelievo tributario possa segnalare all’economia l’avvicinarsi di una stagione meno grave». Ma ieri, dal ministero dell’Economia, è arrivato un segnale che va nella direzione opposta. Il sottosegretario Vieri Ceriani ha spiegato che «non c’è un nesso preciso tra i tagli alla spesa e l’aumento dell’Iva». Pochi giorni fa era stato Palazzo Chigi a spiegare che i risparmi della spesa potrebbero fare evitare l’aumento di due punti percentuali dell’imposta su beni e servizi di ottobre. L’uscita di Ceriani, molto vicino al premier Mario Monti, fa pensare che, come minimo, il governo intende avere le mani libere. I 4-5 miliardi di risparmi attesi, potrebbero servire a tappare il disavanzo. O a compensare entrate dell’Imu nel caso si rivelino inferiori rispetto alle attese. Nessuna buona nuova nemmeno sulla nuova Ici. Nonostante le pressioni, non sono in vista modifiche, se non in un futuro non meglio precisato.

Uno dei motivi, forse il principale, per cui il governo guidato da Mario Monti non è riuscito a tagliare la spesa pubblica è stata la scelta di mantenere al loro posto, quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri, scrive Francesco Giacovazzi su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo governo aveva tempo fino al 31 maggio 2012 per decidere se confermare gli alti dirigenti dei ministeri: capi di gabinetto e degli uffici legislativi, capi dipartimento, direttori generali. Chi non verrà esplicitamente confermato, automaticamente decadrà. Accadde qualcosa di analogo con il primo esecutivo Berlusconi. I nuovi ministri della Lega che scesero a Roma nel 1994 - Giancarlo Pagliarini, Vito Gnutti, Roberto Radice - erano uomini concreti, abituati a gestire imprese, inesperti di burocrazia romana. Al suo primo giorno di lavoro il neoministro del Bilancio, Pagliarini, dopo aver letto un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile, disse: «Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno». Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia. Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l'interesse a mantenerlo. Hanno anche l'interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni, a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. Giancarlo Pagliarini perse la sua battaglia con la Ragioneria e in quel 1994 nulla cambiò. Mario Canzio, Ragioniere generale dello Stato, entrò in Ragioneria nel 1972, 41 anni fa, come funzionario dell'Ispettorato generale del Bilancio, l'ufficio che ha il controllo della spesa pubblica. Da quel giorno la spesa pubblica al netto degli interessi è cresciuta (ai prezzi di oggi) di circa 200 miliardi, dal 32 al 45 per cento del Pil. Da quando, otto anni fa, fu nominato Ragioniere generale, è cresciuta di oltre 30 miliardi. I sindaci durano in carica cinque anni, con la possibilità se rieletti di un solo secondo mandato, il Governatore della Banca d'Italia sei, il presidente della Bce otto. Il Ragioniere generale a vita. Andrea Monorchio rimase tredici anni, con dieci diversi governi. Sono tutti ottimi funzionari dello Stato, ma se non sono riusciti ad arginare la spesa pubblica per quarant'anni saranno davvero le persone più adatte per gestire una spending review? Non è venuto il momento di affrontare il ricambio della burocrazia? E di farlo per davvero, ponendo un termine alla perenne rotazione da un ministero all'altro, da un ministero a un'autorità indipendente e da questa ancora a un ministero? Non c'è ricambio se si abbassa l'età media dei ministri mentre la struttura sotto di loro resta immutabile. Cambiare i vecchi burocrati è certamente costoso perché un nuovo dirigente ci metterà un po' a prendere in mano le redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare. L'alternativa è continuare a non fare nulla.

A riguardo, sempre su “Il Corriere della Sera”, scrive Giulio Tremonti. Caro Direttore, ho letto, come sempre con interesse, l'articolo di Francesco Giavazzi pubblicato giovedì sul Suo giornale sotto il titolo «Burocrazia inossidabile». Al proposito mi permetto di notare quanto segue: a) sostiene FG: «Uno dei motivi, forse il principale, per cui il governo guidato da Mario Monti non è riuscito a tagliare la spesa pubblica è stata la scelta di mantenere al loro posto, quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri».Povero Monti! Pensavo che il principale e permanente e davvero resistente fattore ostacolo, rispetto al taglio della parte davvero tagliabile della spesa pubblica, fosse invece e soprattutto costituito dal blocco storico della peggior parte della società italiana. La parte conservatrice, clientelare e corporativa, così ben rappresentata in molti partiti politici e per questo e di riflesso in Parlamento;b) FG suggerisce di rifare tutto il bilancio dello Stato «alla Pagliarini». Non nella biblioteca di Pagliarini, ma nella biblioteca di Stalin è stato trovato un rapporto dell'Accademia sovietica delle scienze. Un rapporto secondo cui, nel dominio scientifico, era tutto da riscrivere, tutto dovendo essere illuminato dalla ferrea legge della lotta di classe. Stalin, atroce ma non scemo, annotò a mano a margine: «Eh eh eh, e con la matematica come la mettiamo?». In realtà, anche se riscritti e diversamente illuminati, i numeri sono pur sempre numeri. E, senza produrre illusioni a mezzo illusioni, i numeri della finanza pubblica italiana, pur se riscritti, sono e risulteranno purtroppo e comunque numeri avversi. Avversi anche sostituendo la matematica con la sensibilità politica. Anzi, di solito i numeri si vendicano!c) In ogni caso, la struttura del pubblico bilancio italiano è governata da due leggi, rispettivamente del 2009 e del 2011, ed è perfettamente integrata nel sistema contabile europeo. Non per caso, ma «pour cause», dall'Europa non è venuto alcun rilievo. Il caos non sta in realtà a monte, nelle leggi, ma a valle, in Parlamento. Facciamo l'esempio dell'ultima legge di Stabilità. Il disegno di legge presentato dal governo Monti in prima lettura alla Camera era fatto da 14 articoli, più le tabelle ed allegati. In Parlamento sono stati avanzati 1524 emendamenti, oltre a quelli addizionali del governo e dei relatori. Alla pubblicazione definitiva, la legge di Stabilità ha assunto la dimensione di 110 pagine della Gazzetta Ufficiale, oltre a tabelle ed allegati. E' per questo che alla fine e non all'inizio del suo corso la nostra legislazione di bilancio si presenta in forma caotica. Superior stabat lupus? rispetto al fiume in piena della legislazione, la colpa non è certo di chi sta sopra!d) Non credo che i «tecnici» siano per definizione «capaci». Gli ultimi tempi ne hanno fornito qualche evidenza. Ma anche prima: «Quale sorta di politica farebbe codesta accolta di onesti uomini tecnici?» (Benedetto Croce).E' per questo che non credo che la maggiore colpa sia solo dei tanti (e per la fortuna dell'Italia ancora presenti) servitori dello Stato!????????????????Sorprende la difesa di Giulio Tremonti della superiorità della burocrazia e dell'opportunità di non interrompere una tradizione per cui i grandi burocrati restano al loro posto, qualunque siano i risultati. Sorprende perché una delle sue (poche) buone decisioni fu la nomina di Vittorio Grilli, il primo Ragioniere generale esterno alla nomenclatura di via XX Settembre che tentò di rinnovarla, e per questo fu presto espulso e sostituito da un interno più «affidabile».

SEMPLIFICARE?

«Semplificare»: non c'è politico o governante che non abbia pronunciato almeno una volta questa parola, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. L'ex ministro leghista Roberto Calderoli, per rafforzare il concetto, si fece immortalare nel cortile di una caserma dei pompieri mentre dava fuoco con un lanciafiamme a 375 mila leggi inutili. Nemmeno troppo tempo fa: il 24 marzo del 2010. Poi è toccato al governo Mario Monti, per bocca del ministro Corrado Passera, lanciare un «urlo di dolore» per le complicazioni della burocrazia, invocando «semplificazioni» al più presto (8 novembre 2012). E ora è la volta del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, annunciare che l'esecutivo di Enrico Letta «sta lavorando a un'operazione di semplificazione molto forte che dovrebbe vedere la luce a brevissimo» (4 giugno 2013). Auguri. Perché da quando è cominciata la precedente legislatura, nella primavera del 2008, sono state varate qualcosa come 288 norme fiscali che hanno avuto come conseguenza quella di complicare la vita alle imprese. E' un numero pari al 58,7 per cento di tutte le disposizioni di natura tributaria (491) introdotte attraverso 29 differenti provvedimenti. Oltre quattro volte superiore a quello delle 67 «semplificazioni» fatte nello stesso periodo: ogni norma approvata per snellire la burocrazia ne ha quindi portate con sé 4,3 capaci di riversare altra sabbia negli ingranaggi. E forse non è un caso, sottolinea l'ultimo rapporto della Confartigianato che contiene questo dato scioccante, che «la pressione burocratica abbia lo stesso ritmo di crescita della pressione fiscale». Ha raggiunto il 44,6 per cento, livello mai visto dal 1990, anno d'inizio della serie storica . Con un picco negli ultimi tre mesi 2012, durante i quali per ogni minuto che trascorreva il Fisco incassava un milione 731.416 euro. L'ufficio studi della Confartigianato ricorda che tra il 2005 e il 2013, secondo le stime Ue, le entrate fiscali sono salite del 21,2 per cento, pari a 132,1 miliardi: cifra esattamente corrispondente all'aumento nominale del Pil, diminuito però in termini reali. Per ogni euro di crescita apparente, dunque, l'Erario ha intascato un euro in più: è l'eredità di quello che nel rapporto viene definito «il ventennio perduto», iniziato nel 1993 e proseguito con 12 differenti governi. Senza che nemmeno gli esecutivi tecnici siano riusciti a invertire la rotta. Negli ultimi 600 giorni, 530 dei quali governati da Monti, il numero delle imprese è calato dell'uno per cento, il Pil è diminuito del 3,4 per cento, il credito al sistema produttivo ha subito una flessione di 65 miliardi, il debito pubblico è aumentato di 122 miliardi, la pressione fiscale è cresciuta dell' 1,8 per cento, la disoccupazione giovanile si è ingigantita dell' 8,5 per cento. Il numero delle persone senza lavoro è lievitato di 728 mila unità. La pressione fiscale sulle imprese risulta ben più elevata di quella per le famiglie: è arrivata al 68,3 per cento. Misura che vale il primato europeo e la quindicesima piazza mondiale. In Francia, dove pure non scherzano, il total tax rate sulle imprese è del 65,7 per cento. Ma in Germania scende al 46,8 per cento, per calare ancora in Spagna al 38,7 e planare nel Regno Unito al 35,5 per cento. «In Italia sembra si faccia apposta per penalizzare il patrimonio produttivo. Non possiamo sempre cercare scuse o alibi. Chi governa deve assumersi le proprie responsabilità. Ci vuole meno fisco, meno burocrazia, più credito, servizi pubblici efficienti. Se muoiono le imprese, muore il Paese», dice Giorgio Merletti. Ma se l'Italia, a sentire il presidente della Confartigianato, è un Paese fiscalmente e burocraticamente ostile all'impresa, non lo è certo meno rispetto al lavoro. Lo dicono chiaramente le tasse. Le imposte sul lavoro sono pari mediamente al 42,3 per cento, sono 4,6 punti al di sopra della media dell'Eurozona. Ancora. Il rapporto sottolinea come a una crescita del 4,5 per cento registrata in Italia a partire dal 1995, ha fatto riscontro un calo europeo di un punto. Risultato è un ulteriore ampliamento della forbice per il cosiddetto cuneo fiscale e contributivo, salito qui al 47,6 per cento per un dipendente a medio reddito senza figli, contro il 35,6 per cento della media Ocse. Non bastasse, dobbiamo fare i conti anche con un curioso controsenso: l'aumento inarrestabile delle tariffe dei servizi pubblici locali per famiglie e imprese, cominciato proprio dalla seconda metà degli anni Novanta, in coincidenza con l'avvio delle liberalizzazioni. Fatto sta che dal 1997 al 2012 si è assistito a una crescita del 66,4 per cento, 26,7 punti in più dell'inflazione. La tassa sui rifiuti, per esempio, recentemente inasprita con l'introduzione della Tares alla fine del 2011 con il decreto «salva Italia»: negli ultimi dodici anni le imposte sulla spazzatura hanno mostrato una progressione del 76,3 per cento. Su alcune categorie di imprese, poi, l'impatto della Tares è pesantissimo, con aumenti dell'imposta sui rifiuti che arrivano fino al 301,1 per cento. E di nuovo è avvilente il paragone con la Germania, dove dalla fine del 2007 all'inizio di quest'anno quella tassa è calata mediamente dello 0,2 per cento, mentre in Italia saliva del 22,9 per cento. Ma si capisce il perché confrontando l'andamento della spesa pubblica nei due Paesi. Mentre in Germania, considerando il periodo che va dal 2001 al 2011, diminuiva di 1,7 punti di Prodotto interno lordo, qui al contrario cresceva di 4 punti. Se la spesa pubblica italiana avesse seguito l'andamento tedesco, avremmo potuto risparmiare in un decennio 93,9 miliardi, quasi 9,4 l'anno. Perché non ci siamo riusciti? Si dice che la nostra spesa pubblica sia in larga misura «incomprimibile». Sarà. Resta però «incomprensibile» il fatto che nelle venti Regioni, le cui uscite incidono per oltre un quarto sul totale, ci siano livelli tanto differenti. Ecco allora che allineando semplicemente i livelli di spesa per le retribuzioni dei dipendenti e le forniture a quelli degli enti più virtuosi si potrebbero ottenere risparmi rilevantissimi. L'ufficio studi della Confartigianato li cifra in 20 miliardi 193 milioni. Ovvero, l'intero gettito previsto lo scorso anno per l'Imu dal governo Monti.

GLI SPRECHI DELLA MAGISTRATURA.

I dipendenti pubblici costano 163 miliardi. I magistrati i più pagati, i dipendenti comunali in coda. I dati della Ragioneria. La fotografia, come ogni anno, l'ha scattata la Ragioneria generale dello Stato. Ma mai come quest'anno la descrizione di chi siano e quanto costino i dipendenti pubblici è stata così dettagliata. Per il suo personale, sia quello "dipendente" che gli "esterni", lo Stato spende 163 miliardi di euro. Centosessantuno miliardi se ne vanno per gli stipendi dei dipendenti, altri 2,5 miliardi per il personale estraneo alla Pubblica amministrazione. I costi maggiori sono per la scuola (41 miliardi) e per la sanità (circa 40 miliardi). Poi via via gli altri settori. Ventuno miliardi gli enti locali, 17 miliardi le forze dell'ordine. Una curiosità. Ogni anno per il "benessere del personale dipendente", secondo i dati della Ragioneria, lo Stato spende circa 123 milioni di euro. Ma quanto guadagna mediamente un dipendente pubblico? 34 mila euro, secondo i dati della Ragioneria. Le medie, ovviamente, dicono poco. Conviene dividere le categorie per capire le differenze. I magistrati sono i più pagati, guadagnano mediamente 131 mila euro l'anno. Più di ambasciatori e ministri plenipotenziari. I diplomatici incassano circa 93 mila euro l'anno. I meno pagati sono i ministeriali. Devono accontentarsi di 29.420 euro annui, poco meno dei 29.700 euro dei dipendenti di Regioni e Comuni.  Anche sulle assenze dal lavoro (ferie, malattie, congedi, legge 104) i dati cambiano molto da amministrazione ad amministrazione. Complessivamente i giorni di assenza dei pubblici dipendenti, nel 2011 sono stati 161 milioni. Oltre 93 milioni quelli delle donne, 67 milioni e passa quelli degli uomini. Circa 95 milioni sono i giorni di ferie, mentre i giorni di malattia sono stati 31 milioni. Mediamente le maggiori assenze sono state quelle del comparto della polizia (55 giorni per gli uomini e 68 per le donne). I più presenti sul posto di lavoro, secondo la Ragioneria, sarebbero i magistrati (4,37 giorni le assenze medie degli uomini e 2,37 quelle delle donne), ma manca il dato fondamentale dei giorni di ferie.

La Giustizia italiana: lentezze, ritardi ed errori dei magistrati costano carissimo.

Sette anni per arrivare a una sentenza civile, quasi cinque nel penale e un fiume di denaro che lo Stato paga per gli errori dei magistrati: ecco il bilancio della giustizia fatto dal ministro Paola Severino, scrive “Oggi”. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, presenta alla Camera dei Deputati una relazione sullo stato della giustizia italiana e ne emerge un quadro sconfortante. Troppi processi: 9 milioni ogni anno tra cause penali e civili; insopportabile lentezza nei procedimenti: nel 2011 lo Stato ha sborsato 84 milioni di euro per gli indennizzi delle cause lumaca; troppi errori giudiziari: sempre l’anno scorso 2.369 procedimenti sono costati allo Stato 46 milioni di euro.

NOVE MILIONI DI PROCESSI - Una mole enorme di cause arretrate intasa i tribunali, con tempi per ottenere giustizia che diventano biblici. Occorrono infatti  2.645 giorni (sette anni e tre mesi) per arrivare a sentenza in una causa civile e 1.753 giorni (4 anni e 9 mesi) nel penale. Secondo Bankitalia la sola lentezza delle cause civili ha un costo che corrisponde all’1 per cento del Pil, oltre 16 miliardi di euro nel 2011. Non basta: ogni anno si aggiungono 2,8 milioni di nuove cause che iniziano il loro lento iter, sommandosi alle altre.

CAUSE TROPPO LENTE: 84 MILIONI RISARCITI NEL 2011 –  La giustizia italiana, troppo lenta, costa cara allo Stato. “Una vera esplosione del contenzioso”, dice il ministro Severino, “ha fatto lievitare il numero delle richieste di indennizzo, passate da 3.580 nel 2003 a 49.596 nel 2010”, fino a richiedere nel 2011 un esborso da parte dello Stato di 84 milioni di euro, contro i 5 milioni del 2003. Inutile dire che questa valanga di ricorsi allunga ulteriormente il tempo necessario per arrivare a sentenza in tutti i processi dilatando ancor di più il contenzioso, già enorme.

ERRORI E INGIUSTE DETENZIONI: LO STATO PAGA ALTRI 46 MILIONI - Il capitolo più imbarazzante riguarda gli indennizzi che lo Stato è condannato a versare per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Dovrebbe trattarsi di casi rari, invece la media degli ultimi anni è allarmante: quasi 2.400 procedimenti ogni anno. Nei quali molto spesso è proprio lo Stato ad avere torto. Basti pensare che solo nel 2011 i risarcimenti versati lo Stato verso chi è rimasto vittima di un errore giudiziario o ha subito un periodo di ingiusta detenzione sono stati pari a oltre 46 milioni di euro. Senza contare che sono ben 28 mila le persone detenute ma ancora in attesa del processo.

Magistratura, alcuni privilegi da abolire subito, scrive Alessio Liberati su “Il Fatto Quotidiano”. Sarebbe bello se il primo provvedimento di questo parlamento (il primo con il M5S) fosse una legge seria contro i privilegi ingiusti. Infatti, in questo periodo si parla molto di privilegi dei parlamentari, i primi con i quali i nuovi cittadini eletti nelle fila dei senatori e dei deputati dovranno confrontarsi. Ma nei meandri della pubblica amministrazione si celano moltissimi altri privilegi, alcuni dei quali sconosciuti ai più, e rispetto ai quali sarebbe doveroso intervenire quanto prima, per rispetto nei confronti di tutti coloro che della crisi risentono davvero e sono costretti a fare enormi sacrifici. Ne cito solo alcuni, augurandomi che tutti (cittadini, tecnici e personale amministrativo) vogliano collaborare a segnalare i privilegi di cui sono a conoscenza: il primo passo è una informazione ed una pubblicità completa e trasparente. Ecco una prima lista:

1) le propine (emolumenti) degli avvocati dello Stato: tale categoria percepisce già lo stipendio equiparato a quello di magistrato, pur non essendo tali, non paga per uffici e strutture (in quanto pubblici dipendenti) e, oltre a tutto ciò, prende anche una sostanziosa parte degli importi che i giudici liquidano in caso di vittoria. Insomma, se perdono paga lo Stato (cioè noi), se vincono paga ancora lo Stato, ma direttamente a loro.

2) il carico di lavoro dei magistrati amministrativi. Da poco vige anche un divieto espresso di lavorare di più, ma allo stesso tempo vengono autorizzate decine e decine di incarichi ogni anno dall’organo di autogoverno della magistratura amministrativa.

3) la presenza in ufficio dei giudici amministrativi, che vanno in ufficio … due giorni al mese! Loro si difendono dicendo che lavorano a casa, con un carico enorme. Avendo fatto quel lavoro ed avendo denunciando da sempre che non è vero, mi permetto di fare una proposta: almeno 4 giorni a settimana in ufficio, per almeno 8 ore (con cartellino e tornelli) e almeno 3 udienze a settimana, come fanno i giudici ordinari.

4) l’indennità giudiziaria di avvocati dello Stato e magistrati amministrativi: i giudici penali ed i pubblici ministeri ricevono minacce, vivono scortati, hanno una vita fortemente condizionata dal loro ruolo, specie nelle regioni del sud. È giusto che abbiano una indennità per la funzione. Non altrettanto per i giudici amministrativi, che fruiscono di questa indennità senza alcuna ragione.

5) il ricco stipendio aggiuntivo che si sono autoattribuiti i membri del Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa, con una mera delibera interna.

6) unificazione delle strutture e degli uffici giudiziari e divieto di affittare palazzi storici da destinare a sedi dei magistrati amministrativi e degli avvocati dello Stato.

7) un tetto massimo onnicomprensivo per gli stipendi pubblici, senza eccezioni di sorta, sul modello svizzero.

8) un tetto massimo di guadagno per i notai, che sono pur sempre pubblici ufficiali.

9) riduzione dello stipendio del Primo presidente della Corte di Cassazione (che prende circa il triplo della media dei magistrati): così si eviterà la favola che gli stipendi dei parlamentari (e di molti altri) sono parametrati a quelli dei magistrati, mentre sono invece parametrati a quello dell’unico magistrato super-pagato.

10) i doppi, tripli e quadrupli incarichi “extra” presso pubbliche amministrazioni da parte di avvocati di Stato, magistrati amministrativi e magistrati della Corte dei Conti, che per legge devono difendere o decidere sulle cause delle amministrazioni: mai conflitto di interesse è stato più evidente.

PARLIAMO DEL PROCESSO AI MAGISTRATI: LA CASTA DELLE CASTE.

Scarsa produttività. Merito non premiato. Così nei tribunali si sono accumulate 9 milioni di cause non smaltite. Fannulloni? Improduttivi? La stragrande maggioranza. Eppure i magistrati potrebbero da soli dare un duro colpo alla crisi della giustizia. Trasformare l'autogoverno, spesso usato come scudo a difesa della corporazione, in leva per riscattare la credibilità dello Stato. Ci vuole poco: basta che lavorino tutti di più e si organizzino meglio. Questo non farebbe uscire la dea bendata dal baratro in cui l'hanno sepolta nove milioni di cause non smaltite e una valanga di leggi create apposta dai governi per insabbiare i processi. Ma di sicuro con un'autoriforma della magistratura si potrebbe cominciare a far arrivare aria nuova nei tribunali italiani. Da una inchiesta de “L’Espresso”, a firma di Gianluca De Feo, si rileva tutto ciò.

I modelli virtuosi. Una rivoluzione è possibile. Anche senza nuovi soldi. I primi studi statistici sulla produttività dei giudici mostrano che ci sono ampi margini per cambiare rotta e aumentare la quantità di fascicoli smaltiti. Un ricerca guidata da Andrea Ichino, Decio Coviello e Nicola Persico indica la possibilità di far decollare la produttività anche del 40 per cento. Dati teorici, certo. Che però trovano conferma in alcuni esempi molto concreti. Persino la Cassazione, un tempo simbolo di magistratura polverosa e arcaica, sta diventando un modello di rivincita. La Suprema Corte si è data una scossa, ridefinendo le procedure, inserendo più informatica, organizzando meglio i ranghi. Tanto è bastato a creare uno scatto: nel civile il bilancio è andato in attivo, sbrogliando molti più processi di quanti ne arrivino. Lo scorso anno ne sono stati licenziati 33 mila mentre le nuove pratiche sono state 30 mila. E tutto senza compromettere il garantismo. A Torino, il Tribunale civile ha stravolto la consuetudine del lavorare con lentezza. Il segreto? Un decalogo con 20 regole semplici, concordate con gli avvocati. Dal 2001 la montagna di arretrati è stata amputata di un terzo: dagli archivi hanno dissepolto liti per eredità vecchie di due generazioni e controversie commerciali per prodotti diventati nel frattempo antiquariato. Adesso in quelle aule si riesce a vedere l'Europa: il 93 per cento delle cause si chiude entro tre anni, il 66 in un anno. Ma anche nel tribunale penale di Roma c'è stata una razionalizzazione.

Profondo nero. E allora, perché la situazione nazionale continua a peggiorare? Certo, c'è un quantità mostruosa di cause che si riversano nei tribunali, anche per colpa di governi che rendono tutto reato, persino la contrattazione con le prostitute. E c'è un proliferare di ricorsi che non ha pari nel mondo, fatti apposta per alimentare una schiera di avvocati altrettanto vasta. Ma a dispetto di questa tempesta di nuova cause e a dispetto dei primati delle corti modello, la produttività pro capite dei magistrati italiani continua a precipitare. I giudici dei tribunali sono passati da 654 fascicoli chiusi ogni anno del 2001 a soli 533 del 2006. È come se un delitto su cinque venisse dimenticato. Ma se si cerca di dare un peso alla statistica, allora diventa ancora più grave la frenata delle corti d'appello: i 177 casi annuali si sono ridotti a 145. E ogni ritardo in questa fase apre le porte alla prescrizione che cancella i reati e si trasforma nella negazione di ogni giustizia. La radiografia della catastrofe è stata presentata dal Ministro della Giustizia. L'arretrato civile è di 5.425.000 fascicoli, quello penale di 3.262.000. Un processo civile dura in media 960 giorni per il primo grado, 50 mesi l'appello. Quasi sette anni prima di arrivare alla Cassazione: un tempo umiliante che distrugge la vita delle aziende e dei cittadini. Nel penale ci vogliono 426 giorni per la prima sentenza e due anni per l'appello: il che significa l'impunità assicurata per un'infinità di crimini. Un altro studio disegna la Caporetto della giustizia. È un lavoro condotto da Riccardo Marselli e Marco Vannini, professori che si dedicano da anni ad applicare valutazioni oggettive nel mondo confuso dei tribunali: ben 17 distretti giudiziari su 29 risultano 'tecnicamente inefficienti'. I due docenti giungono a una conclusione pessimistica: la quantità dei fascicoli che si accumula è tale da annichilire ogni speranza. Senza demolire questa zavorra non si può rendere efficace il sistema. Allo stesso tempo però la ricerca statistica sottolinea come si possa fare di più: se tutti i magistrati si portassero sul livello dei più sgobboni, un decimo dell'arretrato nel civile e il 14 per cento di quello penale potrebbe venire cancellato. Una stima che aumenta nei tribunali meridionali, meno dinamici: un quinto dei fascicoli accatastati nel civile e quasi un quarto di quelli penali scomparirebbero. Utopia?

Senza qualità. Tutti sostengono che i fannulloni sono pochi. Ma dietro i giudici da prima pagina, dietro i pool che sgobbano in silenzio, dietro i pm antimafia che rischiano la vita c'è una massa di magistrati 'senza qualità'. Hanno fatto del quieto vivere una regola aurea: evitano errori e grane, detestano stakanovismi e protagonismi, diffidano dell'informatica e dei modelli aziendali. Più sciatti che lavativi, talvolta arroganti con i colleghi e maleducati con gli utenti, ma soprattutto poco produttivi. Era rivolto a loro il discorso choc pronunciato dal segretario di Magistratura Democratica, la corrente 'rossa' delle toghe ma anche quella storicamente più impegnata sul fronte dell'efficienza: "Nessuno dovrà sentirsi indifferente alla esigenza di un progetto organizzativo minimo per ogni ufficio. Dovremo osare di più, perché nessuno potrà rifugiarsi nella rivendicazione di un ruolo indipendente. Che, se non produce risultati, non serve a nessuno ed è destinato inevitabilmente a declinare", disse l'allora segretario Juan Ignazio Patrone. E ancora: "Il quieto vivere della corporazione non è più compatibile con il dovere di offrire risposte adeguate e qualitativamente decenti alla domanda sociale di giustizia". Belle parole. Ma chi controlla se le toghe lavorano?

Carriera garantita. Finora venivano promossi per anzianità, anche se si rimaneva a compiere le stesse mansioni: oggi quasi sette magistrati su dieci ricevono uno stipendio superiore all'incarico che svolgono. Ma se il lavoro non cambia, allora in cosa consiste la promozione? Nello stipendio, anzitutto. Dal 2003 al 2006 il numero di magistrati ordinari è leggermente diminuito, ma la spesa per le loro paghe è lievitata: oltre il 16 per cento in più. Nel 2003 per 9.043 tra giudici e pm lo Stato spendeva 842 milioni; un triennio dopo l'organico era sceso a 9.019, ma il costo era arrivato a 978 milioni: 136 in più, un incentivo niente male. E i dati mostrano che le retribuzioni medie delle nostre toghe (vedi tabella seguente) sono tra le più alte d'Europa. Il premio c'è, senza legami con la quantità o la qualità. Ma la punizione? Poche le sanzioni del Consiglio superiore. E ancora di meno quelle proposte dagli ispettori ministeriali: nell’ultimo anno si sono contate sulle dita di una mano. Il bilancio del Csm, organo di autogoverno della magistratura, può essere letto in chiaro scuro. In un decennio ha giudicato 1.282 toghe. Ne ha condannate 290, spesso con sanzioni simboliche che pesano però sulle nomine chiave; altre 156 si sono dimesse prima del verdetto: in tutto, fa circa 45 'puniti' l'anno sui 9 mila magistrati italiani, lo 0,5 per cento. "Le verifiche statistiche sul lavoro dei magistrati sono insensate", taglia corto Piercamillo Davigo, protagonista di Mani pulite oggi giudice di Cassazione: "Non voglio fare il corporativo. Ma anche nei militari esistono valutazione periodiche: nel loro sistema l'indipendenza non è un valore, anzi. Eppure le loro valutazioni si concludono sempre con giudizi eccellenti. Perché nessuno se ne preoccupa? Anche loro finiscono con il diventare tutti generali. Se si discute solo della nostra produttività, temo che le finalità siano diverse". Davigo cita un episodio: il record di produttività di un procuratore aggiunto lombardo. "Era un cialtrone, ma si vantava di avere smaltito 330 mila procedimenti in un anno. Come faceva? Aveva una squadra di carabinieri, armati con un timbro di gomma che riproduceva la sua firma, che su tutti i fascicoli stampavano 'Non doversi procedere perché rimasti ignoti gli autori del reato'". L’odierno sistema di valutazione ha un solo limite: l'esame è affidato al consiglio giudiziario, un piccolo parlamento eletto dai magistrati a livello locale su modello del grande Csm nazionale. "In pratica gli eletti devono valutare i loro elettori. È come se in un'azienda le promozioni fossero illimitate e decise dai rappresentanti dei dipendenti. Ve lo immaginate?", spara a zero Carlo Guarnieri, docente a Bologna e tra i più attenti critici 'laici': "Ci vorrebbero commissioni esterne, nominate dal Csm. Così questi meccanismi sono inutili, anche perché non ci sono incentivi: chi non ha voglia di lavorare sa di rischiare poco". Mentre per essere puniti bisogna farla veramente grossa. Ennio Fortuna, procuratore generale di Venezia, ha scritto sulla rivista dell'Associazione magistrati: "Nel nostro ambiente i pochi che ci marciano sono ben noti a tutti". E perché non vengono denunciati? Perché è necessario che gli otto anni di ritardo nello scrivere le motivazioni di una sentenza, con conseguente scarcerazione dei condannati, diventino un caso solo dopo la denuncia di 'Repubblica'? La vicenda di Edi Pinatto, giudice ragazzino passato da Gela a Milano lasciando l'arretrato in sospeso è diventata esemplare. Nei palazzi di giustizia si sente spesso una lamentela, comune tra pm e avvocati. I capi non denunciano i fannulloni. I capi non organizzano il lavoro. I capi non aggrediscono l'arretrato. Quella dei dirigenti è l'altra grande questione, fondamentale per risollevare la produttività. Finora la managerialità non pesava nella designazione: si diventava procuratori e presidenti per anzianità e accordi tra le correnti sindacali. Il peso dell'arretrato È chiaro, da soli i magistrati non potranno mai risolvere tutto l'handicap. Una ricerca del ministero indica l'impresa come impossibile. Per rianimare le Corti d'appello ci vorrebbero 134 nuovi giudici, tutti Stakanov, tutti preparatissimi e capaci di dare subito il massimo. Senza nuove regole organizzative, però, ogni rinforzo sarebbe inutile. Nella Corte d'appello penale, l'anticamera della prescrizione e quindi la discarica dei processi, servirebbero 32 mesi di lavoro solo per smaltire l'arretrato. Ma con poche regole di buon senso si potrebbe invertire la rotta. Ad esempio la standardizzazione dei fascicoli. Avete mai messo le mani nei faldoni di un processo? Spesso somigliano alle valige di fine vacanza: sciogliendo i lacci esplodono, rivelando una confusione profonda. Quando l'incartamento passa da un pm al suo sostituto, ci vogliono ore solo per trovare il bandolo della matassa. Invece, basterebbero pochi schemi condivisi per non sprecare tempo. Ma la rivoluzione può arrivare anche da un uso integrato dell'informatica: creare procedure a misura di rete. A Milano fino a dieci anni fa nelle udienze civili a turno uno degli avvocati scriveva a mano il verbale. Oggi nella stessa città usando il Web per uno solo dei passaggi del processo civile si sono guadagnati 60 giorni: il decreto ingiuntivo telematico ha fatto risparmiare due mesi di meno ad avvocati, cittadini e tribunale. Cosa ci vuole ad estenderlo a tutta Italia?

Autonomia e corporativismo. Alla politica l'efficienza non interessa. E c'è la resistenza 'culturale' di una parte consistente dei magistrati. Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino, ha dedicato un intero capitolo del suo ultimo libro 'La questione immorale' alle "colpe dei magistrati". Racconta tra l'altro del programma informatico che aveva creato per coordinare le agende dei protagonisti del processo ed evitare quei rinvii che sfiancano la giustizia. Un'iniziativa che invece di procurargli una medaglia venne accolta con disprezzo dal Csm. "Quel programma è ancora lì ma nessuno lo usa. E ho capito che il processo penale è quello che è per via delle leggi stupide, delle leggi ad personam, della carenza di uomini e mezzi, ma anche, e in chissà quale percentuale, per via dell'incapacità organizzativa dei magistrati e dei dirigenti degli uffici".

E ai governi i giudici fannulloni sono sempre piaciuti: "La politica offre uno scambio ai meno produttivi: io non minaccio i tuoi privilegi, tu non minacciare me", sintetizza il professor Guarnieri. Perché un modello di efficacia la magistratura italiana lo ha creato e imposto nel mondo. Una squadra che lavorava sette giorni su sette, con processi avviati in fretta e una percentuale di condanne irripetibile, un elevato livello di informatizzazione e una produttività mai eguagliata. Si chiamava “Pool Mani Pulite”. Lo detestavano politici, imprenditori e grand commis. Lo detestava una fetta consistente degli stessi giudici. Ed è proprio per evitare che quel modello venisse riprodotto ancora oggi si varano riforme su riforme, destinate a distruggere ogni speranza di giustizia.

Remunerazione garantita. Ecco la busta paga togata e l’organico previsto ed esistente.

 

 

 

 

 

QUALIFICHE

VECCHIE QUALIFICHE

ANZIANITÀ

STIPENDIO

LORDO INCLUSE INDENNITÀ

Magistrato ordinario in tirocinio

Uditore dopo 6 mesi

1

2.037,24

3.429,92

Uditore dopo 6 mesi

2

2.037,24

3.429,92

Magistrato ordinario

Magistrato di Tribunale

3

2.858,12

4.830,06

Magistrato di Tribunale

4

2.858,12

4.830,06

Magistrato ordinario dalla prima valutazione di professionalità

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

5

3.966,65

6.006,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

6

3.966,65

6.006,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

7

4.204,65

6.244,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

8

4.204,65

6.244,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

9

4.442,65

6.482,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

10

4.442,65

6.482,30

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

11

4.680,65

6.720,29

Magistrato di Tribunale dopo 3 anni

12

4.680,65

6.720,29

Magistrato ordinario dopo un anno dalla terza valutazione di professionalità

Magistrato di Corte di Appello

13

5.877,04

7.950,53

Magistrato di Corte di Appello

14

5.877,04

7.950,53

Magistrato di Corte di Appello

15

6.148,28

8.221,77

Magistrato di Corte di Appello

16

6.148,28

8.221,77

Magistrato di Corte di Appello

17

6.419,53

8.493,02

Magistrato di Corte di Appello

18

6.419,53

8.493,02

Magistrato di Corte di Appello

19

6.690,78

8.764,27

Magistrato ordinario dalla quinta valutazione di professionalità

Magistrato di Cassazione

20

8.074,23

10.181,57

Magistrato di Cassazione

21

8.074,23

10.181,57

Magistrato di Cassazione

22

8.262,01

10.369,34

Magistrato di Cassazione

23

8.262,01

10.369,34

Magistrato di Cassazione

24

8.449,78

10.557,12

Magistrato di Cassazione

25

8.449,78

10.557,12

Magistrato di Cassazione

26

8.637,55

10.744,89

Magistrato di Cassazione

27

8.637,55

10.744,89

Magistrato ordinario alla settima valutazione di professionalità

Magistrato di Cassazione F.D.S.

28

10.343,59

12.504,25

Magistrato di Cassazione F.D.S.

29

10.343,59

12.504,25

Magistrato di Cassazione F.D.S.

30

10.563,67

12.724,33

Magistrato di Cassazione F.D.S.

31

10.563,67

12.724,33

Magistrato di Cassazione F.D.S.

32

10.783,74

12.944,40

Magistrato di Cassazione F.D.S.

33

10.783,74

12.944,40

Magistrato di Cassazione F.D.S.

34

11.003,82

13.164,48

Magistrato di Cassazione F.D.S.

35

11.003,82

13.164,48

Magistrato di Cassazione F.D.S.

36

11.223,90

13.384,56

Magistrato di Cassazione F.D.S.

37

11.223,90

13.384,56

Magistrato di Cassazione F.D.S.

38

11.443,97

13.604,63

Magistrato di Cassazione F.D.S.

39

11.443,97

13.604,63

Magistrato di Cassazione F.D.S.

40

11.664,05

13.824,71

Magistrato di Cassazione F.D.S.

41

11.664,05

13.824,71

Magistrato di Cassazione F.D.S.

42

11.884,13

14.044,78

Magistrato di Cassazione F.D.S.

43

11.884,13

14.044,78

Magistrato di Cassazione F.D.S.

44

12.104,20

14.264,86

Magistrato di Cassazione F.D.S.

45

12.104,20

14.264,86

Magistrato con funzioni apicali di legittimità

Primo Presidente della Corte di Cassazione

 

16.628,45

18.854,71

Ci sono magistrati che la toga, si può dire, quasi non l’hanno indossata. Sono fuori ruolo a oltranza. Così risulta da un’inchiesta di Panorama.

E si costruiscono quelle che il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009, ha definito “carriere parallele”. Stesso termine usato dal Csm nella circolare del marzo 2008 con la quale ha cercato di mettere un freno a “un numero eccessivo di richieste di destinazione di magistrati a funzioni extragiudiziarie, in un momento storico caratterizzato da gravi scoperture di organico e da un’intollerabile lunghezza dei tempi del processo”. Concetto che, il 26 maggio 2009, è diventato un vero appello al ministro Angelino Alfano.

Vediamo qualche esempio. Claudio Buttarelli: nominato uditore giudiziario nel 1986, 3 anni dopo lascia il posto e rimane fuori ruolo ininterrottamente fino a oggi, è garante aggiunto europeo per la protezione dei dati personali, dopo essere stato segretario generale dell’Autorità per la privacy.

C’è anche Francesco Crisafulli, in magistratura nel 1986 e fuori ruolo dal 1992: prima alla presidenza della Repubblica poi, dal 2000, come esperto giuridico alla Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa. Il Csm ha di recente autorizzato un prolungamento del suo status di fuori ruolo con una motivazione singolare: riconosciuto che è stato superato qualsiasi normale limite temporale, l’interessato non andrebbe più considerato un magistrato, ma “quasi” un ambasciatore.

Di limiti temporali, in effetti, ne sono stati fissati nel 2008, con una legge e una circolare del Csm: 5 anni, poi un’interruzione di altrettanti e ancora un’autorizzazione per altri 5, fino al massimo di un decennio. Ma l’Italia è il paese delle deroghe. Claudia Gualtieri, giudice di tribunale a Venezia dal 1998, lascia le funzioni giudiziarie nel 2003 per diventare esperto nazionale presso la Commissione europea (direzione generale Giustizia, libertà e sicurezza) e poi la rappresentanza italiana presso l’Unione Europea: su 9 anni, insomma, fa il magistrato solo per 5.

Casi eclatanti che sono stati raccolti in un dossier dall’Unione camere penali (Ucpi), che da anni denuncia il paradosso di un sistema giudiziario che ha vistosi buchi d’organico, accumula inefficienza e lentezze eppure è di manica larga, larghissima, quando si tratta di prestare, anche per decenni, i magistrati ad altre amministrazioni, a organismi politici e internazionali in tutto il mondo.

Oggi i fuori ruolo con altri incarichi sono 256 e arrivano a 277 con quelli in aspettativa come parlamentari, amministratori di comuni, province e regioni, membri del Csm e per altri motivi (vedere la tabella in basso). Questo mentre ci sono 1.357 posti vuoti negli uffici giudiziari sempre più in affanno. E poi si dovrebbero aggiungere i tanti magistrati che ottengono incarichi extragiudiziari part-time e non lavorano a tempo pieno. Mentre un po’ in tutte le sedi si cercano soluzioni per ricoprire le sedi vacanti, l’Anm contrasta i trasferimenti d’ufficio prospettati dal governo in nome dell’inamovibilità delle toghe, ma accenna solo timidamente, secondo i penalisti, all’esercito dei magistrati fuori ruolo sottratti alle funzioni giudiziarie per lavorare a Palazzo Chigi, nei ministeri, alla Corte costituzionale, al Quirinale, in commissioni e autorità, organismi internazionali e ambasciate, missioni varie all’estero.

Tutte queste toghe fuori ruolo continuano a percepire il loro stipendio al quale aggiungono in alcuni casi indennità che vanno dai 50 mila euro l’anno per gli assistenti dei giudici costituzionali ai 115 mila per i più gratificati dalle varie amministrazioni, con punte che arrivano addirittura oltre i 300 mila. Queste cifre generano un notevole squilibrio retributivo, se si pensa che il primo presidente della Cassazione, cioè il magistrato italiano più alto in grado, ha uno stipendio di 278 mila euro l’anno.

“Il fenomeno dei fuori ruolo” dice il presidente dei penalisti Oreste Dominioni “inquina gravemente i rapporti tra politica e magistratura, compromettendo l’indipendenza dell’una e dell’altra. Crea una supercasta di potere, che è quella che realmente regola i rapporti con la politica. Così si sacrificano le risorse giudiziarie sull’altare del potere. I numeri parlano chiaro e così gli “eccellenti” emolumenti economici riconosciuti a questa supercasta giudiziaria, paragonabili solo a quelli degli alti funzionari dello Stato. Si richiami subito in ruolo la stragrande maggioranza di questi magistrati, perché ritornino a esercitare le loro funzioni. Si parla tanto di sedi vacanti, ma la loro copertura è impedita da anacronistici privilegi”.

Vediamo dove sono dispersi questi magistrati fuori ruolo. Mettiamo da parte quelli cosiddetti elettivi, cioè i 12 parlamentari, i 4 che hanno mandati in regioni, province e comuni, l’unico (Luigi De Magistris) candidato alle elezioni europee e i 16 componenti del Csm. Guardiamo invece ai 132 impegnati per il governo, come capi di gabinetto, capi e addetti all’ufficio legislativo, fino a quelli con semplici funzioni amministrative: dai 12 alla presidenza del Consiglio ai 71 al ministero della Giustizia, più i 16 all’Ispettorato sempre di via Arenula e il resto disperso negli altri ministeri.

La giustizia italiana poi si concede pure di avere ben 7 magistrati nella missione Eulex in Kosovo, alcuni dei quali già in passato sono stati per anni fuori ruolo per altri incarichi.

“Questi magistrati” incalza Dominioni “svolgono funzioni del tutto estranee a quella giudiziaria o assolutamente indifferenti alla loro esperienza professionale”. E cita i 28 alla Corte costituzionale, i 9 nelle istituzioni e commissioni del Parlamento e delle diverse autorità e la trentina di esperti presso ambasciate o istituzioni estere, più i 17 che svolgono funzioni amministrative al Csm. Per legge, nel 2008, è stato fissato un tetto massimo per i fuori ruolo di 200 unità, senza calcolare quelli da destinare alla presidenza della Repubblica, al Csm, alla Corte costituzionale e gli eletti, per un totale di 82. Il tetto attuale è quindi di 282, mentre quello stabilito poco prima con una circolare del Csm era di 65, più i soliti casi speciali (ministero della Giustizia, Csm, Scuola della magistratura) fino ad arrivare a 248. Non basta: al Csm c’è un certo allarme (infatti l’ufficio studi ha elaborato un parere in proposito) perché sono in aumento le domande di aspettativa per motivi vari da parte di magistrati che scelgono le più diverse destinazioni professionali, spesso lontane dagli interessi dell’amministrazione giudiziaria, e c’è il rischio che questo strumento sia utilizzato proprio per aggirare il limite fissato per i fuori ruolo. Quanto al problema delle candidature dei magistrati, l’Ucpi con la sua proposta tocca un punto dolente. Anche il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, è convinto che dopo essersi candidato e quindi avere “ammesso di essere divenuto di parte, non foss’altro perché si è schierato con una forza politica”, un magistrato non possa tornare a indossare la toga. Lo ha detto a Palazzo De’Marescialli in marzo, quando il plenum ha esaminato la richiesta di aspettativa di De Magistris per le europee. Secondo Mancino il Parlamento dovrebbe vietare il rientro in magistratura e garantire, a domanda, la mobilità nella pubblica amministrazione, nella funzione e nel ruolo corrispondenti a quello precedente. Ma i penalisti chiedono l’ineleggibilità dei magistrati che dovrebbero perciò dimettersi 6 mesi prima di accettare una candidatura. Certo, però, sembra che ad indicare la luna, da stupidi si guardi il dito. Il problema non è la militanza politica fuori ruolo, ma quella svolta all’interno del sistema giudiziario, in seguito alla spartizione degli incarichi, come succede alla RAI, alla sanità, ecc. ecc. 10 giugno 2009. Angelino Alfano, Ministro della Giustizia parla, alla rubrica “Punto di vista”  del Tg2  della RAI, di nomine lottizzate ai vertici degli uffici giudiziari; "un planning, all'interno del quale si dice: a questa corrente spetta questa procura, a quest'altra corrente due procuratori aggiunti da un'altra parte". Parole che provocano una bufera al Csm. Tre consiglieri di sinistra - i togati Giuseppe Maria Berruti (Unicost), Ezia Maccora (Magistratura democratica) e il laico dei Ds, Vincenzo Siniscalchi - si dimettono dalla Commissione per gli incarichi direttivi, di cui sono stati presidenti, a tutela della "dignità" del Consiglio e ritenendo di essere stati accusati da Alfano del compimento di reati. Un fatto tanto più grave visto che ad accusarli è proprio il "loro" ministro, i cui rapporti con il Csm dovrebbero essere improntati alla leale collaborazione. Dopo le dimissioni dei tre consiglieri del Csm in polemica con le dichiarazioni del Ministro della Giustizia riguardo alla presunta «lottizzazione» degli incarichi, il Guardasigilli Alfano ha precisato: «Lo hanno fatto non dimettendosi dal Csm, ma dalla Commissione incarichi direttivi che a luglio sarebbe scaduta comunque. Mi sto battendo per evitare che i vertici degli uffici giudiziari, cioè i procuratori e i presidenti di Tribunale vengano lottizzati. Cioè, non è possibile che si faccia un planning, all'interno del quale si dica : a questa corrente spetta questa procura, a quest'altra corrente, siccome non ha avuto un procuratore, spettano due procuratori aggiunti da un'altra parte. Questi sono meccanismi che orami sono rifiutati anche in politica. Penso che invece a guidare le procure debbano andare i migliori, senza bisogno di controllare prima di mandarli a guidare un ufficio giudiziario qual è lo spillino della corrente che hanno affisso sulla giacca».

E che dire degli sprechi delle Consulenze esterne? Inchiesta sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati: notate bene il loro costo orario.  Pubblicato da Gianluca Abate su “Il Corriere del Mezzogiorno”. C’è il procuratore che «collabora» con la Presidenza del consiglio dei ministri (Cataldo Motta). Quello che insegna nelle università di mezz’Italia, compresa la prestigiosa Luiss Business School (Antonio Laudati). Quello che siede nel comitato etico del Centro oncologico della Basilicata (Vicenzo Russo). E poi ci sono i magistrati che tengono lezioni in facoltà, scuole, corsi di specializzazione. Eccole qui le toghe che, per dirla con il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, collaborano con la società civile e con le istituzioni» . Fanno i docenti, i consulenti, gli analisti. E sono tutti autorizzati dal Csm. Il Corriere del Mezzogiorno ha letto l’ultimo aggiornamento disponibile dell’elenco degli incarichi extragiudiziari autorizzati dal Consiglio superiore della magistratura nel primo semestre del 2011. Ecco chi sono i 67 magistrati pugliesi «impegnati nel sociale» . E cosa fanno. Bari L’elenco, in ordine alfabetico, inizia con Luigi Agostinacchio, giudice d’appello che fino all’ 11 luglio insegnerà procedura civile alla scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Bari: l’impegno previsto è di 13 ore, il compenso lordo di 1.300 euro. Presso lo stesso ateneo insegneranno un altro giudice d’appello, Michele Vincenzo Ancona (lezioni giuridiche fino al 30 giugno, 6 ore, 100 euro lordi l’ora) e il giudice del tribunale Salvatore Casciaro (corsi di diritto civile fino al 30 dicembre, 16 ore, 100 euro lordi l’ora). Daniele Colucci, giudice, fino al 30 giugno insegnerà invece diritto del lavoro all’Università del Molise (6 ore, 100 euro lordi l’ora), mentre il suo collega della corte d’appello, Marcello De Cillis, fino al 15 luglio terrà lezioni di procedura penale all’Università di Bari (13 ore, 100 euro lordi l’ora). Incarichi di docenza presso la stessa Università sono stati autorizzati anche per il pm Giuseppe Dentamaro (fino al 28 ottobre sarà «tutor» di procedura penale, 40 ore, 1.500 euro), il giudice Sergio De Paola (fino al 15 luglio tiene corsi di diritto penale, 14 ore, 100 euro l’ora), e il giudice d’appello Adriana Doronzo, (lezioni di procedura civile fino al 15 luglio, 13 ore, 100 euro l’ora). Pietro Errede, giudice del tribunale, fino al 30 giugno 2011 terrà invece corsi sulla gestione dei beni confiscati presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione (96 ore, 150 euro lordi l’ora, per un totale di 14.400 euro). Incarico gratuito invece per Patrizia Famà, giudice del lavoro che fino al 31 dicembre svolgerà esami di diritto penale del lavoro all’Università di Bari, per un totale di 8 ore. Giuseppe Gatti, pm, fino al 29 luglio insegnerà invece diritto costituzionale agli studenti del liceo ginnasio «Aristosseno» di Taranto (7 ore, 80 euro lordi l’ora), mentre fino al 31 dicembre terrà lezioni di diritto penale alla Scuola forense di Capitanata (16 ore, 200 euro ogni novanta minuti di lezione): il 31 maggio è terminato l’incarico all’Università di Foggia, dove ha insegnato diritto commerciale (8 ore, 200 euro lordi l’ora). Il sostituto pg Giuseppe Iacobellis fino al 6 agosto terrà corsi di diritto penale alla «Legione allievi» della Finanza (20 ore, 20.66 euro lordi per ogni lezione). Francesca La Malfa, presidente di sezione del tribunale, fino al 10 luglio insegnerà invece diritto penale all’Università di Bari (14 ore, 100 euro lordi l’ora). Sono invece terminati i cinque incarichi autorizzati da Palazzo de’ Marescialli per il procuratore Antonio Laudati: fino al 31 gennaio ha tenuto lezioni alla Scuola di perfezionamento per le forze di polizia (25 ore, 123.95 euro lordi l’ora), fino al 31 marzo ha svolto docenze sul contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata alla Scuola di polizia tributaria della Finanza (10 ore, compenso lordo orario di 120 euro), l’ 11 aprile ha insegnato diritto tributario alla Luiss Business School (4 ore, compenso lordo di 500 euro), il 15 aprile ha tenuto lezione all’Università romana di Tor Vergata (8 ore, 150 euro lordi l’ora) e fino al 29 aprile ha insegnato diritto penale al Suor Orsola Benincasa di Napoli (4 ore, 70 euro lordi l’ora). Fino al 30 ottobre, invece, Giuseppe Mastropasqua, magistrato di sorveglianza, terrà corsi di legalità al centro di orientamento «Don Bosco» di Andria (8 ore, docenze gratuite), mentre termineranno il 30 novembre le lezioni di diritto penale all’Università di Bari (14 ore, 100 euro lordi l’ora): il giudice ha anche insegnato diritto penale nello stesso ateneo (12 ore, incarico gratuito), diritto penale nel carcere di Bari (14 ore, 70.95 euro lordi l’ora) e il 16 aprile ha tenuto una lezione all’associazione «Cercasi un fine» (3 ore, compenso gratuito). Docenza all’Università di Bari pure per i giudici Pietro Mastrorilli (diritto del lavoro, fino al 30 dicembre, 10 ore, compenso lordo di 100 euro l’ora) e Valeria Montaruli (diritto penale, fino al 15 luglio, 14 ore, 100 euro lordi l’ora), e per il pm Renato Nitti, (diritto penale, fino al 30 giugno, 14 ore, 100 euro lordi l’ora): il pm tiene anche lezioni di diritto ambientale (20 ore, 80 euro lordi l’ora), di polizia giudiziaria (5 ore, 200 euro lordi l’ora) e diritto commerciale (4 ore, 200 euro lordi l’ora). Lecce Insegna procedura civile all’Università del Salento Annafrancesca Capone, giudice del tribunale: l’incarico, che durerà fino al 30 giugno per un totale di 20 ore, è «gratuito» . Alessio Coccioli, pm, terrà invece corsi di legalità all’istituto «Liside» di Taranto fino al 21 maggio 2012 (10 ore, compenso orario lordo di 80 euro), mentre il giudice Agnese Di Battista fino al 30 giugno insegnerà diritto penale all’Università del Salento (6 ore, incarico gratuito). Maria Silvia Dominioni, magistrato di sorveglianza, fino al 31 maggio 2012 terrà corsi di legalità all’istituto statale di Acquarica del Capo (10 ore, 800 euro lordi). Francesco Antonio Esposito, giudice d’appello, fino al 30 maggio svolgerà esercitazioni di diritto civile all’Università del Salento (10 ore, incarico gratuito), e sempre presso lo stesso ateneo insegneranno la sua collega Lucia Esposito (procedura civile, 50 ore, compenso non indicato), il presidente della sezione lavoro del tribunale Valentino Mario Fiorella (diritto del lavoro, 25 ore, compenso non definito) e i giudici Sergio Memmo, (10 ore, incarico gratuito) e Michele Toriello (20 ore, incarico gratuito). Cataldo Motta, procuratore della Repubblica, farà invece il «collaboratore» della Presidenza del consiglio dei ministri «in qualità di esperto» : il Csm l’ha autorizzato a partecipare (fino al 21 settembre 2012) a un tavolo tecnico sulla vittime della tratta, anche in questo caso l’incarico è gratuito. Trani Lezioni fino al 22 dicembre in una scuola media, la «Baldassarre» , per il pm Ettore Cardinali (progetto «Le(g) ali al Sud» , 10 ore, compenso unico di 800 euro). Paola Cesaroni, giudice del tribunale, fino al 30 giugno sarà «tutor» di procedura civile all’Università di Bari (40 ore, compenso lordo di 1.500 euro), e fino a quella data insegnerà diritto penale alla Jean Monnet anche Marco D’Agostino, pm: l’incarico è di 15 ore, il compenso di 100 euro lordi l’ora. Bruna Carmela Manganelli, pm, fino al 15 settembre farà tutorato di diritto penale all’Università di Bari (40 ore, 1.500 euro lordi). Foggia e Lucera Incarico all’Università di Foggia per il pm Giacomo Enrico Infante, che fino al 30 giugno insegnerà diritto penale (12 ore, compenso lordo di 2.400 euro), dopo aver terminato il 17 marzo il suo incarico all’istituto «Blaise Pascal» di Foggia (lezioni sul bullismo, 5 ore, 80 euro lordi l’ora). Vincenzo Russo, procuratore della Repubblica, è stato invece autorizzato fino al 28 febbraio 2013 a far parte del comitato etico del «Centro di riferimento oncologico» della Basilicata: l’impegno richiesto prevede la partecipazione alle riunioni (tre ore, una volta al mese), l’incarico è a titolo gratuito. A Lucera invece il giudice Michele Nardelli insegnerà diritto commerciale all’Università del Molise fino al 30 settembre (12 ore, compenso orario lordo di 40 euro) e terrà lezioni di procedura civile alla Scuola forense di Foggia fino al 31 dicembre (tre lezioni, 200 euro lordi per ognuna). È cessato il primo marzo, invece, l’incarico autorizzato per il procuratore Domenico Angelo Raffaele Seccia, che ha insegnato all’Università di Foggia (8 ore, compenso unico lordo di 1.600 euro). Gli altri incarichi Ecco i magistrati che nel corso del primo semestre del 2011 hanno invece portato a termine gli incarichi per cui erano stati autorizzati: Giuseppe Alfredo Allegretta (giudice a Trani, 36 ore, incarico gratuito), Ciro Angelillis (pm a Bari, 5 ore di lezione il 23 febbraio, 200 euro lordi l’ora), Achille Bianchi (giudice a Bari, 40 ore, 800 euro lordi), Giuseppe Biondi (giudice a Lecce, 8 ore, compenso gratuito), Giorgio Lino Bruno (pm a Lecce, 28 ore, compenso non specificato), Genantonio Chiarielli (giudice a Brindisi, 10 ore, 64 euro lordi l’ora), Danilo Chieca (giudice a Foggia, ha avuto due incarichi: uno di 4 ore il 9 marzo, 800 euro lordi, e uno di 3 ore, 200 euro lordi l’ora), Pasqualina Rita Curci (giudice a Foggia: un incarico di 3 ore, per 250 euro lordi, e un altro di 4, con compenso orario di 80 euro lordi), Giuseppe Nicola De Nozza (pm a Brindisi, 8 ore in due giorni, 60 euro lordi l’ora), Mirella Delia (giudice a Bari, 10 ore, 1.000 euro lordi), Grazia Errede (giudice d’appello a Lecce, 10 ore, compenso gratuito), Giacomo Marco Ferrucci (giudice a Lucera, 8 ore, 1.600 euro lordi), Rossana Giannaccari (giudice a Lecce, 25 ore, compenso gratuito), Luciano Guaglione (giudice d’appello a Bari, ha avuto tre incarichi: uno di 15 ore con compenso di 2.000 euro lordi, uno di 9 ore con compenso di 2.400 euro lordi, e uno di 16 ore con compenso di 600 euro), Antonio Laronga (pm a Foggia, 8 ore, 200 euro lordi l’ora), Giuseppe Infantini (giudice a Trani, 2 ore, 400 euro lordi), Valentino Lenoci (giudice a Bari, 20 ore, 2.000 euro lordi), Gennaro Lezzi (giudice a Foggia, 2 ore, 500 euro), Ada Luzza (presidente del tribunale per i minorenni di Lecce, 15 ore, compenso gratuito), Caterina Mainolfi (giudice d’appello a Lecce, 20 ore, compenso non indicato), Antonia Martalò (giudice a Lecce, 5 ore, 80 euro lordi l’ora), Valeria Elsa Mignone (pm a Lecce, 5 ore, 80 euro lordi l’ora), Simone Orazio (giudice a Taranto, 10 ore, 80 euro l’ora), Michele Parisi (giudice a Bari, 8 ore, compenso orario lordo di 200 euro), Gabriele Protomastro (giudice d’appello a Bari, 8 ore, 200 euro lordi l’ora), Paolo Rizzi (giudice a Foggia, ha avuto due incarichi: uno da 3 ore l’ 8 aprile, con compenso unico lordo di 250 euro, e un altro di 4 ore, 200 euro lordi l’ora), Maria Cristina Rizzo ((procuratore minorile a Lecce, 15 ore, incarico gratuito), Carmela Romano (giudice a Bari, 6 ore, 200 euro lordi l’ora), Pasquale Sansonetti (giudice a Lecce, 20 ore, compenso gratuito), Vincenzo Pietro Scardia (giudice d’appello a Lecce, 5 ore in due giorni, 80 euro lordi l’ora) e Alessandro Silvestrini (presidente di sezione del tribunale di Lecce, nominato vicepresidente della commissione di concorso per l’esame di notaio).

La Legge dimenticata sui Magistrati fuori ruolo: Doveva porre fine ai Privilegi, scrivono Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Accidenti: dimenticato! Non è chiaro chi dovesse farsi un nodo al fazzoletto per ricordare la scadenza della legge delega con cui il governo doveva metter ordine nel caos dei magistrati fuori ruolo «provvisoriamente» aggregati ai vertici delle burocrazie. Fatto sta che il tempo è scaduto. E tutto, tra i sospiri di sollievo dei giudici che fanno altri mestieri, resta come prima. Privilegi compresi. La giungla di queste «toghe» che a volte, scusate il bisticcio, non indossano la toga da vent'anni perché dà più prestigio, più potere e più denaro occupare altre poltrone vicine al governo e alla politica, da quella di capo di gabinetto a quella di capo dell'ufficio legislativo e così via, va avanti da decenni. Ed è così intricata che non è neppure facile accertare il numero esatto di questi alti burocrati di complemento. Secondo Notizie radicali, voce d'un partito da sempre combattivo sul tema, nell'ottobre 2012 erano 260: «Un numero elevatissimo» sottratto a un organico «largamente deficitario». Secondo Paola Severino, un anno fa erano un po' di meno: 227. Molti dei quali (91) via via «arruolati» dai vari guardasigilli al ministero della Giustizia. Con tutti i risvolti che riguardano i possibili conflitti di interessi: perché mai un magistrato dovrebbe collaborare a scrivere regole in qualche modo punitive, sotto il profilo contrattuale o economico, verso i magistrati? O perché mai a un giudice del Tar «in prestito» come capo di gabinetto in un qualsiasi dicastero dovrebbe essere consentito di fare scelte che potrebbero finire al vaglio del «suo» tribunale?Che il problema sia serio lo dice lo stesso Consiglio superiore della magistratura. Che in una circolare del febbraio 2008, lamentando che ormai il fenomeno era fuori controllo, sosteneva la necessità di «porre un argine a un numero eccessivo di richieste di destinazione di magistrati a funzioni extragiudiziarie, in un momento storico caratterizzato da gravi scoperture di organico e da un'intollerabile lunghezza dei tempi del processo». Insomma, insisteva il Csm, questo «fenomeno delle "carriere parallele", tanto criticato all'interno e all'esterno della magistratura» è così diffuso che «troppi magistrati» percorrono «una parte eccessiva della carriera in funzioni diverse da quelle giudiziarie» finendo per appannare «l'immagine di terzietà che solo la pratica del processo assicura e consolida». Traduzione: se un giudice si lega in modo stretto alla politica, perché sono i politici ai vertici delle amministrazioni a scegliere i collaboratori, come potrà poi rivendicare la sua imparzialità se dovesse tornare a svolgere le antiche mansioni? Tanto più, riconosceva l'allora segretario dell'Anm Giuseppe Cascini, che «gli alti stipendi di Via Arenula intaccano l'indipendenza dei magistrati fuori ruolo». Ovvio: la disparità di chi prendeva due buste-paga (e la seconda spesso molto più alta della prima) era vistosa. Ed è rimasta, sia pure ridotta, dopo il ritocco che oggi consente alle toghe che fanno «provvisoriamente» altri mestieri di intascare lo stipendio da giudice e il 25% dell'indennità del ruolo supplementare. Contro questo andazzo i radicali presentarono a fine 2008 un disegno di legge assai restrittivo: un buco nell'acqua. Nella primavera scorsa, sembrò che fosse la volta buona. Nonostante l'iniziale freddezza del suo partito, il Pd Roberto Giachetti riuscì a far passare un emendamento che, col voto corale della Camera, diventò un articolo aggiuntivo alla legge anticorruzione. Pochi principi: basta coi magistrati fuori ruolo per decenni, basta con le aggiunte di stipendio, basta con le deroghe. D'ora in avanti, un giudice penale, civile, amministrativo o militare poteva avere incarichi nei ministeri, alle Authority o in altre amministrazioni per un massimo di cinque anni più altri cinque solo dopo esser ritornato per cinque a indossare la toga. Al Senato, però, emersero subito problemi. E l'articolo fu stravolto, accusa Giachetti, con il recupero di un sacco di eccezioni e l'allungamento del limite a 10 anni a partire dal varo della legge, «col risultato che chi da 20 anni ha un incarico "provvisorio" può restarci ancora fino ad arrivare a 30. Inaccettabile». Il mondo intero, però, preme perché la legge anti-corruzione passi. Monti ci mette la fiducia e fine del dibattito. Tornato alla Camera l'articolo sui «fuori ruolo» è così diverso da quello votato che il governo prende un impegno: dopo la fiducia mettiamo ordine noi con un decreto legislativo. A quel punto il deputato pd presenta un ordine del giorno firmato pure dal leghista Marco Reguzzoni: entro dicembre 2012 devono essere resi pubblici on-line tutti i nomi, gli incarichi, la durata, i precedenti dei magistrati fuori ruolo perché sul tema ci sia infine trasparenza e «aggiornare tale banca dati con periodicità mensile». Il governo è d'accordo. L'aula vota all'unanimità. Ma i mesi passano, la situazione politica s'infiamma, si avvicinano le elezioni anticipate. E intorno alla legge delega per metter ordine spuntano indiscrezioni di ogni genere, compresa una «bozza apocrifa», rivelata dal Corriere di nuove deroghe che consentirebbero ai fuori ruolo, se messi «in aspettativa senza assegni» (dettaglio secondario con le indennità che andrebbero a incassare) di assumere incarichi impensabili, come quello di presidente dell'Eni o della Rai. Replica Filippo Patroni Griffi: anzi, fisseremo per «prima volta in maniera stringente e organica l'inconferibilità di incarichi dirigenziali e le incompatibilità nei casi di condanne penali anche non passate in giudicato e di potenziale conflitto di interessi. Presto sarà riunito il Comitato dei ministri che fornirà le linee...».La scadenza della legge delega è fissata al 28 marzo. Nel pieno della crisi di governo. E nei dintorni di Mario Monti pensano: perché cacciarci in altre polemiche? Meglio far finta di niente. Infatti se ne accorge solo una piccola agenzia, Public Policy. La legge viene lasciata andare a male. E tutto, dopo tanti polemiche e tanti annunci, resta così come stava. A proposito: quella famosa banca dati da mettere online entro il 31 dicembre con tutti i nomi e gli incarichi che fine ha fatto?

Sì, però, se il pesce puzza dalla testa!!!

Consiglio Superiore della Magistratura, 35 milioni di costi e bilancio inaccessibile. Lacune nel rendiconto annuale. Per i membri del Csm settimana corta da 4 giorni, indennità varie e auto blu. Al vice presidente Vietti quasi 300mila euro lordi all'anno e una Maserati, scrive Alberto Crepaldi  da Il Fatto Quotidiano del 2 aprile 2013. Per l’autogoverno dei magistrati, esercitato dal Consiglio Superiore della Magistratura, lo Stato mette a disposizione del Csm ben 35 milioni di euro. Amministrati sotto il controllo della Corte dei conti e di tre revisori esterni, i conti del Csm sono quasi introvabili. Giusto qualche indizio nella Gazzetta Ufficiale, dove è pubblicato il rendiconto di ogni anno. Un documento di poche paginette, lontano parente di un bilancio vero e proprio. Il sito web del Csm non offre alcun dettaglio su come vengono amministrati i 35 milioni di euro. Manca anche la lista dei 7 incarichi esterni conferiti ad altrettanti addetti, nonché quella relativa alle imprese a cui vengono affidati una serie di servizi. Solo attraverso la consultazione di una serie di leggi che regolano il funzionamento del Csm, è possibile scoprire che la pianta organica prevede 243 unità: tra queste spiccano i 53 funzionari amministrativi, i 30 addetti a “servizi ausiliari e di anticamera”, gli otto dattilografi dell’ufficio studi, la ventina di uscieri e 20 autisti. Il numero di questi ultimi, diminuito negli anni, nell’originaria organizzazione fissata da una legge del 1958, era pari addirittura a 40 unità. Il conto finale dei costi sostenuti nel 2011 per tutto il personale in servizio al Csm è salato, seppur in lieve calo: 19 milioni di euro. Gli oneri relativi ai componenti del Csm (24 eletti e 3 di diritto) nel 2011 poco meno di 4,9 milioni di euro. “Lavoriamo moltissimo – ci ha detto un consigliere – per la mole di atti che dobbiamo studiare e le delibere da redarre”. Infatti nel 2011 è stata pagata la bellezza di 630 mila euro di straordinari ai dipendenti del Csm. Senza sindacare sulla intensità del lavoro intellettivo profuso dai consiglieri, resta il fatto che le settimane di lavoro istituzionale, presso il Palazzo dei Marescialli, sono tre. Anche se i mesi di settimane ne contano almeno quattro. E i giorni lavorativi sono al massimo 15 al mese. Le commissioni si riuniscono dal lunedì al giovedì, quattro volte alla settimana. E solo chi fa parte di quella disciplinare rimane a Roma fino a venerdì. I 4,9 milioni di euro di compensi comprendono il cospicuo assegno del vicepresidente (Michele Vietti), pari a poco meno di 300 mila euro lordi all’anno. Così come l’appannaggio annuale degli altri 7 consiglieri eletti dal Parlamento, circa 115 mila euro: quasi 8 mila euro al mese per 14 mensilità. Tutti i consiglieri percepiscono inoltre 75 mila euro all’anno come indennità di presenza. A quelli che non risiedono a Roma viene poi riconosciuta una indennità di missione giornaliera di 220 euro per ogni giorno di presenza effettiva, oltre al rimborso delle spese di viaggio. Tra rimborsi e indennità varie, la spesa annua vale 2,2 milioni di euro. Tra i benefit ci sono le auto blu, per tutti i consiglieri: 300 mila euro nel 2011. Sono 23 le auto a disposizione e prima della lieve cura dimagrante del 2011 erano 31. Vietti viaggia su una Maserati Quattroporte. “Per gli altri consiglieri – racconta un altro componente del Csm – dal primo aprile l’auto blu sarà una semplice Fiat Punto”. Il Csm investe molto in formazione: 6,5 i milioni di euro per “spese per incontri di studio, formazione, convegni e conferenze”. Risorse che dovrebbero diminuire dopo l’avvio della Scuola Superiore della Magistratura. Ma sono ben altri i capitoli di spesa che incuriosiscono. Il CSM ha pagato, sempre nel 2011, quasi 250 mila euro per stampare pubblicazioni, acquistare carta e materiale di cancelleria, riviste, giornali e altre pubblicazioni. Sono ammontati invece a 433 mila euro i costi per pulizia, traslochi e facchinaggio e per la smacchiatura di tappeti e tendaggi. Degni di menzione sono i 17 mila euro di “spese per la fornitura di capi d’abbigliamento al personale autista ed ausiliario in servizio”. Ma soprattutto i 703 mila euro sborsati per incarichi professionali, traduttori e interpreti, sui cui nomi e profili nulla è dato sapere.

Pochi euro per acquistare la Nutella con soldi pubblici affidati ai partiti? Uno scandalo. Pochi euro, del finanziamento pubblico alla politica, per il bar o una videocassetta per i bambini? Una vergogna. Ed altri soldi stanno costando le inchieste, gli interrogatori, le perquisizioni. Ma 16.287 euro pubblici per acquistare foulard e cravatte da regalare in un convegno? Una spesa assolutamente legittima. Dove sta la differenza? Nei primi casi a spendere erano stati dei politici, di tutti gli schieramenti. Nell’ultimo la spesa, con soldi pubblici, era stata affrontata da un magistrato, scrive Augusto Grandi su “Quelsi”. Cravatte e foulard erano stati regalati dai contribuenti italiani agli avvocati, magistrati, diplomatici e pure ai politici, che avevano partecipato ad una conferenza sulla giustizia penale militare. E tanto per non farsi mancare nulla, sui regali era pure stata stampata la firma del magistrato che era stato così generoso con i nostri soldi. Ma, ovviamente, nel suo caso tutto era legittimo. Tutto era stato fatto per il bene della comunità. E guai a pensare che ci siano due pesi e due misure, in Italia. Come, magari, per le intercettazioni telefoniche ed ambientali. Pubblicate per tutti le inchieste che tocchino una parte politica, ma rigorosamente oscurate quando le indagini riguardano – guarda la combinazione – il Pd. I media ci informano su ogni particolare delle telefonate tra politici ed amici o amiche – anche sui particolari più intimi che, evidentemente, hanno una valenza sociale – ma non esce una parola sulla vicenda MontePaschi. Che, magari, dovrebbe avere una rilevanza maggiore rispetto ai nomignoli affettuosi tra innamorati. Evidentemente, però, l’occupazione dei posti chiave nella giustizia e nell’informazione garantisce una situazione di questo tipo. Che poi si possa parlare di informazione e di giustizia, vista la realtà italiana, è tutto da dimostrare. Ma quando non si vuole intervenire, o non si è capaci di farlo, bisogna rassegnarsi e tacere.

Toghe, stipendi choc: un miliardo di euro l'anno. Nei giorni scorsi l'Associazione nazionale dei magistrati ha minacciato lo sciopero per il taglio ai fondi all'assistenza informatica (36 milioni di euro). Ma un magistrato occupa un posto di lavoro blindato e può arrivare a portare a casa anche 500mila euro all'anno, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. Pagati, viziati, lentissimi e ipersindacalizzati. La casta dei magistrati continua a lamentarsi, l’ultima richiesta dell’Anm è di pochi giorni fa: “I tribunali rischiano una paralisi complessiva”. Il motivo? Il taglio dei fondi all’assistenza informatica. L’associazione delle toghe ha minacciato lo sciopero e in poche ore il ministro ha aperto il portafogli (una trentina di milioni di euro) e tutto si è risolto. La giustizia costa tanto, si sa. Ma quanto incidono gli stipendi dei magistrati? Tenetevi forte, la cifra fa paura: circa un miliardo di euro. I cugini francesi spendono il 30 per cento in meno e lavorano meglio. Ma i nostri in compenso hanno un primato: la lentezza. Da noi i processi si trascinano a lungo, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ci multa, i cittadini sotto processo fanno ricorso. E poi? Poi lo Stato, tanto per cambiare, paga i danni. Andando a spulciare il “prontuario delle competenze dovute alla Magistratura Ordinaria” ci addentriamo in una selva di numeri e scatti di anzianità che fanno lievitare il monte salari. Prima bizzarria: dov’è la meritocrazia? Latita, per fare carriera basta “invecchiare”. Tutti arrivano al massimo livello di stipendio, anche quando magari non riescono ricoprire un incarico di alto livello. L’organo che valuta ogni quattro anni (ma lo scatto è biennale) la professionalità del giudice è il Consiglio superiore della magistratura, che nel 96 per cento dei casi dà un via libera. Ma la bocciatura, nei rarissimi casi in cui si verifica, non prevede nessun arretramento economico: vige il principio della conservazione dello stipendio maturato. L’orologio dei magistrati continua a correre e lo stipendio a lievitare, qualunque cosa succeda. Per intenderci: è come se tutti i militari diventassero generali. Facciamo i numeri: un magistrato al settimo livello di anzianità, che sarebbe il ventottesimo anno di professione, arriva a portare a casa un lordo di 195.362.33 euro all’anno. Il presidente del Tribunale superiore delle acque pubbliche può mettersi in tasca fino a 260.593.04. Tanto? Non abbastanza, evidentemente, dato che è anche prevista un’indennità che si aggira sui mille euro al mese. Salendo verso le funzioni “apicali”, il vertice della carriera, le cifre aumentano fino a raggiungere il miliardo delle vecchie lire. Queste sono le toghe-paperone, a fronte delle quali ci sono un gran numero di magistrati che portano a casa un’onesta busta paga. Un giudice di primo pelo si accontenta di poco meno di cinquemila euro mensili lordi. Tutto questo ricade sulle nostre spalle. I tribunali costano a ogni cittadino italiano 45 euro all’anno. Il 18 per cento in più rispetto ai francesi e addirittura il 60 per cento in più rispetto ai 28 euro del Regno Unito. Il totale della spesa è un miliardo di euro. In un’Italia in cui tutti tirano la cinghia, una delle poche categorie che non rischia il posto e neppure la decurtazione dello stipendio, è proprio quella dei magistrati. Le toghe piangono quando c’è da chiedere trenta milioni di euro per i computer, ma non fanno mai sacrifici. A dispetto della crisi e soprattutto del buonsenso. 

E c'è pure chi gli dà una mano.

Consulta: "Niente tagli a stipendi di giudici e manager pubblici". Vietato toccare i privilegi della magistratura e gli stipendi dei manager statali. La Consulta: "Incostituzionali". Perché i sacrifici sono chiesti solo ai cittadini? Scrive Andrea Indini su “Il Giornale”.

Guai a toccare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Non possono essere sforbiciati nemmeno di un centesimo. Mentre la crisi economica fa schizzare alle stelle il numero dei disoccupati e l'Unione europea chiede, contestualmente, al nostro governo sempre maggiori sacrifici che vanno a pesare sui portafogli dei contribuenti, la Corte costituzionale ha stabilito che le retribuzioni dei magistrati non possono essere abbassate.

Non solo. La Consulta (sentenza 11.10.2012, n.223) si è anche opposta anche alla riduzione dei dipendenti pubblici con stipendi superiori ai 90mila euro lordi all'anno. "Il Parlamento decide in modo sacrosanto di mettere dei limiti a stipendi fuori da ogni logica - tuona la Lega Nord - e la vera casta si difende". Altro che la casta dei politici. In parlamento, per lo meno, qualche taglio di facciata lo stanno facendo. Nei tribunali e nella pubblica amministrazione, invece non si può. A difendere i privilegi dei giudici e i maxi stipendi dei manager pubblici ci ha pensato la Consulta con due sentenze che legano le mani al governo in tema di spending review e che sono destinate a far sicuramente discutere. "I tagli sulla retribuzione dei magistrati previsti dal decreto legge sulla manovra economica 2011-2012 sono incostituzionali", ha spiegato la Corte stabilendo, appunto l’illegittimità del decreto nella parte in cui dispone che ai magistrati non vengano erogati gli acconti per il triennio tra il 2011 e il 2013 e il conguaglio del triennio tra il 2010 e il 2012 e nella parte in cui dispone tagli all’indennità speciale negli anni 2011 (15%), 2012 (25%) e 2013 (32%). Non solo. La Consulta ha, poi, azzerato i tagli per i dipendenti pubblici con stipendi superiori ai 90mila euro lordi all'anno (-5% per la parte eccedente questo importo) e 150mila euro (-10%) dal momento che, come già sostenuto dal Tar, la norma introdurrebbe "un vero e proprio prelievo tributario a carico dei soli dipendenti pubblici". Per la Consulta un’imposta speciale prevista nei confronti dei soli dipendenti pubblici"viola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta" dal momento che "il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici". Morale? La Consulta arriva addirittura a proporre al legislatore rimodulare i tagli con "un universale intervento impositivo", andando quindi a colpire tutti i cittadini. Contro la Consulta si è subito levata una selva di critiche da parte della politica. Ad attaccare duramente i giudici della Corte costituzionale sono stati soprattutto i parlamentari leghisti secondo i quali "non è possibile che si voglia trasformare la nostra Repubblica in una regime governato" dalle toghe. Il responsabile del Dipartimento Fisco, Finanze ed Enti Locali, Massimo Garavaglia, ha chiesto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di intervenire per "eliminare questa vergogna". "Non si può chiedere alla gente di andare in pensione a settant'anni e di vedere aumentare disoccupazione e crisi per rispetto dei vincoli europei - ha concluso l'esponente del Carroccio - quando poi i cosiddetti dirigenti dello Stato, veri e propri burocrati nel senso peggiore del termine, continuano ad avere privilegi ingiustificati.

L’ITALIA DEGLI SPRECHI.

 “Italysoft” ha ricevuto questa lettera da un professionista italiano deluso: «Pago 900mila euro di Irpef, ma so che saranno buttati».

Caro direttore, mi accingo in settimana a pagare oltre 900mila (sì, novecentomila) euro di Irpef e mi scusi se tengo, per ragioni evidenti, celato il mio nome ai suoi lettori. Sono, nonostante il mio alto reddito, un piccolo professionista di provincia, innamorato del suo lavoro, e che è stato sempre oltremodo fedele al dovere fiscale. Non mi è mai pesato pagare le tasse; anzi, visto che i professionisti "vanno per cassa", mi sono sempre detto: «Se li pago, vuol dire che li ho riscossi»; inoltre, mi sono sempre auto-convinto del fatto che la mia annuale dichiarazione dei redditi rappresentasse una specie di "diploma" di aver avuto un bel successo professionale nel periodo d'imposta precedente. Questo reddito lo ottengo lavorando in effetti moltissimo: mi sveglio alle 4,45 ogni mattina, lavoro ininterrottamente fino a notte, non mi concedo mai vacanze né weekend, vedo i miei famigliari raramente. Ho una moglie santa, che per fortuna ha capito quanto il lavoro sia parte di me; ho due figlie splendide, di cui faccio fatica a incrociare lo sguardo perché sono convinto di sottrarre loro una ricchezza inestimabile, che è il tempo che invece dovrei dedicare loro. Spero almeno di insegnare loro che con l'impegno, anche se non siamo in America, si ottengono risultati. Non lavoro per i soldi: a parte che non saprei come "godermeli", ho fatto un impegno con me stesso di avere uno stile di vita morigerato (e a imporlo alla mia famiglia) perché vengo da una famiglia piccolo borghese e intendo perpetuare i valori di queste origini. I soldi sono solo una conseguenza, non sono l'obiettivo o il presupposto. Potrei lavorare di meno, dirà Lei. Certo, ma io appartengo a una categoria di persone che nel lavoro trovano una grande "realizzazione". In più, io ho scelto di fare il professionista con l'idea di dare il servizio intellettuale più eccellente possibile a chi me l'avesse chiesto: quindi mi impegno al massimo e cerco di trattare con la stessa attenzione sia le pratiche piccolissime che quelle ingenti. Non mi riesco a rifiutare a nessuno, faccio il possibile per accontentare tutti; insomma, anche se non mi sono mai drogato nemmeno con uno spinello, capisco benissimo cos'è la dipendenza e come sia difficilissimo uscirne. Vede? È agosto inoltrato, e io sono qui a lavorare!

Che c'entra tutto ciò, dirà Lei?

C'entra che mi sono stancato. Vedo in ogni momento della mia giornata quintalate di denaro nero; vedo le porcherie di chi specula illecitamente nel mercato finanziario; vedo gli uffici pubblici che non funzionano; vedo gravissimi sperperi di denaro pubblico; vedo la scuola che non insegna; vedo i ragazzi che si laureano e scrivono la tesi senza sapere l'italiano (altro che insegnarlo agli extracomunitari...); vedo i politici di un livello umano e professionale sotto qualsiasi soglia minima; vedo sporcizia in ogni angolo; faccio code insopportabili; subisco liste d'attesa da terzo mondo; vedo fannulloni che ingrassano e sprechi dappertutto. Vedo patrimoni pubblici in stato decrepito che, un solo minuto dopo esser stati "privatizzati", hanno sperticati aumenti di valore. Vedo treni indecenti, per pulizia e ritardi e autostrade inservibili a causa di montagne di traffico. Vedo inciviltà a ogni passo che muovo. Vedo i Tribunali che non funzionano: c'è da tremare a entrare in un Tribunale avendo ragione, perché vi sono fondate probabilità di uscirne avendo torto; e così c'è l'incentivo a impostare la propria vita beffando gli altri, perché è molto probabile che ti giudichino non colpevole. Quando uno Stato non assicura giustizia, credo che sia uno Stato con la canna del gas in bocca. Discorsi populisti e superficiali, detti e stradetti, dirà Lei. Senz'altro. Ma resta il fatto che mi sono stancato. Vorrei poter trovare nuovi stimoli dedicando il mio versamento alla costruzione di un'opera pubblica specifica (per poter dire «l'ho finanziata io», almeno così i miei soldi servirebbero a qualcosa) invece di farli finire nel calderone della finanza pubblica: non sono per nulla orgoglioso di formare un "tesoretto" a mio nome. Vorrei poter dire, quando entro in un ufficio pubblico: «Io vi pago, vorrei avere un servizio almeno decente ». Ma da solo mi rendo conto che sono discorsi da matti.

Resto quindi stanco e senza soluzioni.

Mi pesa francamente troppo l'aver lavorato come una bestia per versare 1 miliardo e 800 milioni di vecchie lire a un socio occulto (lo Stato) che non solo non mi aiuta, ma mi ostacola (dimenticavo: aggiungiamo anche 250mila euro di versamenti previdenziali, quisquilie!). E allora? Allora continuerò a lavorare (e a incassare), ma sento forte lo stimolo a smettere di pagare: a tenere i soldi da parte, senza rubarli, ma nascondendoli (non è difficile, lo fanno tutti); e a versarli, se già non li avrò dati in beneficenza, quando la classe politica se lo meriterà di nuovo (e, beninteso, non è quella che oggi è all'opposizione). Ma temo che forse, sempre che credano negli stessi miei principi, li verseranno i miei eredi. (Lettera firmata)

GLI SPRECHI IN ITALIA

Inchiesta di Panorama. Per la manovra correttiva finanziaria di 45-50 miliardi di euro, chi si deve frugare in tasca questa volta? Ancora i  lavoratori  e i pensionati?

LA SPRECOPOLI. Alcuni sintetici dati

1)Costo per mantenere le Province 14 miliardi di euro.

2)Ammontare degli sconti fiscali 196 miliardi di euro.

3)Contributi elettorali ai partiti 503 milioni di euro.

4)Spese per affitto degli uffici dei deputati 87 milioni.

5) Il costo della sanità in Italia 110 miliardi di euro(una cifra che potrebbe salire).

6)Costo in milioni di euro del Parlamento( Senato 600), (camera 1.000).

7)Pensioni dei parlamentari 204 milioni di euro.

8)1.100 per cento è l’aumento dei contributi elettorali  fra il 1999 e il 2008 soldi incassati al posto del vecchio finanziamento pubblico, che fu prima abolito con  apposito referendum e poi prontamente aggirato  con apposita legge. (Oggi ammonta a 503 milioni).

Ogni americano per mantenere i partiti spende 0,12 euro, ogni italiano 3.38 euro. Spendiamo 30 volta più degli USA.

9)154 per cento è la percentuale di aumento dell’utilizzo degli aerei di stato (dal 2007- e il 2009).

10)n. 178 sedi estere sono gli uffici di rappresentanza aperti fuori Italia dalle regioni. Che pure non dovrebbero occuparsi di rapporti internazionali.

11)n. 300 mila consulenti  è l’esercito messo in campo ogni anno dagli enti locali.

12)52 anni è l’età in cui si cominciano a prendere la pensione gli ex Presidenti  e i consiglieri delle Regioni.

13)n. 74 i gruppi consiliari  formati nelle varie regioni d’Italia da un solo consigliere.

14)100 milioni quanto costano ogni anno  le missioni all’estero  degli enti locali.

L’elenco sarebbe ancora troppo lungo ci fermiamo qui.

Certo, il principio era allora che  la politica fosse un servizio da rendere gratuitamente come prevedeva un tempo l'art. 50 dello Statuto Albertino (Le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo  ad alcuna retribuzione). Già nel 1913 i deputati si erano auto-attribuiti una modesta indennità, ma solo a titolo di rimborso spese. Indennità confermata  e aumentata  nel 1925  dal Regime Fascista, ancora come rimborso spese. L'idea era che il pubblico denaro doveva essere rispettato. Infatti oggi,  nella nostra "casta politica" per svolgere il bene pubblico, succede tutto l'incontrario. Gli italiani, purtroppo, si devono loro mal grado mettere NON UNA MANO SOLA,  MA DUE MANI IN TASCA!

Richiedere l’esenzione dal ticket sanitario anche se non se ne possiedono i requisiti. Trovarsi al bar, al mercato o in un altro posto fuorché seduti alla propria scrivania dopo aver timbrato regolarmente il badge. Continuare a percepire la pensione di un genitore ormai morto da anni. Tutti episodi di mala gestione e di sperpero della Pubblica amministrazione che sottraggono alle casse dello Stato un vero “tesoretto”. Tanto che nel solo 2012 la Guardia di finanza ha scoperto frodi e danni erariali per oltre 6,5 miliardi di euro, denunciando 22mila responsabili, scrive Patrizia De Rubertis su “Il Fatto Quotidiano”. In particolare, sono stati accertati danni erariali per oltre 5 miliardi di euro, scoperte frodi ai finanziamenti comunitari e nazionali per 1,1 miliardi di euro, smascherati oltre 3.500 finti poveri e 1.047 falsi invalidi e individuati 1.274 dipendenti pubblici che svolgevano doppi lavori. “È l’attuale periodo di crisi ad averci obbligato a innalzare il livello di attenzione sui temi della tutela delle risorse dello Stato”, spiega il Comandante generale della Guardia di finanza, generale di corpo d’armata Saverio Capolupo. “Le istituzioni – prosegue – sono molto più impegnate a individuare le migliori pratiche per ridurre sprechi e inefficienze e anche l’opinione pubblica è più attenta di fronte agli episodi di mala gestione o di sperpero delle risorse”. Scorrendo i dati diffusi dalla Fiamme gialle, salta subito all’occhio il risultato raggiunto dalla repressione delle truffe condotte contro i dipendenti pubblici: sanzioni per 15 milioni di euro contro il migliaio di persone che aveva un doppio lavoro. Il caso più eclatante e note alle cronache resta, comunque, quello che vede un dipendente molto disponibile e compiacente timbrare il proprio badge e quello di altri colleghi di lavoro, facendo così risultare la loro presenza mentre sono altrove. Così come emerge dalle numerose riprese effettuate attraverso l’utilizzo di telecamere nascoste. Ma dall’inizio dello scorso anno la Guardia di Finanza ha avviato azioni mirate anche al contrasto di fenomeni come l’irregolare accesso a prestazioni sociali agevolate e all’esenzione dal ticket sanitario. In particolare, sono state eseguite 2.800 indagini contro le frodi al bilancio nazionale e dell’Unione europea, scoprendo indebite percezioni e richieste di fondi pubblici per circa 1,1 miliardi di euro. Mentre ammonta a oltre 4.600 il numero dei truffatori denunciati, con il sequestro a loro carico di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 348 milioni di euro. Capitolo a parte per le truffe previdenziali e assistenziali. In questo ambito sono oltre 103 i milioni di euro indebitamente percepiti da falsi invalidi (1.047 casi) e falsi braccianti agricoli (3.297 casi) o spesi per pagare la pensione a soggetti deceduti (395 casi), assegni sociali (569 casi) ed altre tipologie di sostegno (655 casi) a non aventi diritto. Corposa è anche la voce ‘falsi poveri‘. In questo caso sono 3.556 le persone che hanno indebitamente beneficiato di prestazioni sociali agevolate come, ad esempio, l’accesso ad asili nido e altri servizi per l’infanzia, la riduzione del costo delle mense scolastiche, i buoni libro per studenti e le borse di studio, i servizi socio-sanitari domiciliari e le agevolazioni per servizi di pubblica utilità, luce, gas o trasporti. Infine, sono stati denunciati 1.781 truffatori del Servizio Sanitario Nazionale, con un danno accertato di 72 milioni di euro.

Ma quanto mi rubi? (Sprechi di Stato). Si chiede Jacopo Fo su “Il Fatto Quotidiano”. Uno Stato che si fa rubare più di 565 miliardi di euro all’anno non è in crisi: è una nazione di deficienti! Con un improbo sforzo aritmetico, ho cercato di mettere insieme il dato complessivo di quanto ci costa il malgoverno della Casta. Ho cercato anche di separare in modo razionale le voci di questo bilancio della vergogna.

Ecco i risultati dello spreco di Stato:

Evasione fiscale: 120 miliardi di euro l’anno; 3 milioni di lavoratori in nero: più di 50 miliardi.

La corruzione di politici e funzionari pubblici ci costa 60 miliardi.

C’è poi la voce sprechi: se accorpiamo i Comuni con meno di 5.000 abitanti, sciogliamo province e Comunità Montane, razionalizziamo i consumi energetici, rendiamo più efficiente l’amministrazione pubblica (ad esempio, con l’adozione di software open source e con prezzari unificati per gli acquisti e gli appalti), semplifichiamo la burocrazia, dimezziamo il numero dei parlamentari, abbassiamo i loro stipendi e vitalizi, diminuiamo del 90% le auto blu, aboliamo il finanziamento ai partiti e ai giornali, riduciamo le regalie alla Chiesa Cattolica, smettiamo di andare a sparare all’estero, non compriamo altri cacciabombardieri e annulliamo le grandi opere inutili, possiamo ipotizzare di mettere insieme almeno altri 50 miliardi (stima molto prudenziale). E siamo a più di 280 miliardi sperperati dallo Stato italiano ogni anno.

Il non funzionamento dello Stato Italiano è però causa della perdita di un altro fiume di denaro (nostro).

Le mafie fatturano circa 135 miliardi di euro.

Gli incidenti sul lavoro ci costano 43 miliardi all’anno.

Estorsioni e usura 24 miliardi.

La contraffazione delle merci 18 miliardi.

I crac finanziari più di 5 miliardi all’anno (media degli ultimi 10 anni).

C’è poi il costo economico della burocrazia per imprese e famiglie, le lungaggini burocratiche, le piccolissime imprese che vengono strozzate sul nascere dai bizantinismi autorizzativi…

E poi c’è la lentezza della giustizia che rende improbabile recuperare i crediti, premia i truffatori e ogni sorta di furbi che usano i cavilli legali per fregare la gente onesta e toglie agli investitori stranieri la voglia di impiantare imprese in Italia… Un danno immenso, difficile da quantificare, quindi stiamo molto bassi, per non farci accusare di esagerazioni, e conteggiamo “solo” 60 miliardi di euro.

E fanno 285 miliardi di euro. Per un totale di 565 miliardi di euro all’anno.

Quanto ci costa il circolo vizioso?

Ma volendo fare un discorso di ampio respiro dobbiamo anche calcolare che un sistema che premia evasori fiscali, mafiosi, truffatori, corrotti, distrugge risorse con lo spreco, le lentezze burocratiche e penalizza i più abili e i più onesti premiando la feccia della nazione, uccide immerse risorse potenziali. Quantificare questo danno indiretto è impossibile, ma sicuramente l’Italia sarebbe decisamente più ricca e felice se le cose funzionassero un po’ meglio. Ma anche restando ai numeri quantificabili il nostro totalone da 565 miliardi di euro (più di un milione di miliardi di lire) fa paura. Se solo riuscissimo a ridurre questa emorragia di un decimo all’anno saremmo ricchi e cancelleremo il debito dello stato (1.800 miliardi di euro) in pochi anni. Che fai, t’incazzi o fai finta di niente?

Una valanga di soldi pubblici sprecati. Opere iniziate e mai finite, milioni di euro buttati o persi nei meandri della burocrazia. Finanziamenti per progetti che non hanno mai visto la luce. La lista è lunga, impietosa, pronta a ricordare uno scandalo tutto italiano. E la cosa fa arrabbiare ancora di più, in tempi di crisi, perché i soldi sono pubblici. Ma se lo spreco maggiore fosse quello del “non fare”? Si chiede Fabrizio Arnhold. La domanda, un po’ provocatoria, emerge da uno studio condotto qualche mese fa da un gruppo di ricercatori della Bocconi, guidati dal professore Andrea Gilardoni, docente di Economia e gestione d’impresa all’ateneo milanese. Il teorema è semplice: la rinuncia, per mille motivi, a quelle opere infrastrutturali che servono al Paese – dagli impianti per lo smaltimento dei rifiuti al potenziamento della rete idrica – ha un costo. Preciso. Ben 474 miliardi e 300 milioni di euro. Quasi la bellezza di 500 miliardi. Una cifra enorme che si potrebbe investire nel Belpaese, da oggi fino al 2027, per far partire una serie di cantieri, per aumentare l’efficienza della rete idrica ed energetica, migliorare le autostrade, ferrovie e, perché no, puntare sull’ampliamento dei porti. Un piano d’investimento dettagliato che si affiderebbe a risorse sia pubbliche sia private creando il giusto mix in grado di rilanciare la competitività anche economica del nostro Paese. La ricerca bocconiana è molto precisa. Cita investimenti e costi, come se si vivesse in uno Stato ideale, magari più moderno. Qualche esempio? In Italia servirebbero 50 nuovi termovalorizzatori per mettere in sicurezza il sistema di smaltimento dei rifiuti ed evitare la vendita all’estero (con un costo non indifferente per le casse statali) della nostra immondizia. La lavorazione dei rifiuti in questi impianti, non solo aumenterebbe le possibilità d’impiego nazionali ma eviterebbe anche la scandalosa gestione delle discariche abusive controllate dalla mafia. Per ottenere un buon livello di risparmio energetico, sempre secondo gli esperti della Bocconi, bisogna incrementare le rinnovabili termiche per 38mila megavolt e puntare su 14 miliardi di metri cubi di capacità di rigassificazione. Senza dimenticare che la rete idrica italiana fa acqua da tutte le parti. Lasciando perdere il gioco di parole, la rete di tubature perde oltre il 30 per cento dell’acqua trasportata, diventa indispensabile la sostituzione di 700 chilometri di tubi, con la conseguente costruzione di depuratori per 18 milioni di abitanti. Tema importante, passato ancora nel dimenticatoio dopo il referendum senza quorum del 2011. Di proposte da mettere sull’agenda del ministero delle Infrastrutture, insomma, ce ne sono molte. Che poi la questione non è tanto legata ai fondi. Perché i soldi, pare evidente dagli sprechi, in qualche modo saltano sempre fuori. Quello che ferma la creazione di un programma serio e articolato d’investimenti sono i rallentamenti burocratici e i tempi, biblici, della politica. E delle amministrazione locali, il più delle volte, che sono pronte a capeggiare la rivolta della mobilitazione “contro”, come a dire, va bene dappertutto ma non a casa mia. Ad ogni modo i soldi per finanziare opere mai concluse ci sono e si trovano: 67 quelle finite e già abbandonate solo nel 2011, secondo i dati dell’osservatorio Nimby. Le opere contestate, invece, ben 331. E non stiamo parlando, è evidente, solo della Tav. Fare qualcosa di nuovo, in Italia, è sempre più complicato. La stazione Triburtina, a Roma, finora è costata 350 milioni e doveva servire per 140 treni ad alta velocità, oggi ne arrivano solo 44. L’ospedale Gerace, in Calabria, è stato progettato sulla carta dalla Cassa per il Mezzogiorno già nel 1976: in quasi 40 anni ha fagocitato 4 milioni e mezzo di euro senza che nessun paziente vi fosse mai ricoverato. Oppure ricordiamo la Città dello Sport di Tor Vergata una delle strutture che avrebbe dovuto ospitare le Olimpiadi di Roma 2020: niente giochi olimpici e la cittadina sportiva è abbandonata al suo destino, all’incuria e al degrado. Stabilire se lo spreco maggiore sia quello del “fare” o del “non fare”, come messo in luce dai professori bocconiani, non è cosa semplice. Smettere di buttare dalla finestra soldi pubblici, però, dovrebbe essere un dovere morale.

Sfogliando i faldoni delle procure regionali si incontrano "fenomeni già noti - come rilevano i magistrati contabili - di corruzione, di malasanità, di conferimento di consulenze in violazione di norme". Ma anche operazioni spericolate con i derivati, abusi nella gestione del personale e omissioni nella riscossione dei tributi. Fino a casi di singoli funzionari di piccolo cabotaggio che per imperizia o per frode hanno causato danni alla pubblica amministrazione.

Ecco i casi più eclatanti:

- Venezia, il ponte che fa scivolare. E' il Ponte della Costituzione, dell'archistar spagnolo Santiago Calatrava, per il quale la Corte dei Conti ha riscontrato "comportamenti colpevoli del progettista e del direttore dei lavori". Tanti scivoloni per i turisti e un danno all'erario di 3,467 milioni di euro.

- Firenze, premi a pioggia per gli addetti del Comune. Il danno per gli errori nella gestione del personale ammonta a 50 milioni.

- Abruzzo, dai lavori post-sisma alle multe stracciate. Le vertenze in corso di istruttoria riguardano soprattutto i contributi per i lavori a seguito del terremoto del 2009. Ma ci sono anche casi di "mancata riscossione di contravvenzioni al codice della strada da parte di diversi Comuni" grazie ad "amicizie" tra multati e funzionari pubblici.

- Campania, il litorale e i suoi rifiuti. Una citazione per un danno di circa 43 milioni di euro ha riguardato la gestione del contratto per la bonifica e lo stoccaggio dei rifiuti nel litorale Domizio Flegreo e Agro Aversano.

- Emilia Romagna, palazzi acquistati ma vuoti. Il caso è dell'ufficio Inail distaccato di Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna. Il danno per sovra-prezzo e sovra-dimensionamento è di 3,3 milioni.

- Trieste, il muse costa 600mila euro ma non c'è. Il contributo era stato versato dalla Regione Friuli Venezia Giulia "ad una nota Fondazione di fotografie antiche", fa sapere la Corte.

- Scuola Diaz, indaga la procura del Lazio. Il G8 si svolse a Genova ma è nelle mani della Corte dei Conti del Lazio il procedimento per accertare "l'ipotesi di possibile danno erariale e all'immagine subita dall'Amministrazione per gli Interni".

- In Molise il collegamento Termoli-Croazia è salatato. Società mista irregolare, tutto da rifare e il danno è di 6 mln.

- Piemonte, ombre su Grinzane Cavour. L'associazione che gestisce il prestigioso premio avrebbe sottratto illecitamente fondi della Regione Piemonte.

- Sardegna, si comprano le banche ma mancano i marinai. Prima sono state comprate le imbarcazioni, poi sono rimaste ormeggiate "essendo carente il personale per la conduzione dei mezzi".

- Sardegna, appalti edili in cambio di lavori domestici. E' il caso di un tecnico comunale di un Comune della Sardegna che affidava lavori a un'impresa in cambio di opere per la propria abitazione.

- Sicilia, nomine regionali sotto la lente. Per presunti illeciti nella nomina di consulenti, per danni legati a dismissioni del patrimonio immobiliare, per l'assunzione di soggetti sprovvisti dei prescritti titoli professionali.

L’ITALIA DEGLI SPRECHI/ Regione per regione, ecco i casi più assurdi di sperpero elencate da Carmine Gazzanni su “L’Infiltrato”.

Dal ponte di Venezia “scivoloso” che ha comportato un danno erariale per 3 milioni di euro, al maestro d’asilo marchigiano che mette in tasca alimenti destinati invece ai piccoli della scuola materna; dal parcheggio messo sotto sequestro a Genova perché costruito su un sito da oltre dieci anni sottoposto a vincolo storico-paesaggistico, al giro di mazzette nelle camere mortuarie dei nosocomi di Milano. Per non parlare delle consulenze “inutili” della provincia di Napoli, della “erronea” utilizzazione del tariffario da parte delle Asl calabresi per le prestazioni specialistiche e di laboratorio, o del professore universitario mai andato in ateneo perché, nel mentre, lavora anche in ben 91 cliniche. Ecco l’Italia degli sprechi, un viaggio regione per regione tra i casi più assurdi di sperpero del denaro pubblico: consulenze, società partecipate, doppi incarichi, clientelismo, casta. Nel solo 2012 “i fenomeni di corruzione, di malasanità, di conferimento di consulenze in violazione di norme o dei principi fissati dalla giurisprudenza contabile, di frodi comunitarie, di grave imprudenza nella stipulazione di contratti di finanza derivata, di abusi nella gestione del personale, di grave responsabilità nell’istruttoria in materia di contravvenzioni, di abusi e peculato da parte di concessionari della riscossione, di indebito rimborso di spese legali, di omessa riscossione di imposte”, sono costati allo Stato ben 293,632 milioni di euro. È questa la fotografia scattata dalla Corte dei Conti nel rapporto stilato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

I magistrati contabili, riprendendo il lavoro delle procure regionali, hanno messo insieme un dossier che Infiltrato.it permette in esclusiva di scaricare: 319 pagine in cui ad emergere è nitidamente l’Italia degli sprechi e delle frodi, in ogni sua versione possibile e immaginabile. Ecco un’analisi dettagliata, regione per regione, dei casi più eclatanti.

ABRUZZO: SISMA, CLIENTELISMO…E MULTE NON PAGATE DAGLI “AMICI” – Al centro dell’attenzione per quanto riguarda la regione abruzzese ecco che, a distanza di quattro anni, troviamo ancora “vertenze riguardanti l’avvenuto terremoto del 2009”. Oggetto di tali vertenze contributi pubblici elargiti a seguito del sisma, problematiche scaturite dalla realizzazione dei M.A.B. (Moduli Abitativi Provvisori), irregolarità nei puntellamenti di numerosi edifici ritenuti pericolanti, sentenze penali riguardanti fatti dai quali potrebbero derivare danni erariali o danni all’immagine della P.A. Non solo. Gli sprechi abruzzesi, infatti, rispondono anche ad una pesante politica clientelare: sono state rilevate “cattive gestioni nello svolgimento di contratti pubblici e nella realizzazione di lavori pubblici in modo precario e incompleto”. Spesso, addirittura, le imprese affidatarie sono scelte senza il ricorso a pubbliche selezioni, necessarie per ottenere prezzi più convenienti: “in definitiva”, scrivono i magistrati, si favoriscono quelle aziende “che possono contare su un sistema di amicizie interne all’amministrazione e riescono a ottenere favorevoli contratti”. Ma il clientelismo è evidente anche nelle tante e tante pratiche di archiviazione per contenziosi amministrativi da parte degli enti locali, spesso “prive di motivazione, nonostante l’oggettività dell’illecito accertata dagli organi di polizia (in particolare in materia sanitaria)”. Questa rete, addirittura, arriva a toccare anche le piccole multe stradali. Abbondano infatti anche vicende legate alla mancata riscossione di contravvenzioni al codice della strada da parte di diversi comuni. Il motivo? Capita, scrivono i giudici, che “sono cancellate contravvenzioni legittimamente elevate solo sulla base di amicizie personali di amministratori e/o dipendenti degli uffici di polizia municipale”.

BASILICATA: IL GINECOLOGO CHE NON OPERA PERCHÉ AVEVA FINITO IL SUO TURNO - Tra i casi ricordati spicca quello relativo al “danno indiretto” causato da un ginecologo dell’ospedale di Potenza per aver causato la morte di una neonata ritardando il parto cesareo. Motivo? Era terminato il turno. O, ancora, il gravo “danno all’immagine della P.A.” per detenzione abusiva di armi, munizioni e sostanze stupefacenti da parte di un cancelliere di Tribunale.

CALABRIA: LE ASL FANNO LIEVITARE IL PREZZO DEGLI ESAMI ANCHE DI 10 EURO - La regione calabrese è certamente una di quelle che primeggia in sprechi e truffe. Come non ricordare, ad esempio, la sottrazione di oltre 250 mila euro pubblici da parte di un consigliere regionale; oppure il caso di concussione che ha visto due sottoufficiali della Guardia di Finanza richiedere soldi ad un imprenditore per fargli regolarizzare la sua posizione tributaria. Danno all’immagine: 50 mila euro. Nella regione guidata da Scopelliti, d’altronde, non c’è affatto da sorprendersi. Basti guardare le vertenze in corso per accorgersi dell’inverosimile. Dall’indebita erogazione e percezione di assegni sociali erogati dall’INPS (per un danno di oltre 350 mila euro) all’erroneo tariffario da parte di alcune ASL calabresi per prestazioni specialistiche e di laboratorio (l’esame dei trigliceridi pagato a 2,51 euro anziché 1,29; le transeminasi pagate 1,91 euro anziché 1,14. Per un’analisi fatta per il virus dell’epatite si passa dai 5,53 euro del tariffario “ufficiale” ai 15, 53 euro adottati in Calabria). Dagli illeciti pagamenti di TFR da parte di un dipendente INPS (danno  di oltre 368 mila euro) fino all’ammanco di oltre un milione di euro nei conti della provincia di Vibo Valentia.

LE “INUTILI” CONSULENZE CAMPANE E IL PESO (ECONOMICO) DEI RIFIUTI – Anche la regione guidata da Stefano Caldoro non se la passa affatto male in tema di sprechi. Basti pensare al danno di circa 12 milioni di euro per gli onerosi e illogici finanziamentiversati dalla provincia di Caserta alla società, partecipata della stessa provincia e da numerosi comuni, che gestisce il trasporto pubblico locale”. O, ancora, al danno per oltre sei milioni di euro per la “irregolare gestione di numerosi contratti di fitto passivo stipulati dal comune di Napoli”. Per lo stesso motivo anche la provincia partenopea è responsabile di un milione di euro di danno. Ma la giunta retta (ancora per poco) da Luigi Cesaro è rea anche di aver stipulato consulenze inutili con una società partecipata: danno per un milione e mezzo di euro. In questo mare magnum di sprechi non si salva nemmeno la regione che ha fatto andare in prescrizione numerosi verbali di contravvenzioni in materia ambientale (mancato funzionamento di depuratori) non riscuotendo introiti per 12 milioni di euro. A questi si aggiungono altri 43 milioni di euro: a tanto ammonterebbe il danno erariale per la cattiva gestione di bonifica di siti inquinati e di stoccaggio nel litorale Domizio Flegreo e Agro Aversano.

EMILIA ROMAGNA: L’INAIL COMPRA UN PALAZZO E POI NON LO USA – Emblema dello sperpero nella regione “rossa” è l’immobile acquistato dall’Inail a Casalecchio di Reno “a prezzo ipervalutato” e rimasto inutilizzato: danno per oltre tre milioni di euro. Anche qui, poi, abbondano i più classici di illeciti: ammanco contabile, assenteismo e danno all’immagine da reato. Il tutto, ovviamente, soprattutto in relazione alle pubbliche amministrazioni. Basti pensare, ad esempio, agli accertamenti sulle spese dei gruppi politici presso il consiglio regionale, “con particolare riferimento al rimborso dei costi delle interviste rilasciate ad organi di stampa od agenzie televisive (cd. comparsate)” o ai molteplici casi di cumulo di incarichi accertate presso le Università di Bologna e di Parma.

FRIULI VENEZIA GIULIA: LA REGIONE FINANZIA IL MUSEO “FANTASMA” – Anche qui spicca, tra i tanti casi, uno certamente paradossale. Tempo fa la regione friuliana finanziò per ben 600 mila euro la Fondazione di fotografie per l’allestimento di un museo multimediale a Trieste. Peccato, però, non sia mai stato realizzato. Tanti, poi, i casi di sprechi dovuti alla cattiva politica. Nel rapporto si menzionano, ad esempio, tre consulenze - una di circa 185 mila euro, una di circa 149 mila e l’ultima di circa 183 mila - disposte dall’Agenzia regionale per lo sviluppo del turismo Turismo Friuli Venezia Giulia ad associazioni fittizie che non ne avevano diritto. Da evidenziare, infine, una sentenza di condanna che ha riguardato  l’ex Presidente della provincia di Udine Marzio Strassoldo per il danno d’immagine di circa 150 mila euro derivato da un accordo elettorale, oggetto di procedimento penale, stipulato con Italo Tavoschi, vice Sindaco del comune di Udine, per conseguire voti in occasione del rinnovo delle cariche politiche della Provincia nel 2006 con corrispondente promessa di incarico dirigenziale.

LAZIO: LO STRANO CASO DELLA SENTENZA DIAZ (E DEL G8) -  Nell’ultimo anno il lavoro per la Corte dei Conti laziale è stato immane. Tra le iniziative ricordiamo la vertenza sui lavori di costruzione della linea C della rete metropolitana di Roma, quella sulle agenzie di rating (Standard and Poor’s, Moody and Fitch) per condotte illecite in danno delle finanza pubblica nazionale e per violazione del regolamento comunitario e delle condizioni contrattuali stipulate con le Autorità di Governo; quella condotta contro l’AgCom per una presunta gestione irregolare; quella contro l’ex onorevole Alfonso Papa per la vicenda della P4; quella sul finanziamento illecito dei partiti e dei movimenti politici (soprattutto riguardo al reato di peculato contestato a Luigi Lusi). La vicenda però che desta più scalpore è relativa alla sentenza definitiva in merito in merito ai fatti avvenuti durante la manifestazione del G8 di Genova del 2001 nella scuola Diaz. Scrivono i magistrati: “la Procura della Corte dei conti per il Lazio procede ora per l’accertamento delle responsabilità in ordine alla ipotesi di possibile danno erariale e all’immagine subita dall’Amministrazione per gli interni”.

LIGURIA: IL PROF FANTASMA DALL 91 CLINICHE E LA PINZA LASCIATA NEL CORPO DOPO L’OPERAZIONE - Danno patrimoniale, danno al bene culturale, danno ambientale, danno da disservizio. Questi sarebbero i “danni” contestati dalla Corte al comune di Genova per la realizzazione di un parcheggio urbano sopra un giardino pubblico del XVI secolo che era stato dichiarato “di importante interesse“ e quindi sottoposto a vincolo storico-paesaggistico. Una serie di vertenze, poi, riguardano l’assenteismo universitario da parte di alcuni professori universitari, responsabili soprattutto dell’esercizio di attività incompatibili con l’ufficio pubblico. Basti pensare al neurochirurgo Mario Baldini – già peraltro coinvolto in un processo penale - il quale, pur “astrattamente“ insegnando alla facoltà di Medicina di Genova con incarico a tempo pieno, in realtà operava privatamente in ben 91 cliniche italiane (tra cui la clinica degli orrori lombarda Santa Rita). Nel capitolo costi della politica, spicca il caso del consigliere provinciale che si fa assumere fittiziamente come dirigente presso un’azienda privata, al solo scopo di ottenere fraudolentemente, da parte dell’Ente locale, il rimborso di quanto corrisposto dal datore di lavoro a titolo di retribuzioni ed assicurazioni per le ore o giornate di assenza dal lavoro per assolvere le funzioni connesse al mandato elettivo. Danno: 44 mila euro. Tanti, poi, i casi di malasanità. Basti pensare alla vertenza contro tutta l’equipe dell’ASL 4 Chiavarese a causa di un grave errore medico costituito dall’avere dimenticato nell’addome di un paziente sottoposto ad intervento chirurgico una pinza metallica emostatica (pinza Kelly), “poi tenacemente ritenuta nello scavo pelvico e rimossa solo due anni più tardi con un ulteriore intervento laparotomico, in quanto individuata con specifico esame radiografico disposto per via di dolori e fastidi ricorrenti accusati dal paziente”.

LOMBARDIA: IL GIRO DI SOLDI SUI MORTI - Anche per quanto riguarda la regione lombarda è difficile selezionare i casi più eclatanti di sprechi legati alla mala gestio della cosa pubblica. Basti pensare che sarebbero “vari” i carabinieri coinvolti, anche separatamente, in tanti fatti delittuosi: spaccio di stupefacenti, peculato, corruzione, concussione, falso in atti pubblici. I danni, scrivono i contabili, “ammontato ad euro 29.500.00, 45.000,00, 55.000,00 e 9.000,00”. Tanti, poi, i casi di frode, come quello verificatosi all’Asl di Pavia dove alcuni dipendenti hanno inserito abusivamente nominativi di persone “amiche” per far loro ricevere l’assegno di invalidità (frodando, dunque, l’Inps per 500 mila euro). Spicca, poi, il caso del giro di mazzette nelle camere mortuarie dei nosocomi milanesi ad opera degli infermieri addetti e degli operatori delle imprese di servizi funebri, consistente nella “spartizione del mercato delle salme attraverso la compiacente e retribuita collaborazione dei dipendenti dell’Ospedale (pagati per ogni segnalazione effettuata ovvero incaricati della vestizione delle salme)”. Tanti, poi, i casi di assenteismo (soprattutto al comune di Milano) che hanno comportato un danno di oltre 78 milioni di euro. Numerosi anche i casi di affidamento di appalti senza pubblica gara. “Un ente locale”, ricorda ad esempio la Corte, “ha affidato lavori di manutenzione di un centro sportivo […] per l’affidamento reiterato senza gara del servizio di gestione della piscina comunale e dei servizi di natura commerciale collegati”: l’importo del danno è stato quantificato complessivamente in 79 mila euro.

MARCHE: LA MAESTRA CHE “RUBA” LE MERENDINE AI SUOI ALUNNI – Nelle Marche si rasenta l’assurdo. Tra i fatti a rilevanza penale produttivi di danno pubblico spicca il caso della docente di scuola materna che si appropriava illecitamente di generi alimentari destinati al pasto dei bambini della scuola, sottraendoli dal carrello della distribuzione; o quello del rilascio di patenti nautiche false da parte di un sottotenente di vascello della Capitaneria di Porto di Ancona dietro indebito compenso (danno in corso di accertamento per 52 mila euro); o ancora le irregolarità riscontrate nell’acquisto di un farmaco a prezzo intero anziché con l’applicazione dello sconto previsto dall’AIFA (danno per 20 mila euro). Ed anche qui ritroviamo, come in Emilia, un’opera pubblica mai utilizzata a causa della mancata agibilità del complesso geriatrico Nuovo Pensionato Tambroni di proprietà dell’Istituto Nazionale ricerca e Cura anziani, a causa di gravi difetti di costruzione, accertati mediante consulenze tecniche (danno: € 3.390.620,00).

LA PICCOLA REGIONE DAI GRANDI SPRECHI: DAL COMUNE DI ISERNIA ALLA TRATTA TERMOLI-CROAZIA – Anche la piccola regione molisana, in quanto a sprechi e cattiva politica, sa il fatto suo. Basti pensare al comune di Isernia e al suo mancato rispetto del patto di stabilità interno, cosa che – scrivono i magistrati – ha portato ad “accertamenti istruttori finalizzati al riscontro della sussistenza di ipotesi di responsabilità in capo agli amministratori e ai funzionari del comune”. Altro procedimento riguarda “un’anomala e del tutto informale procedura selettiva per la concessione a privati di aree pubbliche per la realizzazione di parchi eolici”. La scelta, infatti, era caduta su un’impresa che, oltre a presentare le minori garanzie in tema di solidità patrimoniale e di know how, aveva offerto le condizioni meno convenienti, con un danno per le casse comunali che, se riferito all’intero periodo del rapporto contrattuale, può stimarsi in svariati milioni di euro. Ma la vicenda molisana più eclatante è quella relativa al famoso Termoli Jet che doveva coprire la tratta nautica Molise-Croazia. Per svariati motivi la società mista creata ad hoc non ha, di fatto, mai esercitato l’attività in vista della quale era stata costituita. Il danno è valutabile in un importo pari al complessivo costo sopportato dalla regione per l’operazione, ossia a oltre sei milioni di euro.

PIEMONTE: I SOLDI PER LA CULTURA LI PRENDO IO! – Oltre all’ormai arcinota vicenda del comune di Alessandria (falsificazione del rendiconto 2010), spicca l’indagine nei confronti del presidente dell’associazione Premio Grinzane Cavour e di altri complici, responsabili della “illecita sottrazione di fondi pubblici regionali destinati al settore cultura e spettacolo, nonché nei confronti di amministratori pubblici per omissioni inerenti all’attività di controllo”. Danno accertato: oltre sette milioni di euro. Anche qui, però, abbondano i casi di mala sanità costati economicamente alle casse dello Stato: basti pensare alle 36 casi di cura private che hanno programmato la dimissione di pazienti in modo fraudolento e tale da “consentire un rimborso maggiore di quello consentito dalla tariffa in ipotesi di regolare andamento dei ricoveri”. Circa otto milioni di euro il danno.

PUGLIA: VENDOLA CADE PROPRIO SULL’AMBIENTE - Dal quadro prospettato dalla Corte abbondano irregolarità commesse presso le Agenzie fiscali, soprattutto in tema di rimborsi indebiti e crediti fittizi di IVA, nonché presso le Aziende Sanitarie. La cosa che stupisce, però, è che sono ben dieci i fascicoli di vertenze (tutti, però, ancora in fase istruttoria) aperti per danno ambientale (inquinamento del mare e delle falde acquifere, inefficace realizzazione di interventi di bonifica, discariche abusive e incontrollate). Non pochi nella regione dell’ambientalista Vendola.

SARDEGNA: LE IMPRESE COMPIACENTI E L’ATTICO IN REGALO - In Sardegna è la casta a fare da dominus. I “fenomeni corruttivi” non sono affatto pochi. E allora ecco i tanti casi in cui si affidano lavori a imprese compiacenti, da cui poi si ottiene “in cambio la realizzazione di opere nella propria abitazione e altre utilità”; o quelli in cui, per la ristrutturazione e l’ampliamento di un Centro Congressi, l’ingegnere capo e il responsabile dei procedimenti, anche loro compiacenti nei confronti di alcune ditte private, sono stati “remunerati” con la cessione di un attico di proprietà delle ditte medesime e, come se non bastasse, anche col pagamento di un corrispettivo pari a un diciassettesimo del valore commerciale dell’immobile. Senza dimenticare, ancora, le indagini sull’illecito utilizzo di fondi erogati ai gruppi consiliari del Consiglio regionale da parte di alcuni consiglieri “che li hanno destinati a finalità personali o, comunque, a scopi completamente estranei a quelli consentiti”; infine il clamoroso caso che ha comportato per la regione un danno di 605 mila euro: una società cooperativa per la realizzazione di una struttura destinata allo svolgimento di attività imprenditoriale diretta a offrire servizi a persone anziane non autosufficienti e a malati terminali, aveva ricevuto finanziamenti pubblici (appunto dalla regione) che poi però aveva distratto dal fine pubblico per destinarli a spese definite “di rappresentanza“, ma in realtà riferibili a esclusivo beneficio personale degli amministratori.

SICILIA: LE INCREDIBILI CONSULENZE E LA VERTENZA PER I RAPPORTI MAFIOSI – Consulenti, consulenti, consulenti. In sintesi, questa è stata la politica siciliana negli ultimi anni. Non potrebbe essere altrimenti, d’altronde, se il comune di Palermo cade in un illegittimo affidamento di undici incarichi di natura tecnica a privati professionisti, nonostante l’organico comunale consentisse il ricorso all’organico interno. Le nomine di consulenti spesso generose vengono contestate anche alla Regione e alla sua ex giunta, nei confronti della quale non si contano gli accertamenti aperti. Raffaele Lombardo, peraltro, è soggetto anche ad un’altra vertenza, derivante dalla rivelazione di segreti d’ufficio con l’aggravante” – dicono i magistrati – “di avere favorito gli interessi della criminalità mafiosa”. Incredibile anche il danno erariale a cui è chiamato il comune palermitano: la precedente giunta aveva affidato servizio di vigilanza nei mercatini della città, con un esborso di oltre 336 mila euro, a favore di sette associazioni di servizio che avevano presentato un unico progetto “fotocopia“.

TOSCANA: LE TRADIZIONALI EROGAZIONI A PIOGGIA. ANCHE CON RENZI –Indebite erogazioni a pioggia”. Questa la patologia delle P.A. toscane secondo la Corte. A cominciare dal comune guidato da Matteo Renzi. Nella sola Firenze, infatti, nel periodo dal 2000 al 2008 si sarebbero prodotti danni per circa 50 milioni di euro. Si dirà: allora Renzi non c’entra. Ma attenzione. ”Risulta che le medesime situazioni dannose, nonostante i rilievi della RGS, si sono protratte sino all’attualità: sono in corso ulteriori approfondimenti a mezzo G.d.F., tesi, soprattutto, a identificare i singoli apporti causali e a quantificare gli ulteriori danni”. Insomma, pare che anche il presente segua la stessa strada del passato. Come detto, però, tali elargizioni sconsiderate sembrano essere un tratto peculiare di tutta la Toscana. “Fattispecie sostanzialmente analoghe, pur con qualche specificità, sono state segnalate (e sono in corso accertamenti istruttori) alla Provincia di Firenze, a Grosseto, a Livorno, in altre città minori : trattasi evidentemente di un fenomeno che si è diffuso e radicato e al quale non sono estranei i sindacati locali”. Anche la Corte, insomma, è dello stesso parere.

UMBRIA: LA CASTA (ROSSA) COSTA – In quella che probabilmente è la regione rossa per eccellenza insieme all’Emilia Romagna, stupisce che la maggior parte delle vertenze siano nate per i costi della casta, per gli sprechi e gli sperperi della classe politica. Dall’uso improprio dell’auto di servizio alle spese eccessive per trasferte e missioni; dai rimborsi gonfiati per i costi di carburante al viaggio in Argentina e Sud America da parte di amministratori e funzionari provinciali sotto forma di viaggio istituzionale della durata di 15 giorni; dall’aumento complessivo annuo dei gettoni di presenza da parte di consiglieri comunali a seguito dell’aumento delle sedute al trasferimento, fino al trasferimento, presso la segreteria del sindaco del comune di Perugia, di un dipendente impiegato presso un’azienda regionale, inquadrato in una categoria superiore rispetto a quella posseduta.

VENETO: I CITTADINI SCIVOLANO E IL COMUNE PAGA 3,3 MILIONI – Se si raccontasse sarebbe difficile credere sia vero. Eppure il danno erariale è di circa 3 milioni e mezzo di euro. La vicenda riguarda il Ponte della Costituzione a Venezia: pavimento troppo scivoloso, troppi infortuni, tante denunce, tutte pagate a caro prezzo dal comune. Tanti poi i contratti stipulati con aziende che di li a poco sarebbero fallite. È il caso, ad esempio, dell’appalto dei lavori per la realizzazione del nuovo palazzo del cinema al lido di Venezia: l’opera è stata dopo poco abbandonata dopo la scoperta di rifiuti di amianto nel sottosuolo. Eppure i finanziamenti sono stati erogati: 38 milioni di euro in fumo. Un altro ingente danno erariale è legato al fallimento della compagnia aerea low cost Myair fallita nel 2010 ma finanziata poco prima per 18,5 milioni di euro. Ma non è finita qui. Un’istruttoria  è stata aperta per i reati di truffa, corruzione e concussione contestatati ad alcuni primari degli Ospedali di Padova, Vicenza e Dolo, che avrebbero “perfezionato accordi truffaldini con l’Acustica veneta, la quale, a fronte di prescrizioni di protesi, corrispondeva loro tangibili omaggi”; un’altra ha toccato ben 22 poliziotti della Questura di Rovigo condannati in primo grado dal Giudice penale per truffa, falso ideologico, abbandono del posto di lavoro perché – addirittura - dormivano durante i turni di servizio; un’altra ancora è stata aperta nei confronti di insegnanti di un corso serale per extracomunitari i quali percepivano stipendi per un intero anno scolastico a fronte di prestazioni non rese “per assenza di discenti”. Clamorosa anche la vicenda del poliziotto che vendeva su Ebay materiale informatico della Questura. Danno: 15 mila euro. Infine, ricordiamo l’atto di citazione per danno all’immagine e da disservizio - pari a 50 mila euro - a seguito della sentenza penale di condanna per concussione per due poliziotti della questura di Verona che avevano violentato in caserma una prostituta extracomunitaria.

La Corte dei Conti contro sprechi e corruzione. Ma dov'era in questi anni?

Il Presidente dei magistrati contabili difende Equitalia sul "Corriere della Sera". Ma non spiega perché la Corte non esercita fino in fondo i suoi poteri, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Tutto giusto, tutto condivisibile, nell’intervista del Corriere della Sera fatta da Enrico Marro al Presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino? Giusto è il richiamo al governo, seppure in un linguaggio diplomatico da magistrato contabile, a non limitarsi a reprimere gli evasori fiscali, i “furbi”, ma a “indurre e consolidare comportamenti di massa strutturalmente corretti” (l’adesione spontanea, o tax compliance) “con la persuasione, l’assistenza, il supporto, nonché con l’incentivazione premiale dei comportamenti adesivi”. Anche perché la repressione ha “inevitabilmente qualche ricaduta di connotazione vessatoria”. Giusta poi la difesa del ruolo di Equitalia perché l’alternativa, quella delle “improvvisate società locali di riscossione”, sarebbe “un errore gravissimo”. Giusto il pungolo al governo sulla spending review, che deve essere “analitica e approfondita”, e legarsi “a obiettivi di riorganizzazione anche profonda degli apparati pubblici” evitando fra l’altro “duplicazioni e sovrapposizioni”. Tuttavia, c’è un gigantesco punto interrogativo al quale il presidente della Corte dei Conti dovrebbe forse rispondere. Troppo facile, infatti, ergersi in cattedra periodicamente con relazioni e interviste, bacchettando a destra e a manca, denunciando una corruzione di 60 miliardi di euro quando poi le condanne inflitte dalla Corte ammontano a soli 75 milioni nel 2011. Enrico Marro, l’intervistatore, ne chiede conto. E Giampaolino è costretto allora a dismettere i toni magistrali, a fare quasi marcia indietro in quanto la cifra totale sarebbe “da intendersi come un dato meramente indicativo”. Senza però riconoscere una parte di responsabilità alla Corte da lui presieduta. Reclama, invece e come al solito, strumenti per “una più ampia e incisiva attività di controllo”. Ma dov’era (questa è la domanda), dov’era la Corte dei Conti negli ultimi decenni, anni, mesi, settimane, giorni? La Corte dei Conti è un organo con funzioni importantissime e capillari, con strutture costose e gigantesche al pari di altri organi fondamentali dello Stato. E con poteri che andrebbero esercitati. La Corte è presente in forze a livello centrale e in tutte le realtà locali, persino nelle Regioni autonome attraverso sezioni speciali. Tra le sue tante funzioni di controllo e giurisdizionali, c’è quella di magistratura contabile della pubblica amministrazione. Nel momento in cui la Corte svolge controlli preventivi, può modificare, sospendere oppure annullare provvedimenti di altri organi dello Stato, causa una insufficiente copertura finanziaria o un impiego non ottimale delle risorse pubbliche. E lo può fare con titolo esecutivo. Cioè quando arriva un decreto, un atto amministrativo che prevede una spesa, come per incarichi, consulenze e riorganizzazione di uffici (a proposito delle “duplicazioni e sovrapposizioni” di cui parla Giampaolino), la Corte ha la forza e la facoltà di chiedere correzioni e/o non concedere l’autorizzazione. Lo fa? O, meglio, lo ha fatto abbastanza? Va bene che Giampaolino non entri nel merito degli aspetti controversi di Equitalia (i margini di guadagno e i premi sui versamenti recuperati, per dirne una). Va bene che non ci spieghi come sia arrivata la Corte alla cifra “indicativa” dei 60 miliardi di corruzione senza che questa denuncia sia stata seguita da una congrua attività giurisdizionale. Ma non va proprio far passare l’idea che la Corte dei Conti non sia in parte corresponsabile degli sprechi della pubblica amministrazione, a tutti i livelli. Ancora una volta, varrebbe forse la pena di dimostrare con i fatti che il cambio di mentalità necessario all’Italia per superare la crisi riguarda tutti, compresa la Corte dei Conti.

Da mesi siamo bombardati da messaggi e pubblicità contro l’evasione fiscale, e ogni giorno i Tg raccontano di di blitz delle Fiamme Gialle nelle varie città d’Italia a caccia di piccola e grande evasione. E’ sicuramente il sintomo di un Paese, o di istituzioni di un Paese che stanno cambiando e che hanno deciso di far sentire la pressione morale e mediatica ai propri cittadini in maniera da indurre tutti a un maggior senso di responsabilità. Tutto questo, ovviamente, è positivo, ma da mesi mi chiedevo quando qualcuno avrebbe cominciato a tirare fuori anche l’altra faccia della medaglia, quella legata ad un utilizzo disinvolto e irresponsabile dei soldi che i cittadini italiani versano nelle casse dello Stato. Non mi è mai piaciuto, dalla prima sua messa in onda, lo spot televisivo contro l’evasione fiscale che si chiude con “più cittadini pagano le tasse, più servizi si potranno realizzare”, frase teoricamente e logicamente vera, ma, ad oggi, nel nostro Paese falsa e ipocrita. Mi spiego meglio. Se ad oggi si fossero realizzati servizi nel nostro Paese degni di questo nome anche e semplicemente con i soldi incassati ad oggi anche con l’enorme mole di evasione fiscali sono convinto che sarebbe facilissimo dimostrare che di servizi ne avremmo molti di più e molto più efficienti. La dura realtà è che non è così. I servizi non ci sono perché i soldi vengono spesi con negligenza, male, con disonestà o non vengono spesi proprio. Sarebbe stato più “onesto” fare uno spot contro l’evasione nel quale si fosse detto: “più lotta agli sprechi e alla corruzione, più competenza negli investimenti, più cittadini pagano le tasse, più servizi si potranno realizzare”. Allora avrei visto, da cittadino, l’equilibrio nella comunicazione e anche nell’azione di questo nuovo corso di Governo. Oggi il messaggio che passa è: “Tra voi cittadini ci sono dei delinquenti che non pagano le tasse, ricordatevi che verremo a prendervi!”. La Corte dei Conti nel suo dossier su malasanità, corruzione, appalti, ha detto che il problema degli sprechi e della corruzione e come minimo paritario rispetto al problema dell’evasione fiscale, quando equilibreremo anche in questo comunicazione e azioni concrete ? Quando l’apparato dello Stato la smetterà di essere un idrovora insaziabile ? Tutti vogliamo più servizi, ma vogliamo pure che i sacrifici di ciascuno non servano ai “vizi” vecchi e nuovi di qualcun’altro.

Presidente, il premier Mario Monti ha detto che contro l'evasione siamo in «uno stato di guerra». Condivide?

«È una partita difficile da giocare, che richiede una strategia chiara di contrasto e la ferma determinazione di attuarla. Ma non si tratta solo di reprimere, bisogna indurre e consolidare comportamenti di massa strutturalmente corretti», risponde il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino.

Chi evade spesso dice che lo fa per sopravvivere. Chi ha la ritenuta alla fonte non accetta queste giustificazioni. La questione fiscale divide il Paese.

«Ci sono anche attività economiche marginali che riescono a sopravvivere solo restando sprofondate nel sommerso, soprattutto nel Mezzogiorno. Ma per lo più si tratta, appunto, di attività marginali e, magari, in non pochi casi, anche criminali. In realtà, chi evade lo fa perché ritiene di aver così trovato il modo di vivere meglio di chi è tanto ingenuo da onorare la sua obbligazione di contribuente. Salvo, naturalmente, beneficiare anche dei servizi e delle prestazioni dello Stato sociale finanziati da chi non evade. I cittadini onesti devono imparare a non stare più al gioco di chiunque pensi di poter fare il furbo, sia che si tratti del negoziante che del medico, dell'avvocato o dell'idraulico. Nella consapevolezza che favorire l'evasione significa pagare due volte il fornitore: per il bene o il servizio ottenuto, ma anche per le prestazioni sociali gratuitamente assicurategli. Con l'aggravante del danno che ne deriva in termini di maggior pressione fiscale legale e di effetto di squilibrio dei conti pubblici».

Ci vuole anche un cambiamento culturale. Non chiamiamo più gli evasori «furbi», dice Monti. Secondo lei sta cambiando l'atteggiamento dei cittadini verso l'evasione?

«Sì. E anch'io avverto una crescente insofferenza nei confronti dei cosiddetti furbi, molti dei quali sembrano incalliti e comunque del tutto indifferenti rispetto ai problemi in cui il Paese si dibatte. Il positivo mutamento di clima è sicuramente il risultato anche del modo deciso e coerente con cui questo Governo sta contrastando l'evasione».

Oggi lo Stato dispone di tutti gli strumenti necessari a stanare gli evasori?

«La Corte apprezza la reintroduzione dell'obbligo di allegare alla dichiarazione Iva gli elenchi clienti e fornitori la cui sospensione aveva privato gli uffici finanziari di uno strumento potentissimo di controllo incrociato delle contabilità delle imprese. Ma va valorizzata anche e soprattutto la predisposizione di misure e di azioni idonee a favorire il consolidamento di comportamenti di massa più corretti. Non è immaginabile, né auspicabile, che i frutti del contrasto all'evasione possano essere esclusivamente e permanentemente legati a una crescente attività di repressione, inevitabilmente non sempre scevra anche da qualche ricaduta di connotazione vessatoria».

Nonostante i grandi sforzi fatti in questi anni, si recuperano circa 10-12 miliardi di euro l'anno a fronte di un'evasione stimata in almeno 10 volte tanto. Perché?

«La cifra del recupero di 10-12 miliardi si riferisce anche ad importi che sarebbe improprio attribuire integralmente ai risultati della lotta all'evasione in senso stretto. Sono ricompresi, ad esempio, tutti gli importi legati alla pura e semplice correzione degli errori che tutti possiamo commettere nel compilare la dichiarazione dei redditi. Ciò che andrebbe, in realtà, misurato è, come dicevo prima, piuttosto l'effetto che si ottiene in termini di accresciuta e permanente adesione spontanea, quella che in inglese viene definita come tax compliance. È da tempo che la Corte dei conti insiste perché l'Amministrazione finanziaria si attrezzi con i meccanismi e le metodologie utili per effettuare queste valutazioni. È tutta l'attività dell'Amministrazione finanziaria che deve essere impostata e gestita con l'obiettivo di massimizzare l'adesione spontanea: con la repressione, ma anche con la persuasione, con l'assistenza, il supporto, nonché (perché no?) con l'incentivazione premiale dei comportamenti adesivi».

Si punta molto sulla collaborazione dei Comuni per stanare gli evasori. È la strada giusta?

«Non c'è dubbio che i Comuni potrebbero fare molto per contribuire ad una maggiore adesione spontanea. Ma questo risultato non ci sarà se, anche involontariamente, si indebolisce l'efficacia dell'attività di riscossione. Indebolire il ruolo di Equitalia a favore di una miriade di improvvisate società locali di riscossione sarebbe un errore gravissimo che mi auguro non sia commesso».

Si potranno pagare meno tasse quando si sarà tagliata la spesa, dice il governo. La spending review la convince?

«Per risultare efficace, la spending review deve essere analitica ed approfondita e deve valorizzare gli sforzi in precedenza compiuti. E deve legarsi a obiettivi di riorganizzazione anche profonda degli apparati pubblici, eliminando duplicazioni e sovrapposizioni. Verificando sistematicamente, senza preclusioni pregiudiziali, l'effettiva utilità della stessa attività amministrativa svolta. Le cosiddette resistenze burocratiche sono spesso solo il riflesso dello scarso grado di approfondimento dell'utilità e della fattibilità degli interventi ipotizzati».

La Corte dei conti dovrebbe aiutarci a combattere gli sprechi. I primi che vengono in mente sono quelli connessi alla politica. Secondo la relazione Amato potrebbe essere la Corte a esaminare e convalidare i bilanci dei partiti. È d'accordo?

«Certamente sì. La nostra Costituzione assegna alla Corte il compito di partecipare, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Se pertanto è prevista una contribuzione in via diretta o indiretta ai partiti, il controllo sulla loro gestione finanziaria, più correttamente, dovrebbe essere affidato alla Corte dei conti».

E contro la corruzione cosa fa la Corte? Vale 60 miliardi di euro l'anno avete denunciato, ma nel 2011 sono state inflitte condanne solo per 75 milioni di euro. Perché?

«La cifra totale, frutto di elaborazioni fondate su fonti interne e internazionali, è da intendersi come un dato meramente indicativo. Di certo vi è la grande distanza tra gli importi delle condanne inflitte dalla Corte e la totalità del danno che la corruzione infligge al Paese. Le ragioni di questo divario sono molteplici.  Una soluzione a tale situazione sarebbe quella di affiancare all'attività giurisdizionale, come mezzo per combattere la corruzione, una più ampia ed incisiva attività di controllo, sia preventivo che successivo, che avrebbe il pregio di unire a una maggior ampiezza di intervento anche una più rilevante efficacia interdittiva ovvero correttiva delle situazioni di mala gestio in atto, così da colpire non solo corruzione bensì la ben più ampia massa dei comportamenti caratterizzati da inefficienza gestionale».

Dopo tanto parlare di istituzioni che dovrebbero combattere gli sprechi ti accorgi che è “Striscia la Notizia” che fa guadagnare i miliardi di euro allo Stato. Altro che Corte dei Conti o Guardia di Finanza. Spreco di denaro pubblico denunciato: 13 miliardi di euro; denaro pubblico recuperato: circa 3 miliardi. Non è il saldo di attività di un corpo speciale della Finanza o il frutto di una "spending review" messa in atto contro la crisi economica, ma il bilancio di 12 anni di programmazione di "Striscia la notizia", la trasmissione di Antonio Ricci in onda su Canale 5. A dare la valutazione del risparmio pubblico a seguito delle inchieste di "Striscia" dedicato a opere incompiute o mai utilizzate è il libro di due docenti di Finanza Aziendale dell’Università Bocconi, Maurizio Dallocchio e Emanuele Teti, La rilevanza sociale, culturale ed economica di "Striscia la notizia" (Egea) in cui è stilato un database riassuntivo dei servizi facenti parte della categoria "Sprechi & Incompiuti" proposti dal programma dal 1988 al 2010. Degli 840 servizi presi in esame, si legge nel volume, la valutazione economica è quantificabile solo nel 37,47% dei casi. Quindi per i servizi in cui questa valutazione è possibile lo spreco di denaro pubblico denunciato è stato pari a 13.000 milioni di euro a fronte del recupero di circa 3.000 milioni. In quest’ultimo caso si intende l’ammontare di denaro pubblico che viene "riscattato" e quindi recuperato nel caso in cui l’opera precedentemente incompiuta o inutilizzata a seguito delle denunce del programma diventa effettivamente operativa. Nel libro i due docenti hanno calcolato anche gli effetti dell’inflazione sui capitali investiti per le opere pubbliche citate da "Striscia" determinando per i risultati del programma una somma ben più alta: pari a circa 58.000 milioni di spreco denunciato a fronte di un ammontare recuperato pari a 7.800 milioni di euro. Il volume è il risultato di una ricerca condotta dal CReSV, Centro ricerche su Sostenibilità e Valore dell’Università Bocconi e finanziata da Rti, la controllata di Mediaset per le reti televisive.

CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.

Alla faccia della cultura. Come ti finanzio gli amici per purghe televisive.

I FINANZIAMENTI AL CINEMA: PRIVILEGI E SPRECHI.

Tempo fa, recensendo il film di Marco Risi "L’ultimo capodanno", ho scoperto che era stato sovvenzionato dallo stato per € 1.354.666 e che al botteghino aveva incassato € 96.567, scrive Capannelle su Davinotti. Ohibò, mi sono detto, come facciamo a dare così tanti soldi ad un regista peraltro noto per fare un flop simile? Ero convinto si trattasse di un caso isolato ma ero solo alla punta dell’ iceberg!

I NUMERI PARLANO DA SOLI

Basta guardare le cifre complessive per rendersi conto degli sprechi che nel corso degli anni hanno caratterizzato l’utilizzo dei finanziamenti pubblici. Negli anni dal 1994 al 2006, lo stato ha speso 817 milioni € destinati a 544 film, per  un importo medio di 1.524.000 € a film.

- Dei 544 film finanziati, ben 155 (il 28%) non sono mai usciti in sala.

- Di quelli usciti l’incasso medio è stato 378.000 €, gli spettatori medi circa 70.000

- Soltanto 25 film dei 544 finanziati sono riusciti a recuperare in toto i soldi ricevuti

- Hanno ricevuto fondi 61 case di produzione e 390 registi

Considerando il primo dato si può dire che almeno una volta ogni quattro (e anche l’annata 2007 lo conferma) viene finanziato un lavoro che nessuno vedrà. Spesso vengono costituite delle imprese già destinate al fallimento con l’unico scopo di far lavorare un gruppo di persone e di fornitori amici e magari trovare posto per un paio di ragazzotte amiche dell’onorevole. Tutto fattibile a cuor leggero tanto buona parte delle perdite se le accolla lo stato. E intanto mi sono costruito una solida rete di persone che mi devono un favore.

I beneficiari sono registi sconosciuti e bisognosi di affermarsi? Noooo. Tra i beneficiari troviamo anche:

- Michelangelo Antonioni, € 3.160.716 nel 1997 per un film mai uscito

- Bellocchio, finanziato 4 volte tra 1995 e 2003, con risultati al botteghino non disprezzabili

- I fratelli Taviani con 3 sovvenzioni

- La Wertmuller 4 volte, di cui una senza uscire e un’altra con un ritorno di € 6.625 a fronte degli 3.718.500 ottenuti per Peperoni ripieni e pesci in faccia.

- Pupi Avati beneficiario 5 volte con risultati altalenanti: dal 162% de Il testimone dello sposo al misero 13% di Festival; ma il tragico è che ottenne ben 3 finanziamenti in soli due anni (1996-97) e che riusci a far accedere ai finanziamenti anche la figlia Mariantonia per l’indimenticabile Per non dimenticarti (finanziato € 1.588.000, incasso 21.808)

- Barbareschi con 2 bei flop che hanno incassato il 3 e 4% del finanziamento: Ardena e Il trasformista.

UN CONTESTO DIFFICILE PER CHI "NON HA GLI AGGANCI".

Non è facile fare cinema al di fuori dello star-system americano, è risaputo. In Italia, la concorrenza della televisione, i gusti troppo esterofili e poco sofisticati del pubblico, la stagionalità del consumo non aiutano al botteghino. La crisi delle sale è compensata in parte da pay-tv e home video ma c’è anche tanta pirateria (ehm... meglio soprassedere). Che il quadro generale, a prescindere dal discorso sovvenzioni, sia poco allegro lo dicono anche i numeri: ogni anno escono in media 400 nuovi film, di cui circa 100 sono italiani; di questi 100 solo 20 sono redditizi: metà sono i classici “cinepanettoni”, metà sono opere di vario genere. Attenzione però a non enfatizzare questi aspetti (comuni del resto a tutti i paesi europei) per costruirsi un comodo alibi e non vedere che in fondo esiste anche un grosso deficit professionale a molti livelli del sistema cinema e un deficit di trasparenza. Esiste infatti in Italia una cerchia chiusa che comprende sia i personaggi più illustri (registi, sceneggiatori, attori) che quelle maestranze che lavorano dietro le quinte: elettricisti, falegnami, disegnatori, tecnici del suono etc. che, pur avendo un bagaglio professionale di primo ordine, ormai non lo utilizzano più in modo completo proprio perché non viene loro richiesto. Fanno parte di questa casta anche coloro che dovrebbero valutarla tramite recensioni e pareri: molti critici sono particolarmente benevoli verso i registi loro affini come background culturale e verso certi attori che all’estero faticherebbero a varcare la soglia di uno studio. Il cortocircuito è particolarmente dannoso - e limitante verso i nuovi autori - nella gestione dei finanziamenti statali, considerati alla stessa stregua di tanti altri fondi pubblici: non secondo fattori di meritocrazia culturale e professionale ma in base a conoscenze e amicizie.

IL SISTEMA DI SOVVENZIONI STATALI.

La maggior parte dei film italiani vengono finanziati, in misura variabile, da enti pubblici. Ogni anno vengono erogati circa 80 milioni di euro del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, istituito nel 1985). Si tratta di soldi del contribuente utilizzati per dare sostegno a opere, cineasti, scuole di cinema, centri sperimentali, sale cinematografiche. Una somma non alta né bassa, certamente non paragonabile alla Francia che ha deciso di considerare il cinema una risorsa strategica per la propria identità culturale e mette a disposizione fondi 8 volte superiori ai nostri grazie a tasse su biglietti del cinema (10%), tv commerciali (5,5% del fatturato) e dvd (2%). Sanno spenderli meglio di noi? Non lo so, ma se li danno a film come Asterix e Obelix o se magari finanziano anche un documentario su Cesare Battisti, stiamo freschi. Fino al 2004 i finanziamenti venivano erogati con criteri abbastanza discrezionali (un merito artistico che potevi attribuire in base a mille considerazioni) ma finivano comunque nelle tasche dei “soliti noti” e soprattutto senza alcun vincolo sul ritorno dell’operazione: se il film per cui avevi chiesto un contributo non era uscito nelle sale o aveva ottenuto scarsi risultati questo non importava a nessuno, potevi comunque continuare a chiedere e utilizzare i soldi pubblici come se nulla fosse. A fine 2004 la legge Urbani ha riformato il sistema ma ha corretto ben poco. Ha introdotto criteri di selezione più rigidi e basati su un punteggio ma ha così favorito i “soliti noti” che vantano le dimensioni e il curriculum per rimanere in prima fila nel magna magna generale. Ha ridotto il contributo dall’80% al 50% del costo totale dell’opera (eh sì, prima potevi farti finanziare quasi tutto senza dovere nulla in cambio, bell’esempio di responsabilizzazione!) ma da bravi italiani abbiamo semplicemente gonfiato i costi per ricevere più soldi. Ha introdotto la norma del “Product placement” (pubblicità palese e non occulta dei marchi) per permettere di raccogliere qualche elemosina supplementare. Almeno è stata eliminata una ricorrente ipocrisia già presente in molti programmi e fiction tv (vogliamo parlare delle vetture Mazda che Totti riforniva di carburante in un programma tv e che compaiono in pianta stabile nella serie Distretto di polizia?). Per finanziare le opere prime sono rimasti pochi soldi e la vita di chi si affaccia su questo mondo senza le dovute conoscenze è rimasta ardua. Qualche coraggioso si è esposto (ad esempio tale Mascagni col suo manifesto Davide contro Golia) per chiedere che fossero posti dei limiti all’ingordigia della casta. Ad esempio:

- minor peso attribuito al curriculum per consentire maggior ricambio

- introdurre un tetto massimo al numero di concessioni di soldi pubblici

- non si può chiedere un nuovo finanziamento prima di 2 anni dall’uscita del film precedentemente finanziato: per evitare che ci siano autori che ottengono soldi ogni anno.

- commissioni dove siedano rappresentanti di diverse tendenze e fasce d’età; dove non possano trovar posto persone legate da conflitti d’interesse

Non mi risulta che il suo appello sia stato ascoltato.

A completamento del discorso, aggiungo che la legge prevede anche premi commisurati ai risultati di botteghino: cinepanettoni vari che hanno sbancato nelle sale ricevono pure una percentuale, variabile secondo scaglioni, su quanto hanno venduto. Ad esempio, il pieraccioniano Ti amo in tutte le lingue del mondo si è beccato un bel premio di € 1.485.600. Il totale dei premi erogati nel 2007 è stato di 19.638.887euro. Mica pochi, su un totale di 79.434.180 di sovvenzioni!

Ciak! paga lo Stato. Il programma racconta  e documenta con taglio giornalistico gli aspetti meno noti dell’industria cinematografica. L’inchiesta di Sky Cinema prova a rispondere a queste e ad altre domande attraverso contributi e interviste inedite.  Come vengono utilizzati i soldi che lo Stato dà al cinema? Ci sono ancora i finanziamenti a film che nemmeno escono? O c’è un più oculato sistema per dare incentivi? E a chi? Fuori dai red carpet, dalle anteprime, dalle interviste in batteria, un mondo di addetti ai lavori, istituzioni, aziende, enti, ruota intorno al business del cinema, tra investimenti privati e finanziamenti pubblici che spesso generano polemiche e controversie.

Film soft core, catastrofiche pellicole horror  e soprattutto pellicole che nessuno ha mai visto, perché non sono mai nemmeno uscite in sala, scrive Barbara Tarricone. Sono i risultati dell’uso scellerato della prima legge di finanziamento pubblico al cinema, quella del 1965. Meglio conosciuta per avere prodotto gioielli come “Mutande Pazze”, di Roberto D’Agostino. Errori del passato, rimediati dalla nuova legge cinema del 2004? Sono riposti meglio i sempre più esigui fondi che lo stato destina alla cultura (e al cinema)? Negli ultimi anni sono stati finanziati grandi registi e autori: da Marco Bellocchio, 900.000 euro per "Bella Addormentata” a  Paolo Sorrentino  che ha portato a Cannes “La Grande Bellezza” con una produzione aiutata da 1.100.000 euro dello stato, a Paolo Virzi sul set in questi giorni con "Il Capitale Umano" che dal Ministero ha preso 700.000 euro. Tra le liste dei film che per lo stato sono di interesse culturale e che quindi meritano di essere aiutati e pagati dai nostri soldi abbiamo trovato anche mega commedie e blockbuster. Qualche nome? “Genitori e  Figli”  di Giovanni Veronesi con 1.100.000 euro, la saga goliardica “Amici  miei come tutto ebbe inizio” di Neri Parenti, con 400.000 euro, 650.000 euro a “Posti in Piedi in paradiso” di Carlo Verdone. E addirittura 1.000.000 euro a “Ex” di Fausto Brizzi. Ma lo Stato non doveva “aiutare a produrre e a diffondere opere difficili e di qualità”? Così non sembra, se guardiamo i film che, anche senza ricevere finanziamento, hanno richiesto e ottenuto il bollino di interesse culturale dal ministero. Un bollino che non è solo un’onorificenza ma garantisce un maggiore premio statale sugli incassi, sgravi fiscali per il distributore e premi agli esercenti. Cioè altri soldi pubblici. Tra i film che per lo stato sono a interesse culturale ci sono “Benvenuti al Sud” e il sequel  “Benvenuti al Nord”  “Immaturi”,  “Femmine contro maschi”, “Baciato dalla fortuna”, i mega comici   Aldo Giovanni e Giacomo con “La Banda dei Babbi Natale”,  Ficarra e Picone con “La Matassa”, il  fenomeno televisivo Giovanni Vernia con “Ti stimo fratello!”. E persino i Vanzina con il loro road trip “Mai Stati Uniti”!

Per scoprire perché Sky Cine News parla con registi, produttori, addetti ai lavori e si è avventurato all’interno della sezione Cinema del Ministero dei Beni delle Attività Culturali. Appuntamento su Sky Cinema 1 il 18 giugno 2013 alle ore 22.50

Ciak, si floppa. Tanto paga lo Stato. I fondi pubblici finanziano soprattutto commediole e registi noti. Come rivela un documentario di Sky, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si parla tanto di fondi alla cultura, e in particolare al cinema. Il dibattito assume subito toni alti ed ispirati. Si discute della necessità di preservare una «diversità» italiana, quella che ad esempio Francesco Merlo su Repubblica loda come «eccezione culturale». Il tema è tutt'altro che semplice e l'impegno a tutela della cultura è sancito dalla Carta costituzionale. Tuttavia al di là delle disquisizioni dotte e filosofiche sul tema - o anche della complessità del mercato degli audiovisivi - si potrebbe anche fare qualche riflessione più terra terra su dove sono andati a finire i finanziamenti erogati sin qui. In questo senso aiuta anche una trasmissioncina breve breve che andrà in onda il 18 giugno 2013 stasera su Sky Cinema 1HD e intitolata Ciak!Paga lo stato! (alle 22,50 sul canale 301 della piattaforma Sky). Ecco qualche numero e qualche titolo di quelli che verranno presi in considerazione. Il ministero ha erogato fondi per titoli di cui è difficile mettere in dubbio il valore culturale. Un esempio tra i tanti Bella addormentata di Marco Bellocchio (900mila euro) o La grande bellezza di Paolo Sorrentino (1 milione e 100mila euro). Diventa meno facile spiegarsi come mai si possa trovare culturalmente imprescindibile un finanziamento di un 1 milione di euro a Ex di Fausto Brizzi del 2009. O forse ad aver preso un abbaglio nel giudicare la commedia è stato il noto critico cinematografico Morandini nel suo dizionario del cinema: assegna al film una stelletta su 5, a causa della «banalità trionfante», la «volgarità a tutti i livelli» e l'«esterofilia turistica modaiola». E la lista è lunga. Genitori e figli di Giovanni Veronesi (1 milione e centomila euro); Amici miei come tutto ebbe inizio di Neri Parenti (400mila euro per un film che è stato un tremendo flop e secondo alcuni una vera e propria offesa agli originali di Monicelli)... Quando non si tratta di finanziamenti diretti il ministero sembra aver elargito con particolare generosità anche il «bollino» di interesse culturale. Non si tratta infatti semplicemente di una onorificenza: comporta sgravi fiscali per il distributore, un maggior premio statale sugli incassi e premi agli esercenti che proiettano la pellicola. Nell'elenco ci sono: Benvenuti al sud e Benvenuti al nord, Immaturi, Femmine contro maschi, Baciato dalla fortuna, La banda dei babbi natali di Aldo Giovanni e Giacomo, La matassa di Ficarra e Picone e anche il road movie all'americana dei fratelli Vanzina Mai Stati Uniti!. Questo, va detto, è il risultato della nuova legge del 2004 che ha tentato di emendare gli sperperi addirittura incredibili causati dalla precedente legge del 4 novembre 1965, quella che aveva consentito di finanziare film come Mutande pazze o La bella dalla pelle nera. Dal 2004 non solo si è tentato di dare una stretta ai cordoni della borsa ma persino di introdurre dei criteri oggettivi di valutazione. Oltre alle commissioni del ministero (che contano ancora per il 70% sulla decisione) ora a fare la differenza è il curriculum del regista e del cast. Ben vengano i criteri oggettivi ma, secondo alcuni, il risultato è che si vedono sempre le stesse facce, quelle di quegli attori che portano punti. Non proprio un modo di favorire le novità (culturali). Come spiega in Ciak!Paga lo stato! lo sceneggiatore Michele Pellegrini: «Non si può dare un punteggio elevato, con tutto il rispetto, a Valerio Mastandrea, perché Valerio fa già un sacco di film...». Ecco spiegato anche come il Mibac possa stanziare 400mila euro per un pornochic massacrato da pubblico e critica come E la chiamavano estate. Basta la presenza di Isabella Ferrari. Vi sembra una situazione surreale? Non abbiamo ancora parlato di quei film che prendono i finanziamenti e poi nelle sale non escono. Una volta il fenomeno era endemico e mandava in fumo cifre enormi. Dal 2004 si è cercato di mettere una pezza. Eppure dei 28 lungometraggi dei registi considerati «esperti» dalle commissioni del Mibac finanziati nel 2011 solo 16 sino a ora sono arrivati nelle sale. Resta da capire come andrà a finire per i 23 milioni di euro erogati nel 2012 a 79 pellicole. Speriamo meglio... Ah, ovviamente anche se un film va in sala e fa flop lo Stato va in perdita secca. Per fare un esempio: La scoperta dell'alba di Susanna Nicchiarelli è stato finanziato con 550mila euro, ne ha incassati 50mila. E se un film va bene? C'è un complicato sistema premiale per cui lo Stato spesso non rientra lo stesso.

Sprechi d'Italia, l'orrido catalogo, scrive  Matteo Valerio su “L’Espresso”. Il bagno di una prefettura costato 100 mila euro. Sessanta vigili del fuoco che custodiscono un aeroporto chiuso. Un archivio che paga 200 mila euro d'affitto ma potrebbe avere una sede gratis. Lo rivela la Ragioneria di Stato. A Genova, per la ristrutturazione del bagno della Prefettura (marmi pregiati, idromassaggio e sauna), lo Stato ha sborsato 100 mila euro. A Ragusa l'aeroporto di Comiso non apre, ma una squadra di 60 Vigili del fuoco viene distaccata in mezzo alle piste deserte. Pullula di pompieri anche il Trentino Alto Adige, dove le caserme sono 239, addirittura più numerose dei 217 piccoli e piccolissimi Comuni della regione. Prefetture, caserme, carceri, capitanerie di porto, biblioteche pubbliche: contarne gli sprechi in tutta Italia è pressoché impossibile. Parliamo delle cosiddette "strutture periferiche dello Stato", il cui mantenimento, a oggi, assorbe circa il 93 per cento delle spese totali per il funzionamento dell'intero apparato statale. Chiamata in campo dalla legge sulla spending review, la Ragioneria dello Stato si cimenta in una stima di massima, una sorta di studio dei fabbisogni standard di queste strutture. Ne risultano risparmi possibili per almeno 450 milioni. Naturalmente al netto di casi come quello di Genova o del Trentino. Una sottostima, insomma. Ma già abbastanza impressionante. Come potrebbe migliorare l'efficienza del sistema? Innanzitutto razionalizzando i cosiddetti centri di costo, calderoni all'interno dei quali ricadono le spese per la gestione delle strutture periferiche statali. E invece, prima sorpresa, il sistema di contabilità economica dello Stato ne ha censiti 137 nel 2008, registrando poi un'escalation che nel 2012 li ha portati a quota 251. Il solo ministero dell'Interno ne conta oggi 137. Mantenere questo apparato costa ogni anno circa 80 miliardi, la metà dei quali si volatilizza con il pagamento degli stipendi al personale. Poi ci sono l'acquisto di beni e servizi, i debiti, i contenziosi e voci meno definite come quella denominata "altri costi": un capitolo che in alcuni casi (come nelle strutture del Tesoro e dello Sviluppo economico) arriva a pesare quasi per il 15 per cento del totale. Povera di strumenti per analizzare nel dettaglio gli sprechi grandi e piccoli, la Ragioneria compila una macroanalisi di 300 pagine nel tentativo di stanare le diseconomie più evidenti. Poi mette le mani avanti: «I sistemi attualmente gestiti dalla Ragioneria non consentono, tuttavia, di desumere informazioni complete sulle attività svolte dalle singole strutture, utili per effettuare valutazioni di merito in termini di impiego efficiente delle risorse ed eventuali margini di razionalizzazione della spesa». Il rapporto, insomma, non entra nei particolari. E per forza di cose non considera, ad esempio, il caso dei 200 mila euro versati ogni anno dal ministero dei Beni culturali per la sede dell'Archivio di Stato a Como. La vicenda è stata al centro di aspre polemiche nella città, fomentate soprattutto da alcuni esponenti leghisti furiosi nei confronti della «gestione centralista di Roma». L'Archivio, hanno sostenuto, potrebbe essere ospitato a costo zero in alcuni stabili inutilizzati del ministero della Difesa, ma finora questa richiesta è stata accolta solo da una serie di "niet". E la presenza di dodici motoscafisti a disposizione del prefetto di Venezia? E' uno spreco, come denuncia il Siulp (il sindacato dei lavoratori della Polizia), oppure una reale esigenza del prefetto? Nei calcoli della Ragioneria elementi come questo non possono essere sommati. Così come non trovano spazio giudizi di valore sul numero delle caserme dei pompieri in Trentino e sul loro costo: a Capriana, in provincia di Trento, per la nuova caserma è stato speso circa un milione e mezzo di euro. Forse un po' troppo? Partendo dunque dall'ipotesi che quello attuale è il migliore dei mondi possibili, i ragionieri dello Stato ricavano la stima dei risparmi con i classici metodi delle analisi di efficienza. Il capitolo più significativo è proprio quello dedicato ai Vigili del fuoco: pur continuando a garantire l'attuale livello dei servizi, dice la Ragioneria, si potrebbero spendere circa 300 milioni in meno ogni anno, il 17 per cento del miliardo e 756 milioni che la collettività impiega oggi per mantenere tutte le caserme. Dove si annidano le principali diseconomie? Il rapporto, al riguardo, è molto dettagliato. Qualche esempio aiuta a capire: perché la provincia di Belluno, tra le più piccole d'Italia, conta ben 37 sedi dei Vigili del fuoco? Solo Torino e Roma ne hanno di più. E perché, «a fronte di una dimensione demografica paragonabile», Roma presenta il doppio del personale (e dunque dei costi) rispetto a Milano? Neanche il sistema delle Prefetture brilla per efficienza: il risparmio possibile, stimato dalla Ragioneria, varia tra il 10 e il 16 per cento rispetto agli attuali 583 milioni di costo annuale. Qui il rapporto si spinge oltre, fino a confermare la più volte ventilata necessità di accorpamento delle Prefetture minori. L'analisi dei costi per abitante rivela infatti che nella maggioranza dei casi, 63 su 102, le Prefetture sono troppo piccole per essere efficienti. I ragionieri dello Stato non risparmiano neanche settori minori per volumi di spesa. E individuano ulteriori 38 milioni all'anno di risparmi possibili sulle Capitanerie di Porto, 8 milioni sugli Archivi di Stato e le biblioteche pubbliche, 2,5 milioni sugli Ispettorati territoriali delle comunicazioni. Un discorso a parte meritano le carceri. La stima dei risparmi possibili in questo caso tocca quota 15 milioni. Ma, ancora una volta, non vengono considerati casi specifici. Come quello dei 6 milioni spesi ogni anno per il noleggio di braccialetti elettronici inutilizzati, che giacciono nei depositi del Viminale. Né si prende in considerazione lo spreco denunciato da un rapporto dell'Associazione Antigone, secondo il quale sono 38, in tutta Italia, gli istituti penitenziari nuovi ma mai utilizzati. Del resto, risale alla scorsa estate l'ultimo pronunciamento sul tema da parte della Corte dei Conti: i magistrati contabili parlano, proprio riguardo agli istituti penitenziari, di «cronica insufficienza dei finanziamenti, tortuosi meccanismi di assegnazione delle risorse disponibili, lungaggini procedurali». Tutto da rifare, dunque? In realtà una mosca bianca c'è: è il caso dei consolati e delle ambasciate del ministero degli Affari esteri. Il Rapporto ne esamina 95, riscontrando una «lieve inefficienza» solo in sei casi. Il comparto fa inoltre registrare un saldo attivo di 49 milioni nel 2011: 59 milioni vengono spesi per la gestione delle strutture, ma 108 sono incassati con l'erogazione di servizi (tipo: visti e passaporti). Un privilegio, quello degli incassi per la fornitura di servizi, del quale non possono di certo beneficiare le carceri o le caserme. Tra un saldo in attivo e lo spreco di centinaia di milioni all'anno, però, una sana via di mezzo sarebbe di certo possibile. Tutto sta a volerlo.

PARLIAMO DI CONSULENZE E COLLABORAZIONI ESTERNE.

OLTRE 250 MILA CONSULENZE E COLLABORAZIONI ESTERNE STATALI COSTANO 1,3 MILIARDI DI EURO.

Seconda tappa dell'operazione-trasparenza lanciata al ministro della funzione pubblica Renato Brunetta. Questa volta nel mirino del ministro ci sono le consulenze pubbliche. Dopo la pubblicazione degli stipendi e dei dati sull'assenteismo dei dirigenti pubblici, sul web arrivano i dati sulle consulenze e le collaborazioni esterne ammontate, nel solo 2006, ad oltre 1,3 miliardi di euro. «Sono dati che si commentano da soli», è stato il lapidario commento del ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, che dopo aver usato parole pesanti contro gli impiegati-fannulloni insiste nel suo programma trasparenza. Secondo quanto pubblicato stasera sul sito del ministero, nel 2006 la Pubblica Amministrazione ha speso per retribuire le oltre 250 mila tra consulenze e collaborazioni esterne ben 1,323 miliardi di euro. Di queste, 396 (che rappresentano appena lo 0,16% del totale) sono state vere e proprie superconsulenze, remunerate con oltre 100 mila euro l'anno. Per la maggior parte (96.719 consulenze, pari al 38,39%) è stato riconosciuto un compensato con parcelle tra i 500 e i 2500 euro l'anno. Molte volte le consulente sono inevitabili. Ad esempio lo studio che nel 2006 il dicastero dell'Economia aveva affidato allo studio legale Chiomenti per la privatizzazione dell'Alitalia: 450 mila euro. Oppure l'incarico «relativo alle nuove azioni progettuali dell'Agenzia» (237.600 euro) che il capo delle Dogane Mario Andrea Guaiana aveva assegnato alla Bain & company Italia. Altre consulenze riguardano prestazioni no certamente essenziali. Dai violinisti delle filarmoniche alle infermiere, e perfino agli «sportellisti», retribuiti con pochi euro. Ma non sono i musicisti a far sbarrare gli occhi a chi guarda la lista delle consulenze. La società Terremerse, per uno studio sulle politiche urbane dei cittadini delle terza età commissionato dal ministero delle Infrastrutture, ha incassato 150 mila euro. L´oscar della consulenza più cara va però alla Apri Italia spa, una società che per fornire supporti e assistenza tecnica per l'attuazione di alcuni progetti del ministero degli esteri ha incassato 1.496.898 euro. Casse vuote, governo che perde la testa per trovare risorse allo scopo di scongiurare l'aumento dell'Iva (con relativa mazzata ai consumi). Servono miliardi, ma si dice che non si sa dove andarli a cercare.

Si dice, perchè molto (troppo) spesso non si vuole andare a pescare negli immensi serbatoi degli sprechi italici. Un esempio: le consulenze pagate dalla Pubblica Amministrazione. A volte necessarie, molte altre inutili per non dire ridicole. Il Fatto Quotidiano ha potuto consultare in anteprima il rapporto 2013 che la prossima settimana sarà pubblicato dal ministero competente guidato da Giampiero D'Alia. Carlo Tecce ha messo in fila svariati sprechi. Prese singolarmente sono gocce, ma insieme creano il classico fiume di soldi buttati a mare. L'Istituto per il commercio estero ha speso 2500 euro per un calendario di chef scandinavi. In Abruzzo 15mila euro per "monitoraggio, manutenzione e gestione" del camoscio. L'Università di Rende (Cosenza) ne ha sborsati 14mila per il controllo di qualità nel processo di essicazione dei salumi. Caso paradossale a Frosinone: la Provincia ha sganciato 10mila euro per un catologo... "riguardante il messaggio del risparmio"(!). A Catanzaro, sempre la Provincia, ha pagato 72mila euro ad un consulente per allestire una mostra (roba che neanche al Louvre). A Cento (Ferrara) la giunta ha investito 22mila per un'indagine sul traffico (in proporzione un'indagine simile a Roma costerebbe milioni ). Ad Alessandria (Comune in grave crisi di liquidità) l'aggiornamento del sito "Assessorato Cultura" è costato all'ente 32mila euro. I cappellani del carcere di Napoli? 8mila euro a testa. Neanche i cardinali...

Consulenze d’oro: così la pubblica amministrazione spreca due miliardi di euro l’anno. La Corte dei Conti denuncia che, su circa 300mila incarichi, ce ne sono molti assegnati "in assenza di requisiti professionali adeguati o senza previa verifica dell'esistenza di professionalità interne", scrive Massimo Laganà su “Oggi”. Due miliardi (circa) in consulenze pubbliche. Euri che Regioni, Province, Comuni, università e aziende sanitarie distribuiscono e, verosimilmente, sprecano, in migliaia e migliaia di incarichi (276 mila per la precisione). Professionalità esterne che non sempre hanno il crisma dell’essenzialità. O quasi mai. Lo dice la Corte dei Conti. Il ricorso al cosiddetto tecnico esterno è un fenomeno che riguarda circa 250 mila professionisti, che sono nel foglio paga delle pubbliche amministrazioni italiane. Un (mal)costume in costante crescita. Sul quale il governo dei tecnici (in senso buono, in questo caso) dovrà intervenire con il dovuto  e abituale rigore. Il raffronto è impietoso. Le autocertificazioni fornite dal ministero della Funzione Pubblica, relative al 2010, segnalano un incremento di oltre 400 milioni rispetto al dato del 2006. Accanto ad incarichi necessari, la Corte dei Conti, denuncia che ce ne sono molti assegnati “in assenza di requisiti professionali adeguati o senza previa verifica dell’esistenza di professionalità interne”. È un male endemico, segnale il magistrato siciliano Luciano Pagliaro. L’amministrazione regionale di Palermo ha il mortificante record di 13 incarichi al mese, assegnati dalla giunta Lombardo. Ma l’Italia si rivela unita, nel momento della consulenza. Nel Centro-Nord il valore dei contratti firmati, e la spesa pubblica, è superiore: Lombardia al primo posto, nel 2010, seguita da Emilia Romagna, Veneto, Lazio e Piemonte. Gli euri distribuiti dai Comuni sono in tutto 555 milioni. Che comprendono giornalini di propaganda qui e lì; la cura del benessere a Parma; il coordinamento delle piste ciclabili a Vicenza. E gli amici di Lerizia Moratti, a Milano. Dai velisti e dai suonatori di piano bar chiamati ad occuparsi della ricostruzione dopo l’alluvione del Messinese ai tecnici precettati dopo il sisma in Basilicata, che dal 2002 al 2008 hanno esaminato cinque pratiche (dicasi cinque) ogni anno. È il festival dello scialo. E non se ne vede la fine. Anche perché la deterrenza della pena, sembra un’utopia. A fronte dei quasi due miliardi di spesa, le condanne per consulenze illecite hanno accertato un danno erariale complessivo di tre milioni. Per di più la cifra è anche incompleta. Ci sono alcuni omissis dei comuni di Roma e Napoli, per dire. E perfino quelli del governo. Ma il senso generale si coglie lo stesso forte e chiaro. La relazione ministeriale è la prova ufficiale di quel che si poteva facilmente sospettare.  I nostri enti pubblici preferiscono assegnare le consulenze a persone esterne. Per ragioni altrettanto facilmente intuibili. Soprattutto quando si tratti di incarichi che superano i 15 mila euro.

Dal Bilancio 2010 della Presidenza del Consiglio si scopre che:

Osservatorio sulla “Valutazione delle politiche governative”: 1,6 milioni

Accordo televisivo tra Italia e San Marino: 3 milioni

Contact center per turisti: 2,4 milioni

Addestramento polizia locale a fini turistici: 534 mila euro

Conferenza triennale per i problemi della droga: 444 mila euro

Progetto “Governincontra” del ministro Rotondi: 1,6 milioni

Commissione per la valutazione e l’integrità della p.a.: 6 milioni

Fondo per la scuola superiore della p.a.: 11 milioni

Progetto “Un cappuccino al giorno” del ministro Brunetta: 4,5 milioni

Interventi di tutela per le minoranze linguistiche: 5,6 milioni

Ex “Ente italiano montagna”: 1 milione

Oltre allo Stato c'è di più. Esperti, ricercatori e... i soliti sospetti. Due miliardi l'anno pagati in consulenze, scrive Daniela Autieri su “La Repubblica”. Dalla Presidenza del Consiglio e i Ministeri fino alle aziende ospedaliere, le Asl, le università e le scuole, passando per Regioni, Comuni e Province, sono 456.565 i collaboratori extraorganico che gravano sulle casse statali. Fra tanti professionisti e tecnici irreprensibili, si imbarcano amici, parenti e personaggi equivoci cui magari vengono affidati incarichi grotteschi. Ce ne parla l'autore del libro "Il saccheggio" (Castelvecchi). A Torino amano gli animali, ed è forse per questo che il Comune ha rinnovato per due anni un incarico da 19.828 euro a un consulente dedicato al loro benessere. A Cancellara, in provincia di Potenza, si preoccupano invece del benessere dei cittadini, vivi o morti. Fedele al principio, l'amministrazione ha scelto di destinare 22.526 euro al collaudo statico dei loculi del cimitero. Niente a che vedere con Crotone, dove, per inseguire l'efficienza, la provincia ha arruolato due persone come "inseritori di dati esterni". Tre storie, tre casi pescati nel calderone dei 456.565 consulenti che dalla Presidenza del consiglio al più piccolo Comune costano ogni anno alle casse dello Stato 2 miliardi di euro. Numeri da capogiro che raccontano un costume tutto italiano ed emergono incrociando i dati della Corte dei Conti, i tabulati raccolti presso l'Anagrafe delle prestazioni del ministero della Funzione pubblica, i bilanci delle amministrazioni e le analisi della Uil sugli sprechi dello Stato. Il quadro è desolante. Tra il 2011 e il 2012 i ministeri hanno speso 20 milioni di euro in consulenze, 152 milioni sono usciti dalle casse delle Regioni, 420 milioni dai Comuni e 110 milioni dalle Province. Centosessanta milioni li hanno spesi le aziende ospedaliere, 178 milioni le Asl, oltre cento le università e 60 le scuole. Alcuni incarichi sono necessari perché aggiungono competenze di cui la pubblica amministrazione è sprovvista: tanti sono quelli affidati a insegnanti, ricercatori, giovani professionisti, marginalità del precariato che stentano a trovare la via della stabilità, ma la maggioranza finisce per arricchire amici, parenti, clientele, uomini per tutte le stagioni, abili a districarsi negli angoli bui della politica. Nel pozzo di italiche miserie e stratagemmi per sopravvivere, e sopravvivere bene, c'è di tutto: il consulente che da vent'anni siede al fianco dei ministri e nel 2011 strappa l'ennesimo contratto da 170mila euro, l'ex-soubrette chiamata dalla Difesa a lavorare sulla celebrazione dei 150 anni dell'Unità d'Italia, l'esperto di tartufi e lo studioso delle abitudini riproduttive dei cormorani. Ma in questa Babele di uomini e incarichi, forse l'interrogativo più cocente è anche il più banale: era veramente necessario che il Comune di Potenza affidasse una "consulenza tecnica" da 28.868 euro per verificare la correttezza delle fatture di Telecom Italia? Nei saloni di Palazzo Chigi. "Mia moglie Antonia Ruggiero mi tradisce con Silvio Berlusconi". Sono le parole del giornalista Giovanni Porcelli che, dopo aver avviato la causa di separazione, ha accusato la consorte, 35enne, assessore della Regione Campania per il Pdl, di aver vissuto per anni una relazione con il Cavaliere. Mentre il processo va avanti e la donna si difende definendo la vicenda "una meschina strumentalizzazione politica", è curioso scoprire che sua sorella Dora Ruggiero ha ottenuto nel 2010 proprio dalla Presidenza del consiglio, allora guidata da Silvio Berlusconi, una consulenza da 18 mila euro per rilanciare lo sviluppo dell'Italia "con l'obiettivo  -  si legge negli elenchi degli affidamenti interni di Palazzo Chigi  -  di ridurre e semplificare il fisco delle imprese". La generosità del Cavaliere è nota: l'uomo ne ha dato prova anche con Pier Maria Corso, legale di Nicole Minetti nel processo Ruby. Tra il 1° gennaio e il 16 novembre del 2011, a dibattimento già avviato, Palazzo Chigi ha riconosciuto all'avvocato una consulenza per un compenso di 10 mila euro. Negli ultimi due anni (a cavallo tra governo Berlusconi e governo Monti) la Presidenza del consiglio ha speso 5,1 milioni di euro per i suoi consulenti. A questo costo si somma quello dei dirigenti assunti negli uffici dei ministri senza portafoglio (3,5 milioni secondo il bilancio di previsione 2012), mentre un milione di euro è servito per pagare le indennità del personale negli uffici del presidente e dei sottosegretari di Stato. Dall'insediamento di Mario Monti, la spending review è arrivata dentro Palazzo Chigi: gli esperti esterni del segretariato generale sono passati da 255 a 56, e quelli nominati dai ministri senza portafoglio sono stati ridotti da 39 a 21. Ma questi tagli bastano per giustificare il fatto che, nonostante la Presidenza del consiglio stanzi ogni anno 95 milioni di euro per il personale di ruolo, abbia speso tra il 2011 e il 2012 5,1 milioni per i suoi consulenti? Ministri, mogli e grand commis. Alle volte a tradire sono gli intrecci e i legami familiari. Come quello che unisce i coniugi Vincenzo Fortunato e Paola Palmarini. Il primo è il potente capo di gabinetto del ministero dell'Economia, nominato nel 2008 da Berlusconi e confermato nel 2011 da Monti; la seconda ha ottenuto nel 2011 dalle Infrastrutture una consulenza da 45 mila euro sulle grandi opere. Non c'è legame matrimoniale, ma una solida relazione sentimentale tra Emanuela Bravi e Marco Milanese (ex-braccio destro di Tremonti). La donna ha un contratto da 75.651 euro in qualità di "consigliere del ministro dell'Economia per la comunicazione". La Bravi era rimasta sconosciuta alle cronache fino a quel capodanno del 2009 a New York con Marco Milanese in una suite da 8.500 euro a notte dell'hotel Plaza Athenee. Interrogato dai magistrati, l'imprenditore Paolo Viscione ha confessato: "Quel viaggio l'ho pagato io". Nelle pieghe dei ministeri, capaci di spendere 20 milioni di euro per i loro consulenti, alcuni sono meteore aggrappate al ciclo di una stagione politica, altri sopravvivono ai mutamenti del tempo. Ercole Incalza appartiene alla seconda categoria. Il suo avvocato Titta Madia ha detto: "Per lui ci sono stati quattordici proscioglimenti e mai una condanna. Un vero recordman". Il settantenne ingegnere di Brindisi è una personalità nel mondo delle Infrastrutture e già dagli anni 80 comincia a collaborare con lo Stato in progetti importanti come la Tav. Nel 2010 i magistrati scoprono che l'architetto Angelo Zampolini (l'uomo che ha confessato ai magistrati di aver gestito materialmente il pagamento della casa di Claudio Scajola) nel 2004 aveva contribuito con 520 mila euro all'acquisto dell'appartamento del genero di Incalza, Alberto Donati. Il grand commis presenta le dimissioni all'allora ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, ma due anni dopo è ancora lì e nel 2011 ottiene un incarico annuale da 170 mila euro. Del resto, nel dicastero guidato da Corrado Passera ha trovato asilo un gran numero di collaboratori. A governo già dimissionario, il titolare del superministero che ha accorpato le Infrastrutture e lo Sviluppo Economico ha assegnato ventiquattro incarichi, tra nuove nomine e rinnovi. Incarichi necessari  -  secondo Passera  -  per portare a termine i numerosi provvedimenti normativi finora varati. Consulenti mascherati. Sono 38.120 e qualcuno li chiama consulenti mascherati. Si tratta del personale di supporto politico, i cosiddetti "articolo 90" in riferimento all'articolo del Testo unico sugli enti locali che permette agli organismi politici di assumere personale di fiducia. Il Comune di Roma spende 2,8 milioni l'anno per i loro stipendi, 2,2 milioni Napoli, 1,6 Torino, 1,2 Milano. Ma dietro la discrezionalità si nascondono sprechi quando non casi di familismo e clientelismo politico. Nella Regione Lazio guidata dalla giunta Polverini, Isabella Rauti, membro dell'ufficio di presidenza, si è dotata di una struttura di staff costituita da quattro collaboratori, assunti in assoluta discrezionalità e inviando una semplice lettera all'allora presidente del Consiglio regionale, Mario Abruzzese. Nel Comune di Roma è accaduto molto di più. Nel 2011 l'assessorato alla Mobilità ha assunto nello staff direttivo Sara Quattrociocchi. La ragazza aveva 25 anni, un diploma da perito aziendale e un'esperienza lavorativa nella filiale regionale dell'Agenzia del Demanio. Suo padre, Silvano Quattrociocchi, è un politico laziale passato dal Pdl a Futuro e Libertà. L'assessore alle risorse umane Enrico Cavallari ha chiamato a lavorare con sé il cognato Marco Mannucci (fratello della moglie). Sempre alle risorse umane è stato assunto anche Armando Egidi. Egidi è socio della Egidi srl e il funzionario comunale che analizzava il profilo ha scritto al piede del curriculum: "La partecipazione in qualità di socio, in quanto assimilabile ad esercizio di attività di imprenditore, è incompatibile (art.60/dpr 3/1957)". L'avvertimento non è stato sufficiente a bloccare la nomina di Egidi, che nel gennaio del 2011 ha lasciato la poltrona di assessore nel Comune di Palombara Sabina ed è entrato dalla porta principale del Campidoglio. Il Comune di Roma ha 238 dirigenti, 6.254 funzionari, 18mila dipendenti. Nel gabinetto di Gianni Alemanno lavorano 299 persone, 281 negli uffici dell'assemblea capitolina, 73 nell'ufficio stampa. In questo sconfinato organigramma sono veramente necessari gli 83 "fiduciari" assunti negli staff degli assessori e del sindaco? Una pioggia di incarichi. In Friuli-Venezia Giulia la neve cade copiosa. Forse è per questo che la Regione ha deciso di destinare 26.370 euro per affidare a una persona il compito di verificare se nevica e quanto nevica. È la stessa Regione che ha speso 10 mila euro per salvare le biblioteche nel deserto della Mauritania. In Liguria, Matteo Rosso, capogruppo del Pdl all'opposizione ha denunciato le maniche larghe della giunta che avrebbe pagato 10mila euro per uno studio sul mezzo idoneo a meccanizzare alcune fasi produttive dell'aglio di Vessalico. In tre anni il Piemonte, guidato prima da Mercedes Bresso e poi dal leghista Roberto Cota, ha speso 6,6 milioni di euro per le consulenze con una media per incarico di 40 mila euro. Nel 2011 la Regione ha stanziato 18 mila euro per "la valorizzazione delle collezioni di invertebrati (molluschi e insetti esclusi)" e 30mila euro per la "conservazione delle collezioni botaniche", mentre tra il luglio del 2009 e il dicembre del 2012 139.150 euro sono andati all'università di Torino, incaricata di redigere un progetto "sulla definizione dei valori di resistenza a flessione del legname massiccio per uso strutturale di larice e castagno piemontese". In questo grande circo di spese pazze, incarichi confusi e spesso superflui, amministrazioni spendaccione ma indebitate fino al collo, la palma della sincerità va a Pontinia, la cittadina laziale di 14 mila abitanti inaugurata il 18 dicembre del 1935 da Benito Mussolini. Negli ultimi due mesi del 2011 il Comune guidato dal sindaco Eligio Tombolillo ha affidato a un architetto un incarico da 8.100 euro con una motivazione disarmante. Sul registro dei collaboratori interni redatto dall'ufficio del personale alla voce "descrizione incarico", è scritto semplicemente, caso unico tra migliaia di delibere: "Mancanza di personale nell'ente".

Consulenze: la mangiatoia continua, scrive Giovanni Manca su “L’Espresso”. Un miliardo e 300 milioni per le pubbliche relazioni dei sindaci, convegni di amici, studiosi delle olive e comunicazione odontoiatriche: il rapporto completo sugli sprechi degli enti locali in Italia. Un miliardo e trecento milioni in un anno: tanto sono costati agli italiani i circa 277 mila tra incarichi e consulenze graziosamente elargite dallo Stato a esperti e professionisti vari. Una cifra sbalorditiva e, tanto per avere un'unità di misura, adiacente al costo complessivo annuo di Camera e Senato o a quanto necessario per rifinanziare la Cig: come dire circa lo 0,1 per cento del pil nazionale, euro più euro meno. La pubblicazione nero su bianco dei dati sul sito del Governo è, per il Letta raggiante del decreto del "fare", una pioggia di detriti tossici provenienti dagli anni spreconi, quando di spending review non si conosceva neanche l'ortografia. Ovviamente, dicono a Palazzo Chigi, se la legge non imponesse la pubblicità di questi numeri (peraltro del 2011) entro il 30 giugno di ogni anno, è probabile che la loro diffusione sarebbe slittata di qualche settimana, per non mettere troppo fuori sincrono le rassicurazioni verbali del Premier con i problemi della spesa pubblica fuori controllo.

Stupidario Dal "Lecca nella foresta" al "Progetto ricotta". Fatto sta che, a sfogliare le centinaia di pagine di incarichi, lo stupore cede il passo a uno spirito di drammatica ilarità per la misticanza e la natura delle consulenze escogitate. E alle quali se ne aggiungerebbero molte altre se le amministrazioni invitate, il cui numero complessivo il dossier governativo tace, avessero risposto tutte, anziché scegliere la strada di una (pur sanzionabile) opaca omertà. Gli enti locali, comunque, la fanno da padrone. Non tutti sanno che, ad esempio, il comune di Cosenza ha una web-tv istituzionale tutta sua, il cui "responsabile di testata" ha vinto l'incarico per 30 mila euro; la piattaforma ideale, magari, per aggiornare i telespettatori sulla costruzione del, bitumato di fresco, ponte sul fiume Crati, la cui sola "validazione" del progetto esecutivo è costata 90 mila euro. Come pure altri 90 mila sono stati esborsati, dall'eclettica città calabra, per avere un direttore dei lavori della "Casa della Musica". D'altronde, l'immagine è fondamentale e lo sanno bene a Potenza, dove c'è stata una vera e propria carica di addetti stampa; ne ha guadagnato uno la camera di commercio (18 mila euro), uno l'ospedale San Carlo (32 mila), uno il nosocomio di Rionero in Vulture (10 mila) e uno pure l'Asl potentina (11 mila), dove però - nell'indecisione sul capitolo di bilancio - il giustificativo compare per un semestre come "spese di comunicazione" e per un altro semestre come "attività paramediche", per maggior tutela della professione giornalistica. Fanno buona compagnia ai lucani, ma con più morigeratezza, i campani di Ariano Arpino, con la portavoce del Sindaco ridotta a 8 mila euro di consulenza, e a Benevento, dove il capo della comunicazione dei medici ed odontoiatri è stato liquidato al prezzo di una protesi più impronta: 5 mila e via. Promuovere in ogni salsa le proprie iniziative resta, insomma, un importante biglietto da visita per le amministrazioni. A Piacenza ne hanno fatto una professione. Fare da relatore ai "Convegni in biblioteca" vale, per dire, 500 euro a volta (una specie di gettone anomalo di presenza), mentre per fare il catalogo sui "Corali di San Sisto" ci sono voluti 6 mila euro, mica come a Ravenna. Là per saldare i sei estensori del catalogo alla mostra "Miseria e splendore della carne", macelleria d'autore, son serviti 15 mila euro. Poi, per evitare un "effetto Uccialli", quando oltre cent'anni fa Crispi ci portò in una guerra persa con l'Etiopia per la mala traduzione d'un trattato, gli amministratori hanno trovato qualche briciola nell'erario anche per un esercito di interpreti. A mo' di esempio, il Comune di Cervia, per tradurre gli atti dei vari meeting, ha messo da parte 10 mila euro; sempre in zona, l'Unione dei comuni della bassa romagnola ha staccato un assegno di 2500 euro per tradurre le schede del sito "romagna d'este" (you can find shoes in Pavaglione, vi si legge). E per tornare alla rurale terra italica, si trovano altre voci notevoli: il Cra (cioè il Centro per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura) ha affidato all'esterno 6 mila euro per un "Rapporto da danno indotto dalle cimici nocciolaie" e altri 14 mila euro a chi si impiegasse sulla "Caratterizzazione chimico-fisica delle olive di varietà italiane", mentre l'assistenza sanitaria degli allevamenti ovi-caprini presenti presso le aziende del Comune di Bella (paesino di cinquemila anime) costa 15.600 euro. L'elenco delle spese pubblicate per commissionare incarichi e progetti è una giungla di capitoli e sottocapitoli, dove si rincorrono spese piccole e grandi, che insieme concorrono all'abnormità dell'1,3 miliardi "necessari" per le attività dello Stato; somme spesso ostinatamente sotto la soglia dei 20 mila euro, che costituiva - prima di una modifica legislativa del 2011 - il tetto sotto il quale poter affidare senza necessità di appalto (e quindi senza i controlli conseguenti) l'esecuzione di lavori e servizi. Una sapiente chicane intorno alle norme, che pure esistono, all'arrembaggio dell'Isola del tesoro, la discrezionalità, dove la quesita coerenza della consulenza "con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente" diventa il canovaccio per giustificare la qualunque. Certo, bisognerebbe fare tutto con il personale in servizio che uno ha, ma se poi non si trova la persona giusta, ecco la possibilità di poter ricorrere a "professionisti altamente qualificati", un bollino d'eccellenza di dubbia sindacabilità. E alla Corte dei Conti, per dire, non resta che il ruolo di "bacchettare" il malcostume delle consulenze facili; una sorte non dissimile a quella dello stesso Ministro della Pubblica amministrazione Gianpiero D'Alia, il quale, per ora, si limita a "monitorare" l'emorragia e, visti i dati, alterna il barrito di giorno ("la stragrande maggioranza delle consulenze esterne riguarda regioni ed enti locali, sui cui il nostro potere d'intervento è limitato"), al cinguettio di sera, sul "giro di vite per combattere sperperi e cattive abitudini". Sperperi che il dossier online equanimemente distribuisce da Nord a Sud, con cifre record in Regioni, come la Lombardia, che da un anno all'altro ha portato le consulenze da 49 mila a 51 mila o come il Veneto, che è passato dalle 31 mila del 2010 alle 33 mila del 2011. Si è aperto un altro fronte complesso, insomma, nella guerra di posizione del new deal lettiano, dove ogni temporeggiamento può risultare fatale tanto alla spesa pubblica quanto alla tenuta del governo a due gusti. Intanto, centinaia di migliaia di "altamente qualificati" incassano.

Dal 'Lecca nella foresta' al 'Progetto ricotta', scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. Voce per voce, ecco come è stato speso quasi un miliardo e mezzo di euro. Si va dall'imperdibile evento "lecca nella foresta" al corso per "aspiranti raccoglitori di tartufo", passando per le consulenze dei guru della soppressata e per gli approfondimenti culturali sul "cantante Ligabue".  270 mila incarichi, fanno 1,3 miliardi di euro, 50 milioni in più rispetto all'anno precedente. Per intenderci, una bella fetta dell'intera Imu sulla prima casa. "Le consulenze esterne sono troppe, e spesso ingiustificate", il sussulto improvviso del ministro della Pubblica Amministrazione, Giampiero D'Alia. I dati sono appena stati resi pubblici dal suo dicastero, tra un "progetto ricotta" e l'altro, ecco il tripudio dello spreco:

Regione Lombardia: 1.000 euro per distribuire buoni gelato per l'evento "lecca nella foresta";

Regione Sardegna: 14.000 euro dati ad un esperto per "campionare la carne di suino e i salumi tradizionali";

Regione Sardegna: 930 euro dati ad un tecnico per "campionare tappi e rondelle";

Regione Sardegna: 5.500 euro per il "progetto ricotta";

Regione Molise: 1.000 euro, corso per aspiranti "raccoglitori di tartufo";

Provincia di Trento: 3.700 euro al consulente per il "progetto evoluzione della pasticceria";

Comune di Trento: 18.000 euro per la proiezione di un calendario;

Comune di Macherio (Milano): 400 euro a brindisi per il "buffet al buio";

Comunità Valsugana e Tesino: 13.000 euro per il progetto "libera-mente"; 1.600 euro per "montagna selvaggia"; 1.300 euro per "amare troppo, amare male";

Rocca Priora (provincia di Roma): 12.000 euro per scegliere le immagini per i pannelli e opuscoli didattici;

Regione Liguria: 3.100 euro per servizio "ritagli stampa" per il mercato tedesco e inglese;

Regione Liguria: 2.200 euro per "programma di viaggio a favore di alcuni giornalisti";

Università di Rende (Calabria): 10.000 euro per studiare "l'estrazione delle fibre di cellulosa dalla ginestra"; 14.000 euro per uno studio sul "processo dell'essicazione dei salumi";

Provincia di Frosinone: 10.000 euro, catalogo per insegnare alle massaie della Ciociaria come risparmiare;

Regione Valle d'Aosta: 80.000 euro per il monitoraggio degli ungulati;

Istituto per il Commercio Estero: 6.000 euro per il libro "Luci a Istanbul"; 4.200 euro per apprendere in due lezioni i rudimenti dei grandi cuochi; 2.500 euro per un calendario con le foto dei chef scandinavi;

Comune di Cento (Ferrara): 12.500 euro per uno studio sul traffico; 23.500 euro per offrire "assistenza" al piano traffico;

Provincia di Ferrara: 14.000 euro per "elaborazione di uno studio" relativa al sito Unesco; 3.000 euro per "orientamento ai consumi";

Comune di Alessandria: 32.000 euro per sistemare il sito dell'assessorato;

Regione Sicilia: 15.000 euro per studiare la reintroduzione del grifone;

Provincia di Chieti: 20.000 euro per monitorare la ricettività... di Chieti;

Università di Chieti: 1.600 euro per il passaggio di consegne in segreteria; 1.000 euro per "ricostruire la carriera"; 3.500 euro per l'assistente del tecnico per l'inserimento dei laureati nella banca dati dell'ateneo;

Regione Abruzzo: 15.000 euro per la gestione del camoscio in Rovere di Rocca di Mezzo e Fontecchio; 1.800 euro per l'assistente bagnino;

Regione Basilicata: 144.000 euro per "assistenza tecnica";

Torre del Greco (Napoli): 130.000 euro per "un'attività podromica per la redazione del Puc" (piano urbanistico);

Università di Potenza: 9.000 euro per valutare il processo di produzione dell'oliva infornata con particolare riferimento di caratteristiche;

Comune di Bussero (Milano): 1.000 euro per fare promozione cultura, titolo, "Effetto Ligabue" (il cantante);

Comune di Trieste: 11.600 euro per le prestazioni del cantore supplente nella cappella civica; Provincia di Catanzaro: 72.000 euro per un esperto in attività espositiva;

Comune di Roma: 2.000 euro per il calendario dei vigili urbani;

Napoli, amministrazione penitenziaria: 8.000 euro a testa per i cappellani; 8.400 euro per il capo d'arte sartoria; 5.000 euro per il consulente della sarta;

Provincia di Teramo: 1.600 euro per l'assistente oculista;

Regione Campania: 5.500 euro per fare "animazione in foresta"...

Le Consulenze degli Enti locali non conoscono crisi. Tutti gli sprechi voce per voce. Nel dossier, visionato in anteprima da Il Fatto Quotidiano, il dettaglio delle spese fornite alle pubbliche amministrazioni per un totale di 1 miliardo e 300 milioni di euro, 50 milioni in più dell'anno precedente. Si tratta di 277.085 contratti – firmati entro il 31 dicembre 2011, e cominciati in gran parte dal 2012 - con un minimo comune denominatore: Comuni, Province e Regioni restano approssimativi nel rendicontare i soldi (pubblici) che utilizzano, scrive Carlo Tecce su “Il Fatto Quotidiano”. C’è una retorica nazionale che condanna le inefficienze pubbliche, le resistenze burocratiche, le pratiche pletoriche. E poi c’è l’universo di consulenti e collaboratori, alcuni essenziali e alcuni inutili, che insieme costano 1,3 miliardi di euro. Nel 2011, le amministrazioni locali, dai comuni alle province, hanno distribuito 277.085 contratti o contrattini che non danno sicurezza ai precari e che, in simultanea, non danno una lezione a chi sopravvive con gli sprechi. La somma è aumentata di 50 milioni di euro, per nulla intralciata dagli ansimi di una recessione che non molla, ma quei 277.085 ingaggi – firmati entro il 31 dicembre 2011, e cominciati in gran parte dal 2012 – sono ancora validi, arrivano sino al 2014 o al 2015. E mentre stiamo scrivendo, nuovi assistenti o esperti – da chi controlla le olive a chi fa animazione in foresta – si moltiplicano e spingono l’asticella più lontano sul calendario. Dal febbraio 2012, il ministero per la Funzione pubblica, allora guidato da Fabrizio Patroni Griffi, carica sul proprio sito le dichiarazioni degli enti – aziende sanitarie, carrozzoni statali, università – e stavolta l’appuntamento tocca al ministro Gianpiero D’Alia. I tecnici del dicastero credono che la trasparenza sia un sostegno, non la soluzione perché la grande spartizione, di miliardi in miliardi, spesso lascia spazio a motivazioni vaghe: “esperto tecnico”, “assistente”, “monitoraggio”. Il Fatto Quotidiano ha visionato in anteprima il librone 2011, che la settimana prossima verrà pubblicato dal ministero. Nonostante gli sforzi governativi, tanti Comuni, tante Province e tante Regioni restano approssimativi nel rendicontare i soldi (pubblici) che utilizzano. Da mesi i partiti s’accapigliano per l’Imu e questi 1,3 miliardi, versati con cadenza annuale e con un po’ troppa superficialità, potrebbero alleviare la tassazione, anche l’odiosa Iva. E una lettura attenta di questi 277.085 dati potrebbero svelare un mondo o un paradosso: la macchina pubblica italiana è gestita male, è affollata oppure è solo il cattivo esempio di cui non vogliamo prenderci cura? Perché, forse, spendere 10.000 euro per un corso di yoga gratuito o 15.000 per contare i gatti randagi in un paesino ci fa apparire vicini ai precari e ai furbi. Ecco una breve antologia delle consulenze più “significative”.

Il calendario con gli chef scandinavi. Un giorno rideremo e chissà, celebreremo, la brillante intuizione di quei boiardi statali che ci devono far integrare e scambiare con gli stranieri. E diremo, forse: caspita, l’Istituto per il commercio estero ha indovinato a spendere quasi 2.500 euro per un calendario che ritrae aitanti chef scandinavi e così si spiegano anche i 4.200 euro per i rudimenti di cucina insegnati in un paio di lezioni. Quando la rivolta laica dei turchi sarà finita, l’Ice potrà regalare a quei ragazzi il libro “Luci a Istanbul” costato 6.000. Perché il messaggio senza un destinatario non funziona.

Strana voglia di giornalismo. L’Ordine nazionale dei periti industriali l’ha capito e investe oltre 60.000 euro per “attività di giornalismo”, che pur non conoscendole vanno apprezzate per l’altruismo e la fantasia. I geometri sono ancora più ardimentosi: viaggiano per il mondo, da Kuala Lumpur a Parigi con scalo in Grecia, da Marrakech a Innsbruk e rilasciano note spese di 11.000 e 4.800 euro. Le consulenze fanno divertire, a volte un incarico, seppur impersonale, può sembrare simpatico. Nessuno avrà il coraggio di contestare la regione autonoma Valle d’Aosta per avere scomodato un professionista per l’esecuzione (non la scrittura né l’ideazione) di un piano per il monitoraggio degli ungulati (mammiferi con zoccoli, cavalli ad esempio): una fatica da 80.000 euro che, evidentemente, non poteva cadere sui dipendenti. L’Ente parco Dolomiti non si accontenta di fare monitoraggio, ma finanzia un progetto per realizzare un video che, scusate l’ingorgo di parole, deve monitorare il monitoraggio delle specie di fauna monitorate: 26.000 euro, che non sono un risarcimento per il mal di testa che scoppia per interpretare la definizione.

Supervisionare sempre, comunque. Per non abbandonare questo tema interessante, si può scalare l’Italia al contrario verso Chieti, dove la provincia si regala un automonitoraggio, una sorta di autoanalisi collettiva: 20.000 euro per monitorare, controllare, sorvegliare la ricettività fra Chieti e Ortona. L’Università di Bologna ha agito con maggiore severità: l’ateneo ha conferito un incarico per monitorare, udite udite, anzi leggete leggete, e supervisionare i progetti finanziati dalla provincia di Forlì e Cesena: 15.700 euro per un’impresa di monitoraggio in trasferta o, semplicemente, di fatti altrui.

Grande Fratello: dai camosci…A cosa ci riduciamo se non diamo seguito a questi benedetti e cervellotici monitoraggi? In Abruzzo, montagne aquilane, si sono inventati la comunicazione del monitoraggio, la manutenzione e la gestione – testuale – del camoscio in Rovere di Rocca di Mezzo e Fontecchio, 15.000 euro. I controlli sono fondamentali perché l’amministrazione pubblica non ha fiducia in se stessa: se il braccio destro fa qualcosa (un dipendente, mettiamo), il braccio sinistro fa la verifica (un esterno, certamente). Ecco, magari la mancanza di fiducia ci manda in recessione.

…alla soppressata calabrese. L’Università di Rende s’è posta una domanda: non è che qui i contadini ci fregano con la soppressata? Per evitare fraintendimenti, l’Università ha pagato 14.000 euro per un controllo di qualità del processo di essiccazione dei salumi perché, non la macellazione né l’impasto, fanno di un buon maiale una buona soppressata calabrese. L’Università di Potenza è andata oltre, non si è fermata al correggibile e corruttibile intervento umano: si sono chiesti, la natura ci garantisce oppure è l’uomo che la tradisce? Un ateneo ha stanziato 9.000 euro per valutare il processo di produzione dell’oliva infornata con particolare riferimento di caratteristiche. A Benevento, Università del Sannio, si sono imbattuti in un due edifici esistenti e non si sono preoccupati di trovare una soluzione, ma di verificare le soluzioni: la motivazione di spesa è incomprensibile, ma è costata ugualmente 12.000 euro. Le province si sbizzarriscono tanto a gestire i soldi pubblici: stanno lì per lì per essere eliminate, accorpate, abolite, ma resistono e s’impegnano. Per non farsi rimpiangere. Dicono sempre che le province non hanno ampie materie di competenza, tranne le strade e le scuole.

Catalogo, risparmio da 10 mila euro. A Frosinone avranno pensato di fare una cosa buona e giusta: come possiamo consigliare il risparmio ai ciociari? Forse non praticando lo sperpero: la Provincia ha scucito 10.000 euro per l’ideazione e la redazione di “un catalogo riguardante il messaggio di risparmio”. Lasciamo un attimo le province per un caso di scuola: a Tursi, 5.000 abitanti nel Materano, si sono sentiti in dovere – come i ciociari – di fare un gesto per invitare al risparmio e così spendono 30.000 euro per “interventi rivolti all’ottenimento dei risparmi di spesa”. Restiamo in zona. La Provincia di Matera non stipula soltanto contratti pubblici che, appunto, contengono un esborso pubblico, ma nomina un esperto di contratti pubblici per il modico gettone di 21.000 euro.

Un esperto non si nega a nessuno. La moda di arruolare esperti è travolgente. La provincia di Catanzaro doveva organizzare una mostra al museo Marca, però non ha ingaggiato un esperto per allestire una galleria, bensì un esperto in attività espositiva, 72.000 euro. La provincia di Ferrara, che si evidenzia per l’estro di numerosi incarichi, non voleva fare o rifare il sito Unesco di Ferrara, ma più modestamente una “elaborazione di uno studio”: qualsiasi cosa volesse dire, sappiamo che è costato 14.000. Curiosità: sempre la provincia di Ferrara, orientamento ai consumi, 3.000 euro.

Traffico, che fare? 47 mila euro. I Comuni hanno esigenze diverse. A Cento (Ferrara), 35.000 abitanti, il problema è il traffico come a Palermo. Sacrosanto. Primo passo: la Giunta ha pagato un professionista con 22.500 euro per fare un’indagine su traffico e soste (e i vigili urbani?) nel centro storico, sia chiaro, non un metro più fuori, semmai in periferia. Poco. Secondo passo: la medesima Giunta ha pagato un professionista con 23.500 euro per offrire “assistenza” al piano traffico. Speriamo che a Cento non siano tutti ancora incolonnati.

Piani, calendari e proiezioni. A Torre del Greco (Napoli) dovevano fare qualcosa di essenziale per una città molto popolata: il Puc, il Piano urbanistico urbano. Non si può tagliare un pezzettino qui e un pezzettino lì: la spesa va fatta. A Torre del Greco, però, 130.000 euro sono bastati soltanto per “un’attività prodromica per la redazione del Puc”. Già l’utilizzo del termine prodromico, obsoleto in epoca dannunziana, merita un applauso. A Trento, dove non hanno patemi né di traffico né di urbanistica, volevano lanciare un segnale di pace: ottimo, istruttivo. Il Comune ha organizzato una proiezione di un calendario con 18.000 euro. A proposito di calendario, quello dei vigili di Roma, ex pizzardoni ora polizia locale, non manca mai: è tanto raffinato che la grafica costa 2.000 euro, la stampa non è precisata, e un po’ fa concorrenza al calendario dei sacerdoti.

Catanzaro, il caro gabinetto. A Catanzaro e ovunque, il sindaco ha un gabinetto. Il primo cittadino in questione, però, al gabinetto esistente ha affiancato un consulente per dare “un supporto operativo”. Non è uno scherzo essere operativi a Catanzaro. Quanto? 36.000 euro. Scartabellando un documento di migliaia di pagine, per pura casualità, a volte una riga appare più vistosa di un’altra: anche fra la confusione generale, l’approssimazione, si può notare qualcosa di edificante. A Bussero (Milano) hanno staccato un piccolo assegno di 1.000 euro per fare promozione cultura: titolo, “Effetto Ligabue”. Per un attimo, speranzosi, si può credere che sia un omaggio al pittore Antonio Ligabue. Errore: leggiamo bene, “Liga” sta per Luciano Ligabue, il cantante.

Cori, cappelle e voci contanti. Alessandria è tristemente d’attualità per il dissesto finanziario del Comune, sarà l’altitudine o l’inflazione, ma suona strano sapere che con 32.000 euro sono riusciti esclusivamente ad aggiornare i contenuti del sito “Assessorato cultura”. A Trieste va meglio, il coro è famoso, apprezzato e un cantore supplente (nemmeno titolare) si becca 11.600 euro per le sue prestazioni nella cappella civica. Ora per assonanza vengono in mente i cappellani, tanti, di cui usufruisce l’amministrazione penitenziaria di Napoli: ciascuno ha uno stipendio di 8.000 euro.

Consigli alla sarta? 5.000 euro. A Napoli, sempre nelle carceri si presume, il capo d’a r-te sartoria somma 8.400 euro di volta in volta, però il consulente della sarta si ferma a 5.000. Qualche banconata in più e si arriva ai 5.500 che la Regione Campania utilizza quando deve fare “animazione in foresta”.

Benedetta assistenza tecnica. La Regione Basilicata non ha emulato la determinazione dei campani: per una vaga assistenza tecnica ha estratto 144.000 euro dal bilancio. Non è facile per i dirigenti pubblici muovere un foglio e non temere una cattiva reazione. La prevenzione è un’abitudine. L’Università di Chieti ha selezionato un uomo di coraggio per ottenere un parere sui professori nominati, 20.000 euro. E si sono concessi 1.600 per il passaggio di consegne in segreteria e un corso di 1.000 euro per “ricostruire la carriera”. Un encomio finale va fatto per il gruppo di assistenti, quelli che agguantano una consulenza nemmeno tanto elevata, ma restano numero due o tre.

La carica degli aiutanti. Grazie all’assistente bagnino abruzzese (1.800 euro); all’assistente oculista in provincia di Teramo (1.600); all’assistente-supporto di Cicciano per i tributi (5.000); all’assistente gestione trattazione dei sussidi di Somma Vesuviana (15.000); all’assistente del tecnico per l’inserimento dei laureati nella banca dati all’Università di Chieti (3.500).

Regioni, tutti gli sprechi: consulenti per la neve e per guardare l TV. Il conto degli incarichi esterni nel 2010 ha superato i 70 milioni di euro. E in Lombardia si prediligono i candidati "trombati", scrive “Il Fatto Quotidiano”. Il conto, arrotondato come sempre per difetto, supera i 70 milioni di euro. Sono le consulenze pagate nel 2010 dalle Regioni italiane. La fantasia, ancora una volta, la fa da padrona.

PIEMONTE. Nella Regione andata al voto nel marzo 2010, i 30mila euro dati all’Università di Torino per guardare per una settimana i programmi tv di nove emittenti locali piemontesi e studiare nuovi format più adatti ai minori. C’è poi una spesa a pioggia sulle associazioni dei consumatori per monitorare la “qualità percepita dagli utenti” su alcune tratte ferroviarie. Sono consulenze da 10.250 euro a testa. L’Associazione Consumatori e Utenti percepisce sulla Torino-Cuneo. La Adiconsum sulla Torino-Alessandria. L ’Associazione Consumatori Piemonte sulla Tori-no-Savona. L’Adoc sulla Torino-Bardonecchia. L ’ Adusbef sulla Torino-Pinerolo. Il Codacons sulla Torino-Novara. Il Movimento Consumatori sulla Torino-Milano. La Federconsumatori, coordina il “focus group” per 12. 500 euro. Ci sono ancora 30mila euro per un Supporto specialistico nell’ambito dell’attività del Progetto Golf della Regione Piemonte affidati per una consulenza di sei mesi.

VALLE D’AOSTA. È di oscura decifrazione la consulenza di 13.200 euro indicata come “collaborazione tecnica per lo svolgimento di attività preordinate all’applicazione della normativa regionale in materia di interventi per la promozione dell’uso razionale”. Sono costate invece 23mila euro le due consulenze dell’aggiornamento per il progetto del “quarto volume dizionario Patois”. Il Patois è il dialetto valdostano. Altri 2.160 euro sono andati per il restyling del logotipo dello stemma del Corpo Valdostano dei vigili del fuoco.

LOMBARDIA. Ritorna anche in Regione l’architetto vicino a Paolo Berlusconi Fabio Massimo Saldini (già premiato da una consulenza di 379mila euro nel Comune amministrato all’epoca da Letizia Moratti per definire il “piano verde”). Al Pirellone si occupa di Moda, Design e Tutela dei Consumatori. Costo: 70 mila euro. Una consulenza di pari importo, sulle Pari Opportunità, è andata a Monica Barbara Guarischi, candidata nel Pdl per Formigoni a Lodi. E dal Pdl proviene anche Roberto Baitieri che per 70mila euro è il delegato alla promozione delle aree montane. Altro ex forzista consulente della Regione è Lionello Marco Pagnoncelli che per 70 mila euro cura le relazioni con gli enti locali. Ancora Roberto Ronza, già sottosegretario di Formigoni, prende 84 mila euro per occuparsi delle relazioni internazionali della Regione. La ricerca su “La montagna lombarda, analisi dei casi emblematici e prospettive”, è costata 50mila euro.

VENETO. La Regione guidata dall’ex ministro Luca Zaia sembra stitica di consulenze. Oculata? Per controllare che non ci siano sprechi affida a Carlo Simoniato il compito di “elaborare statistica di dati relativi alla spesa pubblica regionale”. Novemila euro in due mesi. 55 mila, invece, vanno a Giovanni Valotti per una consulenza sull’attività di monitoraggio sulla spesa.

FRIULI. Dopo aver investito 26.370 euro per affidare contratti di collaborazione a “persone fisiche qualificate” per verificare se nevica e rilevare quanto, il Friuli si concentra sulle trote. Al Dipartimento di biologia dell’Università di Trieste viene affidata una consulenza di 17mila euro per studiare la genetica delle trote dei principali bacini della regione, mentre 4mila euro sono destinati allo studio della riproduzione della trota fario selvatica. Non solo, la Regione finanzia anche il notiziario “pesca e ambiente”, per 20mila euro complessivi e 58.500 vanno alla “gestione degli impianti ittici”. Il Friuli finanzia una “consulenza psicologica per universitari” (19. 800 euro), un corso di merletto (960) e investe 10 mila euro in “iniziative per la salvaguardia delle biblioteche del deserto della Mauritania”.

LIGURIA. Far conoscere e promuovere i prodotti liguri costa alla Regione 70mila euro, destinati a partecipazioni a eventi e manifestazioni. E considerato che per il solo “supporto allo svolgimento del sesto censimento dell’agricoltura” viene destinata una cifra di 6 milioni di euro, è il minimo che olio e vino ligure siano almeno pubblicizzati.

EMILIA ROMAGNA. 20.850 euro ciascuno vanno ad Angela Cristelli, Lorenzo Cipriani ed Egle Bertami per “attività di supporto alla segreteria particolare del Gruppo assembleare Sinistra Democratica per il Socialismo Europeo”. Compensi riconosciuti a tutti i gruppi del Consiglio, dal Pd all’Udc, ma con disparità di trattamento notevole: al Pd sono riconosciuti quasi 100 mila euro, 5. 200 ai Comunisti Italiani, 2. 900 alla Lega.

TOSCANA. I fondi sono concentrati sulla manifestazione Pianeta Galileo, istituita per “la diffusione della cultura scientifica”. Tra docenti, relatori, lettori e membri del comitato scientifico la Regione distribuisce poco più di 40mila euro con compensi che vanno dai 108, 50 euro riconosciuti al relatore Irene Fiori ai 2.097 assegnati al membro Sandro Rogari.

UMBRIA. “Monitoraggio tv locali e Rai regionale”: con questo fine l’Umbria assegna una ventina di consulenze che vanno dagli 8.930 euro riconosciuti a tre collaboratori ciascuno, ai 42.150 euro previsti per sei mesi di lavoro ad Andrea Baffoni. E la stessa somma viene poi riconosciuta anche ad altre quattro persone: Anita Marioni, Patrick Vinke, Sarah Bonciarelli e Paola Piagnani.

MARCHE. La comunicazione è la spesa più consistente del capitolo consulenze esterne delle Marche. Si sfiorano i 200mila euro di “attività di comunicazione” concentrati tra gli incarichi del gabinetto del presidente del consiglio regionale e quello dell’ente.

LAZIO. Al presidente del “collegio degli esperti”, Regino Brachetti, sono riconosciuti 204mila euro mentre ai singoli esperti vanno 170mila. Ma all’ex presidente Luciano Rivela, “declassato” a semplice componente nel 2007, sono riconosciuti 300mila euro. Tutte le altre consulenze sono state rimandate a delibere specifiche e non è indicata la destinazione né il motivo.

MOLISE. In Molise c’è massima attenzione alla sanità. La Regione elargisce decine di consulenze da 5mila euro massimo a progetti di informazione medico scientifica, per poi compiere altre consulenze da 10 mila euro l’una per un piano di rientro del disavanzo sanitario.

CAMPANIA. I 297mila euro assegnati a Ornella Carbone per il “coordinamento delle attività connesse all’attuazione del programma trasporti” sono niente rispetto ai 600 mila riconosciuti per la campagna “educazione degli adulti”. L’elenco delle consulenze campane regala sorprese notevoli. Una delle Regioni con i conti più disastrati d’Europa spende quasi un milione di euro per il “supporto al nucleo di valutazione e verifica investimenti pubblici”. Ai membri del nucleo vanno dai 323mila ai 456.500 ciascuno. Ma non è finita: per “il supporto e assistenza tecnica attuazione piano d’azione sviluppo economico” la Campania elargisce 3 milioni 522 mila euro. 4,5 milioni vanno alla attività di “accompagnamento agli uffici di piano per la predisposizione dei piani sociali”. Infine la Regione stanzia a Kpmg una consulenza e “supporto per il rientro disavanzo sanitario”: 1 milione 296 mila euro.

PUGLIA. Politiche giovanili: tre incarichi da 31.843 euro ciascuno ad altrettanti “esperti in consulenza tecnico giuridica per l’attuazione dei programmi”. La Regione guidata da Vendola si dedica poi agli esperti: uno economico statico (33.250), controlli fondi comunitari (80mila) e junior economico finanziario (20 mila).

BASILICATA. Tre consulenze da 250mila, 500mila e 750mila euro necessarie per il piano antincendio, dopo i roghi che hanno colpito la Regione, esauriscono quasi completamente i fondi destinati alle consulenze.

CALABRIA. Il “fotocinereporter” Attilio Morabito riceve 41.970 euro dalla Regione Calabria per l’ufficio stampa. Altro che giornalisti. Per il resto le consulenze sono tutte per gli assistenti dei singoli assessori e del presidente con cifre che vanno dai 10 mila euro ai 24.855 euro.

SICILIA. Comunicazione, studio e ricerca, consulenza tecnica: appena tre voci comunicate dalla Regione Sicilia per la trasparenza richiesta dal governo. Tre voci per un totale inferiore a 100mila euro. Lo Statuto Speciale, forse, permette risparmi. Od omissioni.

REGIONOPOLI.

Regioni, sulle sedi non si taglia, scrive Andrea Managò su “L’Espresso”. Sempre più calati nella parte di premier bonsai, i governatori vogliono sedi di rappresentanza all'altezza delle loro ambizioni. Così, da Torino alla Puglia, si continua a progettare, spendere e costruire. Alla faccia della riduzione dei costi della politica. A dare il buon esempio ha pensato il decano dei governatori italiani, Roberto Formigoni: sulle orme di Luigi XIV, con la realizzazione di Palazzo Lombardia il "Celeste" ha lasciato ai posteri la sua piccola Versailles. Un grattacielo nel pieno centro di Milano alto 161 metri (distribuiti su 43 piani), con tanto di eliporto, centro commerciale interno e foresteria riservata al presidente. Inaugurato lo scorso anno, il Pirellone Bis è costato circa 380 milioni di euro, ospita gli uffici della giunta e i dipartimenti ma non il Consiglio. L'accorpamento di sedi distaccate farà risparmiare 5 milioni l'anno rispetto agli affitti pagati finora. Ma per ammortizzare il costo dell'edificio ci vorranno ben 22 anni, quasi quanti ne avrà passati Formigoni alla guida dell'ente se riuscirà a completare anche il suo quarto mandato. Sempre più calati nella parte di capi di governo bonsai, i governatori sognano palazzi di rappresentanza all'altezza delle loro ambizioni. Così, nemmeno in queste settimane di tempesta sui costi della politica regionale, hanno fatto marcia indietro sulle operazioni di edilizia istituzionale. La Lombardia ha fatto scuola: se il Molise ha dovuto congelare il suo progetto, Piemonte, Puglia e Calabria hanno invece cantieri aperti per la costruzione di costose nuove sedi per giunta o Consiglio. Alla faccia della spending review. Per non essere da meno dei vicini milanesi, a Torino hanno voluto fare le cose in grande: la nuova cittadella del Piemonte sarà un grattacielo di 209 metri in zona Lingotto, il più alto mai costruito in Italia. I lavori sono partiti il 30 novembre dello scorso anno, con l'obiettivo di completare l'edificio entro il 2014 e un costo finale stimato in 208 milioni di euro. Le polemiche invece erano già iniziate da tempo, a scatenarle la parcella da 22 milioni di euro pagata all'archistar Massimiliano Fuksas, autore del progetto. «In questa situazione è uno spreco» ha tuonato il governatore leghista Roberto Cota appena insediatosi, «un terzo della cifra è legato a impegni presi dalla precedente giunta di centrodestra» la replica dell'ex presidente Mercedes Bresso (Pd). Mentre la politica si divide, i torinesi potranno "godersi" il cantiere da un'apposita terrazza, con tanto di panchine e distributore di bibite e snack, affacciata sugli scavi. Lo stesso giorno in cui a Torino partivano i lavori, nel quartiere Japiga di Bari veniva posta la prima pietra del nuovo Consiglio regionale della Puglia. «Chi definisce quest'opera come il castello della casta è ignorante e in malafede» ha subito ammonito Nichi Vendola. Visionando il progetto qualche dubbio rimane: massiccio utilizzo di vetrate e metalli per conferire senso di trasparenza amministrativa, scranni dei consiglieri orientati verso il mare, giardino esterno con piante autoctone e vasche con giochi d'acqua. Anche il prezzo dei lavori non è da saldi di fine stagione: 40 milioni di euro. Tempo di realizzazione stimato due anni, ma il cantiere ha già subito diversi rallentamenti per il ritrovamento di ordigni bellici. Del resto, quale luogo migliore per costruire un'opera pubblica di un'area che in passato ha ospitato una polveriere militare? Come insegna il caso dell'autostrada Salerno-Reggio, i ritardi nei cantieri in Calabria invece sono una prassi consolidata. Non a caso anche la costruzione della "Casa dei calabresi", nel quartiere Germaneto a Catanzaro, procede a rilento. Deliberata nel 2005 dall'allora governatore Agazio Loiero, con un finanziamento di 93 milioni di euro, la nuova sede della giunta è ancora in costruzione. «Abbiamo chiesto alla ditta di rispettare la scadenza di fine 2013» ha assicurato il presidente Giuseppe Scopelliti. Ma il progetto è stato modificato in corso d'opera, passando da una struttura in cemento armato ad una prevalentemente in acciaio, con conseguente lievitazione dei costi che ora sfiorano i 160 milioni di euro. Il piccolo Molise invece, dopo aver bandito un concorso di progettazione che premiava con 297 mila euro l'elaborato migliore, ha dovuto mettere a freno la voglia sfrenata di edilizia istituzionale. Il Tar ha accolto il ricorso di un'associazione ambientalista contro l'ipotesi di realizzare la nuova sede regionale nell'area dove sorgeva il vecchio stadio di Campobasso, destinata dal Piano Regolatore cittadino a diventare un parco pubblico.

Regioni, lo spreco in affitto, scrive Silvia Cerami su “L’Espresso”. Le 'ambasciate' dei governatori a Roma: sedi eleganti nel centro della capitale, ma anche in Cina o a Bruxelles. Dalla Sardegna di Cappellaci alla Lombardia di Formigoni, ecco le location esclusive per promuovere le bellezze locali. A spese dei contribuenti, è ovvio 600 metri quadri su due livelli nella prestigiosa via XX Settembre a Roma, fronte ministero dell'Economia e Banca d'Italia. All'interno plasma e alta tecnologia, frutto di una ristrutturazione in grande stile durata sei mesi. E' l'esclusiva location scelta dalla Regione Sardegna per promuovere le bellezze isolane. Un vero affare: 15 mila euro al mese di pigione, pagati regolarmente da un anno e mezzo, per mantenere le serrande rigorosamente abbassate. Il presidente Ugo Cappellacci, nonostante si lamenti della «Sardegna umiliata dal Governo», in crisi quasi irreversibile con pastori che occupano aeroporti e aziende in emergenza, nulla ha potuto davanti a un investimento così proficuo. Come poteva esimersi dall'avere un'altra elegante sede nella capitale, oltre a quella di via Lucullo, pagandola per tenerla chiusa? Avere ambasciate a Roma, a Bruxelles, a Pechino o a Buenos Aires per i presidenti di Regione è un must. Minacciano rivolte per i tagli previsti dalle manovre, sostengono che il governo si comporti da «padre sciammanato» di fronte a «figli virtuosi», che stia affossando il federalismo fiscale, piangono per 114 miliardi di debito pubblico degli enti locali e annunciano di essere costretti «a ridurre i servizi primari», ma non si risparmiano quando si tratta di immobili storici e arredi di prestigio. C'è chi come la piccola Molise di Michele Iorio, con le sue 319 mila anime e i suoi consiglieri pagati 10 mila euro al mese, ha ben due sedi nella capitale. 4 milioni e 100 mila euro per i locali nella centralissima via del Pozzetto e oltre 273 mila all'anno per l'ufficio più piccolo di via Nomentana: il minimo per promuovere caciocavalli e mantenere il primato della malasanità. La doppia sede capitolina è una necessità anche per il governatore Stefano Caldoro. Poco importa che la Campania abbia un'esposizione di debiti per più di 11 miliardi e società regionali che perdono decine di milioni di euro all'anno. A Roma può contare su un ufficio di proprietà a Via Poli, a due passi da Palazzo Chigi, e su un ufficio relazioni con il pubblico in zona Via Veneto che costa 100 mila euro d'affitto l'anno. Del resto i campani hanno dovuto rinunciare alla prestigiosa sede newyorkese all'angolo della Fifth avenue. Un appartamento, posto sopra il negozio del celebre sarto partenopeo Ciro Paone, da un milione e 140 mila euro l'anno, con ben tre addetti dediti alla promozione dell'immagine regionale e che, secondo Sandra Mastella, nemmeno parlavano inglese. Unico ufficio nella città eterna, ma primato per metri quadri, ben mille, per la sede di via Marghera della regione Siciliana. Meglio abbondare se si può vantare un debito da cinque miliardi che costa in termini di interessi annuali ben 226 milioni, di un esercito di 19 mila dipendenti e di ben 90 consiglieri regionali. Numeri da primato che hanno portato a investire anche a Bruxelles con l'acquisto nel 2009 di 650 metri quadrati a rue Belliard 12, alla modica cifra di 2,6 milioni di euro. «D'altra parte», sostiene il presidente lombardo Roberto Formigoni, «è importante avere un presidio a Roma e Bruxelles. Le sedi sono un raccordo essenziale tra ente e governo». E così la Lombardia ha un ufficio romano di memoria democristiana a via del Gesù e una piazza d'armi europea di 1800 metri quadrati acquistata per 3 milioni e mezzo di euro. Ma Roma e Bruxelles certo non bastano alla regione più ricca d'Italia che ha deciso di fare il giro del mondo. Quattro ambasciate in Russia, una in Giappone, una in Argentina e poi in Brasile, in Cina, Lituania, Polonia, Uruguay, Perù e persino in Israele e in Kazakistan. Amano viaggiare anche i moderni Marco Polo di Luca Zaia che hanno aperto ben dieci uffici in Cina, mentre ha preferito un unico investimento di valore a Bruxelles Nichi Vendola. 500 metri quadri a rue du Trone 62 al costo di 2 milioni di euro, comprati dalla regione Piemonte che possiede un immobile che vale ben 9 milioni. Sarà un polo di accoglienza «per tutta la comunità pugliese» con pavimenti in pietra di Trani e decori di marmo della Murgia, ha annunciato il governatore di Sel, che dispone anche di una sede di prestigio a Roma in via Barberini. E non avrebbe voluto rinunciare a un'ambasciata nel suo territorio la regione Lazio. La Pisana aveva infatti affittato una sede da 600 metri quadri nella centrale via Poli. Una comodità, quella della doppia sede, che è costata ai romani 320 mila euro l'anno. Il contratto è stato disdetto lo scorso giugno, con la speranza di una riduzione dei quasi due milioni di euro di spese di rappresentanza annui. Particolarmente oculato anche il governatore del Piemonte Roberto Cota. Cinque anni fa Mercedes Bresso, per la vetrina romana del "made in Piemonte", 750 metri quadrati in via delle Quattro Fontane, aveva firmato un contratto di locazione da oltre 400 mila euro. Il leghista Cota non ha potuto accettare un simile regalo a Roma Ladrona e ha preferito spostare le manifestazioni promozionali a Torino, accontentarsi di un appartamento da 180 metri a via della Scrofa a soli 100 mila euro l'anno, e continuare a mantenere le sedi estere, a partire da quella cubana. Una scelta volta al risparmio come quella di Giuseppe Scopelliti, presidente della regione Calabria. Per i suoi cinquanta consiglieri in trasferta, dieci in meno della Campania pur avendo circa un terzo della sua popolazione, ha recentemente individuato un immobile in via Barberini. « Il progetto consentirà di avere un'unica sede a Roma» ha spiegato orgoglioso. Potrà così rinunciare alla sede di piazza Campitelli, 450 metri quadrati di locali in un bel palazzo del 1500 al costo 11 mila euro al mese, e vendere la sede romana di via Sardegna. Di certo un affare, anche se non è ancora noto il costo del locale. Uffici nei centri storici, a pochi passi dai palazzi del potere, a Roma e a Bruxelles, con stanza riservata al governatore, sala riunioni, garage e in alcuni casi, come per la sede capitolina della Sicilia, anche dotati di cucina. Costi di affitto e di acquisto ingenti, senza considerare quelli del personale e dei corsi di lingua e di cerimoniale per la riqualificazione dei novelli ambasciatori. Sedi di rappresentanza che secondo i governatori servono per favorire i rapporti tra livelli di governo e per azioni di tutela e di lobby a favore dei cittadini. E dire che ci sarebbe un organismo apposito, la Conferenza Stato Regioni.. E così, dopo anni di chiacchiere su riforme federali che dovevano servire a rendere autonome le regioni da Roma, sono tutti ritornati nella capitale e persino espatriati a Bruxelles.

Politici e iPad, allora è un vizio, scrive Mauro Munafò su “L’Espresso”. Dopo quelli della Puglia, di Torino, di Sassari e di Bolzano, anche i consiglieri della Lombardia si regalano l'ultima versione del tablet Apple, a carico dei contribuenti. «Uno strumento indispensabile senza il quale non si riesce a lavorare», spiegano. L'iPad mania ha contagiato anche i consiglieri della Regione Lombardia, e pure stavolta a pagare il conto sono i contribuenti. Grazie a una delibera del maggio scorso, passata non a caso sotto silenzio, tutti gli eletti al Pirellone si sono visti recapitare un iPad 2 nuovo fiammante senza dover sborsare neppure un euro. Il gradito regalo è arrivato a novembre, giusto in tempo per le feste di Natale e per evitare fastidiosi doppioni sotto l'albero. L'operazione, fortemente sostenuta dal leghista presidente del Consiglio regionale Davide Boni, ha comportato una spesa per le casse lombarde di 67mila e 818 euro, come dimostra la delibera che L'Espresso pubblica in esclusiva. La lista della spesa prevede la bellezza di 90 iPad di seconda generazione, colore nero, con possibilità di collegamento 3G e 64 GB di memoria: il modello più caro e potente sul mercato, segno che l'austerità è un concetto piuttosto relativo. Curioso poi come la delibera spieghi che gli iPad servono "per le esigenze dei consiglieri regionali", senza però spiegare perché ne vengono acquistati 90 invece di 80, ovvero il numero di eletti alla Regione Lombardia. A mettere in luce l'esistenza di questa generosa fornitura è stato lo stesso Boni, intervistato nella trasmissione di Radio 24 La Zanzara, che ha difeso la bontà dell'iniziativa sostenendo come "chi non ha questo strumento non potrà più lavorare, perché non gli arriveranno più le notizie in rete". Secondo Boni infatti, la spesa dell'iPad permette un risparmio di "un milione di fogli stampati", oltre all'impiego di quattro commessi che si occupavano delle rassegne stampa, cartacee, per i consiglieri. Un'attenzione al dettaglio che però Boni non ha dimostrato con il capitolo spesa, che nella sua intervista sosteneva essere di 50mila euro, contro gli oltre 67mila euro testimoniati dalle carte. La teoria del risparmio, piuttosto discutibile, ha comunque trovato d'accordo 79 consiglieri su 80: l'unica voce fuori dal coro è stata quella di Gabriele Sola, consigliere dell'Idv che a novembre ha restituito l'iPad al mittente, allegando una lettera con le spiegazioni del gesto. Iniziativa anti-casta non è nuova per Sola, che già nel luglio scorso aveva ricostruito per L'Espresso tutti i privilegi dei consiglieri regionali. Come spiega la lettera di Sola, l'intento di "dematerializzare" gli atti e i documenti della pubblica amministrazione è di sicuro encomiabile, ma non si capisce perché la fruizione degli atti digitali debba avvenire per forza con un iPad nuovo, piuttosto che con i computer già in dotazione dei consiglieri. "Secondo Boni l'iPad è uno strumento indispensabile senza il quale non si riesce più a lavorare in consiglio regionale", spiega Sola, "Balle utili a giustificare l'ennesimo, odioso privilegio: il discorso reggerebbe solo se esistesse qualche irrinunciabile applicazione finalizzata alla cosiddetta "dematerializzazione degli atti". Invece la diffusione di documenti tramite e-mail e web, come accade oggi, è del tutto compatibile con l'uso del personal computer". Ma Boni è andato anche oltre, spingendosi a richiedere la rettifica a chiunque parli di iPad "regalati" ai consiglieri, visto che i tablet sono concessi in comodato d'uso. Una formula già usata da diverse amministrazioni in giro per lo Stivale per distribuire iPad con la scusa della dematerializzazione: prima della Regione Lombardia ci avevano già pensato a Bolzano, a Sassari, a Torino, a Como e in Puglia. Un tentativo era stato fatto anche a Siracusa e in Abruzzo, dove però le proteste degli elettori hanno spinto i consiglieri provinciali e regionali a tornare sui propri passi, a rinunciare ai tablet o a pagarli con soldi propri. La storiella del risparmio sulle fotocopie, chissà come mai, non aveva proprio convinto i contribuenti.

PARLIAMO DI REGIONOPOLI

Possiamo immaginare quale effetto può avere sull'immagine dell'Italia quando si verificano episodi di evasione fiscale o corruzione. Che può pensare un cittadino straniero quando vede certe immagini in tv. Per l'Italia è un danno incalcolabile". Lo ha detto il premier Monti. "Siamo impegnati a far crescere il rispetto dell'Italia. E' un lavoro che richiede una grande presenza nelle sedi internazionali per spiegare che l'Italia non corrisponde ai pregiudizi con cui spesso la si dipinge". Già, se detto da un burocrate, c’è da crederci. Ma la realtà è ben diversa. Uno Stato che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Cittadini tartassati, pur nella collusione e codardia, sempre pronti a porgere l’altra guancia, nonostante essi, nel momento del bisogno non trovano nessuno che l'aiuti. Uno Stato che spenna vivi i suoi cittadini per mantenere in vita un sistema parassitario ed inefficiente. Uno Stato che negli spot televisivi, nell’indicare l’evasore fiscale come un parassita, ha il coraggio di affermare che quell’evasore danneggia il cittadino, privandolo di beni e servizi pubblici. Sanità: non ci sono posti per il ricovero e le visite urgenti sono a pagamento. Giustizia: carceri pieni di innocenti o impunità diffusa. Sicurezza:«La condotta della Polizia ha gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero» (V Cass. pen. n. 38085/2012). Politica ed istituzioni: incapaci e ladri. Si muore di fame, di inquinamento e di dissesto idrogeologico. Per tutto questo c'è un assioma.

Tutte Tasse rubate. Non solo i cittadini sono tartassati dalla Stato attraverso il servizio di riscossione per investirli in interessi e ruberie privati. Ma addirittura siamo arrivati al punto che i riscossori rubano sia allo Stato e sia ai cittadini. Queste squallide vicende si inseriscono in un filone di ruberie che hanno già coinvolto l'ex tesoriere della Margherita Lusi (che, dopo alcuni mesi di carcere ha ottenuto di andare in un convento che è sempre meglio del carcere), l'ex tesoriere della Lega Nord Belsito (che ha dovuto restituire soldi e diamanti trafugati al suo partito), l'ex Vice Presidente del Consiglio regionale lombardo Penati che rimane tenacemente incollato alla sua poltrona di consigliere nonostante le tante richieste di dimissioni.

E' finita la Pork Repubblic, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. I Fiorito, le Minetti, i Lusi, i Belsito. Ma anche i Formigoni, i Lombardo, i Penati. E ovviamente i Berlusconi. Tutto il sistema nato nel 1994 sta crollando travolto dalla sua stessa voracia. E adesso? La politica è questo: fare le cene. E io per quelle quattro che ho offerto ho pure dovuto anticipare i soldi», si lamenta a "Ballarò" Veronica Cappellaro, consigliera regionale Pdl del Lazio. «Ma quali cene? Duemila euro di porchetta la chiama cena? Ne prendi una, la metti in mezzo, quelli se la magnano e so' tutti contenti», corregge su "Pubblico" il nuovo maître à penser, Franco "Francone" Fiorito. Finisce così la Seconda Repubblica, come immaginato negli anni Settanta da Leonardo Sciascia in una pagina di "Todo Modo":«Nell'insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finire di mangiar tanto, c'è un limite al mangiare; e così via. Mi resi conto che era un parlar figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione». Muore la politica nella Grande Mensa della Pisana, dove il cibo, i fondi pubblici, si arraffavano con le mani. La Prima Repubblica morì quando i magistrati di Mani Pulite svelarono che i partiti discendenti dei padri della Costituzione si spartivano le tangenti come un consiglio di amministrazione. «Non entreremo nella porcilaia fascista», tuonò Umberto Bossi dopo quella stagione, all'alba della Seconda Repubblica, nel 1994, alludendo al Msi di Gianfranco Fini. Dopo, però, nella porcilaia ci hanno sguazzato tutti. Hanno chiamato la loro legge elettorale Porcellum. Hanno trasformato i consigli regionali in «un porcile» (copyright Carlo Taormina, l'avvocato di Fiorito). E alle feste si sono travestiti da maiali. Al Partito Unico degli Affari si è sostituito il Partito Unico della Porchetta. Ai tesorieri di Tangentopoli, i Citaristi, gli Stefanini, i Balzamo, gentiluomini che per sé non tenevano una briciola, sono subentrati i Lusi, i Belsito, i Fiorito, che amministrano le risorse nell'impunità assoluta. «Una classe politica che vuole il potere domenicale», si indigna Giuseppe Pisanu, antica saggezza dc, perché per i nuovi arrivati la politica è gozzoviglia e nessuna fatica. Silvio Berlusconi riassume in sé questa privatizzazione della politica, la Pork Republic con le sue Minetti ha trovato in lui il degno fondatore. E ora il Cavaliere prova l'ultimo travestimento, azzera il Pdl ormai putrido, si maschera da moralizzatore, invece del predellino sale sul treno e Daniela Santanchè esulta:«Evviva! E' cominciato il cambiamento! Berlusconi in viaggio in treno verso Roma tra la gente». Una mossa disperata per rientrare nel prossimo Parlamento con un manipolo di fedelissimi e provare a ridare le carte. Ma è scosso anche il Pd che puntava sulla ricostruzione del sistema dei partiti, che con i Penati e i Montino si è seduto a tavola sperando di non imbrattarsi troppo e che ora rischia di farsi sommergere dall'indignazione. I sondaggi raccontano di una rivolta popolare contro la politica, il contagio coinvolge tutti, senza distinzioni tra buoni e cattivi, neppure Grillo si salva più. La festa è finita, tutti a casa.

Francesco Belsito, Luigi Lusi, Franco Fiorito: vedi delle differenze? Questo chiede Marianna De Palma. Belsito, Lusi, Fiorito, "tesorieri" d'Italia, connotati da non poche somiglianze, un po' fisiche un po' attitudinali: da "certa" pinguedine all'amore per i conti correnti all'estero... Ecco l'identikit del "tesoriere" e le sorti dei nostri soldi! Abbondantemente stempiati, viso paffuto - anche molto paffuto -, corporatura robusta - anche molto robusta -, nutrita da amore per la buona cucina in ristoranti di un certo livello, pizzo (due su tre), giacca e cravatta, saccocce vuote per non destare sospetti e conti correnti nascosti preferibilmente all'estero - e pieni dei nostri soldi -, sguardo e atteggiamento da "non sono stato io e se sono stato io... fan tutti così!", amore per investimenti fuori dall'Italia. Francesco Belsito, Luigi Lusi, Franco Fiorito: ecco in breve l'identikit degli ex tesorieri, rispettivamente di Lega Nord, Margherita, Pdl. Io non vedo differenze, se non nella sigla dei partiti grazie ai quali han sottratto soldi pubblici; partiti che però ritrovano unione proprio per merito di questo denominatore comune: il tesoriere indagato per appropriamento indebito/peculato, a causa della scomparsa di milioni di euro dalle casse dei rispettivi schieramenti politici. Altre differenze? Alcuni dettagli... ad esempio l'uso in parte diversificato dei malloppi "capitati" nelle loro mani: Franco Fiorito da Anagni (classe 1971), detto dai più Er Turco (per le fattezze fisiche) e Er Batman da alcuni (pare per via di un "volo" da una motocicletta ferma), già esponente di An, è stato sindaco della sua cittadina (che lo ricorda per le targhe in onore di Mussolini e della Marcia su Roma) dal 2001 al 2004, quando passò alla provincia di Frosinone e l'anno dopo alla Regione. E' il protagonista principale - per il momento - dello scandalo riguardante i fondi regionali del Lazio utilizzati, anzichè per scopi politici -amministrativi (magari civili), per feste, abbuffate, investimenti immobiliari e per rimpinguare le tasche dei Consiglieri regionali. E' infatti lo stesso Fiorito ad aver parlato di una "stecca para", ossia 100mila euro all'anno a ogni Consigliere, che si aggiungevano ai già 13mila euro mensili e benefit di mille tipi. Dalle indagini che vedono l'ex tesoriere accusato di peculato, sta emergendo un intero "Sistema Lazio", che, secondo i dati resi noti da Repubblica, ha dilapidato 21 milioni di euro di finanziamenti destinati al "rapporto tra elettore ed eletto, al corretto funzionamento dei gruppi" e spesi in ostriche, puttane, viaggetti, Satyricon di cartapesta...Francesco Belsito, genovese, classe 1971 (dev'essere un'annata particolarmente buona!), fino ad alcuni mesi fa si occupava delle casse della Lega Nord. I maneggi suoi e della sua cerchia di amici, in confronto al "Sistema Lazio" potrebbero sfigurare. Il nome di Belsito - ripassiamo! - si lega irrimediabilmente a quello della famiglia Bossi, visto che era lui a smistare le paghette di ...mila euro al mese per i figli del Senatur e a "favorirne" l'acquisto di macchine, ma anche a garantirne una buona istruzione in Albania. Ma il grosso dell'opera di maneggio pare sia avvenuto grazie allo spostamento dei fondi della Lega Nord (leggasi finanziamenti pubblici) su conti in Tanzania e Cipro, grazie all'azione concertata di Belsito e della Cupola Veneta. Ed arriviamo a lui, Luigi Lusi, romano, classe 1961. Ex tesoriere della Margherita, forse per questioni anagrafiche, ha avuto più tempo per organizzarsi - insieme alla moglie - nel sottrarre capitali "al partito"; infatti, al momento, risulta il ladrone numero 1, artefice di un vuoto di circa 70 milioni di euro nelle casse della Margherita. Oltre a qualche immobile italiano, Paese suo prediletto di investimento era il Canada, dove i capitali venivano trasferiti, ad ogni 300mila euro "accumulati". Incarcerato, ora è agli arresti domiciliari presso un Convento in Abruzzo. Al di là della domanda più che lecita... chi sarà il prossimo?, un'osservazione è semplice e scontata - certamente scontate anche le parolacce, ma le lascio all'immaginazione dei lettori -. Se nessuno all'interno dei partiti si accorge di ammanchi di milioni di euro, significa che questi milioni non servono ai partiti, sono in esubero. In esubero finchè qualcuno non pensa bene di usarli per "investimenti" e arricchimenti personali. Ergo... se ancora non lo avessimo inteso: i finanziamenti pubblici ai partiti sono soldi nostri che vengono buttati! A ingrassare politici faccendieri e, chi più chi meno, goderecci. Certo, i politici non sono tutti uguali, ma a quanto pare... ne bastano alcuni di quelli "giusti" in ogni partito.

IL PECULATO CAMBIA. NELL’OSTENTAZIONE, PIÙ CHE NELLA METODOLOGIA. LUSI, BELSITO, FIORITO: I TRE STADI DELLA RUBERIA - DAGLI SPAGHI AL CAVIALE DI LUSI AL CAFONALISSIMO PARTY DI FINE IMPERO - DONNE, LOCALITA’ ESOTICHE E CENE DI LUSSO: L’ETERNA NOTTE DEGLI ANNI ’80 DOVE TUTTO E’ OSTENTATO, PERCHE’ SI SAPPIA CHE “IO SO IO E VOI NON SIETE UN CAZZO…”- Cosi scrive Andrea Scanzi per Il Fatto, ripreso da “Dago Spia”. Il peculato cambia. Nell'ostentazione, più che nella metodologia. Lusi, Belsito, Fiorito: i tre stadi della ruberia. Luigi Lusi espia ora le sue colpe nel Monastero della Madonna dei Bisognosi. Come tesoriere della Margherita, nel 2011 spendeva 218.250 euro del partito. Settantamila per una vacanza tra Toronto e Bahamas. Ventimila come cresta sul rimborso spese. Centottanta per un piatto di spaghetti al caviale. Dietro i modi eleganti, e il portamento fiero, emergevano già le coordinate dello status da esibire: luoghi esotici, cene di lusso. Da una parte Lusi vagheggiava - non senza una certa astrattezza "colta" - una nuova politica, dall'altra dimostrava di poter barattare tutto in nome del caviale. Più ancora: dell'espressione che fa il cameriere quando dimostri che tu, e solo tu, puoi ordinare quel piatto lì. Il sottotesto, quasi sempre, è lo stesso: "Io posso e voi no". Applicato, possibilmente, a scenari ultraterreni: il cibo, il viaggio. E il sesso, pure quello da mostrare. Tra una cena elegante e una festa sobria (ieri statue di Priapo da baciare, oggi nuovi Ulisse da omaggiare). Con Francesco Belsito l'orizzonte muta. Si alza l'asticella, quantomeno intendendo come volta stellata il tragicomico. Compaiono fondi in Tanzania, lauree in Albania, cerchi magici. Streghe. Autisti spioni. Trote con bancomat. Le fattezze del protagonista aggiungono alla sceneggiatura un che di squisitamente lombrosiano. Un tratto, unito ai cognomi in qualche modo floreali e paesaggistici, recuperato e rilanciato da Franco Fiorito. Con lui si raggiunge il grado ultimo, per simboli e per estetica, della ruberia. Il caricaturale esonda, anche nelle interviste alla madre, che ne descrive i 170 chili come quintessenza candida di intelligenza e onestà. Aggiungendo che - addirittura - a 3 anni leggeva Topolino (e non si capisce se lo riveli come attenuante o aggravante). In Fiorito è surreale anche il soprannome, "Er Batman", un po' come chiamare Renzo Bossi "Er Kierkegaard". Lui, del resto, preferisce definirsi "er federale de Anagni", inconsapevole - o forse no - di ricordare in ogni gesto e parola un personaggio minore, e male interpretato, di una commedia di Carlo Verdone. Un Mario Brega che non ha mai potuto permettersi di essere Mario Brega. Un laziale impigliato in una vecchia canzone di Alberto Fortis. Un Dandi, inteso come versione telefilmica di Renato De Pedis, il boss parafighetto della Magliana, che al ristorante - prima di andare in bagno a "sgrullarselo" - trangugia rumorosamente le ostriche, perché ormai le ha pagate, di fronte a una fidanzata (prostituta) più schifata che attonita. E le ostriche contano, nel regno dell'ostentazione coattissima, perché sottolineano l'idea di potere. La ricchezza bulimica. Il dominio vorace. L'ostentazione, qui, è l'immaginario. E l'immaginario è tamarro. Tamarrissimo. Il mondo di Fiorito è fatto di ostriche e aragoste. Champagne, ma anche pajata: l'anelito allo chic, unito però alla rimarcatura delle origini. Il nuovo ricco resta povero, per modelli e per miraggi. Non esce dalla barzelletta burina. Rimane la Bmw. Permane l'auto blu. E non manca la biondona, chiaramente appariscente, da sfoggiare contro chi ritiene impensabile che uno così possa circondarsi di belle donne (o "fighe", per meglio dire). E' la suburra, l'eldorado del Cafonal. L'unico regno in cui Carlo De Romanis, non per nulla vice di Fiorito, può definire "feste sobrie" dei ritrovi in cui ci si reinventa antichi greci: "Io faccio Ulisse, tu il Minotauro". La storia come credenziale posticcia, come Carnevale permanente: come copertaccia di Linus per mascherare il vuoto. Ancelle, giare, centurioni. Arcieri, mojito, calzari. E un fucile mitragliatore: messo così, a tradimento, in mezzo alla parodia del passato. Come un bizzarro flashforward, se solo gli officianti ne conoscessero il significato.

Lazio, Italia. Anzi, Palude Italia. Regione per regione, ecco il magna magna, scrive “Libero Quotidiano”. Non c'è solo il Lazio: ai gruppi consiliari da Nord a Sud arrivano quasi 100 milioni. E un altro miliardo se ne va in vitalizi e indennità. Quasi 100 milioni, 96 per la precisione. È questa la cifra che nel 2011 i contribuenti italiani hanno speso per consentire l’attività politica dei gruppi consiliari delle Regioni. Somma che si va ad aggiungere alle altre centinaia di milioni che le amministrazioni autonome sborsano ogni anno per pagare le indennità, i vitalizi, gli acquisti di beni e servizi e via dicendo. Il malloppo, secondo uno studio della Uil realizzato sulla base dei bilanci preventivi delle Regioni, ammonta complessivamente, senza contare i vitalizi, a qualcosa come 1,15 miliardi di euro, che diviso per ogni contribuente fa 38 euro a testa. Come sono stati utilizzati i quattrini destinati ai partiti nel Lazio lo abbiamo appreso in questi giorni: cene, festini, aperitivi, regalie e, in molti casi, semplice arricchimento personale. Ma i 14 milioni che, stando alle delibere, perché la voce è ben nascosta in altri macrocapitoli di bilancio, sono stati stanziati nel corso dell’anno sotto la giunta Polverini non si discostano molto dalle risorse destinate dalle altre Regioni allo stesso scopo. E anche ammettendo, cosa assai difficile da presumere, che in tutte le altre Regioni italiane nessun gruppo abbia dirottato un euro verso utilizzi non istituzionali, le erogazioni appaiono un tantino generose. In testa alla classifica, secondo i calcoli effettuati dal Sole 24 Ore c’è la solita e costosa Regione Sicilia, che ai gruppi consegna ben 13,7 milioni di euro l’anno. Subito dopo c’è la Lombardia di Roberto Formigoni, anche lui travolto dalle polemiche e dai sospetti, che eroga ben 12,2 milioni di euro ai partiti che siedono in consiglio. Poco sotto c’ è il Veneto, che è a quota 9,1 milioni. Anche l’austero Piemonte, con 7,3 milioni non scherza. Poi, andando in ordine sparso sullo stivale, c’è l’Emilia (6 milioni), la Liguria (5,7), la Sardegna (5,1), la Calabria (4,6), la Campania (4,5 milioni). E via proseguendo, fino alla Basilicata e alle Marche, che hanno speso rispettivamente 575 e 531mila euro.

Fermiamo il saccheggio. Regionopoli, viaggio negli sprechi Dall'Emilia alla Campania: così divorano i nostri soldi. Così continua “Libero Quotidiano”. Non solo Lazio. Nella regione rossa bonus a tutti, a Napoli bruciano miliardi per i rifiuti. Poi la Calabria, la Puglia e la Sicilia dei record (negativi). "Poi è ovvio, non è che si possono mettere tutte le Regioni sullo stesso piano. Prendiamo l’Emilia-Romagna: in quanto a servizi resi ai cittadini i parametri restano alti, peraltro è l’unica assemblea regionale - insieme con la provincia autonoma di Bolzano - a pubblicare in rete i conti dei gruppi consiliari. Non che i gruppi stessi costino poco nemmeno in zona Bologna: nel 2011 sono stati stanziati 4.976.000 euro - 2.326.000 per il «funzionamento» e altri 2.640.000 per il «personale». Era proprio da questi fondi che gli esponenti dei partiti - Movimento 5 Stelle incluso - attingevano per pagarsi interviste o comparsate sulle tivù locali: la Procura indaga per peculato. D’altro canto, le maggiori critiche rivolte all’amministrazione di Vasco Errani riguardano un sistema di potere andato cristallizzandosi nei decenni intorno al partitone progressista e alle aziende “amiche” - ogni riferimento alle cosiddette coop rosse non è casuale", spiega Andrea Scaglia su Libero in edicola oggi. Già, perché, ovvio, in questi giorni tutti gli occhi sono puntati sul Lazio dello scandalo. Ma non si possono dimenticare altri casi, come quello dell'Emilia dei bonus e dei rimborsi. Anche nel feudo rosso, infatti, tra "premi di risultato" e spese di viaggio i dirigenti e i consiglieri riescono ad arrotondare i lauti stipendi. I finanziamenti vengono concessi a pioggia, mentre gli ospedali vengono progettati sulle paludi. Il tutto mentre il governatore Vasco Errani attende di sapere se sarà processato. Passiamo poi al capitolo Campania: "Inutile dire che non è stata la prima volta - racconta Peppe Rinaldi su Libero in edicola oggi -. Il blitz dei finanzieri in consiglio regionale a caccia di fondi nella disponibilità dei gruppi politici utilizzati per fini personali, è l’ultimo di una serie che parte da lontano. A raccontarli tutti servirebbe un giornale ad hoc. Si consideri che le magagne giudiziarie che corrodono il consiglio campano si sono spesso intrecciate con quelle del comune, oltre ad essersi diffuse in una marea di enti collegati, società municipalizzate e Asl. La ragione è semplice: per circa 15 anni il potere si fermava dinanzi al moloch incarnato da Antonio Bassolino. Ed è proprio da qui che bisogna partire per sintetizzare le tempeste abbattutesi sulla Campania". Anche se la sintesi di tutti questi sprechi è un esercizio difficile. Si passa dai disastri del "Rinascimento" bassoliniano alla tragedia della munnezza: per i rifiuti è stato buttato via un miliardo di euro. Insomma, la recentissima inchiesta delle Fiamme Gialle sulla Regione è soltanto l'ultima di una serie infinta, che ovviamente non ha frenato gli sprechi. Poi c'è il caso della Calabria, che spende, per esempio, la bellezza di 300mila euro per l'affitto di un ufficio che non usa più. E sempre in Calabria, le spese per il solo funzionamento dell'ente (stipendi locali e burocrazia) sono pari al 6,7% di quel che la Regione spende complessivamente in un anno. Vale a dire il triplo della Lombardia e più del doppio della Puglia. E parliamo proprio della Puglia, governata da quel Nichi Vendola che sogna di diventare leader della sinistra, magri premier: nella Regione si sprecano gli scandali legati alla sanità. Ma non è tutto. Una delle ultime determinazioni dirigenziali prevede, tra le altre, per i consiglieri l'utilizzo di Telepass e tessere Viacard, oltre ad altri benefit: iPad, computer portatile, telefoni, parcheggi gratis. La Puglia: terra di donne, tangenti e spese folli. Ultimo ma non ultimo il caso emblematico della Sicilia, dove la torta da spartirsi è enorme: ogni anno ammonta a 13 milioni di euro, una cifra mostruosa. Nella Regione - recentemente lasciata da Raffaele Lombardo che l'ha portata sull'orlo del default, della bancarotta - la vera casta siede sui banchi dell'assemblea regionale. Un esempio: il già citato Lombardo prendeva uno stipendio da 15.683 euro netti al mese. Era il presidente più ricco di tutti. Anche gli onorevoli non se la passavano male, con un doppio rimborso e trattamenti "super-lusso" per gli spostamenti e i trasporti (anch'essi rimborsati a cifre assurde). Per concludere, soltanto un'altra cifra (le altre le troverete sul quotidiano in edicola): in quattro anni i partiti rappresentati all'Ars (Assemblea regionale siciliana) ci sono costati 52,9 milioni di euro.

Doppiopesismo, scrive ancora “Libero Quotidiano”. La Polverini si dimette, la sinistra applaude. E gli indagati Errani e Vendola restano al loro posto. La governatrice del Lazio, non indagata, lascia e attacca: "Adesso gli smaschero io gli ipocriti". Chi sono? I democratici, che non dicono una parola sui loro imbarazzi. Penati e i governatori di Emilia Romagna e Puglia non si toccano. "Adesso li smaschero io". La governatrice del Lazio Renata Polverini dà le dimissioni, travolta dallo scandalo dei rimborsi spese dei consiglieri regionali. "La giunta è pulita, è il Consiglio ad essere indegno", sottolinea combattiva l'esponente del Pdl, che annuncia battaglia. Quelli da "smascherare" non sono solo Fiorito & Co., i "personaggi da operetta" del Pdl che le hanno fatto saltare la poltrona, ma pure i consiglieri di Pd e Idv e "le loro ipocrisie". "Volevano scaricare tutte le colpe - attacca l'ex governatrice - su una giunta che ha lavorato bene, allora li mando a casa io". Li rimprovera di non aver rassegnato le dimissioni annunciate: "Potevano farlo oggi, ma non l'hanno fatto. Perché?". Già, perche? Forse perché Pd, Idv e sinistra in genere è molto lesta ad additare il reprobo, il responsabile, l'immorale, ma assai meno a invocare atti di moralità quando servirebbero nel prorio campo. In fondo le dimissioni della Polverini per uno scandalo che per ora non vede nessun indagato nella sua giunta e nemmeno in Consiglio (Franco Fiorito è semplicemente sospettato di peculato dai pm di Viterbo) è caso esemplare. Migliore anche di quello del governatore della Lombardia Robert Formigoni, indagato a Milano per corruzione. "Polverini, dimettiti!" gridavano i democratici come in tutti questi mesi hanno continuato a gridare "Formigoni, dimettiti!". Guarda caso, sono entrambi del Pdl. Non una parola sul democratico Filippo Penati, indagato per corruzione e concussione: mollata la poltrona di vicepresidente del Consiglio regionale, l'ex presidente della Provincia di Milano si è però ben guardato dal lasciare il Pirellone (e il conseguente stipendio da consigliere) e quando qualcuno come l'assessore all'Expo di Milano Boeri ha provato a incalzarlo è rimasta voce assai isolata. Penati, in fondo, è nulla rispetto a Vasco Errani e Nichi Vendola. Il governatore dell'Emilia Romagna rossa è nei guai per un'inchiesta sulle Coop: è accusato di aver "concesso" un milione di euro alla cooperativa Terremerse del fratello Giovanni: a fine luglio la Procura di Bologna ha chiesto il rinvio a giudizio per il potentissimo governatore per falso ideologico. Mica noccioline, in ballo c'è tutta la questione delicatissima legata ai rapporti tra politica e coop. Eppure nessuno, nel Pd, si scandalizza. Stessa sorte per Nichi Vendola, indagato in Puglia per lo scandalo sulla sanità locale. Il leader di Sel e lady Asl Lea Cosentino sono stati accusati di "concorso in abuso di ufficio" per il concorso da primario di chirurgia toracica vinto dal professor Paolo Sardelli all’ospedale San Paolo di Bari. Vendola indagato eppure né Bersani né l'amico Tonino Di Pietro si sono sognati di chiedere la testa del compagno di lotta. Forse perché gli atti di moralità sono obbligatori ma solo dall'altra parte della barricata.

Foto, giornali e tv, milioni, bruciati per l’immagine, scrive Grazia Longo su “La Stampa”. L’ossessione di molti politici, Polverini compresa: per lei stanziati nel 2012 un milione e 287 mila euro. Che i consiglieri regionali Pdl fossero ossessionati dall’immagine lo abbiamo scoperto dalla lettura del conto corrente gestito - si fa per dire - dall’ex tesoriere Franco Fiorito. Fiumi di denaro per interviste a pagamento. Un’abitudine gradita però anche agli altri consiglieri regionali, presidente in testa. È stato proprio lui, Mario Abbruzzese sempre in quota Pdl, ad autorizzare la bellezza di 1 milione e 212 mila euro alla voce informazione su giornali, radio e tv. Già nota è del resto, la sua sensibilità ai privilegi. Il presidente del consiglio regionale del Lazio (oramai ex con le dimissioni della Polverini) ha uno stipendio d’oro: quasi 21 mila euro lordi al mese, ovvero 251 mila euro all’anno. Insomma, Abbruzzese guadagna poco meno del presidente americano Barack Obama (275mila euro). Altrettanto conosciuta è la disinvoltura con cui usufruisce di due auto blu, una a Roma e l’altra a Cassino sua città d’origine, «perché sono mi diritto». Ma torniamo alle spese per la comunicazione. Nell’allegato alla Delibera del 13 giugno 2010, Abbruzzese firma di suo pugno l’elenco di tutte le emittenti radiotelevisive e dei giornali che devono ricevere soldi dalla Regione. Attività legittima per promuovere l’immagine del Consiglio regionale. Innegabile però l’effetto che produce questa pioggia di soldi pubblici in epoche di crisi come quella che stiamo attraversando negli ultimi anni. L’importo milionario è destinato a sostenere tutto l’arco consigliare, ma non si può tuttavia non notare che su 32 tv locali ce ne sono 9 dell’area che coincide con il bacino elettorale di Abbruzzese e anche di Fiorito: la Ciociaria. Terra che è talmente nel cuore del presidente da richiedere una considerevole attenzione. Una passione, per carità condivisa anche con gli altri consiglieri (e non solo del Pdl), ma che non si può comunque non evidenziare. Ecco allora 120 mila euro a Telesia, 90 mila a Media work e 20 mila alla Gazzetta di Cassino. Poi ovviamente ci sono anche le arre del Viterbese (terra di Battistoni, succeduto alla guida del gruppo Pdl dopo l’avviso di garanzia a Fiorito) (10 mila euro a Tuscia web), Latina e via discorrendo. Si registrano anche 10 mila euro a una tv di Rieti (Telecentro Lazio), tanto cara a Lidia Nobili. La consigliera Pdl con la passione di Scientology e la mania di protagonismo in interviste a pagamento tanto da aver fatto confluire a due tv rietine 111 mila euro dai fondi per le spese elettorali. L’unica nota positiva dell’allegato sulle spese per l’informazione è il risparmio di quasi 600 mila euro - 595 mila per l’esattezza - dovuto al fatto che a fronte di una richiesta di 1 milione e 807 mila euro di spesa, ne siano stati poi concessi 1 milione e 212 mila euro. E comunque non va tanto meglio neppure alla giunta regionale guidata fino a ieri da Renata Polverini. Partita con un occhio al risparmio, anche la Polverini poi ha ingranato la marcia sul fronte comunicazione. Ecco allora che per il 2011 ai «Contratti con i mezzi di informazione» sono stati stanziati 396 mila e 400 euro. Che subiscono però un’impennata l’anno successivo. Basta dare un’occhiata al resoconto della «Vigilanza sulla comunicazione istituzionale della giunta regionale», redatto il 28 giugno scorso: nel 2012 la spesa stanziata è salita a 1 milione e 287 mila euro. Anche in questo caso, come per il consiglio regionale, tutto rendicontato. La domanda tuttavia si impone: è tutto a norma? Si è forse verificato qualche spreco? Già l’altro ieri il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino e il procuratore regionale della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, sono intervenuti per ribadire che verificheranno ogni spesa esagerata. «Lavoreremo con intensità sulle questioni illecite che discendono dai recenti fatti di cronaca» hanno dichiarato. Ed è probabile che le dimissioni della governatrice Renata Polverini contribuiranno ad accelerare le verifiche.

Sprechi, tagli sui servizi, disservizi e solita partigianeria.

Regione Puglia, Lazio, Sicilia e tutte le altre. Per favore non chiamatele Mafia. «Un certo tipo di giornalismo, che va per la maggiore, produce un certo tipo di politica imperante. Questi promuovono un certo tipo di antimafia monopolista: di parte e di facciata. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , scrittore dissidente che proprio sul tema della mafia e della mala politica e della mala amministrazione ha scritto dei libri, tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. - I soliti giornalisti promuovono ed i soliti politici finanziano iniziative della solita antimafia monopolista. Iniziative volte a dare un’immagine della mafia come la manovalanza del crimine organizzato. Per loro la mafia deve essere il cafone analfabeta con la lupara in mano che chiede soldi a strozzo o denaro in cambio di sicurezza. Come dire: affidati allo Stato che con i soldi estorti con le tasse esso sì ti presta i soldi e ti assicura benessere, istruzione, cultura, salute, giustizia e sicurezza (sic). Invece per me la mafia siamo tutti noi: omertosi, emulatori, collusi e codardi. Questo tipo di giornalismo e questo tipo di antimafia, che addita gli avversari politici o la manovalanza criminale come mafiosi, è foraggiato da questo tipo di politica, spesso regionale. Ed è foraggiato con i nostri soldi estorti con le tasse. Invece di denunciare lo sperpero di denaro pubblico per amicarsi un certo sistema d’informazione ed un discutibile sistema antimafia, ai consiglieri ed agli assessori regionali si dà la colpa di dilapidare i nostri soldi. Ed i cittadini lì ad imprecare. Però si fa finta di non sapere che quei soldi, di cui a volte facciamo finta di chieder conto, non sono altro che quelli usati (per voto di scambio) per attirare favori e benevolenza da parte di quell’elettorato, che oggi è indignato. Quei soldi servono per comprare il consenso per la rielezione di quei politici che oggi si manda all’inferno. Fa niente se per mantenere lor signori si chiudono ospedali e tribunali. Ma tanto per il sistema tutto ciò non è racket, anche perché è omertosamente taciuto. Sulle emittenti tv vi sono sempre servizi di parte, se non servizi che raccontano altre realtà (su Studio Aperto alle 12.47 circa di tutti i giorni vi è un servizio sulla famiglia reale inglese). Certo che a fare vera informazione si rischia l’oscuramento del portale web o la galera (ma solo per il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, vi è stato il polverone). Anche di questo una certa politica si deve fare carico. Sul nostro canale Youtube MALAGIUSTIZIA abbiamo dovuto montare e produrre un video sugli scandali alle Regioni. Un video tratto da servizi caricati sul web dal TG3, dal 884c25tv e dal TRnews di Tele Rama. Un video che è bene far vedere a tutti perché si dimostra che tutte le regioni sono uguali. Spezzoni video di tv anche locali. Vi è anche una parte riferita alla Regione Puglia di Nicola Vendola (dispensatore di sogni e di speranze), affinchè ci si renda conto con che tipo di informazione e di antimafia e di politica il cittadino si deve confrontare e che con questo sistema informativo è dura debellare.»

Soldi pubblici: tutti gli sprechi regione per regione. L’unica regola è che non ci sono regole, così come scrive “Oggi”. Laziogate, spesa sanitaria gonfiata in Lombardia, inchieste a macchia di leopardo su tutta la Penisola. I guasti del federalismo all'italiana. Renata Polverina si è dimessa per il Laziogate. Ma la spesa per i gruppi politici dei Consigli regionali sembra fuori controllo ovunque...Spesa sanitaria impazzita in Lombardia. Calabria e Campania nel mirino della magistratura… Il federalismo all’italiana sta producendo sprechi inenarrabili. Moltiplica e clona su scala locale i guasti “centrali”. Intanto il Parlamento non riesce ancora a sfornare la legge anti-corruzione, caldamente invocata dal presidente Giorgio Napolitano. La disciplina delle spese dei gruppi consiliari è un ottimo esempio di maionese impazzita. Ognuno fa da sé. Vale il principio dell’autonomia. Ma c’è un filo rosso che unisce molti dei regolamenti adottati dai consigli: partiti e consiglieri, non sono tenuti a giustificare le spese sostenute con scontrini o fatture. Nel migliore dei casi basta un’autocertificazione. E quando gli obblighi di legge ci sono, mancano i controlli. Il governo Monti sta valutando un intervento per frenare le spese delle Regioni: riduzione dei costi e controlli. Già nel consiglio dei ministri di venerdì verranno decisi i primi provvedimenti sui costi standard del federalismo fiscale. E anche il governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani porterà oggi nella Conferenza delle Regioni quella che definisce un’urgenza: «Riduzione dei costi, trasparenza, terzietà dei controlli». Dal Veneto alla Campania, dal Piemonte alla Sicilia, dal Trentino Alto Adige, che fa per due, alla Sardegna: su dodici consigli presi in esame dal Corriere otto non dispongono di un regolamento che obbliga i politici ad allegare scontrini e fatture. C’è il Lazio, certo, dove i guai nascono proprio dal fatto che non esiste una regolamentazione dei fondi erogati ai partiti. La legge che stabilisce i rimborsi è la 6/73: prevede per ciascun gruppo un contributo mensile di 1.500 euro, più una quota variabile di 750 euro per consigliere. Ogni gruppo ha poi diritto a un contributo mensile per spese di aggiornamento, collaboratori e attività politica che viene stabilito dall’ufficio di presidenza del consiglio regionale. Organo che, sotto l’amministrazione Polverini con presidente del Consiglio Mario Abbruzzese, ha aumentato da 1 a 13,9 milioni i fondi ai gruppi. Il sistema? I soldi vengono erogati ai gruppi e gestiti dal capogruppo-tesoriere. Il consigliere a sua volta porta il rimborso, tramite fatture e il capogruppo/tesoriere vista le spese e paga. Non esiste un controllo «terzo», tutto resta all’interno del gruppo. L’unico tipo di «controllo» è la presentazione del bilancio al Co.re.co. (Comitato regionale di controllo) che però, per ammissione del suo presidente, ha solo un potere di verifica contabile. C’è poi la Sicilia: 12 milioni e 600 mila di fondi destinati ai partiti e nessun obbligo di rendicontazione. Nel dettaglio: 3.500 euro per ogni deputato, più fondi vari per chi lavora nel gruppo. Un esercito di 70 persone che percepiscono dai 1.500 (il dipendente) ai 4.100 euro (il portaborse). In quest’ultimo caso la somma è girata direttamente al consigliere regionale che alla fine, capita, versa poi molto meno al suo collaboratore. Anche qui il gruppo svolge il doppio ruolo di controllore e controllato. La Sardegna le va a ruota con i suoi otto gruppi che costano 5 milioni e 152 mila euro l’anno (spesa complessiva oltre i 20 milioni e 200 mila euro). L’obbligo di presentare pezze giustificative è arginato scegliendo la strada dei rimborsi forfetari: ogni consigliere, oltre all’indennità netta di 2.720 euro al mese, percepisce una diaria che va da 3.202 a 4.163 euro, un rimborso per spese di segreteria e rappresentanza di 2.346 euro per 12 mensilità e un contributo per spese di documentazione e strumentazioni tecnologiche di 9 milioni e 263 mila euro l’anno. Il contributo, si sottolinea, è stato comunque ridotto del 20%. In Calabria l’articolo 7 della legge 13 del 2002 prevede che le spese effettuate da ciascun capogruppo non siano rendicontate. Ma c’è già una riforma pronta all’insegna della maggiore trasparenza. La legge regionale della Campania che porta la data del 1972 ed è stata modificata nel 1996 dice: «Per le spese di funzionamento dei gruppi consiliari viene liquidato un contributo fisso mensile». Segue una cifra aggiornata nel tempo. Punto e basta. La Regione fa da «bancomat» e non esige alcun rendiconto nè impone come quei soldi debbano essere spesi. Oggi, come ha scritto il Corriere del Mezzogiorno , ai 60 consiglieri vengono distribuiti fondi per oltre un milione. I consiglieri, «ovvio» dicono, conservano scontrini e fatture, ma non esiste un ufficio ragioneria a cui affidarli e non c’è l’obbligo di farlo. Almeno così fino a maggio. Ma non sono solo le Regioni del Sud a non avere regolamenti rigidi. I sessanta consiglieri veneti percepiscono «fuori busta» 2.100 euro netti al mese per rimborsi esentasse che non richiedono l’obbligo di presentare giustificativi. La giustificazione è stata che quei soldi servono a coprire i costi della benzina. Fatti due calcoli, però, è come se ogni consigliere percorresse qualcosa come 16 mila chilometri al mese. Il Piemonte poi: 15 gruppi, 60 consiglieri, 7,5 milioni di euro e autocertificazione libera per ottenere il gettone di presenza. Da qui anche l’annuncio di affidare a terzi la certificazione dei bilanci da pubblicare poi online. Le Province autonome di Trento e Bolzano lo fanno già. Ma le spese sostenute dai 35 più 35 consiglieri vengono giustificate attraverso una dichiarazione di ogni capogruppo alla presidenza del Consiglio insieme a una nota riepilogativa. Toscana (50 consiglieri e 705 mila euro di spese), Liguria (40 consiglieri e 2 milioni e 900 mila euro), Emilia Romagna (50 consiglieri e 2 milioni e 332 mila euro per sole spese di funzionamento). Ci sono anche Regioni che obbligano per legge a dimostrare con scontrini e fatture le spese sostenute. Ma è poi la Presidenza del Consiglio a fare i controlli. Così è anche in Lombardia. Al Pirellone, otto gruppi consiliari per una torta da 10 milioni, lo scontrino è obbligatorio. E la delibera dell’ufficio di presidenza prevede che sia il presidente dei gruppi consiliari il «responsabile della regolarità della documentazione prodotta». Gli scontrini si allegano ai bilanci, ma l’effettiva verifica della regolarità formale dei rendiconti è affidata all’ufficio di presidenza del consiglio (quello che nella sua versione originaria contava 4 indagati sui 5). L’organismo può chiedere chiarimenti ai presidenti dei gruppi, nonché l’esibizione della documentazione relativa alle spese. «In sette anni – dice però Stefano Zamponi dell’Italia dei Valori – non mi risulta che sia mai successo». Lo scontrino insomma c’è, ma i giustificativi alle spese sostenute sono un optional. La discrezionalità del capogruppo è pressoché totale.

PARLIAMO DEL MAGNA MAGNA GENERALE

La mangiatoia della politica. Dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, l'enciclopedia di spese folli, tra baby pensioni e stipendi da favola, della casta più grassa di tutta Europa. Il caso di Franco Fiorito, l’ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio arrestato per peculato il 2 ottobre 2012, è soltanto la classica punta dell’iceberg. La politica degli enti locali è la «magna casta» che Panorama ha voluto analizzare con sette cronisti, andati a caccia di storie nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni italiani: oltre alle ricchissime indennità, hanno scoperto spese folli, sprechi impensabili, nepotismi di ogni genere. I risultati sono condensati nella storia di copertina di Panorama.  Mentre su Panorama.it, Regione per Regione, molte altre storie della nuova «Sprecopoli» italiana scritte da Enzo Beretta, Carmelo Caruso, Claudia Daconto, Emiliano Farina, Gianluca Ferraris, Maria Pirro, Giorgio Sturlese Tosi.

MAGNA CASTA, IL NORD

VAL D’AOSTA

Un consigliere ogni 300 abitanti

35 consiglieri per soli 127 mila abitanti. 15 milioni e 850 mila euro la spesa totale per l’intero consiglio regionale nel 2010 (124 euro pro capite). Il rapporto consiglieri/abitanti è 1 ogni 3.618. I dipendenti pagati dalla regione sono invece 2.162 (1 ogni 32 abitanti) è il numero in assoluto più alto d’Italia. Altro record è il numero di auto blu a disposizione della Regione: 154 per una giunta di solo 8 membri. Nel 2010 le leggi prodotte dal consiglio sono state 46. 125 mila euro sono stati spesi nel 2011 per pagare i pedaggi autostradali dei consiglieri.

Buonuscita di fine mandato

Ogni consigliere a fine mandato ha diritto a un’indennità pari a un mese di stipendio percepito moltiplicato per gli anni di legislatura. Il consigliere regionale che ha completato la legislatura di cinque anni ha diritto a 39.491 di indennità. 7.345 è lo stipendio base di ogni consigliere, 2.685 la diaria oltre a un rimborso forfettario per gli spostamenti dei consiglieri che risiedono a 20 km dalla sede regionale, il rimborso prevede un limite di accessi. Ogni gruppo consiliare ha diritto a un contributo. La spesa totale per i gruppi consiliari si è attestata a 600 mila euro nel 2011.

Stipendi d’oro

La Regione nel 2011 ha corrisposto al presidente regionale, Augusto Rollandin 177 mila euro, poco meno all’ex presidente del consiglio regionale, Alberto Cerise (deceduto) 170.568 euro. Tra i recordman Ennio Pastoret, Giuseppe Isabellon, Marco Vierìn, Laurent Vierìn, Manuela Zabluena, ciascuno ha ricevuto 147 mila euro dalla Regione nel 2011. L’assessore tecnico Alberto Lanièce ha percepito nell’ultimo anno 126 mila euro.

Taglio sottile

Valle d’Aosta il costo più elevato delle indennità pro capite: valgono 41,7 euro per ogni abitante. A dicembre 2011 il parlamentino valdostano ha approvato una norma sull’autoriduzione volontaria dell’emolumento. È stata attuata da un solo consigliere, Raimondo Donzel, segretario del Pd locale, che si è «tagliato» 100 euro su 9.600.

La coppia della consulenza

Marisa Bartuletti e Orazio Giuffrida. Dal 2007 al 2010 sono stati consulenti della Regione in materie giuridiche quattro volte con incarichi di undici mesi. Le parcelle dei due avvocati : 2007 (45.000 euro) 2008 (45.000), 2009 (38.655), 2010 (30.000). Nel maggio 2008 l’avvocato Carlo Emanuele Gallo «per chiarimenti procedurali in relazione alle dimissioni rassegnate da un consigliere» ha ricevuto 3.000 euro. Durata della consulenza 10 giorni.

PIEMONTE

Rimborsi pazzi

La procura di Torino indaga sui rimborsi assegnati ad assessori e consiglieri regionali del Piemonte a partire dal 2008. Il fascicolo, per ora contro ignoti, é stato aperto dopo le dichiarazioni rilasciate dal deputato del Pdl Roberto Rosso, ex vicepresidente della Regione nel 2010. Rosso, nel corso di una trasmissione tv, ha parlato di una settimana bianca al Sestriere da parte di un consigliere regionale, il cui importo (circa 5 mila euro) sarebbe stato poi rimborsato dal Consiglio come spostamento dovuto ad attività connesse alla funzione.

Monogruppo (con famiglia) da 260 mila euro

Anche la destinazione dei fondi ai gruppi dá luogo a situazioni per lo meno ambigue. Tra i casi più eclatanti c'é quello di Maurizio Lupi, unico eletto della lista "Verdi Verdi/L'AmbientaLista". Il gruppo consiliare omonimo, anche se formato solo da lui stesso, é destinatario di 260mila euro annui per il suo funzionamento. Soldi che il consigliere ha speso (anche) per assumere la moglie, la figlia e i due fratelli (in precedenza invano candidati) nel suo staff. Lupi é anche uno dei big spender per quanto riguarda il rimborso delle spese di viaggio legati alla sua attività politica: 31mila euro l'anno.

Stakanovisti d'agosto

Al centro degli accertamenti delle Fiamme gialle anche gli spostamenti dell'unico consigliere che abbia macinato più strada di Lupi, Roberto Boniperti del Pdl: 39.561 chilometri a carico della Regione solo l'anno scorso, tra festival di poesia e puntate all'outlet di Vicolungo. Anche ad agosto 2011 Boniperti ha fatto meglio del collega, esibendo 4.600 chilometri percorsi ma, soprattutto, autocertificandosi 22 giorni di lavoro per attività istituzionali. Totale: 2684 euro di diaria riscossi a consiglio regionale chiuso.

La diaria della discordia

Il gettone di presenza da 122 euro (netti) riservato ai consiglieri é stato al centro di polemiche anche in passato. Nel 2011 il tentativo del consigliere Davide Bono del Movimento 5 Stelle di portare in aula un ordine del giorno per la sua soppressione si scontrò con l'opposizione del presidente del consiglio regionale Valerio Cattaneo: "Se aboliamo il gettone" disse "qua dentro restiamo in tre o quattro". I moralizzatori si rifecero imponendo la firma dei consiglieri non più solo all'entrata, ma anche all'uscita delle sedute. Quando però ci si accorse che molti, richiamati in gran fretta dai colleghi a fine lavori per tornare a firmare, rischiavano di perdere il gettone, é stato concesso un termine di tolleranza di 15 minuti per apporre la firma.

LIGURIA

Faro della Corte dei Conti

Nessun addebito, nessuna inchiesta penale in corso. Ma dopo il caso Lazio, la scelta del consiglio regionale ligure e dei singoli gruppi consiliari di pubblicare i loro bilanci ha fatto emergere incongruenze e singolarità. Tanto che anche la procura regionale della Corte dei conti li sta esaminando, mentre il presidente del consiglio regionale Rosario Monteleone (Udc) é stato costretto a promettere che i controlli sull'utilizzo dei fondi a disposizione dei gruppi passeranno dalla commissione interna di vigilanza da lui stesso presieduta (e mai particolarmente attiva) a una società di certificazione esterna.

Le cene «istituzionali» sotto casa

Il contributo é costituito da una quota mensile fissa - 1.550 euro più 775 euro per ogni consigliere eletto - e da una dotazione di 2 dipendenti (a carico della Regione) per ciascun gruppo. Nel 2011 sono stati assegnati complessivamente 2,9 milioni di euro ai gruppi per il loro funzionamento. E anche se dalle note spese non fanno capolino Suv e ostriche, é evidente la passione dei consiglieri liguri per la buona tavola: oneri per il personale a parte, quasi tutto il resto dei soldi pubblici incassati se ne va in "spese per convegni, seminari e altre iniziative collegate allo svolgimento dei lavori". Voce elegante dietro la quale stanno la solita blanda autocertificazione di "attività istituzionale" e migliaia di ricevute. Qualche esempio? 1.294 euro spesi dal Pd per una manifestazione a Imperia del febbraio 2011 il cui momento clou era una cena con Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, a base di ravioli al tartufo. Oppure i 1.495 certificati sempre dal Pd a Cogoleto: la fattura non é intestata ma il ristorante é a pochi passi dalla casa del vice capogruppo Valter Ferrando. Le cene istituzionali sotto casa piacciono anche al Pdl: nella sua Zoagli Marco Rocca mette in conto 950 euro, mentre a San Michele, feudo del capogruppo Roberto Bagnasco, volano ricevute da 1.400. Tutti appuntamenti politici, ovviamente.

Lo scandalo Telepass

Quasi 50mila euro di pedaggi autostradali nei primi otto mesi del 2012 (un dato in crescita rispetto allo stesso periodo del 2011): tanto hanno speso, a carico dei contribuenti, i consiglieri regionali della Liguria, perché Telepass e Viacard, per loro, sono completamente gratuiti. I pass, infatti, sono intestati direttamente al consiglio regionale, che si accontenta di una blanda autocertificazione, e rappresentano una spesa aggiuntiva rispetto al rimborso forfettario delle spese di logistica di cui dispongono tutti i consiglieri e all'integrazione della diaria di cui dispongono quelli residenti fuori regione (un paio). Per Telepass e Viacard non esistono, al momento, tetti di spesa.

I francobolli del sindaco

Nella primavera 2011 Marco Melgrati, ex sindaco di Alassio, spedisce una “lettera aperta agli Alassini”. L'autocelebrazione arriva a tutte le famiglie della cittadina del Ponente ligure ma a pagarla (3.162, 57 euro di spese postali) é il gruppo consiliare ligure del Pdl.

LOMBARDIA

Tangenti

Piergianni Prosperini, indagato a luglio 2011 per una tangente da 10.000 euro che serviva a truccare una gara d’appalto della Bit e far ottenere a un’azienda valtellinese alcuni stand. Davide Boni, ex presidente consiglio regionale Lombardia, indagato a marzo 2012, avrebbe ricevuto secondo i magistrati, tangenti per oltre un milione di euro per modificare il prg di Cassano d’Adda. Gianluca Rinaldin, consigliere Pdl, indagato nel marzo 2012 per un giro di tangenti, per i magistrati ha intascato una tangente da 30 mila euro per dei lavori di ristrutturazione. Franco Cristiani, consigliere del Pdl, nel novembre scorso la Gdf ha trovato nella sua abitazione 100 mila in contanti, per l’accusa si tratta di una tangente.

Finanziamento illecito

Filippo Penati, ex consigliere del Pd, indagato nel luglio 2011 per un giro di tangenti da 1,4 milioni di euro che servivano a finanziare la sua attività politica. Massimo Ponzoni, consigliere Pdl, avrebbe ricevuto da imprenditori locali 1 milione e mezzo di euro e beni immobiliari per un valore di 2 milioni di euro. Romano La Russa, consigliere Pdl, indagato per aver ricevuto 10.000 euro dalla Aler (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale). Angelo Giammario, consigliere Pdl, è stato indagato per finanziamento illecito ai partiti (una tangente da dieci mila euro e la promessa di altri 30 mila euro) che avrebbe ricevuto nelle vesti di amministratore del Parco Nord di Milano.

Consulenze

Fabio Massimo Saldini, consulente regionale percepisce 70 mila euro per occuparsi di moda e design. Roberto Baiteri percepisce 70 mila euro per la promozione delle aree montane. Lionello Pagnoncelli che si occupa di relazioni con gli enti locali percepisce 70 mila euro. Roberto Ronza percepisce 84 mila euro per seguire le relazioni internazionali. Monica Guarischi, sorella del consigliere Luca Guarischi, decaduto nel 2009 per una condanna definitiva, guadagna 150 mila euro l’anno per tutelare i consumatori.

Monogruppi

Partito dei pensionati (Elisabetta Fatuzzo) e Gruppo Misto (Filippo Penati). Hanno a disposizione per le spese fino a 323 mila euro per la comunicazione, il funzionamento del gruppo e il personale, oltre 3110 euro lordi mensili di indennità, 2341 euro di diaria e 3525 euro di missione territoriale. Penati, nell’ultimo anno, avrebbe speso solo 300 euro. La sua segretaria personale Claudia Cugola, è stata assunta dal Pd.

Rimborsi chilometrici tout court

Il consiglio rimborsa le spese che i consiglieri sostengono per recarsi in assemblea «arrotonda per eccesso un quarto di litro al multiplo di venti chilometri». Il consigliere che parte da Monza in direzione Milano avrà diritto a un rimborso di trenta euro a prescindere dal mezzo di trasporto utilizzato.

VENETO

Fuori busta e assicurazione sul lavoro

Sono 2.100 euro fuori busta, 25.200 euro a testa a consigliere ogni anno. E’ quanto hanno percepito – secondo il Gazzettino – fuori busta i 60 consiglieri veneti a partire dal 22 marzo scorso quando l’ufficio di presidenza ha deciso di versare il rimborso forfettario per le spese dei consiglieri, direttamente al gruppo consiliare. La cifra è esentasse ed è prelevata dal fondo di riserva per le spese impreviste. 6 milioni e 785 mila euro è invece quanto costano gli stipendi e le indennità dei 60 consiglieri. Lo stipendio base di un consigliere veneto è 7607 euro, ma tra indennità, diaria e spese, superano quota 10.000 euro al mese. Ogni consigliere è assicurato contro gli infortuni sul lavoro. Costa della polizza: 19 mila euro annui.

Auto e motoscafo blu

307 auto blu di cui 28 con autista come si evince dal censimento voluto dall’ex ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta. Ridotte il mese scorso del 22 per cento. A disposizione del consiglio regionale veneto, ci sono anche dei motoscafi “blu” per favorire gli spostamenti in laguna. 95 mila euro è quanto viene speso per l’autorimessa dei consiglieri. 53 mila euro vengono destinati per pagare l’abbonamento nella rete autostradale veneta.

Spese regionali

Nel 2010 sono stati 7,8 milioni i fondi destinati a sagre, feste di paese per tutelare l’identità veneta. 1,1 milione di euro sono stati destinati a Pramaggiore e Portogruaro, collegio elettorale del leghista Daniele Stivàl. Per la solidarietà internazionale, da quanto riporta il rendiconto generale del 2009, sono stati 4 i milioni di euro stanziati. 12 milioni e 770 mila euro per servizi informatici e statistici. 310 mila euro le spese per convegni. 9.000 euro per un libro sull’asparago bianco di Cimadolmo. Quasi quindicimila euro per il libro sulla fienagione delle Dolomiti. Le missioni a Roma e Bruxelles sono invece costate alla Regione 55 mila euro.

TRENTINO

Alberghi fino a 255 euro a notte

Ogni consigliere della provincia autonoma di Trento percepisce 5.977 euro di indennità consiliare, 2.917 di diaria oltre a un’indennità giornaliera di 26 euro fino alle ore 18. Dopo le ore 19 sono 37 euro. A questi si aggiungono il rimborso spese per giungere alla Regione (un quarto di litro di rimborso). Il presidente Dellai percepisce pure un’indennità di carica di 3.530 euro: 12.364 euro lo stipendio totale. I consiglieri possono viaggiare per missioni istituzionali e politiche. La missione istituzionale viene pagata 82 euro ma deve superare le 4 ore a queste si aggiunge il rimborso spese chilometrico e la possibilità di pernottare in alberghi fino a 255 euro di spese. La missione politica viene pagata sempre 82 euro oltre rimborso chilometrico e la possibilità di pernottare in alberghi italiani fino a 181 euro di spesa.

Inglese per i consiglieri

46.704 è la parcella corrisposta a Federico Zapponi nel 2012 per progetti concernenti il forum Trentino per la pace e i diritti umani. 13.500 euro è il compenso che Isabella Bertino ha ricevuto nel settembre 2010 per corsi di docenza in lingua inglese. 800 euro è costato l’incarico affidato a Rolando Lucchi per una «perizia di stima per determinazione valore pianoforte antico proposto in donazione al Consiglio». 8.000 euro è stata pagata la consulenza di Alceste Santoni per «un’indagine sulla povertà e l’esclusione sociale in Trentino».

Beach volley sulle nevi

Il presidente della provincia di Bolzano, Luis Durnwalder è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire 2.400 euro per una manifestazione di beach volley svoltasi sui Prati del Talvera tra il 4 e il 6 luglio 2008.

MAGNA CASTA, IL CENTRO.

EMILIA ROMAGNA

Il consigliere ubiquo

Paolo Nanni, ex capogruppo in Regione dell'Idv, é indagato dalla procura di Bologna con l'accusa di peculato per la legislatura compresa tra il 2005 e il 2010. Nanni, che oggi é consigliere provinciale ma in Regione ha fatto lavorare moglie, figlia e un nipote, ha esibito fatture per 450 mila euro in cinque anni. Tra queste, conti di ristoranti e ricevute di taxi che documenterebbero la sua presenza, alla stessa ora, in zone diverse, ma anche locandine di convegni mai avvenuti.

I rimborsi spese della Lega

Sotto inchiesta anche Maurizio Parma, oggi vicepresidente della provincia di Piacenza ma fino al 2010 capogruppo in Regione della Lega Nord: al centro dell'indagine decine di fatture e rimborsi di viaggio per attività istituzionali che invece celavano spostamenti per esigenze personali e partecipazioni a convegni di partito. Nel fascicolo finisce anche una cena elettorale dove, nonostante la ricevuta prodotta a copertura dell'intero importo, i militanti leghisti avrebbero diviso il conto.

La residenza fittizia

Ad aprile la procura di Bologna ha chiesto il rinvio a giudizio per un altro ex consigliere regionale, Alberto Vecchi (Pdl), con l'ipotesi di truffa aggravata nei confronti dell'ente che rappresenta. Vecchi é accusato di aver fittiziamente spostato la sua residenza da Bologna a Porretta, in Toscana. In questo modo avrebbe ottenuto un rimborso chilometrico dalla Regione di 1344 euro al mese, e dal 2007, grazie ad un aumento, di 1464 euro. Il tutto dalla metà del 2006 alla metà del 2011, per un totale quindi di 76 mila euro circa. Per gli inquirenti Vecchi non visitava quasi mai l'immobile indicato come casa sua.

I soldi al fratello del governatore

Il procuratore capo Roberto Alfonso e il pubblico ministero Antonella Scandellari hanno chiesto il rinvio a giudizio del governatore Vasco Errani con l’accusa di falso ideologico per la vicenda del finanziamento, un milione di euro, erogato del 2006 dalla Regione alla cooperativa Terremerse presieduta da Giovanni Errani, suo fratello. Il finanziamento sarebbe servito per la costruzione di una cantina a Imola. Soldi ottenuti indebitamente, tanto che la stessa Regione ne ha chiesto poi la restituzione visto che al momento della scadenza del bando per quei fondi i lavori non erano ancora ultimati. A Errani non si contesta quel finanziamento ma l'avere, insieme a due funzionari regionali, dichiarato il falso in una relazione spedita in Procura nel 2009, a pochi giorni dall’uscita sui giornali della notizia del finanziamento. Il tribunale si pronuncerà sul rinvio all'inizio di novembre.

Le interviste a pagamento

Il caso esplode a fine agosto, con una terza inchiesta per peculato (dopo quelle su Idv e Lega), questa volta contro ignoti. Oggetto dell'indagine i contratti firmati da sette gruppi consiliari su otto con alcune tv locali che, in cambio di somme (in teoria da utilizzare per il funzionamento dei gruppi) ospitavano i politici nelle loro trasmissioni. Sull'episodio indaga anche la Corte dei conti emiliana, mentre l'ordine dei giornalisti ha aperto un procedimento disciplinare contro quattro suoi tesserati.

Terme, spiagge e trasferte fantasma

Viaggi inesistenti, trasferte fantasma mentre si trovava in ufficio (comprovate da falsi rimborsi spesa), escursioni alle terme di Fratta e puntate sulla spiaggia di Cesenatico con la Punto del Comune. Nel luglio 2011 la procura di Forlì ha indagato per peculato, falso ideologico e truffa ai danni della pubblica amministrazione l’ex sindaco del Comune di Loggiano, Sandro Pascucci.

ABRUZZO

Puntellamenti in eccesso

Presunti sprechi nelle attività di puntellamento di palazzi antichi danneggiati dal terremoto (appalti per 250 milioni di euro) a L’Aquila e in altri paesini. Secondo le indagini tuttora in corso della guardia di finanza alcuni puntellamenti potevano essere evitati.

Tutti lettori

Il Comune di Pescara spende per comunicazione e rappresentanza (pubblicazione di giornali, riviste, organizzazione di manifestazioni e convegni) 1.225 euro per ogni 100 abitanti.

Assessori viaggiatori

In un anno e mezzo la Provincia di Pescara ha speso 49 mila euro per le spese di viaggio di sei assessori: Valter Cozzi (Udc), Aurelio Cilli, Angelo D'Ottavio, Andrea Faieta, Mario Lattanzio (Pdl) e Roberto Ruggieri (Pescara futura).

Singolo consiglio, doppio gettone

Una piccola norma dello statuto consente ai consiglieri comunali pescaresi di incassare il gettone di presenza due volte per ogni consiglio: in prima convocazione, quando l’assemblea raggiunge raramente il numero legale di 12, ed in seconda adunanza. Così l’ente è costretto a pagare due volte i presenti ad entrambe le riunioni, anche se la prima e, talvolta, la seconda non si svolgono.

Più penne che in cartoleria

Chieti campione di sprechi fra i Comuni italiani per le spese di cancelleria e materiale informatico (secondo Siope): 14.971 euro ogni 100 abitanti per penne, matite e programmi per computer.

Vacanze (anche) sulla neve

Soldi pubblici usati per pagare vacanze (12mila), occhiali (duemila), attrezzi da palestra (6mila) e tute da sci (13mila). Quasi un milione di euro in due anni (2010-2011) secondo la procura. Sotto inchiesta per peculato Pasqualino Saccuti, ex dirigente dell’ufficio economato del Comune di Tortoreto. Con un bonifico online di 29mila euro partito dal Comune, sempre Saccuti, aveva acquistato un Suv coi soldi dell’ente. E’ stato condannato di recente a tre anni per peculato.

Ancora monogruppi

Il capogruppo dell’Udc in Regione Abruzzo, Antonio Menna, documenta 103mila euro di spesa tra cui 3.200 euro come “rimborso spese consiglieri”. Ma è l’unico consigliere di quel gruppo, un monogruppo di cui è capogruppo. In Ubruzzo su 12 gruppi consiliari ci sono sei monogruppi (Udc, Comunisti italiani, Api, La Sinistra-Verdi Sd, Rifondazione comunista, MpA).

UMBRIA

Illeciti rimborsi al poliziotto

I consiglieri comunali Fabio Biscetti (Pdl), Davide Tallarico (Città aperta) e Alessandro Chiappalupi (Gruppo Misto) sono finiti nel mirino della Corte dei Conti per illeciti rimborsi. Biscetti – secondo l’accusa – ha una residenza fittizia (600 euro mai incassati); Tallarico, appartenente alla Polizia di Stato, lavora a Roma ed ha incassato 1.500 euro non dovuti; a Chiappalupi, ex Pd arrestato per concussione tre anni fa, residente ad Orbetello, vengono contestati tremila euro di rimborsi.

Contachilometri difettoso

Il consigliere provinciale perugino Franco Granocchia (Idv) rosicchia qualche chilometro per il rimborso spese. Ne segna 30 dalla periferia di Ponte San Giovanni per arrivare a Perugia, diversamente da un collega vicino di casa che ne indica solo 20.

20mila euro per la montagna di Fidel

Ecco alcune spese relative al 2008 (governatrice Maria Rita Lorenzetti): 20mila euro per “protezione dell’ecosistema di montagna a Cuba”; 19mila euro per “Comunità di pace ed educazione Italia-Guatemala” con il supporto del Coordinamento Genitori Democratici del Comune di Amelia (Tr); 10.500 euro per “sport come coesione sociale e partecipazione attiva nei campi Sahrawi”. Dal sito della Regione spuntarono altre buffe iniziative: la conferenza “Diritti a Nairobi” organizzata con 9mila euro dal Comune di San Giustino; la “promozione dell’aggregazione giovanile sull’informazione e la sensibilizzazione sociale nella favela di Santa Marta a Rio de Janeiro” (14mila euro); 50mila euro per le “attività agricole del Politecnico di Thondwe in Malawi”; 19mila euro per le “microimprese delle donne in Burkina Faso”, 35mila euro per il “Capacity Building e il sostegno ai municipi palestinesi”; 20mila euro per la “costruzione di politiche pubbliche democratiche nelle favelas”.

La cricca in libreria e 7mila euro a cena

Il Pd umbro spende 320mila euro per 13 consiglieri. Mille per “spese varie”, tra cui acqua, caffè e libri come “La cricca” di Rizzo e “Il Tesoriere” di Agostini, 7 mila euro per le cene.

Telefonate e cartoline

Sandra Monacelli, unico membro dell’Udc, nel 2011 ha speso 96mila euro, di cui 67mila per il personale e 8mila per telefoni e francobolli, quasi 9mila per i manifesti. In una recente intervista ha dichiarato: “Il cittadino si accorge che certi emolumenti che percepiamo non corrispondono ad un’adeguata produzione, le nostre indennità sono ancora eccessive malgrado i ritocchi”. Ha ricevuto un finanziamento pubblico di oltre 67mila euro per i portaborse.

Indagata la stamperia

Il demone della stampa si è impossessato di Roberto Carpinelli, ex Pdci entrato con 99 preferenze nel monogruppo "Per l'Umbria, Catiusca Marini presidente": ha speso quasi 14 mila euro per "stampa manifesti pubblicitari" e 6.583 euro per "telefono, postali e cancelleria". Quanto i 12 eletti e assessori del Pd. Infatti la finanza sta indagando, su delega della Corte dei Conti, sulle sue spese. In più ha ricevuto un finanziamento di 63mila euro per i portaborse.

Aperitivo col procuratore, pranzo con Renzi

55 euro per l’aperitivo col procuratore Fumu, 118 per il pranzo col sindaco Renzi, mille per quello organizzato in occasione dell’arrivo di Varenne ai quali se ne aggiungono 800 per i gadget. Ecco alcune delle voci delle “spese di rappresentanza” sostenute dalla Provincia di Perugia nel 2011. Il presidente Marco Vinicio Guasticchi elenca 1.300 euro spesi durante la festa del patrono di Valfabbrica, quando è stata firmata l’intesa tra la municipale e la provinciale.

Una Regione turistica

L’Umbria distribuisce oltre un milione di euro (esattamente 1.299.860 euro) con un provvedimento del 15 luglio 2011 a favore del turismo enogastronomico, del turismo congressuale, del turismo a cavallo e dell’avioturismo. Fra gli altri spiccano i 500.000 euro per scoprire la “via di San Francesco” e i 60mila euro incassati dal “Consorzio delle residenze d’epoca” per il “tematismo ‘Emozioni dall’Umbria’”.

MARCHE

Un debole per l’arte

Dopo aver speso un milione e 785mila euro per ingaggiare Dustin Hoffman, che ha letto L’infinito di Leopardi con accento straniero e poi si è fatto fotografare negli 5th & Sunset Studios di West Hollywood, la Regione ha devoluto 45mila euro per il libro d’arte 12 poesie di Paolo Volponi figurate da Valeriano Trubbani. Un altro po’ di soldi anche alla festa della cipolla.

Dolci, vino, giubbotti in pelle e ricariche telefoniche

Articoli in pelle, abbigliamento, cassette di vino e dolciumi. E mille euro utilizzati per ricaricare il cellulare di una persona estranea all’amministrazione. Nel 2010 il presidente della Provincia di Macerata, Giulio Silenzi, era stato indagato dalla Corte dei Conti per spese ritenute ingiustificate pari a 30mila euro. Finirono sotto inchiesta anche l’ex capo di gabinetto della presidenza dell’ente e l’ex dirigente del settore risorse finanziarie.

Parcheggio a carico nostro

Consiglieri ed assessori regionali, senza perdere tempo e soldi, lasciano l’auto nel parcheggio più comodo del centro città e raggiungono l’ufficio a due passi. Un “servizio” che a noi costa 84mila euro. I politici che vivono (e lavorano) ad Ancona ottengono 390 euro al mese per la benzina, lasciando presupporre un via vai frenetico casa-Regione. Capitolo vitalizi: quattro milioni di euro l’anno per i 113 ex consiglieri.

Gare pilotate, inchiesta in corso

Indagati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta l’ex dirigente del dipartimento Difesa della costa della Regione, Vincenzo Marzialetti, e il funzionario dello stesso dipartimento Mauro Petraccini. L’inchiesta del Noe sui ripascimenti in varie località delle Marche riguarda interventi tra il 2004 e il 2011. Secondo l’accusa i funzionari regionali hanno pilotato le gare consentendo ad aziende amiche l’aggiudicazione dei lavori. Ai tredici indagati si aggiungono due geologi della Regione.

Furto all’ufficio caccia

Rubate marche da bollo nell’ufficio caccia della Provincia di Pesaro. C’è un’indagine in corso: secondo l’ente che chiede la restituzione del maltolto all’indagato Goffredo Pazzaglia (ex dirigente dell’ufficio) l’ammanco è pari a oltre 200mila euro.

LAZIO

Le cene

Le cene a due a base di ostriche francesi e champagne consumate in due occasioni da Andrea Bernaudo (Pdl) al ristorante “Ottavio” a Santa Croce in Gerusalemme costano agli italiani un totale di 315 euro. In tavola arrivano anche crudi di pesce, moscardini, fragolino al sale olio e pepe e vino Chardonnay. Ammonta invece a 9.600 euro il conto della cena da “Pasquino” offerta da Franco Fiorito il 22 luglio scorso e a 9.900 quella del 12 aprile del 2011. Nemmeno il Pd si fa mancare nulla, tanto che al ristorante “Pinzimonio” a Fiumicino, arriva a spendere 8 mila euro divisi in due fatture: una da 5.400 euro e una da 2.600 euro. All’agriturismo “Il Borghetto” di Fara Sabina, città d'origine del tesoriere del gruppo Mario Perilli, vanno 5mila euro; al ristorante La Foresta quasi 9 mila più altri 9.800 euro per un catering in occasione di un altro incontro.

Le feste

Per festeggiare degnamente il Natale di Roma, Carlo De Romanis (lo stesso del festino con le maschere da maiale) presenta al gruppo una fattura da 48mila euro per noleggiare il Teatro di Cinecittà e il set dell'Antica Roma. De Romanis sostiene di aver ritirato la richiesta, mentre Franco Fiorito giura di aver staccato l'assegno e che uno dei partecipanti alla festa, l'assessore al Bilancio Stefano Cetica, gli confidò di essere rimasto “disgustato” dall'evento.

Le vacanze

Tra le spese per vacanze extra-lusso ci sono due bonifici da 10mila e 19mila euro emessi da Franco Fiorito alla società “Sardegna Resort” proprietaria di un resort a 5 stelle a Porto Cervo in Sardegna. 3mila euro è quanto versato invece alla “Atlantide Srl” per una villeggiatura sul mare di Monopoli in Puglia.

Vini e cravatte

Giancarlo Miele (Pdl) spende 1.200 euro per dieci cravatte acquistate da “Marinella”, una sciarpa di lana e un borsello porta documenti. A dicembre del 2010 il conto presso l' “Enoteca Trucchi”, in via Cavour, arriva a 784 euro tra bottiglie di champagne Taittinger e Paul Georg, Brunello, Primitivo, Satrico e Shiraz. Fa di meglio il Pd che nel 2011, “per spese di rappresentanza di Natale”, stacca un assegno da 4.500 euro all’ “Enoteca Tuscia” per pacchi regalo, vini e altro, donati dal consigliere Giuseppe Parroncini ad amministratori locali, direttori di giornali e testate varie. Sempre per farsi rappresentare a Natale, il Pd spende 432 euro in biglietti di auguri, 82,38 euro in “cartoleria e stampati vari per feste natalizie”, 679,39 euro per “stampati vari auguri di Natale”, 975 euro per “spese di rappresentanza feste natalizie”, 252 euro per “composizioni di rappresentanza”, 2.200 euro in cesti natalizi commissionati all'enoteca “Gusto Divino” e 26,40 in non meglio specificate esigenze di “rappresentanza natale”. Spese a cui devono aggiungersi i 2.420 euro destinati, il 19 dicembre 2011, alla stamperia “Art Graf” di Civita Castellana (Vt) per 100 volumi sulla Chiesa della Madonna delle Grazie di Capranica (Vt) regalati poi non si sa a chi. Insomma, in totale il Natale del Pd è costato agli italiani la bellezza di 11.567,17 euro. Auguri.

I regali e gli arredi

Tra litografie, cartoline e stampe di pregio, Franco Fiorito spende al negozio galleria “L'image” di via della Scrofa circa 4mila euro. Altrettanti, il 23 febbraio 2011, da “Pineider”, molto più di una semplice cartoleria, per quanto sia la più famosa di Roma. Una borsa “Gucci” acquistata in via Condotti è costata invece agli italiani 515 euro, 50 euro un mazzo di fiori, 600 l'arredamento di un bagno presso “Ceramiche Appia Nuova”. Sul conto dei contribuenti finiscono anche 95 euro di acquisti presso il supermercato “Pam Aurelia”, 81 euro spesi alla “GS” di Anagni e altre centinaia di euro per tappe ai supermercati Auchan e Panorama. Per rifare il look alla sede di rappresentanza della Giunta regionale di p.zza Goldoni, nei pressi di via del Corso, vengono spesi 45mila euro in arredi di lusso.

I servizi fotografici

La presidente della Commissione Cultura Veronica Cappellaro (Pdl) chiede e ottiene il rimborso di un servizio fotografico effettuato presso lo studio “Luxardo” costato ai contribuenti 1.080 euro. Sempre a lei risultano intestate una fattura da 17mila euro per una cena da “Pasqualino al Colosseo” e un'altra da 8.800 euro per un banchetto al “Bar Martini”. La Giunta regionale paga 60mila euro alla società “Immag&Azione” (da cui si sarebbe formalmente dimesso il fotografo personale di Renata Polverini, Edmondo Zanini, assunto in Regione con un contratto da 75mila euro lordi all'anno, circa 4mila netti al mese) per la realizzazione di servizi fotografici, video e di 2mila calendari. Una passione, quella per i calendari, che travolge anche il Pd pronto a spendere 2.500 euro per 500 calendari, scaricabili on line, commissionati all'associazione culturale “iTusci”.

Le ospitate televisive

Nell’allegato alla Delibera del 13 giugno 2010, il presidente del Consiglio Mario Abbruzzese firma l’elenco di tutte le emittenti radiotelevisive e dei giornali che devono ricevere soldi dalla Regione. Su 32 tv locali, 9 hanno la propria sede in Ciociaria, zona di bacino elettorale sia di Abruzzese che di Fiorito.Ecco allora 120mila euro a “Telesia”, 90mila a “Media work” e 20 mila alla “Gazzetta di Cassino”. Nella terra di Francesco Battistoni “Tuscia web” ottiene 10mila euro. Altrettanto “Telecentro Lazio”, una tv di Rieti cara a Lidia Nobili 8Pdl) che fa confluire a due tv reatine 111mila euro dai fondi per le spese elettorali. Anche il Pd non bada a spese quando si tratta di comparire in tv: 2.954 euro a “Tele Rieti”, 41mila alla tv del Basso Lazio “TeleUniverso” e 4.840 euro a “Tuscia web”. Quasi 8mila gli euro destinati all’A.g.t.i, agenzia giornalistica televisiva italiana per “riprese televisive anno 2010”, altri 12mila euro alla stessa agenzia per “riprese e servizi televisivi messa in onda su rete oro e canale 926 Sky.

Eventi e convegni

Lidia Nobili riceve 150mila euro per finanziare una serie di eventi nella sua città natale, Rieti, realizzati dalla società reatina “Lallaria”. La neo capogruppo Pdl Chiara Colosimo ottiene invece 34mila euro complessivi per due convention presso l'Auditorium della Conciliazione. Il 10 agosto del 2011 il Pd paga alla società “Cianfrocca” 5mila euro per stampati relativi al convengo “L'agricoltura per il rilancio dell'economia della Regione Lazio”. Peccato che, né spulciando il rendiconto del partito né consultando internet, si trovi traccia dell'evento.

Auto e benzina

L'acquisto della “Smart” di Franco Fiorito costa ai contribuenti 16.339 euro, quello del “Suv Bmw” 88mila. La somma dei buoni benzina da 10 euro ciascuno arriva invece a 48mila euro. In totale, nel 2011, il consiglio regionale del Lazio ha speso circa 370 mila euro per i rimborsi chilometrici, in teoria 440 euro a testa per ciascun consigliere regionale. Ma dal momento che in 27 non ne hanno diritto in quanto dotati di auto blu e che Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi, Luigi Nieri, Sel, e 7 componenti del Pd ci hanno rinunciato, gli stessi soldi risultano da dividere non più per 70 ma per 44. Risultato 700 euro a testa. Tra gli altri benefit anche telepass, viacard e permesso per l'accesso al centro storico di Roma che costa circa 500 euro l'anno.

Le spese funebri

Anche i servizi funebri di cui si avvalgono i partiti finiscono in conto ai contribuenti. In questo caso è il Pd a commissionare alla “Fioreria Casuccio” un cuscino di fiori da 160 euro e composizioni funebri per altri 850 euro divisi in due fatture. Le corone di fiori per il defunto consigliere Mario Di Carlo, morto il 25 aprile 2011, costano invece 1.155 euro.

I misteriosi fortunati

Ancora non identificati gli intestatari delle carte di credito ricaricate con 188mila euro e i beneficiari dei 235mila euro prelevati in contanti dal conto del gruppo Pdl.

Le fatture false e quelle taroccate

La fattura da 1.275 euro (2.400 con Iva) emessa dalla società “Majakovsij Comunicazione” di Viterbo subisce in casa Pdl un ritocco che la porta a 12mila euro; un'altra da 15mila euro risulta invece totalmente falsa. Con l'aggiunta di un 1 davanti al 3, diventano invece 13mila i 3mila euro fatturati dalla società pubblicitaria “Panta”.

Arte e tecnologia

Dall'inventario allegato al consuntivo 2011 del Consiglio regionale emergono acquisti a prezzi del tutto fuori mercato. Il caso più eclatante è relativo a un IPad per cui sono stati spesi 1.759,20 euro, più del doppio del valore di listino. Ci sono poi i monitor, modello Asus led, da 19 pollici pagati 210 euro l'uno contro 80, gli scanner Hp scanjet 1000 da 324 euro contro 200 e uno stock di stampanti Oki B431DN da 390 euro ciascuna contro 245,39. Risultano anche 32 quadri d'autore, ma senza l'indicazione del nome degli autori, pagati circa 900 euro ciascuno e divani a due posto in ecopelle da 1.160 euro l'uno.

Le spese per gli “amici”

In occasione delle scorse elezioni amministrative di Ceccano (Fr) vinte dal centrosinistra, l'associazione “Stella per la Gente” dell'ex candidato sindaco Angelino Stella, che si presenta in competizione con il Pdl, riceve direttamente da Franco Fiorito 10mila euro. Il 7 maggio scorso Pierluigi Boschi, cugino e segretario dell'allora capogruppo Franco Fiorito, autorizzato a operare sui conti corrente Pdl presso la filiale Unicredit che si trova alla Pisana, firma un bonifico a se stesso da 2.288 euro. Analoga operazione il 28 giugno per un importo pari a 2.289 euro. Tra ottobre 2011 e gennaio 2012 Samantha “Sissi” Reali, ex fidanzata di “Er Batman” riceve quattro buste paga da 2mila euro netti ciascuna. Esclusi i rimborsi. Mireille Lucy Rejior, compagna del padre di Batman e incaricata di occuparsi delle sue tre ville di Tenerife, è destinataria, tra marzo e giugno scorsi, di cinque bonifici: due da 5mila euro ciascuno e altri tre da 20mila euro in tutto. Anche Maria Puzone, parente di Romolo Del Balzo (Pdl), si mette in tasca 1.600 euro. E' lei infatti la beneficiaria di due assegni da 800 euro ciascuno emessi all'inizio di luglio a una settimana di distanza l'uno dall'altro.

I favori agli “amici”

Grazie al comma 153 del maxiemendamento presentato dalla maggioranza all'assestamento di bilancio 2011 che prevede la riapertura dei termini per il condono edilizio, il senatore Pdl Claudio Fazzone, ex guardia del corpo di Nicola Mancino, può sanare l'abuso relativo alla sua villa di 900 mq e due piscine a Fondi (Lt). Mentre la Regione taglia quasi 2mila posti letto e chiude 20 ospedali nel Lazio, Antonio Angelucci, senatore Pdl, re delle cliniche private, ottiene dalla Giunta Polverini il salvataggio della sua clinica San Raffaele a Montecompatri (Rm) e il travaso di 225 posti letto dalla struttura di Montecompatri a quella di Velletri (Rm), sempre di sua proprietà. Per volere dell'assessore regionale allo Sport Fabiana Santini, viene esteso alle strutture sportive private il contributo massimo di 30mila euro destinato a quelle pubbliche per la messa in sicurezza degli impianti. Tra i beneficiati la palestra dell'hotel Hilton all'aeroporto di Fiumicino - che ottiene 15.200 euro - e due centri “Dabliù” di proprietà della famiglia dell'ex presidente di Confcommercio Cesare Pambianchi (arrestato nel 2011 per associazione per delinquere finalizzata alla bancarotta ed evasione fiscale) che ottengono 22.800 euro ciascuno.

Mister Preferenze

Il 13 luglio scorso finiva agli arresti domiciliari Samuele Piccolo, vice presidente Pdl del consiglio comunale di Roma, detto “mister preferenze” per essere stato il più votato (12mila preferenze) alle elezioni amministrative del 2008. Piccolo è accusato dalla Procura della Capitale di aver gestito insieme ad altre persone, tra cui i suoi familiari, “fondi occulti per un valore di 250-350 mila euro al mese” e di aver illecitamente finanziato le sue campagne elettorali con i fondi destinati ai partiti. Oltre ad aver tappezzato Roma di centinaia di manifesti, Piccolo avrebbe utilizzato 122mila euro per allestire un call center con 268 operatori che per 8 ore al giorno effettuavano contemporaneamente 12 chiamate all'ora per invitare i cittadini alla sue cene elettorali. Sempre a carico dei contribuenti, Piccolo avrebbe speso 20mila euro per tredici cene svolte al ristorante "Ar Montarozzo", 13mila euro al ristorante "I ruderi", 25mila euro per quattordici incontri a "Le Grotte Vere" e oltre 10mila per altre sette cene a "La Piemontese". Due settimane dopo lo scoppio dello scandalo, il 2 agosto i carabinieri lo arrestano di nuovo con il padre e la madre in flagranza di reato all'interno della villa di Zagarolo dove stanno tutti scontando i domiciliari. Questa volta a presentare denuncia è l'Enel: Piccolo e famiglia avrebbero infatti manomesso il contatore della luce e rubato per anni migliaia di euro di elettricità.

Parentopoli

L'ultimo capitolo della saga riguarda l'assunzione all'Atac della moglie dell'assessore comunale all'Ambiente Marco Visconti. Parlando al telefono con il consigliere Francesco Maria Orsi, indagato in un altro procedimento per associazione per delinquere e truffa per aver guadagnato un milione e 200mila euro da un progetto edilizio e una vendita di immobili mai realizzati, Visconti avrebbe confessato di aver raccomandato l'allora compagna Barbara Pesimena. Nonostante dal suo curriculum risultino solo un diploma in ragioneria e qualche esperienza come responsabile casse in alcuni negozi di abbigliamento, la Pesimena entra nell'azienda pubblica di trasporti come “capo della gestione eventi sanitari” con uno stipendio di circa 70mila euro l'anno. Tra le assunzioni “a chiamata diretta" da parte dell'azienda municipalizzata sollevarono scandalo quelle degli ex Nar Francesco Bianco e Gianluca Ponzio, della ex cubista Giulia Pellegrino e di alcuni parenti dell'ex ad di Atac Adalberto Bertucci (tra i quali il genero Patrizio Cristofari, diventato dirigente). Per selezionare il proprio personale il Comune di Roma ha speso dal 2004 1.855,249 euro di cui 800mila nel solo triennio tra il 2008 ed il 2010. Tra le società cui si affida il Campidoglio per fare le assunzioni tre di queste non risultano nemmeno accreditate. Si tratta della “Mida Spa” che nel 2008 riceve 23mila euro, la “Coritecna” che ne ottiene 27.600 nel 2009 e la “Asset Mgmt” che ha avuto 19mila euro nel 2006.

Monumento a Graziani

Per realizzare il sogno del sindaco di Affile (Rm), Ercole Viri, di fare della suo paese la Predappio del Lazio, la Regione ha detratto dai fondi pubblici 180mila euro per realizzare un mausoleo dedicato al gerarca fascista Rodolfo Graziani. L'inaugurazione si è svolta, tra le polemiche e le critiche espresse dalla stampa di mezzo mondo, l'11 agosto scorso alla presenza degli assessori regionali Francesco Lollobrigida e Teodoro Buontempo. Anche la giunta Marrazzo, però, finanziò nel 2008 un parco dedicato a Graziani, questa volta a Filettino (Fr), terra d'origine del generale noto anche come “il macellaio d'Etiopia”.

La Befana di Buontempo in auto blu

Il 6 gennaio scorso l'assessore regionale per la Casa Teodoro Buontempo parte con moglie e figlia da Montecompatri (Rm) diretto a Perugia. Ci va con l'auto blu guidata dall'autista e pagata dai contribuenti in ragione del suo incarico istituzionale. Interpellato in merito a un uso così poco istituzionale del benefit, “Er pecora” risponde: “devo vedere delle persone con le quali devo parlare di lavoro”.

Le Olimpiadi mancate

La commissione regionale speciale sulle Olimpiadi di Roma 2020, sciolta solo recentemente, è costata in tutto 1 milione di euro e si è riunita appena tre volte: la prima per eleggere il presidente Romolo Del Balzo, la seconda per decidere di convocare il membro del Cio Mario Pescante, la terza per parlare con Mario Pescante.

Le auto blu al Comune di Roma

Auto blu e autisti a Roma non si negano a nessuno. Ne beneficiano i segretari del sindaco, il capo dell'ufficio stampa, il capo di Gabinetto e tutto lo staff, il vice segretario generale, il capo del cerimoniale, tutti gli assessori, il presidente e i due vice presidenti dell'Assemblea capitolina, i due segretari d'Aula, tutti i capigruppo, tutti i presidenti di municipio, tutti i direttori di municipio, il direttore esecutivo e tutti i direttori e segretari dei dipartimento. Per un totale di 109 mezzi e 137 autisti che sommate alle 226 auto prese a noleggio e alle 117 utilizzate per funzioni operative, tra noleggio, carburante e stipendi costano ogni anno 17 milioni di euro.

Dati su vitalizi alla Regione Lazio

La Regione Lazio spende ogni anno oltre 16 milioni di euro per pagare i vitalizi ai 220 ex presidenti, assessori e consiglieri che ne hanno diritto e che hanno cominciato a beneficiarne appena hanno compiuto i 50 anni (55 se si vuole evitare una piccola decurtazione). Sciolto il Consiglio, i 71 consiglieri (compreso Franco Fiorito) e 14 assessori, dopo poco più di 2 anni, otterranno un assegno a vita pari a 3.300 euro al mese. Per riscattare gli anni mancanti alla fine della legislatura basterà loro pagare 38mila euro, ossia 1.594 euro per ogni mese da riscattare. Ma considerato che ogni eletto alla Pisana godrà di una liquidazione di circa 25mila euro, resta da sborsare solo una piccola differenza.

MAGNA CASTA, IL SUD.

CAMPANIA

Le spese dei gruppi

Al momento nel registro degli indagati è iscritto un solo nome, quello del capogruppo regionale dei Popolari-Udeur, Ugo de Flaviis, ma tutte le spese dei nove gruppi consiliari della Campania, negli ultimi cinque anni, dal 2008 al 2012, sono al vaglio del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Napoli. Si ipotizza il reato di peculato. In particolare i militari stanno verificando gli atti riguardanti le somme stanziate per il funzionamento, il fondo comunicazione e l'assistenza istituzionale. Le tre voci hanno portato, l'anno scorso, a una spesa complessiva di poco inferiore ai 4,5 milioni di euro, in diminuzione rispetto al 2010. L'inchiesta è condotta dal pm Giancarlo Novelli, in forza al pool guidato dal procuratore aggiunto Francesco Greco, ma anche la Corte dei Conti ha aperto un'indagine. L'obiettivo è quello di accertare, attraverso la rendicontazione, se una parte dei fondi sia stata utilizzata per fini personali. Conti correnti e bonifici all'esame.

I patrocini

Anche la promozione culturale in Campania finisce sotto inchiesta: i patrocini potrebbero nascondere, almeno nell'ottica degli investigatori, scopi di natura clientelare. Tecnicamente, si chiamano "fondi di compartecipazione", è un'altra voce dei capitoli di spesa che potrebbe passare al vaglio degli inquirenti. Il 25 settembre 2012 la visita dei militari della Guardia di Finanza e l'incontro con i responsabili dell'ufficio ragioneria del Consiglio della Regione Campania. Questo filone di indagine, però, è ancora alle battute iniziali. Tutto da approfondire.

I sondaggi elettorali

Cinquemila euro spesi in sondaggi per le ultime elezioni comunali a Napoli: il consigliere regionale dell'Udeur-Popolari, Ugo de Flaviis, al centro dell'inchiesta della Guardia di Finanza, 24 ore prima della bufera, ha illustrato a Panorama il suo "rendiconto personale". Il suo budget di 1150 euro al mese, per tutto il 2011, è stato così utilizzato: circa 1000 euro nell'anno per spese quotidiane di segretaria, “dal caffè all'acqua, varie cose, piccole spese”; 600 euro circa per i manifesti; 6000 euro in totale per i contributi a due segreterie sul territorio. E poi 5000 di sondaggi per le elezioni nel 2011: "E sono ancora debitore. Una scelta non personale", ha detto De Flaviis, "ma di supporto all'attività del gruppo. Di sostegno al partito e al gruppo. Io non sondo il mio nome".

L'assunzione dell'ex cognata

Nel ciclone anche perché avrebbe fatto assumere l'ex moglie del fratello, il capogruppo regionale dei Popolari Udeur, Ugo De Flaviis,nel luglio scorso è stato destinatario di una perquisizione, a casa e nella sede di lavoro nel Palazzo del Consiglio, disposta nell'ambito di un'inchiesta per corruzione e abuso d'ufficio con riferimento ai presunti rapporti con degli imprenditori e, appunto, all'assunzione come telefonista della sua ex familiare. Un'ipotesi investigativa è che la scelta di contrattualizzare l'ex cognata, da parte di una società di elaborazione dati, sia stata irregolare. Durante la perquisizione, la Guardia di Finanza ha sequestrato alcuni computer e documenti anche attinenti ai rapporti con gli amministratori amministratori dell'Arpac multiservizi srl, al fine di chiarire ipotetici "poteri di interferenza" di De Flaviis sulla società, secondo la tesi accusatoria, "non riconducibili al ruolo ufficiale di consigliere regionale". Di quest'inchiesta il fascicolo sulle spese dei gruppi consiliari della Regione Campania costituisce uno stralcio.

Le trasferte inesistenti

Nei giorni scorsi è partita la citazione della magistratura contabile per due consiglieri regionali (della precedente legislatura) che erano coinvolti nell'inchiesta penale sui rimborsi chilometrici forfettari, fino a luglio scorso previsti per gli eletti residenti fuori Napoli. Pietro Diodato (già condannato alla pena di un anno e sei mesi per disordini elettorali, decaduto dal consiglio regionale nel 2010) aveva dichiarato di abitare a Minturno e ricevuto un rimborso di 1158 euro al mese per più di un anno, ma i vigili di quel Comune avevano poi fatto sapere di non averlo mai visto. La magistratura contabile ora pretende che restituisca ventimila euro. Quasi seimila euro, la cifra richiesta all'altro ex consigliere Luciano Passariello (primo dei non eletti nell’ultima tornata) che aveva dimenticato di informare gli uffici regionali di aver cambiato residenza da Sant’Anastasia a Napoli, e quindi di non aver più diritto al rimborso chilometrico. In totale, dal 2007 al luglio 2012 la Regione ha speso più di 370mila euro all’anno per finanziare questa voce di bilancio che è poi stata eliminata.

CALABRIA

La residenza sull'altra sponda dello Stretto

Secondo gli inquirenti, il consigliere regionale Pasquale Maria Tripodi (in questa legislatura eletto con l'Udc, ha poi aderito al Gruppo misto) avrebbe dichiarato di essere residente a Messina (e non a Reggio Calabria) per ottenere una quota più alta dei già consistenti rimborsi previsti nel “contratto di lavoro” degli eletti a Palazzo Campanella, e avrebbe mantenuto per anni la propria residenza sull'altra sponda dello Stretto, in Sicilia, pur vivendo e svolgendo la propria attività in Calabria. Se si consulta il sito internet della Regione Calabria, il politico ora risulta abitare a Reggio, ma è notizia del 28 agosto che sulla vicenda indaga la procura.

Il concorso fantasma per assicurarsi un posto nella "casta"

Il consigliere regionale della Calabria Antonio Rappoccio (Pri- Gruppo Scopelliti presidente) è stato arrestato il 28 agosto scorso dalla Guardia di Finanza ed è ancora detenuto con l'accusa di associazione a delinquere, truffa e voto di scambio: avrebbe messo in piedi un meccanismo di «concorsi fantasma» con lo scopo di conquistare, alle elezioni del 2010, i voti di molti giovani reggini in cerca di lavoro. Le prove scritte finalizzate a un’ipotetica assunzione nell’ambito della gestione del fotovoltaico, erano state addirittura eseguite, chiaramente prima delle consultazioni regionali che al politico avevano consentito di assicurarsi un posto nella "casta". Della prova orale, invece, non è stata trovata traccia. Solo Rappoccio è tornato a far sentire la sua voce dopo un mese trascorso in cella: per lamentare le condizioni di detenzione.

Il tesoretto di Loiero

Lasciato il Pd, l'ex governatore Agazio Loiero, presidente e unico componente del gruppo consiliare Ad, Autonomia e Diritti, si è ritrovato a gestire 335.186 euro, di cui 212mila di riepilogo trattenute collaboratori, quindi oltre 120mila euro netti. La cifra globale si riferisce all'intero contributo nelle disponibilità del gruppo che, in origine, era formato da diversi quattro componenti. Da settembre 2011 è rimasto però soltanto Loiero che ha ereditato il "tesoretto" e, nelle funzioni di capogruppo, ha puntualizzato di aver “consumato” 77mila euro.

Il libro da 140mila euro

Il presidente del consiglio regionale calabrese Franco Talarico ha celebrato la propria attività istituzionale con il libro «Il senso delle scelte compiute»: 65 foto, 125 pagine. La spesa? 140 mila euro. Talarico, eletto per la terza volta consecutiva nella lista dell'Udc, alle critiche ha risposto così così: «Qualcuno potrebbe pensare che abbia un book fotografico come quelli che usa fare Belen Rodriguez. In realtà, in quel piccolo volume che abbiamo abbinato al quotidiano che vende di più in Calabria, non abbiamo dato l’immagine di Talarico ma l’immagine bella della Calabria. Abbiamo fatto un’informazione sull’attività portata avanti in questo Palazzo. Noi abbiamo valutato che era un messaggio importante». Conclusione: «Parlare sempre in negativo della Calabria, cercare a tutti i costi il gossip, non fa bene ai cittadini di questa regione».

BASILICATA

I rimborsi auto indebiti

Quattro gli indagati rinviati a giudizio con le accuse di falso e truffa nell’ambito dell'indagine sulle spese dei consiglieri regionali della legislatura precedente: l'allora presidente dell’assemblea lucana Prospero De Franchi (Federazione popolari di centro) con i due vicepresidenti Franco Carmelo Mario Mattia (Pdl) e Giacomo Nardiello (Pdci), e Franco Mollica (Centro popolare). L’accusa è che abbiano incassato i rimborsi chilometrici previsti per chi non è di Potenza indebitamente perché, in realtà, i quattro risiedevano nel capoluogo e non nei comuni dichiarati. Al via con il pm Herni Wookcock, l'inchiesta risale al 2009. L'anno dopo, nel 2010, Mollica, con l’Mpa, e Mattia, con il Pdl, sono stati rieletti.

La carica dei monogruppi

Nove gruppi su dodici in Basilicata sono composti da un solo consigliere regionale. Ciò significa costi della politica più alti, anche se legali. I "single" che rappresentano un partito ciascuno sono Alessandro Singetta (Api), Rocco Vita (Psi), Luigi Carmine Scaglione (Popolari Uniti), Giannino Romaniello (Sel), Agatino Lino Mancusi (Udc), Francesco Mollica (Mpa). Il consigliere regionale Alfonso Ernesto Navazio è invece presidente di Ial, Io Amo la Lucania, e il suo collega Roberto Falotico alla guida di Plb, "Per la Basilicata". Alla fine, persino nel Gruppo misto c'è un unico rappresentante del popolo: Vito Gaudiano. Un ossimoro.

I manifesti di condoglianze

Tra le voci di spesa del gruppo consiliare dell'Api, spuntano i manifesti di condoglianze al presidente della giunta regionale, Vito De Filippo (ad aprile 2011, in occasione della morte del padre). Sono costati 250 euro, il dettaglio è inserito nel rendiconto dell'anno scorso presentato da Alessandro Singetta, unico componente di Alleanza per l'Italia nell'assemblea della Regione Basilicata. Il documento il 10 luglio 2012 è stato approvato con una specifica delibera che rivela anche i costi complessivi sostenuti. Le somme, nei dodici mesi, hanno di poco superato i 27mila euro, di cui 1500 euro in "pasti e ristorazione, rapp. gruppo" segnati in uscita il 3 agosto 2011.

Libri nel giorno di San Silvestro

Il consigliere regionale Rocco Vita (Psi) il 31 dicembre ha annotato 609 euro in riviste e libri.

I viaggi

"Viaggi per le attività del gruppo": due in dieci giorni, dieci in totale in un anno, la maggior parte concentrati in primavera. Quasi cinquemila euro (esattamente 4.700) di spese annotate dal presidente (e unico componente) Roberto Falotico. Cifre e date registrate nel dettaglio nel rendiconto del gruppo "Per la Basilicata" che è stato approvato all'unanimità con una delibera regionale. I costi sono i seguenti: 638,24 euro il 4 aprile; 596,83 il 23 aprile; 419,63 il 10 maggio; 399,63 il 19 maggio; 433,17 il 1 giugno; 480,17 il 16 giugno; 403,29 il 7 luglio. Ancora, dopo l'estate: 452,74 euro il 29 settembre; 413,01 il 28 ottobre; 500,55 il 1° dicembre. A queste spese, tre le singole operazioni più consistenti, si aggiungono 2420 euro indicati il 7 novembre per "informazione sulle attività del gruppo".

PUGLIA

I documenti falsi

Dopo quattro mesi di detenzione (agli arresti domiciliari), è tornato libero l'imprenditore Gerardo Degennaro, che è anche consigliere regionale in Puglia. Ma al politico che si è autosospeso dal Pd è stata comunque applicata l'interdizione per due mesi dagli uffici: è accusato di frode in pubbliche forniture, falso e corruzione nell'ambito dell'inchiesta sul presunto malaffare nelle opere pubbliche realizzate dalla Dec a Bari dal 2004 ad oggi, in particolare due parcheggi interrati nel centro di Bari. Degennaro a gennaio scorso era già stato iscritto nel registro degli indagati della procura di Bari, per un'altra vicenda, con riferimento a una tentata truffa ai danni delle casse pubbliche. Una delle sue società avrebbe chiesto finanziamenti non dovuti, sulla base di documentazioni false: nella domanda di partecipazione al bando, nel maggio del 2003, sarebbero stati "riportati fatti non corrispondenti al vero" e altri atti alterati.

I biglietti del concerto

Il consigliere regionale del Pd Filippo Caracciolo, quando era ancora presidente del consiglio comunale di Barletta, avrebbe preteso circa 50 di biglietti omaggio per il concerto di Renato Zero, che si tenne il 20 ottobre del 2009 al palazzetto dello sport della città pugliese. I ticket, in realtà, non furono mai rilasciati, ma a seguito di una precisa denuncia il magistrato della procura di Trani ha aperto un fascicolo di inchiesta con l'ipotesi di reato di tentata concussione. L'indagine preliminare che non riguarda solo Caracciolo si è chiusa con la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza davanti al gup è fissata per il 13 novembre. "Sono sereno. Ho fiducia nella magistratura e sono certo che presto verrà accertata la mia più totale estraneità ai fatti contestati" ha detto il consigliere.

Al picnic con l'auto blu

L'auto di servizio della Regione Puglia utilizzata in maniera "impropria e temporanea": per questo, il dirigente regionale Domenico Campanile è stato sospeso per due mesi dal servizio. La sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato lo stop obbligato dal lavoro è del 30 maggio scorso. La storia, invece, inizia nel 2010, quando la procura di Bari avvia accertamenti a carico del dirigente della Regione, in forza presso l'assessorato alle risorse agroalimentari, settore foreste. Si ipotizza il reato di peculato. Campanile, con l'auto blu, viene "sorpreso - scrive la Cassazione nel provvedimento - a scaricare dall'auto buste e pacchi della spesa davanti all'abitazione dei genitori e si è recato il giorno di Pasquetta presso la foresta di Mercadante in compagnia di parenti e amici per fare un picnic in luoghi che nulla hanno a che fare coni suoi compiti istituzionali".

SARDEGNA

Peculato diffuso

l 26 settembre 2012 il pubblico ministero di Cagliari ha chiesto il rinvio a giudizio per 18 consiglieri regionali sardi della passata legislatura per peculato. Ossia per l’utilizzo a scopi personali di quasi un milione e 900mila euro ricevuti per l’attività istituzionale e politica dei gruppi consiliari “Misto” e “Insieme per la Sardegna” di cui gli indagati facevano parte. I fatti risalgono al 2004-2008. L’inchiesta coinvolge diversi schieramenti, da destra a sinistra. Tra gli indagati figurano nomi di spicco della politica regionale e assessori attualmente in carica nella Giunta di centrodestra guidata da Ugo Cappellacci. Tra questi: l’eurodeputato Giommaria Uggias (Idv), l’attuale assessore regionale agli Affari Generali ed ex presidente della Regione, Mario Floris (Uds), l’attuale assessore dell’Agricoltura, Oscar Cherchi (Pdl), l’attuale sindaco di Porto Torres ed ex assessore regionale alla Cultura, Beniamino Scarpa (prima Psd’Az, poi Pd). Silvestro Ladu, senatore Pdl, è invece stato rinviato a giudizio lo scorso giugno con l’accusa di aver utilizzato indebitamente circa 250 mila euro. Secondo l’accusa, una parte di quei fondi sarebbero stati utilizzati per saldare le bollette telefoniche del proprio studio legale, del carrozziere o addirittura per pagare la donna delle pulizie. Da sottolineare che l’indennità dei consiglieri regionali sardi si aggira intorno ai 15mila euro mensili. Tra gli indagati c'è chi si proclama semplicemente innocente, chi si chiede perché non si indaga anche sugli altri gruppi consiliari e chi sostiene che per certi tipi di attività non è richiesta la documentazione delle spese, anche se si tratta di soldi pubblici. Come dire: in Sardegna funziona così.

SICILIA

In viaggio con l’auto blu

Nell’ultima legislatura sono stati 24 su 90 i consiglieri regionali indagati. Oltre al presidente dimissionario Raffaele Lombardo accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Tra i casi grotteschi: Giuseppe Buzzanca, consigliere del Pdl e sindaco di Messina che ha una condanna definitiva per peculato (aveva utilizzato, da presidente della provincia di Messina, l’auto blu fino a Bari per imbarcarsi e andare in crociera). Salvino Caputo, (Pdl) è stato indagato per abuso d’ufficio. Da assessore al comune di Monreale avrebbe cercato di far cancellare una multa all’autista del vescovo.

Divieto di residenza ma indennità

Gaspare Vitrano consigliere eletto nel Pd. E’ accusato di aver intascato nel 2011 una tangente da 10.000 euro per favorire alcune concessioni nel settore fotovoltaico. Il tribunale del Riesame aveva vietato a Vitrano di risiedere in Sicilia. Reintegrato nella carica per una disposizione del commissario dello Stato, Vitrano, ha percepito l’indennità di 5.101 euro al mese. Da deputato aveva diritto anche alla diaria (nonostante il divieto di recarsi in aula) di 3.500 euro mensili decurtati di 244 euro per ogni assenza.

Orologi regionali

Tra le spese regionali: 8.768 euro per acquistare orologi con logo della Regione siciliana. 568 euro per bandierine della Cina e della Libia. 15.368 per spese forniture Pasqua 2012. 3150 euro per l’acquisto di 100 copie del libro “Per Licodia Eubea”. Nel rendiconto dell’Ars del 2011 sono stati spesi 116 mila euro per “lo svolgimento della riunione parlamento del mediterraneo”. 722.440 euro per “servizi igienici, disinfestazione e smaltimento rifiuti, generi per barberia”. 750 mila euro per la rappresentanza e il personale. 360 mila euro sono stati spesi per comprare le divise di 160 commessi dell’Ars.

Rimborso spese per percorrere Palermo-Palermo

I consiglieri regionali hanno diritto a un rimborso spese per i trasporti pari a 15.979 euro per una distanza residenza-sede superiore ai 100 km. Ma vengono rimborsate anche le spese per quei deputati residenti Palermo: 6.646 euro l’anno.

10 volte lo stesso incarico

Sono più di 100 le nomine che Lombardo ha effettuato da quando ha annunciato le sue dimissioni a oggi. Antonino Andò consulente “in materia di monitoraggio delle iniziative e dei processi organizzativi e procedurali correlati ai rapporti istituzionali con gli organi della Regione e dello Stato” ha ricevuto dal 2010 lo stesso incarico 10 volte per una spesa complessiva di 95 mila euro. Era stato candidato nel collegio di Messina per l’Mpa, partito di Lombardo. Biagio Seimila, blogger personale di Lombardo, ha ricevuto un incarico di tre mesi per “promozione delle tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni”. Tra conferme e rinnovi Semilia, nominato nel 2010, è stato consulente per 8 volte e ha percepito compensi complessivi per 90.863 euro in due anni.

Ente inutile

Si chiama Arsea, l’ente regionale che versa i contributi regionali agli agricoltori siciliani. Non è mai entrato in funzione. Il 15 giugno 2012 alla sua guida è stato nominato un dirigente, Claudio Raciti, agronomo di fiducia del governatore che percepisce un’indennità da 160 mila euro.

Il presidente nominato ma in galera

Eugenio Trafficante. A luglio era stato designato da Lombardo come presidente del collegio dei sindaci in “Sicilia e Servizi”, una partecipata della Regione. Era recluso nel carcere di Sciacca per stalking. Arrestato per aver violato il divieto di avvicinamento nei confronti di una donna.

I palafrenieri della Regione

Sono 40 i palafrenieri dell’Istituto Incremento Ippico Catanese. Costo annuale – da quanto riporta il sito Live Sicilia – 2 milioni e 200 mila euro. 55 mila euro a palafreniere nonostante i cavalli siano stati trasferiti a Scordia in un’altra tenuta regionale. Al costo dei palafrenieri si aggiungono quelli per il direttore dell’ente Salvatore Paladino (60.000 euro) e dei 5 componenti del consiglio d’amministrazione. Nel febbraio 2012, è stata pagata una consulenza di 2.000 euro alla dottoressa Concetta Torrisi per “redazione, stesura e predisposizione del piano sul benessere animale”.

PARLIAMO DELLE SOCIETA’ REGIONALIZZATE 

I costi della politica - Le sole partecipate al 100% costano 780 milioni. Quelle società in rosso finanziate dalle Regioni, scrive Antonella Baccaro su “Il Corriere della Sera”. Dai 15 milioni persi dallo zuccherificio del Molise alle film commission di Campania e Calabria. Finanziarie, società di gestione dell'acqua e delle fogne, zuccherifici, terme, film commission , società di consulenza e di informatica. Sono quasi 400 gli organismi partecipati dalle Regioni con circa 10 mila dipendenti, costosi e spesso in «rosso». La galassia delle «regionalizzate» è, secondo la Corte dei conti che lo ha censito per la prima volta in una relazione pubblicata lo scorso agosto, «un fenomeno poco noto», rispetto a quello delle «municipalizzate», su cui c'è «l'obiettiva necessità di indagare». Obiettivo: verificare che non siano di ostacolo all'iniziativa privata e che diventino un mero strumento per sfuggire alla disciplina dei conti pubblici. Una necessità che è diventata impellenza all'indomani delle numerose indagini che stanno coinvolgendo le Regioni, tra sprechi e vere e proprie ruberie.

Gli affidamenti

Si scopre così, scrive l'organo di controllo, che «le Regioni, al pari degli altri enti territoriali, hanno esternalizzato funzioni, servizi ed attività, costituendo società oppure entrando nel capitale di società esistenti». Non solo. Alle società vere e proprie si affiancano «enti pubblici dipendenti» e «agenzie regionali», costituite in base agli statuti, «affidatarie di funzioni ed attività» proprie della Regione in quanto istituzione, assegnatarie di risorse organizzative ed economiche con direzione e responsabilità autonome. Rientrano a pieno titolo in questa modalità le società finanziarie regionali, «fenomeno di grande rilevanza».

Il capitalismo regionale

I dati affluiti alla Corte dei conti, che disegnano quello che è definito come «capitalismo regionale», riguardano il 2010 e in parte il 2011 e sono stati inseriti in una banca dati che verrà tenuta aggiornata. Vi hanno contribuito tutte le Regioni e le Province autonome, tranne la Sicilia e la Sardegna perché, come spiega la relazione, le Sezioni di controllo della Corte dei conti di quelle Regioni «hanno ritenuto di non inviare loro le richieste istruttorie». Sono stati censiti 394 organismi partecipati di proprietà delle Regioni, di cui il 57,6% è costituito da spa e il 10,4% da srl: in tutto 268 società. Il resto è costituito da fondazioni (7,6%), consorzi (3%) e altri organismi (21,3%). La presenza dei privati nella compagine sociale è rilevata in 163 organismi partecipati (41% del totale), di cui 56% spa e 8% srl.

Il record del Lazio

La maggiore incidenza di spa partecipate si trova nel Lazio (9,7%), seguito dalla Toscana (8,4%) e dal Veneto, Emilia Romagna e Campania (6,6%). Le srl sono presenti soprattutto in Liguria ed Emilia Romagna (12,2%). In quest'ultima Regione le Fondazioni rappresentano il 60% del totale di tutte le Regioni. Il valore delle partecipazioni detenute dalle Regioni nelle 268 spa e srl sfiora i 3,5 miliardi, la metà dei quali sta in capo a Regioni e Province autonome. Il dato di maggior rilievo riguarda la Lombardia che possiede, nelle otto società di cui è azionista, partecipazioni per 322,74 milioni di euro, pari al 76% del valore del loro capitale sociale complessivo. Piemonte e Puglia che si collocano subito dopo detengono in valore assoluto quote di importi molto inferiori, pari rispettivamente a 78,49 e 58,94 milioni di euro. Colpisce la presenza frazionata in numerose società delle Regioni Lazio (23 società), Toscana (20), Emilia Romagna (20), Campania (19) e Veneto (18).

I bilanci

Ma quali risultati conseguono queste regionalizzate? I dati, in questo caso relativi alle spa e srl partecipate al 100% dalle Regioni, 75 in tutto, mostrano per l'esercizio 2010 un fatturato complessivo pari a 1.921,94 milioni di euro, ma il dato aggregato relativo ai risultati di esercizio evidenzia un «rosso» di -92,60 milioni di euro. Un dato deludente se si pensa che le somme erogate dalla Regione, a titolo di corrispettivo e contributo in conto esercizio, ammontano a 780 milioni di euro. I costi della produzione superano il valore della stessa, attestandosi a 2.008,95 milioni di euro, il 19% dei quali sono relativi al personale per un numero di occupati pari a 7.526 addetti.

Mai una gara

L'affidamento dei servizi avviene quasi nella totalità dei casi senza gara: 248 affidamenti diretti contro 19 tramite meccanismo competitivo. Tra le società partecipate al 100% in Piemonte, la società Sviluppo Piemonte Turismo chiude il preconsuntivo 2011 con 3 mila euro di utile, L'Istituto per le piante da legno e l'ambiente, partecipato all'84%, ne perde 722 mila. In Lombardia le quattro spa interamente della Regione, Cestec, Finlombarda, Infrastrutture Lombarde e Lombardia Informatica chiudono in attivo, mentre nel 2010 Expo è sotto di 10,5 milioni. In Veneto le Ferrovie, partecipate al 100% chiudono con utile risicato il 2011, perde invece un milione e mezzo la controllata Veneto Nanotech. In Toscana, dove la Regione partecipa con un 76% alle società Terme di Casciana, si registra una perdita tra il 2010 e il 2011 di più un milione di euro. Nel Lazio l'azienda di trasporti Co.Tral (99,9%) registra perdite intorno ai 30 milioni nei due anni considerati. In Molise lo Zuccherificio (100%) risulta in rosso di più di 15 milioni nei due anni. In Campania la Astir (fognature, 100% della Regione) è sotto di 25 milioni nel 2010, la Caremar (traghetti) di 3,5, i bus dell'Eav ne perdono 82,5, la Film Commission 356 mila. La stessa commissione in Calabria (100%) risulta sotto di 744 mila euro nel preconto 2011.

PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BILANCI DISSESTATI

La mappa del dissesto: tutti i Comuni in dissesto finanziario.

In prima pagina sulla versione online Il Corriere della Sera pubblica la mappa del dissesto ovvero dei Comuni "falliti", tratta da un rapporto della Corte dei Conti del luglio 2012 (pagg. 436 sgg.). Il rapporto, piuttosto corposo, si intitola RELAZIONE SULLA GESTIONE FINANZIARIA DEGLI ENTI LOCALI esercizi 2010-2011 ed affronta, come è chiaro dal titolo, la gestione finanziaria degli enti locali, cioè Province, Comuni e comunità montane. Tra le altre analisi effettuate dalla Corte vi è anche quella sui Comuni in dissesto finanziario. In tutto si tratta di 460 enti che hanno dichiarato dissesto finanziario dal 1989 al 22 febbraio 2012. Questa è la tabella presa dal rapporto della Corte. Le regioni con il maggior numero di Comuni dissestati sono Calabria (131), Campania (121) e Lazio (43).

Secondo l’inchiesta di Lorenzo Salvia su “Il Corriere della Sera” in ossequio al principio del federalismo, il rischio default scende con metodo per i rami dell'amministrazione. Dallo Stato passa a tutti i livelli della res publica. E così nella mappa del dissesto finanziario ci finiscono proprio tutti. Le Regioni, con le magnifiche otto che hanno i conti in rosso per la sanità, dalla Sicilia al Piemonte. Le Province che l'estate 2012, dopo gli ultimi tagli, sostenevano di non poter riaprire nemmeno le scuole. E i Comuni naturalmente, la prima linea di quell'esercito di amministratori che il governo vuole richiamare alle sue responsabilità. «Più della metà sono in grande difficoltà di bilancio» dice Graziano Delrio che da sindaco di Reggio Emilia, presidente dell'Associazione dei comuni e - perché no? - da padre di nove figli, i conti è abituato a farli per benino. Una cosa gli sfugge, però. Dice che Parma è in una situazione di «dissesto vero e proprio», provocando la replica piccata del sindaco di quella città, Federico Pizzarotti. E, chi l'avrebbe detto, ma è proprio il botta e risposta tra un renziano (Delrio) e un grillino (Pizzarotti) a offrirci lo spunto per capire cosa intendiamo quando parliamo di dissesto finanziario. E quindi di incandidabilità per i responsabili, come vuole il decreto approvato dal governo Monti.

Le città a rischio

Sono molti i Comuni italiani dove i bilanci faticano a stare in piedi: quello di Napoli si regge grazie a 3 miliardi di residui attivi, in gran parte vecchie multe che non sono state incassate e forse non lo saranno mai. Quello di Palermo è stato sfondato dai debiti delle società controllate. A Reggio Calabria non si capisce nemmeno quanto sia grande il buco mentre problemi seri sono venuti fuori a Foggia e Ancona. Sono tutte città dove le uscite hanno superato le entrate per anni e i nodi stanno venendo al pettine. Ma, tecnicamente, non si può parlare di dissesto finanziario. Sono in difficoltà ma non ancora fallite. E invece il dissesto è proprio quello che per un'azienda si chiama fallimento. Il sindaco si rende conto di non poter più pagare i debiti, alza la mano e chiede aiuto allo Stato.

Chi paga?

Fino a qualche anno fa era proprio lo Stato a coprire direttamente il buco, una procedura che poteva rendere il dissesto addirittura conveniente. Roma paga e via da capo: uno scherzo che negli anni ci è costato un miliardo e mezzo di euro. Capito l'inconveniente le regole sono state cambiate: chi dichiara il dissesto deve rialzarsi con le proprie gambe e se lo Stato concede un aiuto sotto forma di mutuo agevolato i soldi li deve tirare fuori il Comune. O meglio i suoi cittadini pagando nuove tasse. Il giochino non funzionava più. «L'inevitabile innalzamento della pressione fiscale - scrive la Corte dei conti nell'ultima relazione sulla gestione finanziaria degli enti locali - ha reso sindaci e presidenti di provincia meno propensi a dichiarare lo stato di dissesto, rendendo più difficile un duraturo risanamento». E infatti. Da quando esiste la legge sul dissesto, era il 1989, i Comuni che hanno imboccato questa strada sono stati 461, con Calabria e Campania che coprono da sole la metà della torta. Ma dopo il boom dell'esordio, 125 casi solo il primo anno quando a pagare era Roma ladrona, i numeri sono scesi, crollati anche a un solo dissesto l'anno. E sono tornati a crescere solo con la crisi: 4 nel 2009, 8 nel 2010, 10 nel 2011, per il 2012 il dato è ancora parziale ma siamo fermi a 6.

37 in dissesto

In questo momento sono 37 i Comuni ancora in dissesto. La procedura di rientro, con l'aumento delle tasse locali come compito da fare a casa, dura cinque anni. L'ultima arrivata nel club è Alessandria che quest'estate ha spento l'aria condizionata negli uffici e ritirato i cellulari a tutti i dipendenti. È il secondo capoluogo di Provincia dopo Caserta, zona dove il dissesto si sente nell'aria visto che ci sono due comuni, Casal Di Principe e Roccamonfina, che l'hanno dichiarato due volte. Cosa rischiano tutti questi sindaci?

Incandidabili?

Dice il decreto del governo che non si può ricandidare chi è stato giudicato responsabile per il dissesto finanziario dell'ente che amministrava. In realtà la norma già c'era da un anno, il governo ha aggiunto una «multa» che può arrivare fino a venti volte lo stipendio guadagnato all'epoca dei fatti. E il suo valore si limita al deterrente. Per far scattare l'incandidabilità è necessaria la condanna della Corte dei conti, anche solo in primo grado, per dolo o colpa grave. Finora non è mai successo. Certo, diversi sindaci sono stati condannati a rimborsare un danno causato alle casse pubbliche. Ma il fatto non è mai stato legato al dissesto finanziario come dice il decreto del governo. Un esempio? L'ex sindaco di Catania Umberto Scapagnini è stato condannato dal tribunale in primo grado a due anni e nove mesi per aver truccato i bilanci del suo Comune. Così aveva evitato di dichiarare il dissesto, aspettando che il debito venisse ripianato dal governo Berlusconi con un assegno di 140 milioni.

E non è tutto. Altro che il milione contestato a Fiorito per lo scandalo dei fondi della Regione Lazio.

PARLIAMO DELLE CONCESSIONARIE DELLA RISCOSSIONE DEI TRIBUTI CHE POI SE LI INTASCANO

Qui si parla di circa 100 milioni sottratti a 400 comuni italiani. Non si tratta di un politico, in questo caso. Mercoledì 2 ottobre 2012 il nucleo tributario della Guardia di Finanza di Genova ha arrestato per peculato Giuseppe Saggese (e altre quattro persone), ex amministratore della società Tributi Italia, per diversi anni concessionaria autorizzata alla riscossione dei tributi locali. La società è stata commissariata nel 2010. Circa 1000 dipendenti si sono trovati senza lavoro. E molti dei comuni in questione sono arrivati all'orlo del dissesto finanziario. Infatti gran parte delle cifre riscosse non sono mai state versate ai comuni. La Finanza ha sequestrato, per ordine del Tribunale di Chiavari, 9 milioni. Ne mancano 91. Prelievi bancari anche di 10mila euro al giorno, yacht, feste e tanto altro. Si imputa al solo Saggese una cifra di 20 milioni. L'aspetto politico della vicenda è molteplice. Intanto un discutibile decreto del governo Berlusconi, nel 2010, che facilitava molto la società, come spiega nei dettagli la rivista "Il Salvagente". In secondo luogo, quanto hanno atteso dirigenti ed amministratori comunali ad accorgersi che mancavano consistenti entrate, fra cui l'Ici, che è stata sempre la maggiore fonte di entrata per i comuni? Nei comuni maggiori i dirigenti prendono fior di stipendi, per non parlare di sindaci e assessori; dovevano aspettare di arrivare alla soglia della bancarotta per intervenire? Infine, non sarebbe ora di smetterla con procedure che sembrano studiate per consentire truffe? E' impensabile tornare totalmente alla riscossione diretta, costosissima soprattutto per gli enti più piccoli. Ma allora stabiliamo un solo soggetto nazionale, sottoposto a rigidi controlli e a procedure trasparenti. Al diavolo l'autonomia locale, se porta a queste conseguenze. Dimenticavo, ci sono cento inquisiti in Parlamento, per tacere di regioni, province e comuni. Lasciamo perdere, scherzavo. Così il governo Berlusconi salvò Tributi Italia nel 2010. L'inchiesta del "Salvagente", pubblicata il 17 giugno di quell'anno e scritta da Barbara Liverzani. Tasse comunali evaporate, dipendenti senza stipendio, fideiussioni false o scoperte, manager arrestati. Il tutto rimasto per anni nel silenzio e nell’indifferenza di politici e controllori. È la vicenda incredibile e scandalosa che ha coinvolto Tributi Italia Spa, ossia la prima società privata di riscossione dei tributi locali che a un certo punto ha smesso di riversare nelle casse comunali imposte e tasse, Ici, Tarsu (tassa sui rifiuti), Tosap (tassa sull’occupazione suolo pubblico), che i cittadini regolarmente pagavano ai suoi sportelli. Una mancata remissione che, per alcuni Comuni, è iniziata addirittura nel 2006 e che via via si è allargata a macchia d’olio. A novembre 2009 i debiti accumulati dalla società della famiglia Saggese erano arrivati a 90 milioni di euro e i Comuni creditori a quota 137. È allora che la politica, grazie anche alle numerose interrogazioni di alcuni deputati (soprattutto della radicale Rita Bernardini e di Ludovico Vico, del Pd), ha cominciato a interessarsi seriamente alla questione fino a che la commissione Finanze della Camera è riuscita a fare ciò che il comitato (insediato presso il ministero dell’Economia) preposto alla sorveglianza e al controllo dell’Albo dei riscossori non era, in tanti anni, riuscito a fare: cancellare Tributi Italia dall’albo, per inadempienza. Quando a gennaio scorso il Salvagente ha raccontato per la prima volta la vicenda, sembrava di essere arrivati all’ultimo capitolo della storia: il Tar doveva pronunciarsi sul ricorso contro la cancellazione, presentato dalla società, e presso l’Anci era stato istituito un tavolo tecnico con tutti i rappresentanti dei Comuni coinvolti per parlare con una voce sola al governo nel tentativo di ottenere quanto dovuto. Da allora però la vicenda si è ulteriormente intricata. Innanzitutto la cancellazione dall’albo è ancora in stand by dopo che Tributi Italia ha impugnato la decisione del Tar davanti al Consiglio di Stato, che dovrebbe decidere nel merito il prossimo 3 luglio. Poi Patrizia Saggese, amministratore unico della società, ha depositato al Tribunale di Roma una proposta di concordato preventivo con un piano di rientro verso i creditori che avrebbe dovuto salvare la società dal fallimento. Da ultimo, la storia si è arricchita di un altro “discutibile” capitolo: una vera e propria ancora di salvataggio lanciata dal governo alla superholding della riscossione. Un articolo ad hoc (articolo 3, comma 3) inserito nel decreto incentivi consente, di fatto, a Tributi Italia di accedere alle procedure di ristrutturazione economica e finanziaria previste dalla legge Marzano per le imprese industriali. In questo modo la famiglia Saggese sarà definitivamente fuori dalla gestione. Ma eviterà la bancarotta e Tributi Italia potrà continuare a svolgere attività di accertamento e riscossione dei tributi locali. La parte più scottante dell’articolo è infatti quella in cui si dispone “la persistenza delle convenzioni vigenti con gli enti locali immediatamente prima della data di cancellazione dall’albo”. In buona sostanza, grazie al decreto Tributi Italia potrà continuare ad agire indisturbata. Viceversa, nel provvedimento non si fa nessun riferimento ai Comuni creditori sull’orlo della bancarotta, se e come potranno essere risarciti, e alle sorti dei dipendenti. Su questo aspetto Ludovico Vico ha insistito molto in sede parlamentare: “A parte l’anomalia di estendere una legge nata per l’industria a una società di servizi, avevamo presentato almeno due emendamenti al decreto incentivi volti a salvaguardare Comuni e lavoratori. Uno prevedeva, in caso di mancata remissione delle imposte, che gli enti locali interessati potessero accedere al fondo di garanzia istituito presso la Cassa depositi e prestiti per un importo pari ai mancati versamenti. L’altro, che, a seguito della cancellazione dall’albo di una società, il servizio di riscossione dovesse essere assicurato per non più di 3 anni dall’ente che lo gestisce a livello nazionale (Equitalia) che avrebbe dovuto assorbire il personale della società a cui subentrava”. Ma entrambi gli emendamenti sono decaduti, bloccati dal voto di fiducia che ha blindato il testo in Aula. Cosa succederà adesso è difficile prevederlo. Al ministero dello Sviluppo economico, ci hanno detto, è ancora in corso l’istruttoria per decidere se ammettere all’amministrazione straordinaria Tributi Italia. Dopodiché toccherà al commissario nominato sciogliere i nodi aperti. Potrebbe cedere l’azienda (inclusi i dipendenti tutti o parte) a un terzo imprenditore oppure procedere alla ristrutturazione. Per quanto riguarda i diritti dei Comuni “derubati”, invece, dal ministero dello Sviluppo economico ammettono: “Non è possibile fare previsioni in merito al soddisfacimento dei creditori”. “Resta la vergogna di quest’ennesimo favore alla famiglia Saggese, prova della connivenza politica di cui ha sempre goduto”, commenta la deputata radicale Rita Bernardini. Il riferimento, neppure tanto velato, è alla storia di questa piccola concessionaria di pubblicità di Taranto, nata come Publiconsult e poi diventata leader del settore esattoriale privato, con collegamenti importanti. Come quello con Nicolò Ghedini, legale di Tributi Italia nella prima denuncia di frode, datata 1999.

Contatti ovunque, consulenze d'oro, uomini giusti da piazzare al posto giusto, racconta Giusi Fasano su “Il Corriere della Sera”. E, per dirla con le parole del giudice Fabrizio Garofalo, «entrature nel mondo dell'imprenditoria, della politica e degli istituti di credito, in mancanza dei quali non sarebbe stato sicuramente possibile arrivare a gestire la riscossione dei tributi per ben 400 Comuni italiani». Beppe Saggese, l'esattore di Tributi Italia in carcere con l'accusa di aver intascato venti milioni di euro delle tasse dei contribuenti, poteva contare su una fitta rete di aiuti che la Guardia di Finanza di Genova sta cercando ora di ricostruire. L'inchiesta si allarga, quindi. I finanzieri stanno eseguendo controlli nelle 39 banche con le quali Saggese ha avuto a che fare in questi ultimi anni e stanno cercando di scavare nell'elenco infinito delle consulenze che l'esattore pare abbia voluto a raffica. Per esempio l'avvocato Publio Fiori, democristiano gambizzato dalle Brigate Rosse negli anni Settanta, ex vicepresidente della Camera, ex ministro dei Trasporti e più volte sottosegretario. Saggese ha chiesto a Fiori una consulenza pagata un milione e duecentomila euro e quando la Procura lo ha interpellato per capire di che tipo di consulenza si trattasse lui si è avvalso del segreto professionale: nessuna spiegazione. Ha voglia di spiegare, invece, l'ex manager della telefonia pubblica (Stet) Paolo Torresani, andreottiano da sempre, amico del faccendiere Luigi Bisignani e nel 2011 diventato presidente della Società Centostazioni di Fs. Torresani è un altro destinatario di una consulenza voluta da Saggese: circa centomila euro per la messa a punto di una rivista giuridica che potesse essere utile alle amministrazioni comunali per districarsi nelle attività legislative del Parlamento e che però alla fine non è mai stata realizzata. Nell'elenco dei contatti romani dell'esattore, per una consulenza della quale non si conosce la cifra, c'è anche il nome di Filippo Paradiso, ex membro della segreteria tecnica di Paolo Bonaiuti (quando era sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e consigliere di vari sottosegretari nei governi Berlusconi e Prodi. E poi c'è Stefano Maria Toma, giornalista che è stato segretario particolare dell'ex ministro della Giustizia Nitto Palma. Anche per una sua società una consulenza chiesta da Saggese e adesso sotto la lente dei finanzieri: centomila euro per valutare come presentare al meglio l'immagine di Tributi Italia alle amministrazioni dei Comuni italiani. La procura di Chiavari punta i riflettori sulle consulenze non tanto per la convinzione che fossero in sé irregolari (nessuna per adesso risulta esserlo) quanto per capire se possono aver aiutato Saggese a estendere sempre più la rete dei Comuni di cui recuperare le tasse. Per ricostruire, insomma, quelle «entrature» alle quali fa riferimento il giudice Garofalo che oggi lo interrogherà in carcere. Sul fronte delle indagini la novità viene dalla scoperta che le cartelle esattoriali sarebbero state falsificate. Gonfiate, per la precisione. Saggese chiedeva al contribuente più del dovuto per avere a sua volta una cifra più alta per sé. Dovevi 100 euro? Lui ne chiedeva 120: così intascava dal Comune la provvigione (30%) sui 100 euro e dall'ignaro di turno quei 20 euro che lui chiedeva in più. Un tesoro cresciuto assieme al numero delle operazioni spregiudicate dell'esattore e forse in gran parte finito in Lussemburgo e Montenegro, due Paesi nei quali faceva affari attraverso alcune società. I suoi controllori dovevano essere in teoria l'associazione dei riscossori e i Comuni, riuniti nella Commissione Albo del ministero (organo di vigilanza). Ma dell'associazione di categoria dei riscossori era presidente proprio l'avvocato di Tributi Italia, Pietro Di Benedetto. E i sindaci, hanno scoperto i finanzieri, il più delle volte nemmeno sono stati convocati per le riunioni della Commissione Albo.

La storia di Giuseppe Saggese, 52 anni, al centro dell'inchiesta del tribunale di Chiavari con l'accusa di peculato, comincia ben lontano dalla Riviera Ligure: a Taranto, città in cui il padre era pretore. Proprio il mestiere del genitore, trasferito nel Tigullio a svolgere il suo incarico di di magistrato, ha condotto Saggese bambino a Recco, dove tuttora risiede. In seguito, il cinquantaduenne di origini pugliesi si è occupato di fiscalità. E proprio la dimestichezza con le materie fiscali ha consentito a Saggese, secondo i pm, di mettere insieme un complicato sistema di scatole di cinesi che gli ha consentito di occultare, senza mai un controllo, i denari provenienti da circa 400 Comuni italiani, in tutta Italia. Le inchieste relative alla società gestita, di fatto, da Saggese, la Tributi Italia spa (fallita nel 2011), sono iniziate nel 2009, in diverse procure italiane, alle quali i Comuni si erano rivolti. I faldoni sono, poi, confluiti, per competenza territoriale, presso quella di Chiavari visto che la società aveva sede lì, e i magistrati chiavaresi hanno proceduto con i provvedimenti restrittivi.

Arresto Saggese. Le responsabilità politiche sono gravi almeno quanto quelle che dovrà accertare, fino in fondo, la magistratura, scrive Michele De Lucia e Rita Bernardini su “Notizie Radicali”. Il giusto clamore suscitato dall’arresto dell’amministratore delegato di Tributitalia, Giuseppe Saggese, e dalla enorme “privatizzazione” di denaro pubblico compiuta dalla stessa società, non può e non deve far passare in secondo piano altri diversi “scandali nello scandalo”. Che i conti non tornassero era già chiaro da anni, noi Radicali abbiamo per tempo sollevato la questione, ma non è stato fatto nulla per impedire quanto andava accadendo. Perché per l’esclusione di Tributitalia dall'albo ufficiale delle società private di riscossione è stato necessario attendere più di un anno? Perché il Consiglio di Stato ne ha poi sospeso la cancellazione, poi confermata con sentenza successiva? Perché nel decreto fiscale del 2010 (governo Berlusconi) è stata inserita una vera e propria norma “ad aziendam”, detta non a caso "norma Tributitalia", che ha consentito alla società di Saggese di utilizzare la legge Marzano per il concordato delle grandi imprese in crisi (la stessa procedura utilizzata per Alitalia, giusto per capire le dimensioni)? Come è possibile che, anno dopo anno, siano scomparse senza colpo ferire decine e decine di milioni di euro prelevati dalle tasche dei contribuenti? Perché a queste società, così puntuali e inflessibili con i cittadini nel riscuotere, non viene applicato lo stesso rigore quando le stesse devono versare quanto dovuto agli enti locali? Per essere più espliciti: già tre anni fa avevamo chiesto un’ispezione con eventuale trasmissione dei relativi referti alla Corte dei Conti e l’assunzione di idonee iniziative legislative volte a fissare la misura massima dell’aggio che può essere concesso alle società miste. Già tre anni fa avevamo chiesto controlli sulle somme riscosse, fino al momento del loro trasferimento al Comune. Già tre anni fa avevamo chiesto la fissazione della durata massima di affidamento dei servizi e, infine, un’indagine conoscitiva generale del fenomeno volta a valutare l’intero fenomeno dell’esazione delle imposte da parte dei comuni italiani. Non è fallita solo Tributitalia: è fallito un intero sistema. Il sistema della riscossione dei tributi va ora ripensato in modo da assicurare alle donne e agli uomini che pagano le tasse in questo Paese che i loro soldi vengano usati per il motivo per cui vengono prelevati: assicurare l’interesse generale, non la bella vita a qualche intoccabile pieno di santi nel “paradiso” della partitocrazia.

«Tredici anni per far luce su una vicenda scandalosa che oggi ha finalmente prodotto i primi risultati e che due anni fa avevo denunciato con forza attraverso una interrogazione in Commissione Finanze e una serie di denuncie agli organi preposti. Una vicenda che scopre il sistema “Tributi Italia”, ma che non risarcisce i Comuni Italiani- che attendono il rientro delle tasse locali pagate dai cittadini - , non fornisce risposte ai circa 1000 dipendenti lasciati a casa dall’agenzia di riscossione e soprattutto non svela il quadro complessivo di complicità e coperture istituzionali e personali che hanno permesso a questa azienda, che di fatto doveva controllare, di agire indisturbata per molti anni». E’ il commento rilasciato a “Manduria Oggi” dall’on. Ludovico Vico alle notizie di cronaca circa l’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza che ha portato all’arresto per peculato e reati fiscali di cinque persone tra cui Giuseppe Saggese, nato a Taranto ma ligure di adozione e amministratore di fatto della “Tributi Italia Spa”, la società privata concessionarie per la riscossione dei tributi che per molti anni aveva servito ben 400 comuni italiani, senza mai riversare agli enti locali i tributi riscossi per circa 90 milioni di euro. Un lavoro quello di Vico fatto di carte e inchieste comune per comune e che dopo il caso simbolo di Aprilia in provincia di Roma e i suoi venti milioni di euro di buco, conduce sino al Comune di Ferrandina (Matera) con un credito nei confronti di Tributi Italia di oltre un milione di euro trentacinque fino a 35 comuni pugliesi (tra questi Bari, Brindisi, Fasano, Manduria, Nardò, Bitritto), lasciati a secco dopo il mancato introito di tasse come TARSU, Tosap, ICI o multe. «In Commissione Finanze, subito dopo la cancellazione dall’albo dei riscossori di questa società (frutto di un emendamento presentato dallo stesso Vico), avevamo anche iniziato un iter importante per aiutare i Comuni truffati – dice Vico – tema che rimane portante per il futuro di questa vicenda che non può limitarsi all’arresto dei responsabili». L’iniziativa parlamentare di Vico, dunque, produce i primi risultati, ma lascia ancora senza risposte su alcune domande chiave. «Le tasse pagate dai cittadini devono tornare ai Comuni vittime della truffa. Il Ministero delle Finanze, in questi anni, è rimasto inerte sulle misure relative all’albo e alle sue conseguenze in ordine alla formazione dei bilanci Comunali. La Guardia di Finanza ha però indagato su tutto, anche sui verbali di riunione in cui sia io che l’on. Rita Bernardini del Partito Radicale, rimanevamo inascoltati. Ora la vicenda è venuta finalmente a galla. Resta però da definire il quadro complessivo di risposte da fornire ai Comuni così come rimangono senza responso i dubbi inquietanti su chi doveva controllare i controllori».

Tributi Italia: vi immaginate un Mr Saggese a Berlino? Si chiede “Panorama”. L'Ad della concessionaria per la riscossione dei tributi in oltre 400 comuni, già arrestato due volte per reati simili, si sarebbe intascato in pochi anni una cifra attorno ai cento milioni di euro. Un scandalo che poteva succedere solo nel nostro Paese. A causa della strutturale inefficienza della burocrazia. Assurdo, incomprensibile, tragicomico. Giuseppe Saggese, amministratore delegato della società Tributi Italia, incaricata da 400 Comuni di riscuotere una serie di imposte locali (Ici, Tosap, Tarsu…), è finito agli arresti con l’accusa d’aver sottratto illecitamente un centinaio di milioni di euro (la somma finora accertata sarebbe di 20). Per 4 persone la magistratura di Chiavari ha disposto l’obbligo di dimora, e altre quattro sono state denunciate dalla Guardia di Finanza di Genova. Tra le accuse: peculato e reati fiscali. Sequestrati beni per 9 milioni di euro. La sottrazione dei fondi avveniva attraverso una rete di imprese collegate alla Tributi Italia col pretesto di servizi vari: consulenze, piani di riorganizzazione aziendale, operazioni societarie di natura straordinaria come aumenti di capitale e costituzione di nuove società. In pratica, l’importo delle tasse restava nelle casse della Tributi Italia, per poi confluire su società tutte riconducibili a Saggese & Company. Nove le perquisizioni tra Genova, la zona del Tigullio, Roma e la provincia di Piacenza. Elementare la descrizione del meccanismo nelle carte dei finanzieri: “L’azienda, una volta introitate le somme provenienti dalla riscossione tributaria, anziché riversarle agli enti a cui spettavano, al netto dell’aggio di sua competenza, le tratteneva sui propri conti correnti, appropriandosene”. Quel tesoretto è servito quindi non per gli stipendi dei dipendenti comunali, gli asili nido o i servizi sociali, ma per far acquistare a Saggese & Company automobili di lusso, yacht e aerei privati, vacanze da nababbi, organizzare feste e prelevare contanti fino a 10mila euro al giorno. Quando i Comuni hanno cominciato a batter cassa richiedendo gli importi versati, e la Tributi Italia si è lanciata in investimenti azzardati, i conti sono andati a picco e l’insolvenza ha portato alla dichiarazione di fallimento al Tribunale di Roma. Ma per quanto tempo l’amministrazione pubblica ha tenuto gli occhi chiusi? E qui veniamo all’aspetto assolutamente paradossale e più inquietante di tutta la storia. Sembra che il meccanismo abbia funzionato alla perfezione tra il 2006 e il 2009, quindi il tutto è cominciato 6 anni fa. Anzi no, prima! Stando al Fatto Quotidiano, Saggese sarebbe stato già arrestato due volte, nel 2001 (undici anni fa!) e nel 2009, per reati analoghi a quelli per i quali è ora in manette: il 14 luglio 2001 i carabinieri gli hanno infatti notificato a Pomezia un mandato di custodia cautelare come responsabile di un’altra società impegnata nella riscossione di tributi, e con lui per quella vicenda sono andati sotto processo amministratori locali di Pomezia e Aprilia. Non fu un caso da niente. Ebbe l’onore o disonore delle cronache. Dopo l’arresto del 2001, soltanto nel novembre 2009 il Pm ha chiesto le condanne (per Saggese a 3 anni e 8 mesi). Con 8 anni di scarto. Intanto, lo stesso Saggese, oggi 52enne, tarantino trapiantato a Rapallo, ligure di adozione, il 29 aprile di quell’anno era tornato ai domiciliari per un paio di settimane nell’ambito di un’inchiesta della magistratura di Velletri. Ici e tassa sui rifiuti riscossi dalla sua concessionaria nel Lazio con un aggio del 30 per cento non sarebbero mai stati riversati ai Comuni di spettanza. Com’è possibile? Come si può accettare che la stessa persona, a partire dal 2001, abbia guai con la giustizia in diverse inchieste che hanno tutte per oggetto lo stesso tipo di reato connesso alla riscossione di tributi per conto delle amministrazioni pubbliche, e nessuno se ne accorga? È possibile solo grazie al “combinato disposto” dell’attività criminale con l’inefficienza di una burocrazia, amministrativa e giudiziaria, che non si accorge per tempo degli ammanchi, dell’affidabilità delle persone (già più volte arrestate) a cui affida un incarico delicato come la riscossione delle imposte, e che in 11 anni è “recidiva” nel consegnarsi a malfattori o impiega anni e anni per concludere un’inchiesta o un processo. Anche qui bisogna individuare le responsabilità. Sarebbe ipotizzabile un “Mr. Saggese” a Oslo, New York o Berlino?

Tributi Italia, la storia si ripete, scrive ancora “Panorama”. Lo scandalo che ha coinvolto l'ex numero uno dell'ente preposto alla riscossione delle imposte locali ha un precedente. Che risale al 1954. La storiaccia di Giuseppe Saggese e di Tributi Italia Spa ricorda il primo grande scandalo della storia repubblicana: lo Scandalo del Miliardo, che occupò le pagine dei giornali nei primi anni Cinquanta. Come per Tributi Italia, anche in quel caso tutto ebbe inizio con un arresto, quello del direttore di un ente di eredità fascista incaricato della riscossione dei tributi locali (I.N.G.C.I). L'accusa era la medesima di Saggese: peculato, sottrazione di soldi pubblici. L’inchiesta della magistratura era partita subito dopo la pubblicazione di un articolo scritto nell’estate del 1954 da un ex dirigente dell’istituto sulla rivista “Pace e Libertà”. L’alto funzionario aveva fatto nomi, cognomi e, soprattutto, somme di denaro che giravano in maniera quanto meno dubbia. Come primo effetto la lettera causò le dimissioni dell’onorevole DC Vincenzo Bavaro, presidente nazionale dell’istituto. Un paio di settimane dopo lo Scandalo del Miliardo, deflagra in tutta la sua potenza coinvolgendo amministratori e funzionari locali, ma anche i partiti nazionali. Dopo l'arresto del sindaco comunista di Arezzo, Palmiro Togliatti in un comizio a Firenze, adombrò l'ipotesi del complotto anticomunista. L’inchiesta, però, non riguardava solo il PCI ma tutto l’arco parlamentare, ad eccezione dei piccoli partiti laici. Secondo il magistrato responsabile dell’inchiesta, Edoardo Baroni, il problema che ne conseguiva era il finanziamento illecito dei partiti politici che si traduceva in “un immediato aggravio dei costi di esazione" per tutti i cittadini. Secondo i giudici dell’accusa, insomma, i dirigenti dell’I.N.G.I.C., per ottenere l’appalto, avevano foraggiato personalità di diverse formazioni politiche . Per ben cinque volte la Giunta per le Autorizzazioni a procedere della Camera rifiutò la richiesta dei magistrati di processare gli onorevoli e i senatori implicati. Il 14 gennaio 1973 si aprì al tribunale di Arezzo il processo di primo grado per quello che era il più grande scandalo politico del dopoguerra. Il processo durò un anno. Per i 103 imputati rimasti, la condanna fu di circa 400 anni di reclusione complessivo. Nel 1980 la corte d’appello di Firenze mise, una volta per tutte, la parola fine con altre tre assoluzioni con formula piena e cinque conferme di prescrizione del reato di peculato con cui erano stati accusati gli ultimi superstiti della storia. I parlamentari, protetti dall'immunità, non furono toccati. L’unica differenza tra lo Scandalo I.N.G.I.C. e la vicenda di Tributi Italia è che ad essere interessato al momento è solo il suo ex numero uno, Giuseppe Saggese, anche se viene il dubbio di come una sola persona, per altro già arrestata due volte nel 2001 e nel 2009 per lo stesso reato, abbia potuto impunemente avere il controllo fino al 1009 dell’esazione dei tributi in oltre 400 comuni italiani. Questo, comunque, lo accerterà la magistratura. Ma la storia sembra quella di sessant'anni fa.

Ma non è tutto.

PARLIAMO DI ONERI DI URBANIZZAZIONE NON AGGIORNATI

Oneri di urbanizzazione non aggiornati, denunciati in 197, danni per 32 milioni, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. I funzionari pubblici segnalati dalla finanza alla Corte dei conti: hanno favorito per negligenza o infedeltà i cittadini e i costruttori che ai Comuni hanno versato meno del dovuto per ottenere le licenze edilizie. Sono 197 i funzionari pubblici salentini segnalati dalla Guardia di finanza alla Corte dei conti. Colpevoli, così credono le fiamme gialle, del mancato aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e costi di costruzione in tutti i 97 comuni della provincia di Lecce e, dunque, responsabili di un danno erariale pari a 32 milioni di euro. A tanto ammontano, infatti, i mancati introiti nelle casse comunali di cittadine e paesi del Tacco, variabili da un minimo di 2.000 euro a un massimo di 6 milioni e mezzo di euro, nel periodo compreso tra il 2007 e il 2011. In media, è stato calcolato, ogni Comune ha guadagnato circa 330.000 euro in meno rispetto a quanto avrebbe potuto. Un buco che, in tempi di ristrettezze economiche per gli enti locali, non è di poco conto. Il mistero degli introiti scomparsi è stato scoperto all'esito di un'attività d'indagine approfondita, condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Lecce coordinati dal colonnello Vito Pulieri. I militari hanno passato al setaccio gli uffici tecnici di tutti i Comuni leccesi, a partire proprio dalla città capoluogo, scoprendo che funzionari pubblici, infedeli o distratti, avevano dimenticato spesso di riscuotere gli oneri di urbanizzazione e i costi di costruzione, agevolando in tal modo cittadini e costruttori. Sia gli uni che gli altri sono infatti il ristoro economico che la legge concede agli enti locali in cambio del rilascio delle licenze edilizie, lasciando alle Regioni la possibilità di stabilirne l'incidenza e ai Comuni l'obbligo di aggiornarla ogni 5 anni in conformità a quanto stabilito dalle Regioni, adeguando il costo anche annualmente in relazione alle variazioni dei costi di costruzione accertati dall'Istat. A spulciare tra la documentazione degli enti salentini, invece, di tali aggiornamenti imposti dalla legge sono risultate pochissime tracce: alcuni erano fermi con l'adeguamento delle tariffe agli anni Novanta, altri addirittura agli anni Ottanta. Nelle campagne leccesi, in cima alle scogliere e tra le masserie, insomma, costruire costava ai proprietari molto meno che altrove. Tirare su case era conveniente per i cittadini e dannoso per i Comuni, che, a fronte di un territorio sempre più urbanizzato, non vedevano entrare nelle proprie casse il necessario ristoro economico. E se qualche amministrazione, è stato rilevato, aveva provveduto negli anni ad adeguare il costo degli oneri di urbanizzazione, tutti avevano invece omesso di aggiornare il costo di costruzione oppure lo avevano fatto in modo errato. Mancanze, casuali o volontarie, che hanno prodotto un consistente danno all'erario, di cui la finanza ha chiamato a rispondere ben 197 funzionari pubblici che si sono succeduti negli uffici tecnici comunali. Sarò la Procura regionale della Corte dei conti, adesso, a valutare la loro posizione, decidendo se citarli in giudizio per il danno causato ai Comuni per cui hanno lavorato.

PARLIAMO DI USURA DI STATO: EQUITALIA

E con Equitalia ci si trova di fronte all’Usura di Stato.

Si è sentito vessato da Equitalia. Anzi usurato. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Perché le somme chiestegli per il pagamento di un debito sarebbero esose ed ingiustificate. Una serie di esosi «orpelli» che avrebbero fatto schizzare alle stelle l’originaria obbligazione. Un imprenditore biscegliese, ma residente a Trani, non ne ha potuto più e lo scorso 22 dicembre 2011 ha denunciato la storia ai carabinieri. Il sostituto procuratore della Repubblica di Trani Michele Ruggiero ha aperto un’inchiesta che però non vede indagata né Equitalia, né alcun suo funzionario o dipendente. Il fascicolo è rubricato contro ignoti. Se il nome della concessionaria di riscossione, come persona giuridica, o di qualche sua figura lavorativa finirà nel registro degli indagati è prematuro dirlo. Molto dipenderà dall’esito degli atti d’indagine che ha in serbo lo stesso Ruggiero. Che però, per ora, ha compiuto un importante atto formale: ha espresso parere favorevole alla sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento; in pratica momentaneo stop alla procedura avviata da Equitalia contro il 46enne imprenditore biscegliese. Un parere in via cautelare che si basa sull’ipotesi che la vicenda denunciata possa esser connotata da fatti penalmente rilevanti, paventati nella denuncia. Il parere è stato chiesto alla magistratura tranese dal Prefetto della Provincia Barletta-Andria-Trani Carlo Sessa sulla base di quanto previsto dalle legge n.44/1999, ovvero «Disposizioni concernenti il fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura». La normativa contempla l’ipotesi di sospensione dei termini a seguito di parere favorevole da parte della Procura della Repubblica in merito agli atti, in questo caso di Equitalia, «per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo».

Denuncia Equitalia per usura e il pm gli sospende le rate, scrive “La Repubblica”. «Condannato ad un ergastolo finanziario». E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola: una procura della Repubblica, quella di Trani, che dà parere favorevole all'istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia. Protagonista un imprenditore di Bisceglie ridotto sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che ha contratto nei confronti dell' Agenzia dell' Entrate e dell' Inps. Si definisce una vittima di usura, "condannato", dice, "ad un ergastolo finanziario". E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola. Una procura della Repubblica che dà parere favorevole all' istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia, società pubblica incaricata della riscossione dei tributi. Protagonista un imprenditore nel campo della ricerca estetica di Bisceglie ridotto praticamente sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che pure ha contratto nei confronti dell' Agenzia dell'Entrate e dell'Inps. O meglio, sono al momento sospesi, in virtù della legge 44 del 1999, i ratei dei mutui ipotecari o bancari. E' stato il magistrato della procura di Trani Michele Ruggiero a firmare il provvedimento in questione dopo la denuncia dello stesso imprenditore presentata a dicembre dello scorso anno ai carabinieri. Pasquale Ricchiuti, questo il suo nome, ha chiesto la condanna di Equitalia spa e di Equitalia sud Bari per la violazione dell'articolo 644 del codice penale, il reato di usura. Questa la storia: nei mesi scorsi Ricchiuti aveva fatto periziare le cartelle di pagamento ricevute scoprendo, a suo dire, l'iniquità dei tassi applicati e quella che chiama "la maggiore pressione fiscale esercitata nei suoi confronti". Racconta di un dramma cominciato all'indomani della decisione della società pubblica di ipotecare la sua casa, sulla quale sta ancora pagando un mutuo, perché non era riuscito ad onorare dei debiti, 20mila euro cioè di contributi "dichiarati ma mai versati", dice. I problemi lo assalgono nel 2008 a causa della mancanza di liquidità, nel suo centro di estetica e di dimagrimento da quattro le assistenti assunte diventano due, poi una sola. E quei 20mila euro, tra interessi e sanzioni, raddoppiano e arrivano a quasi 40mila. «Ma se non potevo pagare quelli come posso pagarne tanti ora?», si è chiesto. Su Facebook ha formato un gruppo di "indignati" che non lanciano bombe alle sedi di Equitalia ma "si informano per resistere", spiega. Poi è diventato presidente di una lista civica nazionale "Italia libera" e ha messo insieme una serie di persone scontente, dal Friuli alla Sicilia. Negli ultimi mesi ha preso carta e penna e scritto proprio ad Equitalia, poi ha dispensato consigli a tutte le persone in difficoltà con le banche e la stessa società di riscossione: "Non stancatevi mai di lottare per i vostri diritti, fatelo per le vostre famiglie ma soprattutto per voi stessi, se le regole del gioco sono cambiate in corsa i falliti non siete voi, ma chi ha cambiato le regole senza pensare a chi si alza ogni mattina per poter mettere ancora un piatto sulla tavola per la propria famiglia». Non ce l' ha con le persone, conclude, "ma con il sistema, adesso altri imprenditori sanno che difendersi si può". E Trani, ancora una volta, diventa un caso nazionale.

SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI. Tutto in famiglia. Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” ha titolato così il suo pezzo: La grande famiglia dei dipendenti SIAE, 4 su 10 legati da parentela. Per far sentire i propri dipendenti come in famiglia la Siae non ha rivali: pensa anche al bucato. Chi va in missione può far lavare e stirare camicie e mutande a spese dell'azienda. Dieci euro e 91 centesimi vale la speciale «indennità lavanderia» quotidiana che scatta in busta paga dopo il quarto giorno passato fuori sede. Quanti lo ritengono un privilegio anacronistico non sanno che la Società degli autori ed editori è anche tecnicamente un gruppo familiare. Al 42 per cento. Nel senso che ben 527 dei 1.257 assunti a tempo indeterminato (il 42 per cento del totale, appunto) vantano legami di famiglia o di conoscenza. Ci sono figli, nipoti, mariti e mogli di dipendenti ed ex dipendenti. Ma anche congiunti di mandatari (cioè gli esattori dei diritti) di sindacalisti e perfino di soci. E poi rampolli di compositori e parolieri, perfino delle guardie incaricate della vigilanza nella sede centrale. La lista è sterminata, con intrecci che attraversano ogni categoria. Dei 559 entrati alla Siae durante gli anni per chiamata diretta, ben 268 sono parenti. Idem 57 dei 128 reclutati tramite il collocamento obbligatorio. E 55 dei 154 che hanno superato le selezioni speciali. Ma perfino 147 dei 416 assunti per concorso hanno rapporti di parentela. I nomi dicono poco o nulla. Ciò che importa è che in questo clan familiare gigantesco finora tutto sia filato liscio, senza bisogno di mettere nulla per iscritto. Ecco spiegato perché alla Siae non esiste nemmeno un contratto di lavoro vero e proprio. I rapporti fra l'azienda e i dipendenti, come hanno toccato con mano il commissario Gian Luigi Rondi, i suoi due vice Mario Stella Richter e Domenico Luca Scordino, nonché i loro collaboratori, sono regolati da micro accordi che hanno determinato condizioni senza alcun paragone in realtà aziendali di questo Paese. Cominciando dallo stipendio: 64 mila euro in media per i dipendenti e 158 mila per i dirigenti. Con un sistema di automatismi che fa lievitare le buste paga a ritmi biennali fra il 7,5 e l'8,5 per cento. Per non parlare della giungla dei benefit che prevede, oltre alla già citata indennità per il bucato, quella che in Siae viene chiamata in modo stravagante «indennità di penna». Altro non è che una somma mensile, da un minimo di 53 a un massimo di 159 euro, riconosciuta a tutto il personale per il passaggio dalla «penna» al computer. C'è poi il «premio di operosità», la gratifica per l'Epifania, tre giorni di franchigia per malattia senza obbligo di certificato medico, 36 giorni di ferie... Le conseguenze? Sono nelle cifre delle perdite operative accusate dalla Siae negli ultimi anni: 21,4 milioni nel 2006, 34,6 nel 2007, 20,1 nel 2008, 20,9 nel 2009, 27,2 nel 2010. Cifre cui dà il suo piccolo contributo anche il costo del contenzioso. Perché si litiga anche nelle migliori famiglie. Nonostante condizioni di favore che non hanno eguali nel panorama degli enti pubblici o parapubblici, negli ultimi cinque anni i dipendenti della Siae hanno attivato 189 cause di lavoro. Con un costo medio per l'azienda di un milione 469 mila euro l'anno. Insomma, un bagno di sangue. Del quale ancora non si vede la fine. I commissari hanno tagliato 2,8 milioni di spese generali e un milione e mezzo di costi della dirigenza, sperando poi di risparmiarne altri 3 rivedendo gli accordi con i mandatari: un groviglio di 605 agenzie disseminate irrazionalmente sul territorio con dimensioni medie ridicole, se si pensa che il ricavo medio di ciascuna è di 128 mila euro l'anno. Ma il vero problema è quello del personale, perché finora tutti tentativi di normalizzare la situazione applicando un qualsiasi contratto di lavoro sono miseramente naufragati nella melma di uno stato d'agitazione proclamato dai sindacati interni. La questione fa il paio con la vicenda del Fondo pensioni, istituito nel 1951, che deve provvedere al pagamento degli assegni di quiescenza del personale ed è una delle cause principali del dissesto che ha portato un anno fa al commissariamento. Ha un patrimonio interamente investito in immobili, con un valore di mercato di 205 milioni. Ma che non rende praticamente nulla. Tanto che finora, per riuscire a pagare le pensioni, la Siae ha dovuto mettere costantemente mano al portafoglio, aggravando non poco il proprio conto economico. Basta dire che il Fondo ha assorbito 130 milioni di contributi aziendali, con la previsione di ingoiarne altri 60 nei prossimi dieci anni. Nel tentativo di rimetterlo in sesto, e anche in conseguenza delle nuove regole sugli investimenti degli enti previdenziali, sono stati istituiti due fondi immobiliari. Il che ha scombinato i piani di vendita di alcuni stabili di proprietà della Siae a condizioni favorevolissime: minimo anticipo e dilazioni di pagamento quarantennali. Parliamo degli immobili a destinazione residenziale occupati fra l'altro dai dipendenti della Società degli autori ed editori. Che hanno una caratteristica comune: su 37 affittuari, 34 sono sindacalisti. Fra di loro figura anche il contabile dello stesso Fondo pensioni. Si tratta di Roberto Belli, responsabile della Slc-Cgil nonché fratello di una dipendente attualmente in servizio e di una ex dipendente Siae (rispettivamente Antonella e Patrizia Belli), destinatario di una recentissima e sorprendente contestazione disciplinare. Il 13 giugno la direzione generale gli ha spedito una lettera dove si dice che una verifica condotta dalla Ria&partners, la società di revisione del bilancio del Fondo, ha fatto saltare fuori alcuni bonifici per un totale di 30 mila euro che insieme ad alcuni assegni e versamenti, c'è scritto, «non risultano autorizzati e non trovano riscontro nelle registrazioni contabili». Denaro, dicono i documenti bancari, trasferito dal conto Bancoposta del Fondo stesso ai conti correnti bancari personali di Belli e della sua compagna. Inevitabile, adesso, la richiesta di spiegazioni convincenti.

PARLIAMO DELLE COMUNITA’ MONTANE: Una montagna di sprechi

Così come risulta dall’inchiesta di Antonio Fraschilla e Gloria Bagnariol su “La Repubblica”.

Zero fondi e tanti sprechi. Ecco quanto ci costano. La Comunità forlivese spende 8.100 euro per un consulente che aggiorni la banca dati. La Feltrina ne ha spesi 10mila per una mostra fotografica. L'Appennino Pistoiese invece ha subito un ammanco di 10 milioni di euro dai bilanci.

·            72 le comunità montane attive

·            200 le comunità montane in liquidazione

·            4.508 i dipendenti

·            150 milioni il costo degli stipendi

·            1.146 le auto di servizio in circolazione

·            7.500 i forestali gestiti, 4500 sono in Campania, in Piemonte appena 532

·            162 milioni il costo dei forestali

·            0 euro il fondo manutenzione montagna

·            1.944 i consulenti esterni

·            14 milioni il costo delle consulenze

I CASI

·            Ente Forlivese 8.100 euro per un consulente che aggiorni la banca dati

·            Valle Camonica 3.000 euro per acquisto poster sui funghi epigei

·            Comunità Marche 2.744 euro per progetto preliminare taglio piante

·            Comunità Feltrina 10.000 euro mostra fotografica

·            Compensi Comunità in Friuli 5.217 euro per i presidenti, gettone di 50 euro a seduta per i consiglieri

·            Comunità Appennino Pistoiese ammanco di 10 milioni di euro dai bilanci

·            Comunità Perugia 300 mila euro di multa dalla Corte dei conti per macchinari mai utilizzati

Non esistono più, ma le paghiamo ancora. 150 milioni l'anno alle Comunità montane.

Questi enti dovevano valorizzare il territorio, ma nel 2008 si è deciso di azzerare i fondi a loro destinati. Basilicata, Liguria, Molise, Puglia e Toscana li hanno soppressi. Piemonte, Lazio e Campania hanno votato leggi per la loro trasformazione in unioni di Comuni. Erano 356 e sono diventati 72. In realtà ne restano più di cento ancora in vita: veri e propri "stipendifici" di dipendenti che non lavorano. Ogni giorno timbrano il cartellino anche se, sulla carta, l’ente per il quale lavorano non esiste da tre anni. Tanto è trascorso da quando in Puglia sono state soppresse le Comunità montane sull’onda del clamore mediatico che aveva travolto l’ente «senza montagna» delle Murge, che comprendeva il Comune di Pelagiano, provincia di Taranto, 39 metri sul livello del mare. Ma proprio questa Comunità che aveva fatto gridare allo scandalo è ancora lì in piedi, anche se formalmente chiusa. È vero, non c’è più un consiglio d’amministrazione che garantisce gettoni d’oro a sindaci e assessori, ma dal 2010 la Regione pugliese paga un commissario liquidatore con indennità pari a oltre 20 mila euro l’anno e due dipendenti. La Comunità delle Murge è il simbolo di come la furia moralizzatrice e la corsa a tagliare gli enti montani si sia trasformata in un grande spreco che vede oggi le Regioni continuare a spendere 150 milioni di euro per gli stipendi di 4.500 dipendenti e altri 162 milioni per 7.500 forestali: il tutto per svolgere pochi servizi, o nessuno, causa assenza di fondi per investimenti. Un paradosso nato dal fatto che da un lato lo Stato ha azzerato i trasferimenti a questi organismi e, dall’altro, le Regioni si sono affrettate a sopprimere le Comunità senza però trovare una soluzione per i lavoratori. Risultato? Si pagano solo stipendi e si scopre che le Comunità continuano a spendere 14,9 milioni di euro all’anno in consulenze, mentre i boschi rimangono abbandonati perché mancano i soldi per la loro manutenzione. «Un assurdo, da anni chiediamo una riorganizzazione omogenea del sistema in tutto il Paese, che trasformi le Comunità in unioni di Comuni in modo da poter dare indipendenza economica a questi enti e ottenere veri risparmi mettendo insieme servizi», dice Enrico Borghi, presidente della commissione della montagna dell’Anci. In Italia attualmente vige il caos, con alcune Regioni che hanno chiuso formalmente questi enti e altri che li mantengono in vita per fare anche la riscossione dei tributi: come nel Cadore, dove il Comune Calanzo ha deciso di togliere questo servizio a Equitalia per affidarlo alla Comunità di Valbelluna. Ma quante sono le Comunità rimaste in vita? Quanto costano? Cosa fanno? Le Comunità in liquidazione Molte Regioni come Basilicata, Liguria, Molise, Puglia e Toscana, hanno soppresso le Comunità e altre Regioni hanno votato leggi per la loro trasformazione in unioni di Comuni, come Piemonte, Lazio e Campania. Formalmente ne rimangono in piedi solo 72 sulle 300 attive nel 2008, in gran parte concentrate in Valle d’Aosta (8), Trentino Alto Adige (23), Lombardia (23), Veneto (19), Emilia Romagna (10), Marche (9). In realtà, considerando quelle in liquidazione, sono ancora 201 gli enti in piedi con in carico i dipendenti, ma senza un euro per svolgere servizi. Situazione, questa, che sta diventano allarmante soprattutto al Sud, con le Regioni che di fatto versano, quando lo versano, lo stretto necessario a pagare i lavoratori e in più garantiscono parcelle d’oro a una pletora di commissari liquidatori: «Diciamo che quando c’eravamo noi politici nei consigli d’amministrazione si gridava allo scandalo, oggi ci sono i burocrati e nessuno dice nulla», sottolinea Borghi. Ma quanti sono questi enti fantasma e quali i costi affrontati per la loro liquidazione? Simbolo di quanto sta accadendo è la Comunità delle Murge, che comprende il Comune di Palagiano, a meno di 40 metri dal livello del mare. La Puglia ha chiuso questa Comunità nel 2008. A tre anni di distanza, però, l’ente è ancora lì, con un liquidatore e due dipendenti: «Ci hanno chiuso ma solo formalmente, perché noi veniamo ancora a lavorare in attesa di essere trasferiti da qualche parte», dice un funzionario. Già, ma la Provincia non li vuole, e nemmeno i Comuni che non hanno i fondi per pagare i loro stipendi. Stesso discorso avviene in Molise, con le sei Comunità soppresse di cui cinque però ancora in liquidazione perché non si riesce a pagare i creditori. Nel frattempo la Regione ha appena erogato 5 milioni di euro per pagare gli stipendi: «Ovviamente — ha detto l’assessore agli Enti locali Antonio Chieffo all’indomani dello stanziamento — quello del pagamento degli stipendi ai dipendenti è soltanto un aspetto. Nei prossimi mesi auspichiamo un’immediata collocazione di tutto il personale». Ma in Italia si sa: nulla è più duraturo del provvisorio. Anche in Campania la situazione è identica, con la Regione che versa alle Comunità i fondi necessari a pagare solo i 677 stipendi, e il discorso non cambia in Calabria dove le 20 Comunità mantengono 516 persone o in Umbria. Certo, c’è da chiedersi come mai in queste Regioni gli addetti siano di più che in Lombardia (390) o in Veneto (183) ma tant’è, questo personale è ormai sul groppone anche se nessuno lo vuole. Al Sud si aggiunge poi un altro paradosso: che le Comunità oltre a mantenere i dipendenti, debbano garantire le giornate lavorative a un esercito di forestali, anche qui senza sapere bene come impiegarli visto che non ci sono fondi per realizzare progetti sulla tutela dei boschi: tanto per fare un esempio, in Piemonte i forestali sono appena 532, in Campania 4.500 anche se il record appartiene alla Sicilia con 30 mila addetti (quasi la metà di tutto il resto del Paese). Ma nell’isola “virtuosa” sono in capo alla Regione e non esistono più le Comunità montane. Mentre al Sud le Comunità soppresse pagano ancora stipendi, al Nord alcune Regioni si sono rifiutate di abolirle: la Lombardia ha appena stanziato 50 milioni di euro per le sue 23 Comunità montane, che si aggiungono a Comuni, Province e Unione di Comuni, tanto per non farsi mancare nulla.

Auto blu e stipendi d'oro, così manteniamo il carrozzone. Nell'ultimo anno le comunità montane hanno speso quasi 15 milioni di euro in consulenze. Dall'Anci assicurano che gli incarichi esterni sono necessari perché manca il personale. Spesso però i profili ricercati sono inutili: dal difensore civico al tutor per la creatività. C'è anche chi ha chiesto aiuto per realizzare un progetto di "taglio piante". Comunità fantasma o meno, nonostante l’esercito di dipendenti tutte continuano a mantenere un parco di 1.146 auto blu, pagare singoli direttori 80 mila euro l’anno e a garantire incarichi esterni a 1.944 persone, per una spesa complessiva di 14,9 milioni di euro solo tra il 2010 e il 2011. «Alcuni di questi incarichi sono obbligati, perché per appalti con fondi europei le Comunità spesso non hanno il personale idoneo e, con il blocco del turn-over imposto dallo Stato, non possono assumere», dicono dall’Anci. Certo, ma perché la Comunità Vestina in Abruzzo deve spendere 8 mila euro per il non proprio necessario difensore civico? Perché l’ente Forlivese deve spendere 8.100 euro per pagare una persona che «aggiorni la banca dati»? Per non parlare di quella dell’Appennino reggiano che ha speso 13.400 euro per affidare all’esterno la progettazione, non certo complessa di un canile, o della Comunità Valle Imagna che per 10 mila euro ha dato all’esterno l’incarico di «tutor dello spazio creatività». Mentre la Valle Camonica, nel Bresciano, ha speso 3 mila euro per l’acquisto di poster sui «funghi epigei» e nelle Marche si chiede una consulenza perfino per il progetto preliminare di «taglio piante», al costo di 2.744 euro. Colpisce poi come in Piemonte la Comunità del Biellese abbia speso quasi 10 mila euro per materiale promozionale «destinato al turismo religioso, arte e devozione», mentre quella di Cuneo per far fare le foto di una manifestazione abbia speso 1.200 euro. Il colmo lo raggiungono la Comunità Graffignana, che, per fare estrapolare i dati chiesti dall’Istat per il censimento, si è rivolta all’esterno pagando una ragazza 576 euro, o la Comunità Feltrina che ha speso 10 mila euro per una mostra fotografica. Pure per ampliare degli uffici si fa ricorso ad esterni pagati ben 65 mila euro, come nel Bresciano, dove tra l’altro in Val Camonica si pagano 152 mila euro per il servizio Informagiovani. E se nelle Regioni a Statuto ordinario dal 2010 sono stati aboliti i compensi per gli amministratori, proprio nel 2010 la Provincia di Bolzano ha incrementato del 7 per cento quelli delle sue Comunità montane: qui ai presidenti spetta un’indennità mensile lorda fino a 4.395 euro se sono contestualmente sindaci di un Comune, mentre se i presidenti non sono sindaci l’indennità può salire fino a 5.127 euro mensili, e ai membri dei consigli comprensoriali spetta un gettone di 50 euro lordi per ogni seduta. Così in Trentino i politici, spesso già retribuiti da Province e Comuni, costano a questi enti 761 mila euro all’anno. I buchi di bilancio In alcuni casi gli sprechi del passato tornano a galla improvvisamente e con una forza degna di uno tsunami. Come sta accadendo in Toscana, dove c’è chi tira in ballo perfino uno scandalo in salsa leghista, che questa volta travolge i rossi ex comunisti. «Diciamo che una gestione dei conti come questa non sarebbe andata bene neppure nell’ultima salumeria d’Italia», ha detto Luca Eller Vainicher, il consulente inviato dalla procura di Pistoia per dare un’occhiata alle casse della Comunità Appennino Pistoisese, dove mancano all’appello 10 milioni di euro. Soldi scomparsi in venti anni di gestione allegra e adesso nella valle pistoiese i sospetti su chi ha incassato questi soldi si estendono a macchia d’olio arrivando anche a ipotizzare finanziamenti illeciti ai partiti. Ma quanto accade a Pistoia non è un’eccezione. La Corte dei conti ha condannato decine di amministratori di Comunità montane d’Italia, da Massa Carrara dove in tre dovranno pagare 55 mila euro per aver affidato una consulenza esterna a un non laureato, a Perugia dove è stato accertato un danno da 300 mila euro per l’acquisto da parte dell’ente locale di macchinari «mai utilizzati». In Friuli, poi, i giudici contabili hanno condannato alcuni amministratori perché avevano garantito uno stipendio d’oro, da oltre 300 mila euro, a un dirigente, mentre nel Lazio i magistrati indagano ancora sui mega investimenti fatti dalla Comunità di Terni per il progetto Agrobioforest, che ha causato una perdita di 1 milione di euro per un impianto in serra mai utilizzato. Sprechi di ieri, che continuano anche oggi in nome della montagna, sempre più abbandonata e con una superficie boschiva che non si riesce a tenere in ordine, moltiplicando così il rischio di dissesto idrogeologico: ma tant’è, oggi i soldi finiscono tutti in consulenze e stipendi.

Nel 2008 lo Stato decide di togliere i fondi alle Comunità montane e delega la responsabilità a Regioni e Comuni. «Uno scaricabarile ai danni dei più piccoli che non fa altro che triplicare i costi» a dirlo è Enrico Borghi, vice presidente dell'Anci con delega alle politiche per la montagna. Nel 2008 il governo Berlusconi ha deciso di azzerare i fondi statali alle Comunità montane, che però, continuano a pesare sulle tasche dei contribuenti.

Non dovrebbero più esserci eppure continuiamo a pagarle, perchè?

«In realtà non esiste una vera e propria legge che ha destituito gli enti. Semplicemente nel 2008 Tremonti ha deciso di azzerare il fondo ordinario scaricando le responsabilità dello Stato a Regioni e Comuni che erano già abbastanza appesantiti da altri "tagli lineari" e così i costi invece di abbassarsi sono aumentati».

Sono aumentati perchè manteniamo Comunità in liquidità da anni.

«Non possiamo fare altrimenti. Se gli enti hanno ancora dei debiti o dei crediti non possono chiudere. Le competenze passano ad altri, ma non i soldi. La pubblica amministrazione non funziona come un'azienda privata che porta i libri in tribunale e finisce tutto così. Se poi ci aggiungiamo le lungaggini della burocrazia italiana ecco che arriviamo alla condizione attuale».

Nella quale ci sono dei dipendenti per degli enti che non dovrebbero più esistere.

«E certo. Nessuno li vuole. Nessuna legge ha spiegato come dislocarli. Si sta semplicemente aspettando che queste persone vadano in pensione o che si liberino dei posti in altre amministrazioni, anche perchè con il blocco del turn-over non è neanche possibile assumerli altrove. Si deve uscire dalla logica che se chiudo qualcosa c'è automaticamente risparmio. Spesso è il contrario: a parità di categoria la Regione spende per i suoi dipendenti il 25% in più della comunità montana».

Si è sbagliato quindi a chiuderle, andava tutto bene?

«Non diciamo questo. Siamo stati noi a sgolarci per chiedere una riforma. I fondi arrivavano a seconda della superficie e così sono nate le anomalie di Comunità vicine a livello del mare, ma questo non significa che erano tutte inutili e che improvvisamente il territorio montano perdeva le sue specificità e necessità. Sono anni che proponiamo di eliminare le Comunità montane e creare un'Unione di Comuni montani».

Non cambia solo il nome?

«No, perchè non si tratterebbe di creare un livello aggiuntivo di governo, semplicemente di rispettare i diritti dei cittadini. Se io spendo tre volte in più di quello che spende il mio collega sindaco di pianura questo mi deve essere riconosciuto attraverso un sistema di compensazioni. Invece lasciamo da soli gli abitanti e roviniamo il territorio».

Avete parlato con il nuovo governo?

«Non mi sembra che questi temi siano tra le priorità. Abbiamo fatto conferenze, commissioni, proposto una serie di questioni. Tutti ci dicono che abbiamo delle belle idee, ma poi non abbiamo nessun riscontro ufficiale. Tanto si sa, in Italia c'è un rapporto inversamente proporzionale tra le buone intenzioni e le pratica. Sono tutti convinti che il mondo è quello che dice l'Ansa, quello che c'è scritto su Twitter. Ma io sono pronto a scommettere che il 90% di quelli che corrono tra Ballarò e Porta a Porta non ha idea di cosa significa amministrare un comune di montagna».

Lo scandalo dei fondi Ue.

Inchiesta di “Libero Quotidiano”. Sesso in Burundi, api in Andalusia. Così l'Europa che chiede sacrifici butta via oltre trecento miliardi. La folle geografia dei finanziamenti europei e le tante falle nei controlli della gestione dei fondi che finiscono a enti locali ma anche a privati cittadini. Dai contributi per i corsi di russo e cinese, ai 110 mila euro per studi per attuare la direttiva sugli zoo in Europa. Leggi tutti progetti più pazzi che mamma Europa finanzia lautamente. Benvenuti nel mondo dei contributi europei, un mondo ricco, pieno di sorprese che è diventato un business da oltre trecento miliardi di euro. Per ottenere contributi da mamma Europa, la stessa che da una parte ci chiede sacrifici e dall'altra concede soldi agli Stati-membri per i progetti più astrusi. Come spiega Repubblica, che ricostruisce la ricca geografia del contributo europeo, puoi ottenere fondi per svolgere un sondaggio di opinione sull'economia in Islanda o per promuovere un'attività culturale in Palestina, per aprire un ristorante in Romania o per finanziare progetti di inserimento lavorativo in Cambogia. La facilità nell'ottenere un finanziamento ha dato via a un vero magna magna sia da parte di enti pubblici come Regioni, Province e Comuni ma anche di privati cittadini, associazioni, agenzie o organizzazioni non governative. Ovviamente spesso la gestione dei fondi è finita nel mirino delle Procure. Ecco alcuni progetti per cui l'Europa concede lauti finanziamenti: 600mila euro per la sensibilizzazione dei diritti sessuali e riproduttivi nel Burundi, 2,6 milioni di euro per finanziare le iniziative a favore dei disabili in Turchia. "Nel mare magnum delle sovvenzioni ai progetti sui grandi temi - scrive Repubblica - ci sono la lotta all'uso illegale di internet, 9,5 milioni per aggredire la criminalità finanziaria, 5,5 per contrastare l'estremismo violento, 2,6 milioni per iniziative che scuotano le coscienze nei riguardi della pena di morte e della tortura. Sono tutte finalità nobili e apprezzabili, ma ci si chiede se sia il caso di stanziare cifre di questo genere in un momento di grande crisi e, soprattutto, se viene esercitato il giusto controllo su come vengono gestiti i fondi. Per frequentare un corso di russo e cinese puoi ottenere un credito da 1800 euro, in Sicilia sono stati spesi 150mila euro per pagare un consulente chiamato a coordinare un progetto che tuteli la Zerkova, una specie diffusa sui monti Iblei. E' previsto un contributo di 3mila euro per la partecipazione di militari a corsi di formazione in Toscana, 28,4 euro per alveare a chi fa un allevamento di api in Andalusia, fino a 700mila euro per la coltivazione di noci in Polonia, 110mila euro per studiare l'attuazione della direttiva sugli zoo in Europa. A evidenziare tutti i limiti del settore è Alessandro Laterza, vicepresidente di Confindustria con delega al mezzogiorno che, a Repubblica, dice: "Uno dei paradossi della spesa l'eccessiva frammentazione: le singole Regioni presispongono interventi di natura locale che vanno ad accavallarsi, in modo irrazionale, con altri che hanno un interesse nazionale, anche nel campo delle infrastrutture. Senza una regia coordinata il rischio è quello della polverizzazione, che è l'esatto contrario della concentrazione che ci chiede la Commissione europea".

Dal sesso in Burundi alle noci in Polonia L'Ue che ci chiede sacrifici butta via 300 mld La folle geografia dei finanziamenti europei e le tante falle nei controlli della gestione dei fondi. L’Inchiesta di Antonio Fraschilla ed Emanuele Lauria su “La Repubblica”:

101 modi per avere fondi Ue.

Cinema, sport, turismo e tanto altro, ecco i bandi che promuovono lo sviluppo. Prestiti e contributi a fondo perduto, sono molti i progetti finanziati da Bruxelles. L'Unione Europea finanzia le iniziative più disparate. Noi abbiamo messo in fila 101 modi per chiedere i soldi all'Ue. Un viaggio pieno di sorprese.....

Progetto

Categoria

Fondi

Acquisto arredamenti per un b&b in Puglia

turismo

fino al 50 per cento spese

Acquisto nuove attrezzature per pesca

pesca - innovazione

fino a 400 mila euro

Aiuto agli agricoltori rumeni in crisi

agricoltura

fino a 15 mila euro

Allevamento api in Andalusia

agricoltura

28,4 euro per alveare

Allevamento api in Austria

agricoltura

25 euro per alveare

Attività fondazioni politiche a livello europeo

politica

sino all'85 per cento dei costi

Avvio di imprese in Campania

impresa

prestiti a tasso zero da 5 mila a 25 mila euro

Avvio di nuove imprese per il turismo rurale in Bulgaria

turismo - agricoltura

fino a 200 mila euro

Aziende agricole francesi che assumono disoccupati

agricoltura - impresa

fino al 50 per cento dei versamenti previdenziali

Coltivazione del nocciolo

agricoltura

400 euro all'ettaro

Coltivazione di agrumi

agricoltura

370 euro all'ettaro

Coltivazione di frutta e ortaggi in Germania

agricoltura

contributo di 480 euro a ettaro

Coltivazione di frutta secca nella Murcia (Spagna)

agricoltura

123 euro a ettaro

Coltivazione di noci in Polonia

agricoltura

fino a 700 mila euro

Coltivazione di verdure biologiche in Polonia

ambiente

fino a 380 euro a ettaro

Coltivazione fruttiferi

agricoltura

360 euro all'ettaro

Coltivazione olivo

agricoltura

380 euro all'ettaro

Coltivazione vite

agricoltura

340 euro all'ettaro

Commercializzazione prodotti realizzati da pmi nel settore dei rifiuti e dell’alimentare

agricoltura - commercio

50 per cento dei costi

Coproduzione di lungometraggi, cartoni, documentari

cinema

fino a 700 mila euro

Corsi di cinese, russo, tedesco, spagnolo, inglese e francese (diverse regioni)

formazione

fino a 1.800 euro

Corsi di formazione per pasticcieri, esperti in fotovoltaico e operatori turistici, diverse regioni

formazione - turismo

fino a 600 euro al mese per un anno

Digitalizzazione dei cinema

cinema - digitalizzazione

20 mila euro per ogni schermo

Distribuzione transnazionale dei film europei

cinema

50 per cento dei costi

Eliminazione delle barriere architettoniche nelle case con disabili (in Calabria)

disabilità

dal 20 al 100 per cento dei costi

Eventi sportivi in città d'arte

sport

80 per cento dei costi

Frequenza master e scuole di alta formazione (diverse regioni)

formazione

fino a 6 mila euro

Impianto di vite in Spagna

agricoltura

310 euro a ettaro

Imprese che assumono disoccupati e indigenti (diverse regioni)

impresa

da 333 euro a 416 euro al mese per due anni per ogni contratto

Ingaggio consulenti per innovazione aziende agricole in Campania

agricoltura - impresa

1500 euro per contratto

Iniziative culturali per l’integrazione tra i paesi europei e quelli del Mediterraneo

integrazione

da 50 a 100 mila euro

Iniziative per disabili in Turchia

disabilità

fino al 100 per cento dei costi

Introduzione di tecniche di allevamento per il benessere di ovini e caprini, in varie Regioni

animali - innovazione

contributo da 80 a 100 euro ad animale

Iscrizione dei bambini in asili nido della Calabria

formazione - infanzia

contributo di 250 euro al mese per famiglie a basso reddito

Messa in rete delle sale che proiettano film europei

cinema - digitalizzazione

40 per cento dei costi

Modernizzazione imprese bulgare e acquisto software

innovazione - impresa

fino all'80 per cento dei costi

Nuove attività economiche nei villaggi della Romania

economia

fino a 200 mila euro

Orchestre, compagnie teatrali attive in campo europeo

musica - teatro

da 100 a 600 mila euro

Organizzazione di convegni, mostre e fiere sulla mobilità e i trasporti

trasporti

100 per cento dei costi

Organizzazione di esercitazioni di protezione civile

sicurezza

85 per cento dei costi

Organizzazione eventi culturali, concerti e spettacoli in Sicilia

musica

fino al 100 per cento costi

Partecipazione a corsi di formazione per dipendenti di aziende (diverse regioni)

formazione

contributo da 25 euro l’ora

Partecipazione a corsi di formazione per disoccupati, svantaggiati, disabili, immigrati, indigenti (diverse regioni)

formazione

contributo di 25 euro l'ora

Partecipazione di militari a corsi di formazione in Toscana

formazione

contributo di 3 mila euro

Produzione di uva per vino in Austria

agricoltura

750 euro a ettaro

Produzione grano in Svezia

agricoltura

144 euro a ettaro

Produzione opere interattive

cinema - digitalizzazione

da 10 a 150 mila euro

Progetti a sostegno della società civile in Bosnia

integrazione

90 per cento dei costi

Progetti che sostengono il turismo in bassa stagione

turismo

fino a 150 mila euro

Progetti contro l'estremismo violento

sicurezza

90 per cento dei costi

Progetti contro l'illecito sportivo

sport

fino al 60 per cento dei costi

Progetti contro la criminalità finanziaria

economia

90 per cento dei costi

Progetti contro la tortura

diritti umani

85 per cento dei costi

Progetti d'istruzione superiore in Africa, Caraibi e zona del Pacifico

formazione - sviluppo

da 250 a 500 mila euro

Progetti di collaborazione fra associazioni culturali, musei, teatri di diversi paesi

teatro - cultura

da 2 a 500 mila euro

Progetti di contrasto al terrorismo

sicurezza

90 per cento dei costi

Progetti di gemellaggio fra città europee

integrazione

da 40 a 150 mila euro

Progetti di protezione e supporto vittime della tratta di esseri umani

diritti umani

90 per cento dei costi

Progetti di ricerca di studenti o imprese in Egitto

formazione

da 200 a 600 mila euro

Progetti di ricerca in materia economica all’interno della Bce

economia

borse di studio triennali da 30 mila euro all’anno

Progetti d’innovazione tecnologica delle imprese

innovazione - tecnologia

100 per cento dei costi

Progetti per attività culturale in Palestina

integrazione - formazione

da 50 a 100 mila euro

Progetti per combattere l'uso illegale di Internet

digitalizzazione - internet

90 per cento dei costi

Progetti per l'inserimento ai lavoro in Cambogia

formazione - sviluppo

80 per cento dei costi

Progetti per la “sensibilizzazione sui diritti sessuali e riproduttivi nel Burundi”

pari opportunità

budget di 600 mila euro

Progetti per migliorare la sicurezza degli esplosivi

sicurezza - armi

fino al 100 per cento dei costi

Progetti per sensibilizzare l'opinione pubblica sul problema dell'invecchiamento

sociale - terza età

80 per cento dei costi

Progetti per sensibilizzare sulla pena di morte

diritti umani

fino al 100 per cento dei costi

Progetti per “l'efficace funzionamento della corte penale internazionale”

diritto internazionale

85 per cento

Progetti “eco-innovativi” nuovi o da rilanciare sul mercato

ambiente - innovazione

50 per cento dei costi

Promozione attività fisica fra gli anziani

sport - terza età

60 per cento dei costi

Promozione dello sport a livello comunale

sport

60 per cento dei costi

Promozione dello sport in Stati e regioni confinanti

sport

60 per cento dei costi

Promozione pacchetti turistici tematici transnazionali

turismo

fino a 210 mila euro

Promozione scambi culturali fra giovani

integrazione

fino a 100 mila euro

Promozione vini campani all'estero

agricoltura - enogastromia

fino al 50 per cento dei costi

Punti vendita e degustazione vini in Campania

agricoltura - enogastromia

fino al 50 per cento dei costi

Realizzazione allevamenti ittici in Campania

pesca

fino a 1,5 milioni

Realizzazione di canili e centri di cura per animali

animali

50 per cento dei costi

Realizzazione di nuove aziende agricole in Polonia

agricoltura

fino all'80 per cento del progetto

Realizzazione sondaggi d’opinione sull’economia in Irlanda, Islanda e Serbia

economia

50 per cento dei costi

Restauro e rifacimento immobli in aziede agricole, in varie Regioni

agricoltura

fino a 20 mila euro

Riduzione dei mesi di attività di pesca

pesca

contributo di 5 mila euro

Ristrutturazione aziende agricole e acquisto macchinari

agricoltura

50 per cento dei costi

Sagre, spettacoli e manifestazioni culturali

spettacolo - turismo

80 per cento dei costi

Salvaguardia piante rare

agricoltura

fino a 100 mila euro

Scivolo alla pensione dei pescatori che consegnano la licenza

pesca - previdenza

contributo fino a 40 mila euro

Scivolo per la pensione degli agricoltori in Campania

agricoltura - previdenza

fino a 180 mila euro

Seminari e pubblicazioni per formazione agricoltori

agricoltura

fino a 150 mila euro

Sostegno a disoccupati che vivono in famiglie con reddito inferiore ai 10 mila euro (diverse regioni)

sociale

bonus di 3.600 euro

Sostegno a disoccupati disabili, donne, immigrati ed ex detenuti, diverse regioni

pari opportunità

700 euro al mese per due anni

Sostegno a imprenditori che assumono persone prossime alla pensione in Toscana

impresa - lavoro

da 3.000 a 3.600 euro annui

Sostegno famiglie indigenti nelle regioni del Sud Italia

impresa - lavoro

prestito fino a 6 mila euro

Sostegno giovani imprenditori (diverse regioni)

economia - impresa

garanzia del prestito fino a 250 mila euro e contributo fino a 70 per cento degli interessi

Studi e seminari per incentivare la lotta alle frodi

economia

fino a 60 mila euro

Studi per attuare la direttiva sugli zoo in Europa

animali

110 mila euro

Studi sulle conseguenze di un “attacco intenzionale a navi che trasportano gas, prodotti chimici e petrolio”

sicurezza

fino a 150 mila euro

Tirocini in azienda da parte di disoccupati (diverse regioni)

formazione

contributo di 450 euro al mese per 12 mesi

Trasformazione di terreni da seminativi a pascolo

agricoltura - innovazione

budget di 3,6 milioni di euro

Trasformazioni dei pescherecci in attività di pesca turismo

pesca - turismo

da 2 a 800 mila euro

Utilizzo di terreni agricoli in Bulgaria per il fotovoltaico

agricoltura - fotovoltaico

fino a 200 mila euro

Finanziamenti per 300 miliardi di euro. I 101 modi per chiedere soldi a Bruxelles. Nei palazzi comunitari non si parla solo di rigore. Nel periodo che va dal 2007 al 2013 sono stati stanziati miliardi di contributi. Sei milioni di euro a disposizione per combattere l'uso illegale di Internet, 9,5 milioni per aggredire la criminalità finanziaria, 5,5 per contrastare "l'estremismo violento". Ma ci sono anche fondi per aprire un ristorante in Romania o per un progetto di inserimento al lavoro in Cambogia. Qualcuno si chiede se ce ne sia bisogno. Dipende dai risultati. PUOI ottenere un contributo per svolgere un sondaggio d'opinione sull'economia in Islanda o per promuovere un'attività culturale in Palestina, per aprire un ristorante in Romania o, spostandosi decisamente più a Est, per finanziare "progetti di inserimento al lavoro" in Cambogia. È vasta la geografia del finanziamento europeo. È una mappa che segna migliaia di canali di spesa che da Bruxelles raggiungono vecchi e nuovi Paesi dell'Unione, fino agli Stati terzi che, per ragioni sociali o economiche, sono ritenuti meritevoli di sostegno. È una carta scolpita nell'oro, che racconta anche di un gigantesco business, quello che ruota attorno all'enorme mole di fondi strutturali a disposizione per il periodo 2007-2013: 308,3 miliardi di euro, di cui quasi 60 per i programmi italiani. I beneficiari non sono solo enti pubblici: oltre che alle articolazioni statali, a Regioni, Province e Comuni, ogni giorno la caccia ai fondi dell'Ue è aperta a singoli privati, associazioni, agenzie o organizzazioni non governative. E l'analisi dei bandi pubblicati direttamente da Bruxelles o dagli enti territoriali, dei prestiti come dei contributi a fondo perduto, si fa beffe dell'immagine, diffusa di questi tempi di crisi, di un'Europa avara che chiede solo sacrifici. L'Unione, in realtà, finanzia le iniziative più disparate. Non dissipando l'ombra dello spreco. Noi abbiamo messo in fila qualche decina di modi per chiedere i soldi all'Ue: ed è un viaggio che riserva sorprese.

LA CORSA AI BANDI

Una valanga di fondi in studi, progetti, indagini e seminari. Fra i bandi aperti o chiusi di recente, gestiti direttamente da Bruxelles, ce n'è uno sostenuto da una dotazione di mezzo milione di euro per realizzare "uno o più" sondaggi d'opinione fra i consumatori sullo stato dell'economia in Islanda e Serbia, candidati a entrare nell'Ue. Il 50 per cento è a carico del bilancio dell'Unione e possono partecipare società di ogni angolo d'Europa. Un progetto che sviluppi gli scambi culturali e l'integrazione con la Palestina vale dai 50 ai 100 mila euro, mentre la presentazione di proposte per favorire l'inserimento al lavoro in Cambogia è incoraggiata con un budget di 3,9 milioni di euro. Per carità: probabilmente ogni cittadino europeo è orgoglioso di sostenere con le proprie tasse la società civile in Bosnia (i costi dei progetti sono coperti al 90 per cento) o la diffusione dell'istruzione superiore in Africa e nei Caraibi (da 250 a 500 mila euro per ogni iniziativa finanziata). E forse non sono mal spesi i 600 mila euro per la sensibilizzazione dei diritti sessuali e riproduttivi nel Burundi. Forse, chissà. E chissà se è congrua la cifra di 2,6 milioni di euro per finanziare le iniziative a favore dei disabili in Turchia. Di certo, un recente rapporto dell'Open society foundation punta il dito sul cattivo uso dei fondi per questo settore, specialmente da parte degli Stati dell'Europa centrale e orientale "che continuano a costruire o rinnovare istituti di degenza invece che investire nello sviluppo di comunità alternative". Il nodo, in ogni caso, è quello della concretezza delle iniziative. Nel mare magnum delle sovvenzioni ai progetti sui grandi temi, che non hanno efficacia diretta ma "preparano o integrano azioni della commissione europea", ci sono sei milioni di euro a disposizione per combattere l'uso illegale di Internet, 9,5 milioni per aggredire la criminalità finanziaria, 5,5 per contrastare "l'estremismo violento", i 2,6 milioni di euro stanziati per iniziative che smuovano le coscienze nei riguardi della pena di morte e della tortura. Sia chiaro: tutte finalità nobili. Ma dipende dai risultati, che gli stessi addetti ai lavori definiscono non sempre quantificabili in questo campo. Di certo, al confronto di queste cifre, i 110 mila euro per scrivere il documento attuativo della direttiva sugli zoo sembrano bruscolini. Ma in tempi di vacche magre fanno discutere anche quelli. Chi vuole, può presentare la propria proposta a Bruxelles. E chi lo ritiene può cimentarsi in un progetto contro il fenomeno delle partite truccate, che ben conosciamo in Italia e che dà diritto a un contributo sino al 60 per cento dei costi. Pochi sanno che l'Europa, nel campo del turismo, finanzia pacchetti di viaggio transnazionali, premiando in particolare modo le agenzie con bonus da 210 mila euro per ciascuna, e sostiene con 150 mila euro ciascuno i progetti che aiutino la mitica "destagionalizzazione" dei flussi. Anche l'Europa partecipa al finanziamento pubblico dei partiti: a loro riservati, nel bilancio dell'Ue ci sono, per il 2013, 21,8 milioni di euro. Cui devono aggiungersi 12 milioni per le fondazioni: l'europarlamento garantisce l'85 per cento delle spese di funzionamento. Tutto ciò, per le iniziative a regia di Bruxelles. Ma cosa accade quando i fondi vengono erogati a livello locale? Come vengono gestiti e, soprattutto, come viene organizzata la spesa?

LA RETE

Una ragnatela di finanziamenti intessuta da Stato e Regioni che spesso non parlano tra loro. Si va dal milione e mezzo a disposizione per chi vuole realizzare allevamenti ittici in Campania al contributo da tremila euro che spetta ai militari che vogliono frequentare corsi di formazione in Toscana. È un capitale, quello dirottato sulla formazione professionale: in diverse regioni un giovane che vuole diventare pasticcere, esperto in fotovoltaico o operatore turistico (le qualifiche più ricercate) ha diritto a un contributo annuo da 600 euro mentre un credito da 1.800 euro spetta a chi voglia frequentare corsi di russo o di cinese. La formazione è un pilastro fondamentale delle strategie di crescita benedette dall'Europa: ma in questi anni si sono moltiplicate le inchieste sull'uso che le Regioni fanno di questi fondi. E di come gli stessi siano stati destinati, specie al Sud, a sostenere enti diventati stipendifici: solo in Sicilia nel settore lavorano 8 mila dipendenti. Mentre la percentuale degli allievi che trovano un lavoro "coerente", al termine dei corsi, non supera il 10 per cento. Nella lista una miriade di incentivi al welfare che si vanno arricchendo di anno in anno. L'ultima tendenza, mettiamola così, è quella dell'assunzione del quasi pensionato: mentre infuria il dibattito sugli esodati, la Regione Toscana prevede un finanziamento da 3 mila a 3.600 euro per gli imprenditori che mettono in organico persone cui mancano meno di 5 anni all'età pensionabile. Agevolazione simile a quella prevista per gli agricoltori della Campania. Com'è andata, la storia dei fondi europei per il Sud è storia nota: finanziamenti dispersi in una miriade di microprogetti e spesa bloccata su percentuali risibili. Basti pensare che alla fine di maggio, quando mancava un anno e mezzo alla fine del programma, Regioni, Province e Comuni avevano speso solo il 25 per cento dei 60 miliardi a disposizione. Quarantacinque rischiano di tornare a Bruxelles, insomma. Mentre è sempre più intensa l'attività dell'Olaf, l'organismo comunitario anti-frodi, ma anche di svariate Procure che indagano sui meccanismi di utilizzo dei soldi dell'Europa: a Palermo, caso tragico e paradossale, si tenta di far luce su sovrafatturazioni che sarebbero servite per destinare parte delle risorse europee per i grandi eventi al finanziamento di appartamenti e escort per i politici. Ma in che modo una simile pioggia di fondi determina disparità e azioni contraddittorie?

LE CONTRADDIZIONI

Una risposta arriva dai fittissimi programmi regionali che riguardano agricoltura e pesca. In Germania ci sono 16 programmi e altrettanti diversi contributi (da 135 a 314 euro per ettaro) per la stessa misura di conversione al biologico. Tutte le regioni francesi, in questo campo, offrono un sostegno alla riconversione dei terreni ma solo 9 al loro mantenimento. E ancora: la realizzazione di un allevamento di api vale 28,4 euro per alveare in Andalusia e 25 in Austria. Diversi programmi, scrive Alexandra Pohl in un dossier sui fondi dello sviluppo rurale patrocinato dall'Ue, "penalizzano l'agricoltura biologica a causa di finanziamenti più bassi per la stessa misura": restando in Germania, la regione di Hessen concede 45 euro ad ettaro per la pratica del "sovescio" (l'interramento delle colture) fatta da aziende biologiche, ben 70 per quelle tradizionali. In Puglia può accadere che si finanzi coi fondi Ue l'impianto di girasoli e un paio di anni dopo si decida di concedere incentivi per estirparli, quei girasoli: "Un assurdo, che non si verificherebbe con un coordinamento a livello centrale", dice Fausto Durante, responsabile Europa della Cgil. Lo stesso sindacato, in un rapporto sulla pesca, punta il dito su altre contraddizioni: l'Ue concede contributi per tutelare le risorse ittiche, come i 5 mila euro per i piccoli pescatori che vogliono ridurre i mesi di attività, e allo stesso tempo propone sovvenzioni per l'ammodernamento delle barche e l'acquisto di nuove attrezzature per la pesca. E c'è di più: "Nel nostro settore tutto è affidato alle Regioni, ma il mare è un bene comune - dice Giovanni Basciano dell'Agc Pesca - il risultato è che si danno soldi per rottamare le barche e nel Lazio magari si parta subito a diminuire la flotta e in Campania questo avvenga diversi anni dopo. Così però non si ottiene una vera salvaguardia del pescato". Lo spreco non risparmia un settore importante come quello della botanica: anche la salvaguardia delle piante rare merita un aiuto da Bruxelles. Ma quando, come è accaduto in Sicilia, vengono spesi 150 mila euro per pagare un consulente chiamato a coordinare un progetto che tuteli la Zerkova - specie diffusa sui monti Iblei - è inevitabile che nascano i sospetti e le polemiche. Quelle che hanno portato un assessore regionale ad ammettere che si stava commettendo una "leggerezza". E ad annullare il provvedimento. Ma che impatto hanno avuto le politiche di sostegno specie nelle aree meno sviluppate? Quali obiettivi sono stati raggiunti?

IMPATTO ZERO

Dal 1999 al 2005 il Pil di ogni singolo cittadino dei territori dell'"obiettivo 1" (le zone più arretrate) è cresciuto del 3%. Ma la situazione cambia da regione a regione: il Sud Italia, ad esempio, non ha conseguito benefici apprezzabili, fermandosi allo 0,6%. Cinque volte di meno. E le regioni che si erano affrancate dal livello di povertà, traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l'83%, sei anni dopo era al 75%. La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007. Numeri che confermano lo "scempio" di risorse Ue: "Uno dei paradossi della spesa dei fondi Ue - dice Alessandro Laterza, vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno - è l'eccessiva frammentazione: le singole Regioni predispongono interventi di natura locale che vanno ad accavallarsi, in maniera irrazionale, con altri che hanno un interesse nazionale, anche nel campo delle infrastrutture. Senza una regia coordinata, il rischio è quello della polverizzazione, che è l'esatto contrario della concentrazione che ci chiede la Commissione europea". Una miriade di microprogetti e di incentivi "ma senza una regia si perdono le risorse". Una ragnatela di finanziamenti che aumenta di anno in anno, ma Stato e Regioni spesso non comunicano tra loro. Gli enti locali rischiano di restituire il 75% dei soldi a disposizione. Gli aiuti ai territori più deboli non sono riusciti a portare benefici ovunque. "Manca una politica industriale e sociale vera a monte". Una ragnatela di finanziamenti intessuta da Stato e Regioni che spesso non parlano tra loro. Si va dal milione e mezzo a disposizione per chi vuole realizzare allevamenti ittici in Campania al contributo da tremila euro che spetta ai militari che vogliono frequentare corsi di formazione in Toscana. Dalla copertura totale delle spese per chi organizza concerti e spettacoli in Sicilia ai 250 euro al mese che la Regione Calabria eroga alle mamme con reddito inferiore ai 10 mila euro per iscrivere i bimbi all'asilo nido. Quindi un capitale dirottato sulla formazione: in diverse regioni un giovane che vuole diventare pasticcere, esperto in fotovoltaico o operatore turistico (le qualifiche più ricercate) ha diritto a un contributo annuo da 600 euro mentre un credito da 1.800 euro spetta a chi voglia frequentare corsi di russo o di cinese. E una miriade di incentivi al welfare che si vanno arricchendo di anno in anno. L'ultima tendenza, mettiamola così, è quella dell'assunzione del quasi pensionato: mentre infuria il dibattito sugli esodati, la Regione Toscana prevede un finanziamento da 3 mila a 3.600 euro per gli imprenditori che mettono in organico persone cui mancano meno di 5 anni all'età pensionabile. Agevolazione simile a quella prevista per gli agricoltori della Campania: lì, sempre con fondi europei, si finanzia con 180 mila euro una sorta di scivolo per chi cede il proprio terreno a un giovane collega. Com'è andata, la storia dei fondi europei per il Sud è storia nota: finanziamenti dispersi in una miriade di microprogetti (solo in Sicilia la metà dei 500 interventi programmati al 31 agosto scorso riguardava autoscuole, gelaterie, fornai, torronifici e aziende similari) e spesa bloccata su percentuali risibili: basti pensare che alla fine di maggio, quando mancava un anno e mezzo alla fine del programma, Regioni, Province e Comuni avevano speso solo il 25 per cento dei 60 miliardi a disposizione. Quarantacinque rischiano di tornare a Bruxelles, insomma. Mentre è sempre più intensa l'attività dell'Olaf, l'organismo comunitario anti-frodi, ma anche di svariate Procure che indagano sui meccanismi di utilizzo dei soldi dell'Europa: a Palermo, caso tragico e paradossale, si tenta di far luce su sovrafatturazioni che sarebbero servite per destinare parte delle risorse europee per i grandi eventi al finanziamento di appartamenti e escort per i politici. In che modo una simile pioggia di fondi determina disparità e azioni contraddittorie?

Disparità e contraddizioni. Una risposta arriva dai fittissimi programmi regionali che riguardano agricoltura e pesca. In Germania ci sono 16 programmi e altrettanti diversi contributi (da 135 a 314 euro per ettaro) per la stessa misura di conversione al biologico. Tutte le regioni francesi, in questo campo, offrono un sostegno alla riconversione dei terreni ma solo 9 al loro mantenimento. E ancora: la realizzazione di un allevamento di api vale 28,4 euro per alveare in Andalusia e 25 in Austria. Diversi programmi, scrive Alexandra Pohl in un dossier sui fondi dello sviluppo rurale patrocinato dall'Ue, "penalizzano l'agricoltura biologica a causa di finanziamenti più bassi per la stessa misura": restando in Germania, la regione di Hessen concede 45 euro ad ettaro per la pratica del "sovescio" (l'interramento delle colture) fatta da aziende biologiche, ben 70 per quelle tradizionali. In Puglia può accadere che si finanzi coi fondi Ue l'impianto di girasoli e un paio di anni dopo si decida di concedere incentivi per estirparli, quei girasoli. "Un assurdo, che non si verificherebbe con un coordinamento a livello centrale manca una politica industriale e sociale vera a monte", dice Fausto Durante, responsabile della segreteria Europa della Cgil. Lo stesso sindacato, in un rapporto sulla pesca, punta il dito su altre contraddizioni: l'Ue concede contributi per tutelare le risorse ittiche, come i 5 mila euro per i piccoli pescatori che vogliono ridurre i mesi di attività, e allo stesso tempo propone misure che possono danneggiare gli stock, quali le sovvenzioni per l'ammodernamento delle barche e l'acquisto di nuove attrezzature per la pesca. E nelle settimane in cui i burocrati di Bruxelles studiano la nuova programmazione per il periodo 2014-2020, la domanda inevitabile è: che impatto hanno avuto le politiche di sostegno specie nelle aree meno sviluppate?

Impatto zero. Dal 1999 al 2005 il Prodotto interno lordo di ogni singolo cittadino dei territori dell'"obiettivo 1" (le più arretrate) è cresciuto del 3%: ma la situazione cambia da regione a regione: il Sud Italia, ad esempio, non ha conseguito benefici apprezzabili, fermandosi allo 0,6%. Cinque volte di meno. E le regioni che si erano affrancate dal livello di povertà, traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l'83%, sei anni dopo era al 75%. La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007. Numeri che confermano lo "scempio" di risorse denunciato già un paio di lustri fa da Ciampi. L'allarme lanciato dall'ex capo dello Stato non ha smesso di risuonare: "Uno dei paradossi della spesa dei fondi Ue - dice Alessandro Laterza, vicepresidente di Confindustria con delega al Mezzogiorno - è l'eccessiva frammentazione: le singole Regioni predispongono interventi di natura locale che vanno ad accavallarsi, in maniera irrazionale, con altri che hanno un interesse nazionale, anche nel campo delle infrastrutture. Senza una regia coordinata, il rischio è quello della polverizzazione, che è l'esatto contrario della concentrazione che ci chiede la Commissione europea". 

Sorpresa: la Germania prima con l’Italia per truffe alla Ue, così come risulta dall’inchiesta svolta da Alessio Mazzucco su “L’Inkiesta”. Il report annuale della Commissione Europea su irregolarità e frodi mette al primo posto polacchi, tedeschi e italiani in quelle nei trasferimenti per la coesione territoriale. In tutto i tre paesi ne hanno accumulate 149 su 276. Anche se gli estensori del rapporto si precipitano a precisare immediatamente che «la Germania rimane il paese membro che ha più successo nel completare i procedimenti penali per stabilire la frode e imporre le multe». Non siamo sempre i peggiori nell’uso dei fondi pubblici europei: incredibile ma vero, il report annuale 2011 della Commissione europea ci affianca sul podio delle truffe comunitarie ai tanto vituperati e amati tedeschi. I trasferimenti europei contano diverse voci: i più importanti per peso economico riguardano l’agricoltura e la Cohesion Policy, finalizzata alla redistribuzione di ricchezze tra le regioni più ricche e più povere d’Europa. Su quest’ultima voce lo studio della Commissione rivela il primato di Polonia, Germania e Italia per numero d'irregolarità, che in tutto ne hanno accumulate 149 su 276. Purtroppo lo studio non fornisce la cifra esatta paese per paese, per cui non è possibile capire chi fra i tre faccia più truffe.  Anche se gli estensori del rapporto si precipitano a precisare immediatamente che «la Germania rimane il paese membro che ha più successo nel completare i procedimenti penali per stabilire la frode e imporre le multe». Insomma, comunque anche se froda anche lei, la Germania resta migliore. Nel 2011, le irregolarità fraudolente contavano 139 casi per il settore agricolo (per un totale di 77 milioni di euro d’impatto economico stimato), 276 per le politiche di coesione (e 204 milioni di euro d’impatto). A queste si aggiungevano 101 casi tra i fondi di pre-accesso all’Unione (12 milioni di euro) che coinvolgevano paesi come Romania e Bulgaria. Nel giugno 2011, la Commissione ha approntato la Commission Anti-Fraud Strategy. un piano per incrementare l’efficienza dei controlli, dell’Ufficio Anti-Frode Europeo (Olaf) e per rivedere le direttive e velocizzare i processi, riducendo i rischi di frode. Qualcosa era già in moto. Dopo l’aumento delle irregolarità tra 2000 e 2008, complice, in parte, l’accesso dei Paesi dell’Est-Europa nell’Unione, la creazione dell'Ims, Irregularity Management System (2008), ha contribuito a contrastare la tendenza alla frode. Tra il 2008 e il 2010 la cifra ha continuato ad aumentare, vero, in particolare si nota un incremento al 2009 per un 43% nell'agricoltura e un 23% nelle politiche di coesione, ma, come spiega lo studio della Commissione per la protezione degli interessi finanziari dell'Unione, gran parte è dovuto ad un migliore monitoraggio da parte dei Paesi. Tra il 2010 e il 2011 si assiste ad una inversione: le irregolarità diminuiscono del 35% e l’impatto economico delle frodi del 37%. E dal 2011 la Commission Anti-Fraud Strategy. Parole d'ordine: etica, trasparenza, rinforzo strumenti di monitoraggio, prevenzione delle frodi, aumento delle sanzioni e cooperazione tra attori europei e nazionali. Sarà interessante aspettare i risultati del 2012 per capire se la Germania sarà ancora con noi e la Polonia a spartirsi il primo posto per irregolarità. Per quanto ancora il nostro paese arrancherà dietro gli altri? Al 2010 si classificava primo per frodi accertate nei fondi per l’agricoltura, e ora è primo a pari merito con Germania e Polonia per le irregolarità nei trasferimenti per le politiche di coesione. Ma essere affiancati dai primi della classe resta una magra consolazione, soprattutto quando gli altri si rivelano impeccabili nel perseguire le irregolarità e nella gestione dei fondi in altri ambiti.  

PARLIAMO DEI MANCATI INVESTIMENTI SUI CONTRIBUTI UE

La madre di tutti gli sprechi è, addirittura, l'incapacità della classe dirigente italiana, politica, amministrativa ed istituzionale, di riuscire a spendere i soldi che l'Unione Europea ci regala.

Secondo l’inchiesta di Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”: speso solo il 9% degli investimenti UE. La macchina inceppata dei contributi. Fra le 200 regioni del continente, quelle meridionali in 10 anni perdono 40 posizioni per PIL pro capite.

Ricordava soprattutto l'«imbarazzo», Carlo Azeglio Ciampi. Una sensazione sgradevole che provava quando a Bruxelles, da ministro del Tesoro, si sentiva dire che fra i Paesi europei l'Italia era quello «più indietro» nell'uso dei fondi comunitari. L'ex governatore della Banca d'Italia rese questa amara confessione a Nuoro, il 10 ottobre del 2000. A Roma c'era il governo di Giuliano Amato. Due anni prima l'attuale ministro della coesione Fabrizio Barca, chiamato al Tesoro proprio da Ciampi, aveva lanciato «Cento idee» per lo sviluppo del Sud. Fu accorata, la requisitoria del presidente della Repubblica, al Quirinale da appena un anno e mezzo.

Accorata ma durissima contro il «grande spreco» dei soldi europei inutilizzati, che avrebbero potuto far crescere il Sud. Uno spreco ancora più insultante perché «sono in qualche modo soldi nostri, che vengono dalle nostre tasche, dal nostro lavoro». Ciampi disse che era arrivato il momento di voltare pagina, farla finita con le opere incompiute e mettersi d'impegno per usare i soldi. Perché «ognuno è artefice del proprio destino».

Parole che potrebbero essere state pronunciate oggi: in questi dodici anni non è stato fatto neanche un piccolo passo avanti. E se il divario fra il Sud e il Nord si è fatto ancora più spaventoso la responsabilità è anche di chi non ha provveduto a sfruttare quel tesoro. Secondo la Svimez il Prodotto interno lordo medio delle Regioni meridionali era nel 1951 pari al 65,5% di quello del Centro Nord. Nel 2009, al culmine della recessione precedente, era sceso al 58,8%: appena sopra al 56% del 1995. Conseguenza della più bassa crescita, ovvio. Ma il confronto con le altre aree europee svantaggiate fa toccare con mano che cosa abbia significato per il Sud d'Italia «lo spreco» immane dei fondi europei inutilizzati denunciato nel 2000 da Ciampi. Nella graduatoria delle 208 regioni continentali meno sviluppate, quelle del Sud Italia si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto. Dieci anni dopo erano scivolate tra il 165°e il 200°. Dal 1999 al 2005 il Prodotto interno lordo di ogni singolo cittadino delle aree dell'«obiettivo 1» (le più arretrate) è cresciuto del 3%, in Italia dello 0,6%. Cinque volte di meno. Ci sono regioni che si erano affrancate da quel livello di povertà, traducibile per le statistiche comunitarie in una ricchezza media procapite inferiore al 75% della media continentale, e ci sono ripiombate. Nel 2001 la Basilicata aveva raggiunto l'83%, sei anni dopo era al 75%.

La Sicilia è passata dal 75% al 66%. La Puglia, dal 77% al 67% del 2007.

Va detto che quelli dell'Europa non sono gli unici denari a giacere nei cassetti. L'Associazione dei costruttori, per esempio, si lamenta che da agosto 2011 il Cipe ha stanziato 19 miliardi per le infrastrutture: tuttora fermi. Ma ha ragione Rita Borsellino, europarlamentare democratica e sorella del giudice Paolo Borsellino, a definire «irresponsabile» una certa gestione dei fondi strutturali europei: rammentando come in Sicilia al 30 giugno dello scorso anno fosse stato completato appena l'8% dei progetti finanziati a valere sui piani 2000-2006. Per rendersi conto di quanto la situazione sia grave basta leggere l'ultima relazione della Ragioneria generale dello Stato, sfornata giusto un anno fa. La massa finanziaria destinata all'Italia da Bruxelles per il periodo che va dal 2007 al 2013 è imponente: fra finanziamento comunitario e contributo nazionale ben 59,4 miliardi di euro, di cui ben 47 destinati al Sud. Ebbene, alla fine del 2010 soltanto un quinto di quella somma enorme era stato già impegnato. In tutto 12 miliardi, il 18,9% del totale. Ma i denari effettivamente spesi erano molti, ma molti meno: 5,9 miliardi, ovvero il 9%. Un bilancio imbarazzante, considerando che il primo triennio 2007-2010 era già scaduto.

Semplicemente abissale, poi, la differenza fra Sud e Nord. Nelle Regioni meridionali la spesa reale era all'8,2%, contro il 16,3% del resto d'Italia. Tenendo conto delle risorse utilizzabili nel solo primo triennio, pari a 33,5 miliardi, ecco che le otto regioni meridionali erano riuscite a impegnarne il 23,6%, con una spesa effettiva, però, non superiore all'11,4%. E il bello è che le amministrazioni centrali, che tutti noi immaginiamo più efficienti rispetto alle strutture regionali, sono riuscite a fare appena meglio, con impegni pari al 41,2% e una spesa reale del 21%. Per fare un paragone, lo Stato ha realizzato una performance tripla rispetto alla Calabria, che si è fermata al 7%, ma soltanto un po' più decente di quella della Sardegna, regione che ha speso il 17,2%. Senza riuscire ad avvicinarsi al Veneto, dove l'utilizzo reale dei fondi europei si è attestato a un pur modesto 25,5%.

Sulle cause si è discusso a lungo. Spesso si tira in ballo la scarsa (o scarsissima) capacità progettuale delle amministrazioni locali o centrali. Ma non c'è dubbio che ci sia anche il concorso dell'indolenza burocratica e di una certa miopia della politica. Le conclusioni a cui sono giunti i magistrati della Corte dei conti in una recentissima indagine sull'uso dei fondi comunitari nel periodo 2000-2006 da parte della regione siciliana sono illuminanti. Si parla di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati e notevolissima presenza di progetti non conclusi, pari al 35 per cento della spesa certificata», che «hanno sfavorevolmente inciso sullo sviluppo locale e non hanno prodotto l'auspicato miglioramento delle condizioni di vita della popolazione». Non bastasse, i ricambi ai vertici delle strutture regionali seguiti alle vicende politiche, «hanno di fatto rallentato la spesa compromettendo l'efficacia del programma regionale» mentre il livello molto elevato di errori e irregolarità «denota la carenza dei controlli e una generale scarsa affidabilità degli stessi».

L'Ifel, il centro studi dell'Associazione dei Comuni, sottolinea che gli interventi sono spesso troppo frammentati, con una generale incomprensione fra gestione a programmazione, quando i fondi non vengono utilizzati per progetti non strategici. L'Anci ha calcolato che i Comuni, destinatari di una trentina di miliardi per il periodo 2007-2013, hanno messo in cantiere qualcosa come 2.410 progetti distribuiti per 1.293 municipi. La dimensione media è infinitesima: il valore del 43,5% delle iniziative non supera 150 mila euro. Nella sola Calabria si sono mobilitati, sulla carta, 264 Comuni. La dimensione media è infinitesima: il 43,5% delle iniziative non supera nemmeno 150 mila euro. E poi ci si stupisce che per il 40% dei progetti non ci sia nemmeno una pagina scritta, né un segno sulla carta.

A PROPOSITO dI SPRECHI PARLIAMO DELLa «macchina» pubblica.

Un’inchiesta di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”.

Sei miliardi di euro sottratti all'Erario. In tre anni hanno provocato un «buco» nel bilancio dello Stato pari a 6 miliardi e 250 milioni di euro, quasi un terzo della manovra da 20 miliardi già varata dal governo di Mario Monti per il 2012. Sono i dipendenti pubblici accusati di danno erariale, dopo essere finiti sotto inchiesta per reati che vanno dalla corruzione alla truffa, dall'omissione in atti d'ufficio all'abuso. Ma anche per semplici «negligenze» nello svolgimento delle proprie mansioni. Funzionari e impiegati che sfruttano il lavoro dei propri colleghi e nella maggior parte dei casi riescono ad arricchirsi. Complessivamente, 14.327 persone che tra il 2009 e il 2011 sono state «segnalate» dalla Guardia di Finanza alla Corte dei Conti e per molte di loro è scattata anche la denuncia penale. Si tratta di una minoranza, ma capace di mandare in crisi il bilancio. Soltanto nell'ultimo anno sono state 883 le «ispezioni» effettuate dai finanzieri, 4.148 le «segnalazioni» per una «perdita» quantificata in un miliardo e 841 milioni di euro. Il settore della spesa sanitaria rimane in cima alla lista degli sprechi e delle ruberie, ma molti altri sono i campi dove la «cattiva gestione» si mescola all'illecito. Uno è certamente quello delle case popolari, amministrate spesso con l'obiettivo di favorire parenti, amici e potenti. E poi c'è il mercato delle consulenze, con amministrazioni locali che addirittura sostituiscono i dipendenti con «esperti» ingaggiati all'esterno e pagati con parcelle da capogiro. E proprio sull'attività di controllo nel settore della spesa pubblica che - al pari dell'evasione fiscale - si concentrerà l'attenzione investigativa della Finanza anche nel 2012 come ha ribadito nella sua direttiva il comandante generale Nino Di Paolo, proprio alla luce dei risultati ottenuti.

Le case vuote e i «senzacontratto».

A Catania il direttore dell'Ente Case Popolari aveva assegnato un negozio a suo figlio - che non ne aveva diritto - e non si è preoccupato di allegare neanche la richiesta, tantomeno di riscuotere il canone. Del resto sono moltissimi gli alloggi che aveva concesso a parenti e amici e alla fine ha provocato un danno di 42 milioni di euro. Grave è anche il «buco» causato da 21 tra amministratori comunali e responsabili di un altro Istituto case popolari che hanno consentito a numerosi inquilini di prendere possesso degli immobili, ma non hanno mai stipulato con loro un contratto di locazione e alla fine non hanno potuto pretendere neanche un euro. C'è anche il caso di un ente con 83 milioni di affitti non riscossi e lì per cercare, inutilmente, di recuperarli è stata autorizzata una consulenza legale che ha provocato un ulteriore esborso di tre milioni di euro. Altri problemi sono stati riscontrati dai finanzieri al momento di censire gli appartamenti lasciati vuoti. In un caso si è scoperto che c'erano 50 alloggi popolari pronti da anni e mai utilizzati: il mancato introito verificato è stato di due milioni di euro, da sommare alle spese di ristrutturazione per renderli nuovamente abitabili dopo anni di abbandono. Numerose indagini sono state avviate pure sulla «cartolarizzazione» degli stabili perché al momento della cessione è stato determinato un prezzo molto inferiore al valore di mercato. Fatti i conti, l'ammanco complessivo per il 2010 e il 2011 è stato di 170 milioni di euro con 70 persone denunciate alla Corte dei Conti e 34 alla magistratura ordinaria.

Il record del primario e le Tac private.

I casi più frequenti di «danno» sono quelli dei medici che lavorano per il Servizio sanitario nazionale e senza autorizzazione svolgono anche attività privata. Negli ultimi due anni, denunciano i finanzieri, «le verifiche per le prestazioni mediche "intramoenia" hanno consentito di scoprire un danno pari a 172 milioni di euro e di deferire ai giudici contabili 190 dipendenti, mentre nei confronti di 71 è scattata anche la denuncia penale». Il record di quest'anno spetta a un primario che ha svolto oltre 3.500 visite presso il proprio studio privato senza naturalmente dichiarare i relativi ricavi. Alcuni suoi colleghi di una Asl che percepivano le indennità di esclusiva, uscivano per andare a visitare i pazienti, ma per giustificare le assenze presentavano falsi contratti per attestare che andavano a insegnare.

Il «sistema» è stato sfruttato in maniera costante in Calabria: i finanzieri hanno denunciato alla Corte dei Conti 115 medici e 25 impiegati della Asp di Catanzaro contestando loro un danno complessivo di 12 milioni di euro. Il meccanismo di illecito riguarda la «Alpi», vale a dire l'attività libero professionale intramuraria. Chi l'accetta può svolgere lavori esterni soltanto in casi particolari e con il «visto» del dirigente. E invece si è scoperto che nessuno effettuava i controlli e questo ha consentito al personale ora finito sotto inchiesta di lavorare fuori e di svolgere l'attività privata addirittura all'interno di una clinica che non aveva le autorizzazioni per alcune prestazioni che invece venivano effettuate. Altrettanto grave è il caso di tre medici che dichiaravano sul foglio presenza di essere al lavoro, mentre facevano visite nei propri studi privati dall'altra parte della città o addirittura in un'altra provincia. La «segnalazione» delle Fiamme Gialle ai giudici contabili riguarda incassi «in nero» per 200 mila euro, ma è stata presentata anche una denuncia penale per truffa. Stesso reato è stato contestato ad alcuni specialisti che utilizzavano Tac e risonanze magnetiche delle strutture pubbliche per i propri pazienti privati.

I medici del lavoro e le «ispezioni».

Truffa, falso e concussione sono gli illeciti addebitati ad alcuni dottori che lavoravano in una struttura ispettiva sull'igiene e la sicurezza negli ambienti di lavoro e avevano accettato consulenze da quelle stesse aziende che dovevano tenere sotto controllo. Onorario concordato: mezzo milione di euro, oltre a docenze e corsi di formazioni pagati a parte.

Al momento appare inspiegabile il comportamento del direttore sanitario di un ospedale che, come viene sottolineato nella relazione della Guardia di Finanza «ha autorizzato personale sanitario dipendente all'esercizio dell'attività libero professionale intramuraria ambulatoriale presso strutture private non accreditate, pur avendo a disposizione spazi realizzati ad hoc utilizzando un finanziamento pubblico di quasi 700 mila euro».

I consulenti legali.

Il caso più eclatante è certamente quello di un Comune che - nonostante potesse contare su un ufficio legale interno - aveva affidato incarichi esterni per un'attività che, come hanno riscontrato le Fiamme Gialle, era «seriale, superflua e svolta soltanto formalmente». Questo non ha comunque impedito un esborso di ben 21 milioni di euro. Nel dossier si evidenzia come quello dei lavori affidati a personale non dipendente sia ormai un vero e proprio «sistema» che consente agli alti funzionari di gratificare amici e parenti con un danno per il bilancio da centinaia di milioni di euro e soprattutto a discapito di quegli «esperti» interni che potrebbero svolgere perfettamente le stesse mansioni.

NON CI RESTA CHE PIANGERE....

La Massoneria appoggia Monti. Esclusivo: parla il Gran Maestro.

CHE COS'E' "IL GRANDE ORIENTE D'ITALIA".

"La Massoneria del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani è un Ordine iniziatico i cui membri operano per l'elevazione morale e spirituale dell'uomo e dell'umana famiglia. La natura della Massoneria e delle sue istituzioni è umanitaria, filosofica e morale. Essa lascia a ciascuno dei suoi membri la scelta e la responsabilità delle proprie opinioni religiose, ma nessuno può essere ammesso in Massoneria se prima non abbia dichiarato esplicitamente di credere nell'Essere Supremo. La Massoneria non è una religione né intende sostituirne alcuna: non pratica riti religiosi, non valuta le credenze religiose, non si occupa di nessun tema teologico, non consente ai propri membri di discutere in Loggia in materia di religione. La Massoneria lavora con propri metodi, mediante l'uso di Rituali e di simboli coi quali esprime ed interpreta i princìpi, gli ideali, le aspirazioni, le idee, i propositi della propria essenza iniziatica. Essa stimola la tolleranza, pratica la giustizia, aiuta i bisognosi, promuove l'amore per il prossimo e cerca tutto ciò che unisce fra loro gli uomini ed i popoli per meglio contribuire alla realizzazione della fratellanza universale. La Massoneria afferma l'alto valore della singola persona umana e riconosce ad ogni uomo il diritto di contribuire autonomamente alla ricerca della Verità. Essa inizia soltanto uomini di buoni costumi, senza distinzione di razza o di ceto sociale. I Lavori di Loggia sono di natura strettamente riservata, ma non segreta. Il Massone è tenuto ad osservare scrupolosamente la Carta Costituzionale dello Stato nel quale risiede o che lo ospita e le leggi che ad essa si ispirino. La Massoneria non permette ad alcuno dei suoi membri di partecipare o anche semplicemente di sostenere od incoraggiare qualsiasi azione che possa turbare la pace e l'ordine liberamente e democraticamente costituito della società. I Massoni hanno stima, rispetto e considerazione per le donne. Tuttavia, essendo la Massoneria l'erede della Tradizione Muratoria operativa, non le ammette nell'Ordine. Ogni membro, al fine di rendere sacri i propri impegni, deve aver prestato Solenne Promessa sul Libro della Legge da esso ritenuta Sacra.

E come in ogni altro tema sociale affrontato, troviamo sempre essa: la Massoneria.

Comunque la pensiate......

"Il curriculum di Mario Monti è di alto profilo. Spero vivamente che possa traghettarci fuori da questa crisi".

Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, la principale loggia massonica, con una intervista ad Affaritaliani.it appoggia il nuovo governo. E sull'esecutivo Berlusconi ha un giudizio poco lusinghiero: "Quando sento dire da Tremonti che con la cultura non si campa... c'è qualche cosa di sbagliato". Un buon punto di partenza è il ritorno alla meritocrazia: "Se vado a vedere le teste pensanti che erano presenti in tutti i partiti del primo Parlamento e poi vado a vedere quelle di oggi... l'Aula non può essere il rifugio di quelli che non possono fare altro".

Come valuta la lettera aperta a firma del Venerabile Maestro Gioele Magaldi, leader del Grande oriente democratico (corrente eterodossa del Grande oriente d'Italia) che fa le congratulazioni al "fratello Mario Monti"?

"Sono convinto che certi personaggi si sveglino la mattina in cerca di notorietà. Non bisogna dare corda a questo individuo, che tra l'altro è stato espulso dal Grande Oriente. Cui prodest? Solo a Magaldi che è in cerca di visibilità. Come diceva Troisi: non ci resta che piangere".

Che cosa ne pensa di Mario Monti?

"Il curriculum è di alto profilo. Spero vivamente che possa traghettarci fuori da questa crisi. Certo poi un governo va valutato sulla base delle opere che riesce a realizzare".

E' la persona di cui oggi l'Italia ha bisogno?

"Questo lo sapremo solo dopo che avremo visto i fatti. La massoneria non si occupa di politica del quotidiano. Si occupa dei grandi valori, dei grandi temi".

Ci spieghi meglio...

"Ancora ai tempi della Grecia antica un tale Aristotele disse che l'uomo è un 'animale politico', ma non certo perché è iscritto a qualche partito o perché ha una tessera. Semplicemente perché vive nella polis, nella società e quindi si fa carico dei problemi che riguardano la dignità e la libertà della persona. I grandi problemi della società erano i suoi problemi e sono quelli della massoneria".

In quest'ottica come valuta il governo Berlusconi?

"Beh, quando sento dire, da Tremonti, un ex ministro dello scorso governo, che con la cultura non si campa. Questo è una offesa, una violenza. Se non hai un ancoraggio ideologico, se non hai un sogno come puoi vivere. Da vecchio mazziniano dico che il problema è sempre l'educazione. Quando a Mazzini gli chiesero che cosa fosse la Repubblica lui disse che 'è una idea, non è una forza di governo o di partito che vince o che perde, è un progetto di educazione morale'".

L'Italia ha bisogno di meritocrazia?

"Assolutamente sì. E' un concetto che condivido. Anche se la meritocrazia significa anche la capacità di sapersi elevare, non solo di fare carriera in una azienda o in una professione. E' qualcosa di più ampio".

Secondo lei in politica ci sono troppo persone che non hanno i requisiti per sedere in Parlamento?

"Se considero la composizione del primo Parlamento e vado a vedere le teste pensanti che erano presenti in tutti i partiti e poi vedo quelle di oggi... Il Parlamento non può essere il rifugio di quelli che non possono fare altro. Lei sa chi era Alfredo Baccarini?".

No, devo ammetterlo, non lo conosco.

"Alfredo Baccarini è stato il più grande ministro dei Lavori pubblici che l'Italia abbia mai avuto. Era un uomo che quando il governo non manteneva il programma si dimetteva. E quando morì un giornale francese scrisse: 'E' morto povero, il più grande encomio che si possa fare ad un uomo politico'".

Ancora una volta, non ci resta che piangere, come dicevano Troisi e Benigni, anche dal ridere.

Francamente ci ha lasciato tutti per un attimo senza parole. Letteralmente. Perché, vedere un ministro che - mentre cerca di spiegare agli italiani quali "sacrifici" dovranno affrontare - scoppia a piangere, lascia davvero sconcertati. Poi lo stupore svanisce e rimane la domanda, anche un po' stizzita: ma perché diavolo piange la Fornero? Le risposte - come ci dimostrano i commenti dei nostri lettori - sono tra le più disparate. Chi si arrabbia, chi se ne frega, chi prova tenerezza. Eppure c'è un sentimento che si ripete in continuazione: lo sconforto. Che si rimanga inteneriti o incavolati neri, c'è uno scoramento di fondo perché: se nemmeno chi detta una via d'uscita crede in essa, dove vogliamo andare? Se proprio chi chiede agli italiani di fare sacrifici, lo fa senza speranza, vien da chiedersi: ma a chi siamo in mano? E, soprattutto, che fine faranno i nostri soldi? E questo fa arrabbiare praticamente tutti.

Il sondaggio - Il Corriere della Sera ha fatto un sondaggio: "E il ministro piange, via ha commosso o irritato?". Inizialmente il risultato mostrava una certa solidarietà verso il 'ministro sofferente': circa il 60% dei votanti si dichiarava commosso. Eppure, questa volta, nemmeno i lettori del Corriere hanno resistito a lungo. Così persino lo sponsor ufficiale del governo Monti è riuscito a difendere l'indifendibile e il risultato si è letteralmente ribaltato nel giro di poche ore. Segna circa il 60% di irritati contro circa il 40% dei commossi.

La manovra era necessaria e senza alternative, altrimenti «lo Stato entro breve non avrebbe potuto più pagare né stipendi nè pensioni» e quindi per l'Italia sarebbe stata la bancarotta. Mario Monti, al debutto televisivo da presidente del Consiglio, fa subito una premessa: «Sono qui per spiegare, non per far piacere a lei», ha detto a Bruno Vespa tramite il quale ha voluto completare il suo personale "road show" per illustrare - questa volta direttamente agli italiani - la gravità della situazione economica del nostro paese e i conseguenti sacrifici che il suo governo ha dovuto imporre. Ma gli italiani, si è detto convinto il premier, «certamente capiranno».

«Il rischio era che lo Stato non potesse pagare stipendi e pensioni». Presentando la manovra - ha affermato nello stesso salotto dove Silvio Berlusconi firmò il famoso "contratto con gli italiani" - «ho invitato tutti a considerare che questa operazione di rigore, equità e crescita chiedeva sacrifici. Ma l'alternativa non era quella di andare avanti come niente fosse, ma quella di correre il rischio che lo Stato non potesse pagare stipendi e pensioni. Non abbiamo da guardare molto lontano: la Grecia è la rappresentazione di che cosa sarebbe potuto accadere in Italia». Il premier ha ammesso che si è trattato di una operazione tutt'altro che indolore anche per lui stesso ammettendo che l'intervento più sofferto è stato quello sulle pensioni più deboli: «La cosa che mi ha fatto più soffrire - ha rivelato - è quando ho visto che per fare una cosa corposa bisognava chiamare a contribuire anche i pensionati e quelli con livelli molto bassi con il blocco dell'inflazione. A quel punto ho capito che bisogna chiamare a contribuire anche quelli dello scudo fiscale».

Per Monti, quindi, la reazione dei sindacati è più che comprensibile: «In passato ci sono stati scioperi, anche generali, per molto meno. Francamente capisco la protesta ma invito anche tutti a pensare cosa sarebbe accaduto al lavoro e alle pensioni senza questo intervento. Con i mezzi che ci erano dati abbiamo comunque fatto molta più redistribuzione di quanto non si sia mai fatto. Gli italiani capiranno e noi spiegheremo le nostre decisioni».

«Decisioni per domare i mercati». Decisioni che servono anche a «domare i mercati: questi - spiega - sono una bestia feroce e oggi sono imbizzarriti. Certamente - assicura - noi lavoriamo per i cittadini e non per i mercati, ma non possiamo non tenerne conto perché il loro funzionamento è essenziale». Talmente tanto che Monti lascia intendere come la manovra approvata sia, di fatto, quasi il "minimo sindacale" richiestoci. Blindando il testo. Pur non annunciandola apertamente il premier ha di fatto evocato più di una volta la fiducia soprattutto quando ha fatto sapere che se «il Parlamento è sovrano, il tempo è però poco e i margini per eventuali modifiche sono pochissimi».

Ma nel futuro dell'Italia a guida Monti non ci sono solo sacrifici: «Il mercato del lavoro - ha infatti detto - sarà il nostro prossimo cantiere e la concertazione sarà essenziale. Le prossime iniziative riguarderanno lo sviluppo, le liberalizzazioni, misure che non chiedono sacrifici, ma modificano la struttura per togliere ingessature all'economia italiana».

«Misure impopolari ma indispensabili». Ha spiegato che le misure, anche quelle più impopolari come l'aumento della benzina e la reintroduzione dell'Ici, sono state «indispensabili», ma ha anche assicurato che l'Irpef non verrà toccata. Ma già si sentono gli effetti di questa manovra pesante: l'Italia - ha detto - d'ora in poi siederà al tavolo europeo e internazionale «da protagonista e non da osservatore distratto.

Silvio Berlusconi amava arrivare all'ultimo minuto, Mario Monti invece approda in via Teulada 75 minuti prima della diretta. Non tanto per marcare la discontinuità, quanto per incontrare i vertici Rai. E una volta seduto sulla poltroncina bianca di Porta a Porta il premier ricorda il Cavaliere per un istante soltanto. Quando si rivolge al padrone di casa con un «se mi permette, dottor Vespa...» seguito da un brusco «non sono qui per fare un piacere a lei». Per il resto, il paragone è impossibile. Lontani i tempi del «contratto con gli italiani», il premier è venuto a dire ai cittadini - in prima serata e in un format tv ideato dopo le polemiche che hanno preceduto l' intervista - che senza «i sacrifici pesanti» il treno Italia sarebbe deragliato. «L'alternativa era il rischio Grecia, il non poter pagare stipendi e pensioni». Monti non cerca l'applauso e nemmeno lo trova. Il momento è cruciale e le misure proposte «non fanno piacere a nessuno», tantomeno a lui. «Gli scioperi? Capisco le reazioni». Arrivando in Rai gli avevano chiesto se era emozionato. E lui: «No». Gessato grigio e cravatta a pallini biancocelesti, incappa subito nel bello della diretta. «Normalmente io guardo lei?», domanda a Vespa in fuorionda. E il conduttore: «Me e le telecamere, aiuta la conversazione». E quando il giornalista gli fa notare che ha perso «solo» nove punti di gradimento, il premier si sbilancia: «Dovevo farla più pesante, la manovra?». I partiti lavorano agli emendamenti, ma Monti avverte che il decreto è pressoché blindato. In Parlamento terrà «occhi e orecchie spalancati», perché le forze che lo sostengono non provino a cambiare troppo i contenuti pur tenendo fermi i saldi: «Il tempo è poco e il margine di flessibilità è pochissimo». Metterà la fiducia? «È prematuro affermarlo, ma le ho spiegato qualcosa di più importante - e qui il "prof" bacchetta lo studente Vespa - cioè che non modificheremo la struttura». La cosa che più lo ha fatto «soffrire» è aver dovuto toccare le pensioni più basse. «Ci siamo sentiti molto in difficoltà - ammette -. Lì ci siamo convinti che era il caso di chiamare a contribuire anche chi aveva usufruito dello scudo fiscale». La ministangata «sarà fatta», lo dice Monti e lo ribadisce Grilli a Ballarò, aggiungendo che gli «scudati» che non verseranno la tassa dell' 1,5 per cento perderanno l'anonimato. Sull'Ici il viceministro apre a una proroga per le prime case e, sulle pensioni, Elsa Fornero spera che, se si troveranno i soldi, si possa «alzare il tetto per garantire l'indicizzazione» agli assegni più bassi. Per due volte Monti loda la sua «piccola squadra» e promette una futura ribalta anche a quei ministri rimasti in ombra, «fiero e orgoglioso» com'è di aver scelto uomini e donne «di straordinaria qualità». Respinge le critiche dei cattolici per i mancati sgravi alla famiglia, fa capire quanto sia arduo dover fare «equilibrismo» tra Pd e Pdl e conferma che non alzerà l'Irpef. Scherza su Vespa «ministro dell' Economia» e rivendica di aver riportato l'Italia «nel salotto buono» del mondo. Quanto ai costi della politica «siamo solo all'inizio», prepara nuove sforbiciate Monti. E annuncia una «task force aperta anche ai contributi dei giornalisti». Solo sul finale concede uno squarcio della sua vita privata. La mamma lo ammoniva a «tenersi alla larga dalla politica» e la moglie lo rimprovera ogni sera per essere rientrato tardi nell'appartamento presidenziale: «Non credo sia interamente contenta per gli orari che faccio». È forse l'unico sorriso, l'unico momento in cui Monti si rilassa dopo aver tenuto, per mezz'ora, i gomiti puntati sui braccioli della poltroncina.

«Il rischio era che lo Stato non potesse pagare stipendi e pensioni». E allora……?!?

Pensioni, d’oro, pensioni baby, pensioni privilegiate, stipendi a statali nullafacenti e irrispettosi che causano disservizi a catena. Sprechi e foraggiamento ai media per tacitare verità scomode. Di che parliamo. Di truffa legalizzata, se non di che cosa?

Proprio il 9 dicembre 1011 un servizio di Mingo su “Striscia la notizia” denuncia uno spreco colossale: Pagato, ma non lavora da sei anni. Mingo intervista un signore.

Mingo «Innanzitutto complimenti, perché lei mette la faccia nel dire questa cosa che a noi sembra incredibile. Cioè lei percepisce uno stipendio senza lavorare.»

Persona «Sì, sì, esattamente così.»

Mingo «He sì. Lei fa il segretario comunale.»

Persona «Sì, sì, e questo è il mio lavoro… segretario comunale.»

Mingo «E cosa consiste, detto in parole povere.»

Persona «Intanto, come dice la parola, lavoro nei Comuni. Lavoro nei Comuni e mi occupo di coordinare i vari servizi dei Comuni…»

Mingo «Certo…»

Persona «Presto consulenza, soprattutto giuridica ai vari organi….»

Mingo «Certo…»

Persona «E anche ho anche il compito ingrato, qualche volta di vigilare su..su…sull’attività del Comune…»

Mingo «Del Comune….. Mi spiega perché sta a casa e percepisce lo stipendio.»

Persona «E guardi. E’ semplice. Circa 15 anni fa…»

Mingo «Sì….»

Persona «La legge è cambiata. Prima ci assegnavano le Prefetture. Il Ministero tramite le Prefetture ai comuni. Da circa 15 anni è stato stabilito che il segretario debba essere di fiducia del Sindaco o del presidente della provincia…»

Mingo «Haaa….»

Persona «Quindi che succede. Quando il Sindaco si scegli il Segretario di sua fiducia, quello che già lavora se ne deve andare…»

Mingo «Ho capito. Percependo lo stesso lo stipendio….»

Persona «E certo…..»

Mingo «Lo stipendio, vogliamo ricordare di…»

Persona «Duemila e seicento euro.»

Mingo «Mi scusi. Da quanti anni lei percepisce lo stipendio e non lavora.»

Persona «Lo devo dire…»

Mingo «Lo dica….»

Persona «Lo dico…»

Mingo «Lo dica….»

Persona «Da sei anni netti.»

Mingo «Haaa….mi scusi però, perché ha scelto di dirlo a Striscia.»

Persona «Beh…intanto, perché questo problema non coinvolge soltanto me, ma possiamo dire, centinaia di persone…»

Mingo «In Italia…in tutta Italia…»

Persona «Sì, nel nostro paese, evidentemente, e poi perché il fatto che il mio destino personale, professionale, familiare debba essere affidato a persone sulle quali, in qualche modo, dovrei esercitare anche un minimo di controllo, per quanto non mi faccia piacere»

Mingo «Certo….»

Persona «E’ un’aberrazione che non mi sta bene, che danneggia me e danneggia soprattutto i cittadini per le ricadute di illegalità che questa situazione comporta. »

E non è tutto.

Tira una brutta aria, sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama. Il premier Mario Monti intende mettere mano agli stipendi dei parlamentari: una sforbiciatina da 5mila euro a politico che sta infiammando i corridoi dei Palazzi romani. "Non è necessario attendere l’esito dell’indagine della commissione Istat per equiparare le retribuzioni dei parlamentari italiani alla media Ue: basta riferirsi semplicemente a quanto accertato dall’Europarlamento nella sua indagine del luglio 2008 che aveva fatto uno studio approfondito per arrivare a una media dei compensi fino ad allora attribuiti dai singoli Paesi". In una intervista all’Adnkronos il presidente della commissione Esteri del Senato, Lamberto Dini, replica duramente alle indiscrezioni, apparse oggi su alcuni quotidiani, che parlano di una rivolta in parlamento a causa dell'emendamento "taglia-stipendi" che scatterebbe per decreto qualora la commissione guidata dal presidente dell'Istat Enrico Giovannini non finisse il proprio lavoro entro fine anno. La norma, contenuta nel decreto "salva Italia" licenziato dal premier Mario Monti, prevede la riduzione - già a partire dal gennaio 2012 - delle indennità ai parlamentari equiparandole a quelle percepite dai politici negli altri Paesi dell'Eurozona. Una presa di posizione che, a detta del Tgcom, non piace affatto ai nostri politici. Da Montecitorio e da Palazzo Madama fanno sapere che la norma violerebbe "l'autonomia del Parlamento". Lo stesso Dini va a riesumare una indagine disposta dall’Europarlamento due anni fa: la ricerca serviva a fissare la retribuzione degli eurodeputati come risultante dalla media delle retribuzioni dei parlamentari dei singoli Paesi. "La verità - ha spiegato il parlamentare del Pdl - è che le retribuzioni onnicomprensive nette (quindi non solo l’indennità, ma anche la diaria e i compensi accessori), dei deputati e senatori italiani sono già oggi, anche in virtù delle riduzioni già decise nei mesi scorsi, al di sotto della media delle analoghe retribuzioni dei colleghi europei". Per Dini questo dovrebbe bastare. Secondo i numeri riportati da Repubblica, l'indennità di un deputato ammonta a oltre 11.700 euro, cifra calcolata al netto della diaria. Si tratta di circa 6mila euro in meno (per essere precisi 5.339 euro) rispetto alla media delle retribuzioni percepite nel Vecchio Continente. A questi numeri il governo Monti sta guardando come modello al fine di riuscire a tagliare i costi del parlamento. La prima bocciatura ai tagli è stata decisa dalla commissione Affari costituzionali che ha espresso parere negativo sul settimo comma dell'articolo 23. Stesso copione anche a Palazzo Madama. "Quell'intervento, giusto nel merito, lede l'autonomia del parlamento - ha spiegato il senatore questore Benedetto Adragna a Repubblica - Se non lo faranno prima i colleghi della Camera, il nostro collegio dei questori depositerà un emendamento correttivo. Puntiamo all'equiparazione ai parlamentari europei, con tutto ciò che ne consegue".

Un nuovo trucchetto della Casta, che come titola Libero in edicola, martedì 3 gennaio 2012, "frega pure Monti". Perché? Perché la Casta si è salvata gli stipendi d'oro. Era stata infatti creata una commissione che, come spiega il vicedirettore Franco Bechis, "entro il 31 dicembre avrebbe dovuto stabilire se e come tagliare i trattamenti economici di deputati, senatori, politici degli enti locali, giudici, dirigenti e boiardi di Stato". Peccato che questa commissione abbia già rinunciato alla titanica impresa, poiché "troppo delicata". Eppure la faccenda non pare così complessa: Libero ha completato i calcoli che erano stati delegati alla commissione in poche ore. Nel Sistema parlamentare italiano c'è una tessera che consente loro di salire e scendere liberamente da aerei, treni, navi, di non pagare il pedaggio autostradale. Un privilegio che non ha nessun collega europeo: in Francia i parlamentari hanno una tessera che permette loro di fare più di 40 viaggi aerei tra il collegio e Parigi e sei fuori dal collegio. Come se non bastasse l'onorevole italiano usufruisce anche di 258 euro di rimborso mensile per le spese telefoniche e di 41 euro per la dotazione informatica. Fino al 31 dicembre 2011 la nostra Casta usufruiva di un vitalizio dopo solo due legislature, al compimento del 50esimo anno: resta l'assegno di fine mandato, ma il vitalizio è stato sostituito dal primo gennaio da una pensione calcolata con metodo contributivo e solo al compimento dei 65 anni d'età.  In Italia il vitalizio è stato di 2.486 euro mensili per due legislature. La Casta percepisce anche un'indennità di residenza, una somma assegnata al parlamentare per mantenersi fuori dalla città di residenza: sotto questo aspetto gli italiani non sono primi, perché la somma che percepiscono i colleghi tedeschi è più alta: 3900 euro invece dei 3500 degli italiani. Da qualche tempo questa ricca indennità viene decurtata in base alle assenze: non solo quelle nelle sedute dell'aula ma anche delle commissioni. Si possono tagliare gli stipendi dei parlamentari italiani? Per la Commissione guidata dal presidente Istat Enrico Giovannini, il problema è che i nostri deputati e senatori guadagnano più dei colleghi europei in termini di stipendio, però costano di meno in termini di assistenti (i cosiddetti portaborse) e spese aggiuntive. Lo dice il rapporto della Commissione. Per la Commissione è impossibile fare una media. L'organismo che aveva avuto l'incarico dal governo Berlusconi e dalle presidenze di Camera e Senato, confermato dall'esecutivo Monti, doveva rendere il suo verdetto entro il 31 dicembre 2011 e lamenta il poco tempo a disposizione. La media comunque è complessa: in Italia l'indennità parlamentare lorda per i deputati è di 11.283 contro i 7.100 euro della Francia, i 2.813 della Spagna, 8.500 nei Paesi Bassi, 7.668 in Germania. A cui si aggiunge in Italia una diaria da 3.500 euro. Sono però minori le spese accessorie, in particolar modo quelle dei collaboratori: rientrano per i deputati nostrani fra le spese di segreteria e rappresentanza, 3.690 euro al mese. Mentre per esempio in Francia un deputato può spendere fino a 9.100 euro al mese per i collaboratori, in Germania sono pagati dal Parlamento per un totale di 14.700 euro, in Austria sono dipendenti della Camera. Per la Commissione comunque i dati raccolti sono «del tutto provvisori e di qualità insufficiente per una utilizzazione ai fini indicati dalla legge». Insomma insufficienti per capire se e quanto tagliare. Quindi «nonostante l'impegno profuso e tenendo conto dell'estrema delicatezza del compito a essa affidato, nonché delle attese dell'opinione pubblica sui suoi risultati, la Commissione non è in condizione di effettuare il calcolo di nessuna delle medie di riferimento con l'accuratezza richiesta dalla normativa».

Si potrebbe dire, però, che rapportati allo stipendio di altri boiardi di Stato, il Parlamentare non percepisce tanto, in riferimento alla carica ricoperta. Dà fastidio il fatto la loro tracotanza ed indifferenza nei confronti del cittadino che li elegge e che dovrebbe rappresentare. Provate a mandare un e-mail per chiedere un intervento istituzionale su un problema singolo o collettivo: lettera morta.

L'indagine di Mario Sensini su “Il Corriere della Sera”. Più di sedicimila euro al mese: il record dei parlamentari italiani. Le tabelle pubblicate dalla Commissione Giovannini. Al secondo posto i francesi con 13.500. Più di 16 mila euro lordi al mese in tasca. Contro i 13.500 di un deputato francese, i 12.600 di uno tedesco, i poco più di 10 mila euro che guadagna un rappresentante della Camera olandese, i 9.200 di un deputato belga, gli 8.650 di un austriaco, per non parlare dei 4.630 euro che costituiscono il «misero» appannaggio di un deputato spagnolo. Le tabelle che mettono a nudo i privilegi della politica italiana sono lì, appena pubblicate dalla Commissione Giovannini sul sito della Funzione pubblica: gli eletti del Bel Paese costano da un minimo del 20 per cento fino al 400 per cento in più rispetto ai colleghi. Dati che parlano chiaro, ma che rischiano di servire a ben poco.

Deputati e senatori italiani, insomma, si mettono in tasca il 60% in più rispetto alla media europea.

Ma quella media resta pur sempre un calcolo «a spanne», come ammette la stessa Commissione, e su queste basi sarà molto difficile, anzi praticamente impossibile, far scattare la mannaia sui costi della politica italiana. La norma voluta da Giulio Tremonti e attesa dai presidenti di Camera e Senato sembrava molto semplice, stipendi parametrati alla media europea, ma in realtà rischia di rivelarsi inapplicabile. Quell'articolo del decreto di luglio 2011, come scrive la stessa Commissione, presenta infatti «aspetti di ambiguità e talvolta di contraddittorietà». E il gruppo di lavoro guidato dal presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, composto da esperti di chiara fama, compreso un rappresentante di Eurostat, è letteralmente impazzito per tirarne fuori qualcosa di sensato. Senza riuscirci. Non solo per i tempi strettissimi che sono stati concessi alla Commissione, o perché la richiesta di una proroga è stata rifiutata da Palazzo Chigi, che ha ricordato come il termine ultimo per la consegna del lavoro sia quello del 31 marzo 2012. Alla Commissione ci sono volute intere settimane per arrivare a definire che cosa debba essere considerato nel «trattamento economico omnicomprensivo» cui fa riferimento la legge per le cariche apicali della pubblica amministrazione.

Altre settimane di lavoro, confronti, discussioni, per dare un senso alla definizione, invece, del «costo» relativo al trattamento economico omnicomprensivo che la legge prescrive di calcolare per i parlamentari. Poi c'è stato il problema dell'individuazione degli organismi «omologhi» a quelli italiani che in molti casi negli altri Paesi non ci sono (solo 16 istituzioni sulle 31 considerate dalla legge italiana perché fossero parametrate a quelle europee, hanno dei corrispondenti più o meno simili), la definizione del concetto di retribuzione (la legge italiana fa riferimento al lordo, ma come si sa a parità di retribuzione lorda le tasse e contributi fanno una differenza abissale), poi quello della ponderazione sul Pil (già, ma di quale Pil, se a prezzi correnti o a parità di potere d'acquisto la legge non lo dice), ed infine la raccolta dei dati. Spesso non ufficiali, e che sono arrivati attraverso i canali diplomatici solo a partire dal 13 dicembre scorso. Fatto sta che dopo tre mesi di riunioni a spron battuto, la Commissione Giovannini ha alzato le braccia e si è arresa. Ha pubblicato il rapporto entro il 31 dicembre 2011 come prevede la legge. Ma le conclusioni sono disarmanti: «La Commissione considera i dati contenuti del tutto provvisori e di qualità insufficiente per una loro utilizzazione ai fini indicati dalla legge». Se qualcuno pensa di tagliare gli stipendi dei parlamentari e dei vertici dell'amministrazione pubblica usando questa strada, dice in sostanza la Commissione, si sbaglia di grosso. «Di fatto è stato chiesto alla Commissione di condurre in pochi mesi lo studio degli assetti istituzionali e organizzativi di sei Paesi, più l'Italia, con un dettaglio mai realizzato in letteratura e visto l'utilizzo a fini legali dei risultati, con l'esigenza di raccogliere dati di elevata qualità, inconfutabili e pienamente comparabili». Considerati tutti i limiti, non deve stupire la conclusione del rapporto Giovannini. «Nonostante l'impegno profuso e tenendo conto dell'estrema delicatezza del compito ad essa affidato, nonché delle attese dell'opinione pubblica sui suoi risultati, la Commissione non è in condizione di effettuare il calcolo di nessuna delle medie di riferimento con l'accuratezza richiesta dalla normativa». Abbiamo scherzato? Può darsi. «Le difficoltà finora incontrate dovrebbero far riflettere il legislatore sull'effettiva applicabilità della norma di riferimento della quale (non a caso) non si trova alcuna analogia negli altri principali Paesi dell'Unione europea», si legge nel rapporto della Commissione. Insomma: per andare avanti servono dei correttivi alla legge. Così, in attesa delle mitiche «medie» ci si deve così accontentare di una paio di tabelle riferite al trattamento economico e previdenziale dei deputati e dei senatori italiani ed europei, ma piene zeppe di note a margine e farcite di formulette matematiche. Oltre a questo, il rapporto della Commissione non si spinge. Non servirà a tagliare gli stipendi dei nostri parlamentari, ma se non altro offre all'opinione pubblica un paio di conferme, verificate scientificamente, e scontatissime. Su base omogenea, quindi senza contare la spesa per i collaboratori, e dunque considerando soltanto l'assegno materialmente incassato, i parlamentari italiani sono i più pagati d'Europa. Se si considera anche il contributo per portaborse e uffici stampa gli italiani sono battuti solo dai francesi, ma con una differenza fondamentale. In Italia i contributi per i collaboratori (3.690 euro per i deputati, 4.180 per i senatori) sono erogati formalmente ai gruppi politici di appartenenza, sotto la voce spese di rappresentanza, ma poi da questi vengono girati ai rispettivi titolari. Molto più semplicemente in Francia c'è una linea di credito offerta dal Parlamento per pagare i collaboratori, che se non viene utilizzata, deve essere restituita. Mentre in quasi tutti gli altri Paesi, spesso, il collaboratore del deputato o del senatore è già un dipendente stipendiato dell'istituzione di appartenenza. Anche sul trattamento previdenziale dei nostri parlamentari c'era qualche vago sospetto, che la Commissione Giovannini puntualmente conferma.

Almeno fino al 31 dicembre scorso, quando è scattato il meccanismo del contributivo pro rata, gli italiani primeggiavano in Europa. Dopo cinque anni di mandato il vitalizio maturato era di 2.486 euro al mese, in Francia di 780 euro. Tre volte di meno. Maturato, per giunta, con una contribuzione previdenziale superiore: oltre il 10% dello stipendio contro l'8,6% versato dai parlamentari italiani.

Anche Carmelo Lopapa ha pubblicato la sua inchiesta su “La Repubblica”. L'indennità mensile (lorda) è la più alta d'Europa. Ma il "costo complessivo" del parlamentare in altri paesi, quali Francia e Germania, è ben superiore. Difficile, dunque, anzi "impossibile" decidere chi guadagna di più e chi meno. E soprattutto "fare una media". La Commissione per il livellamento retributivo, guidata dal presidente Istat Enrico Giovannini, rinuncia però a quell'obiettivo. L'organismo (composto anche da quattro accademici) incaricato dal governo Berlusconi  - confermato da Monti - e dalle presidenze di Camera e Senato di confrontare i compensi tra le cariche elettive e gli organi istituzionali di sei paesi Ue, pubblica dunque i risultati della sua attesa comparazione. La relazione, nelle 37 pagine depositate il 31 dicembre 2011, si limita a fotografare la "giungla" retributiva dei parlamentari nei sette paesi presi in esame: Italia, Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi, Austria e Belgio. Giovannini ha chiesto però una proroga al 31 marzo per completare il lavoro su organi costituzionali e enti pubblici. "Nonostante l'impegno profuso - si legge nelle conclusioni - la commissione non è in condizione di effettuare il calcolo delle medie".

INDENNITÀ

Supera gli 11mila euro, a Berlino e Parigi 7mila 

In nessun paese europeo un parlamentare percepisce un'indennità lorda mensile pari a quella del deputato (11.283 euro) e del senatore (11.550 euro) italiano. E quella costituisce solo una delle cinque voci che - si legge nella relazione - compongono il "costo" del parlamentare (diaria, spese di viaggio e trasporto, spese di segreteria, spese per assistenza sanitaria, assegno vitalizio e di fine mandato). Nel caso della Spagna, l'indennità in senso stretto (2.813 euro) è addirittura quasi quattro volte inferiore. Si avvicinano solo i Paesi Bassi con 8.503 euro. Tra i grandi paesi, Francia e Germania viaggiano tra i 7.100 e i 7.668. Ma si parla di lordo. E in Italia dopo le ultime (ripetute) decurtazioni, l'indennità netta è di poco superiore ai 5.000 euro. In ogni caso, fanno notare i professori della commissione, è difficile fare dei confronti perché diverso è anche il livello di tassazione tra paese e paese (per esempio in Francia tocca il 20 per cento sui 7.100 euro lordi). Il sindaco di Firenze Matteo Renzi ieri dettava la sua ricetta: "Ai parlamentari darei la stessa cifra che guadagno da sindaco di una grande città: 4.200 euro al mese". 

DIARIA 

3500 euro per spese di soggiorno, solo in Germania si spende di più

La diaria mensile o "indennità di residenza" non costituisce una prerogativa italiana. Per di più, il budget assegnato al deputato e al senatore per le spese di mantenimento fuori sede non costituisce un record continentale. A ricevere una cifra forfettaria più alta per le spese di soggiorno a Berlino è per esempio il parlamentare tedesco: 3.984 euro. Ma il collega italiano con 3.503 euro segue a ruota. Da qualche mese, alla Camera e al Senato questa ricca indennità accessoria (che non fa differenza tra chi soggiorna a Roma per l'attività parlamentare e chi vive e risiede comunque nella capitale) viene decurtata in proporzione alle assenze: non solo quelle nelle sedute d'aula, ma anche nelle sedute di commissione. Ed è il motivo delle recenti polemiche esplose per i frequenti casi di deputati presenti solo per firmare il registro e poi dileguarsi. In Francia il deputato non percepisce affatto la diaria, ma gode di alloggi a tariffe agevolate in residence di proprietà dell'Assemblea. A Madrid sì, ma ammonta a 1.800 euro, mille in meno poi se il deputato è eletto nella capitale. Trattamento simile nei Paesi Bassi, non prevista in Belgio.

PORTABORSE

4000 euro: meno che in altri Paesi, ma da noi non va giustificata

La commissione Giovannini le chiama "spese di segreteria e di rappresentanza". E accorpa sotto questa unica voce il budget messo a disposizione da Camera e Senato per i parlamentari al fine di consentire a deputati e senatori di avvalersi di collaboratori e di segreterie nei territori di origine e a Roma. Ma il confronto con gli altri cinque paesi messo nero su bianco dalla commissione Giovannini finisce per conclamare l'anomalia tutta italiana. L'anomalia consiste in questo caso non nell'importo - inferiore e in qualche caso di molto rispetto ad altri paesi quali Francia e Germania - ma nella modalità: forfettaria. Vale a dire che il deputato (3.690 euro) e il senatore (4.180) ricevono la somma senza aver alcun obbligo di rendicontazione e senza dover dimostrare se hanno pagato regolarmente un collaboratore. L'Europarlamento da sempre gestisce il budget assegnando al deputato il collaboratore richiesto, ma pagandolo direttamente. Avviene così anche in Germania (dove il fondo per la segreteria lievita a 14.712 euro) e in Belgio, si legge nella relazione. In Francia, se il deputato non utilizza la linea di credito da 9.138 euro in tutto o in parte, viene restituita.

BENEFIT

Treni, aerei, navi e autostrade solo a Roma non si pagano

Il monte benefit è la vera "babele" che fa del parlamentare - quello italiano soprattutto - un privilegiato. La relazione Giovannini lo certifica. La "libera circolazione ferroviaria, autostradale, marittima e aerea" consentita dall'apposita tessera di cui viene dotato il deputato e il senatore appena mette piede a Montecitorio e Palazzo Madama, non ha corrispettivi. In Francia, i deputati dispongono di una carta ferroviaria, più 40 viaggi aerei tra il collegio e Parigi e 6 fuori dal collegio.

In Germania, solo tessera ferroviaria e rimborso per i voli domestici con rimborso a piè di lista. In Spagna, è prevista una diaria da 150 euro per ogni giorno di viaggio all'estero e 120 per viaggio interno. Nei Paesi bassi, treno di prima classe e rimborso chilometrico da 0,37 euro al km ma solo se non esistono mezzi pubblici che consentano al deputato di tornare a casa. Tutta un'altra storia. Il parlamentare italiano usufruisce anche di 258 euro mensili di rimborso per spese telefoniche (in Francia 416 euro, nei Paesi Bassi 33 euro appena) e di 41 euro per dotazione informatica. La Spagna però offre Ipad e telefoni portatili di servizio.

VITALIZI

Ue, tutti con le pensioni: ma in Italia c'è un superassegno

Fino al 31 dicembre 2011, i parlamentari italiani usufruivano di vitalizio dopo almeno due legislature, al compimento del cinquantesimo anno. Resta ora come allora l'assegno di fine mandato, ma il vitalizio è stato sostituito dal primo gennaio da una pensione con metodo contributivo e solo al compimento dei 65 anni (60 con almeno due legislature). In Italia, fa notare la relazione Giovannini, dopo 5 anni di mandato il vitalizio finora è stato pari a 2.486 euro mensili, con un versamento pari all'8,6 per cento dell'indennità lorda. In Francia, dopo cinque anni di mandato, il vitalizio minimo è pari a 780 euro a fronte di un versamento del 10,5 per cento dell'indennità legislativa, se ne ha diritto a 60 anni. In Germania, l'età alla quale il deputato matura la pensione è stata innalzata gradualmente dai 65 ai 67 anni. In Spagna la pensione è un beneficio di carattere integrativo ed è pari alla differenza tra la pensione che il deputato riesce a maturare nella vita lavorativa e la pensione massima raggiungibile in quel paese. Integrazione che può essere richiesta se il mandato è stato almeno di 11 anni.

"Salvate le persone, non le banche", diceva la folla di manifestanti negli Stati Uniti per reazione all'imponente piano di salvataggio del sistema finanziario varato dopo l'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, con l'obiettivo di evitare fallimenti a catena in seguito al tracollo della Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008.

La storia si ripete in Italia. Le misure adottate il 4 dicembre 2011 dal governo di Mario Monti, ex presidente dell'università Bocconi, sono severe con i pensionati, con i proprietari dell'abitazione (l'80% degli italiani possiede la propria casa), con chi ha un reddito medio-basso (i più colpiti dall'aumento dell'Iva di due punti).

Le stesse misure fanno invece sorridere le banche.

Nel decreto Monti ci sono almeno tre benefici per le banche. Il primo deriva dalla riduzione a mille euro del tetto per i pagamenti in contanti, finora era di 2.500 euro. Il tetto sarà più basso, solo 500 euro, per le pensioni. Questo farà aumentare i pagamenti con bonifico, assegno, carte di credito e prepagate. Una stima dice che queste transazioni aumenteranno del 30 per cento. Dunque le banche incasseranno più commissioni e aumenteranno gli utili. Secondo stime le maggiori banche italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit, potrebbero aumentare gli utili di una decina di milioni di euro all'anno ciascuna. Il tetto a 500 euro per i pagamenti in contanti delle pensioni obbligherà circa due milioni di pensionati ad aprire un conto corrente, anche questo andrà a vantaggio per le banche. Queste norme hanno l'obiettivo di ridurre i pagamenti in nero e l'evasione fiscale. Vedremo se accadrà. Tuttavia il governo non ha previsto un immediato abbassamento delle commissioni bancarie. Monti ha solo espresso un generico auspicio a una loro "adeguata riduzione". Si affida alla buona volontà dei banchieri...

Il secondo vantaggio per le banche deriva dalla riduzione dei prelievi in contante. Per le banche queste operazioni sono un costo, alcuni mesi fa alcuni istituti avevano perfino introdotto una tassa per chi prelevava allo sportello i propri soldi, sollevando una marea di proteste. Con l'aumento dei pagamenti senza denaro le banche avranno bisogno di meno personale allo sportello. Secondo stime autorevoli potrebbero essere in eccesso fino al 30 per cento dei cassieri. Per gruppi come Intesa e Unicredit questo significa diverse migliaia di potenziali esuberi (almeno 3-4mila cassieri in meno per ognuna di queste banche). Si tratta di personale dal costo medio di 70-80mila euro all'anno. E' difficile che le banche possano prepensionare questi dipendenti, nel momento in cui il governo alza l'età pensionabile. Avranno comunque una disponibilità di personale che potranno ricollocare. Uno dei banchieri più conosciuti stima che, se le banche riuscissero a ridurre il personale che risulterà in eccesso, nel complesso potrebbero risparmiare fino a un miliardo di euro.

Ma ecco l'aiuto più importante. Le banche sono senza soldi, non fanno più credito alle imprese. E non si prestano neppure il denaro fra loro, perché hanno paura che un'altra banca fallisca. In realtà non tutti sono a secco. Chi ha liquidità preferisce tenerla al sicuro alla Bce, a Francoforte, anche se riceve interessi solo dello 0,5 per cento, ci sono più di 300 miliardi parcheggiati. Cosa ha fatto allora Monti? Ha introdotto la garanzia dello Stato sulle passività delle banche, sulle obbligazioni che emettono per finanziarsi. La garanzia vale anche per le obbligazioni già emesse, è sufficiente che questi bond abbiano tre mesi di vita residua. Se un istituto non fosse in grado di rimborsare le obbligazioni alla scadenza, sarà lo Stato a pagare.

E lo farà con i soldi dei contribuenti, costretti a pagare di più con questa manovra. Il decreto stanzia infatti per questi possibili interventi a favore delle banche 200 milioni di euro all'anno, dal 2012 al 2016, in tutto un miliardo di euro. L'anno prossimo scadono 137 miliardi di bond delle banche. Il primo effetto di questa misura è ridurre il costo della provvista per le banche, grazie alla garanzia dello Stato dovrebbero riuscire a finanziarsi a tassi più bassi.

Se le banche fallissero sarebbe una catastrofe, anche per i piccoli risparmiatori. Dunque l'intento di Monti è comprensibile. Meno condivisibile però è che il salvagente non sia accompagnato da norme che consentano un controllo sulle banche e l'individuazione delle responsabilità e degli errori fatti dai banchieri. Per esempio molte banche hanno impegnato centinaia di milioni di euro in operazioni di potere, come gli interventi "di sistema" (cioè per favorire gli amici) di Intesa in Telecom e nella cordata berlusconiana della nuova Alitalia. Oppure i finanziamenti a favore di Ligresti e dell'immobiliarista Zunino, che vedono in prima linea Unicredit, Intesa e Mediobanca. Questi soldi sono stati sottratti a un utilizzo più corretto, distratti dal finanziamento della produzione delle imprese sane. Quando il presidente Obama ha varato il piano di salvataggio dei gruppi finanziari (Tarp), con un fondo da oltre 800 miliardi di dollari, ha introdotto norme precise di controllo, tra cui un tetto agli stipendi più alti, a cominciare dall'amministratore delegato delle società salvate, che non poteva guadagnare più di mezzo milione di dollari all'anno, pari a circa 350mila euro. Monti non ha messo alcuna norma di questo tipo. Eppure i capi delle grandi banche italiane guadagnano agevolmente almeno due-tre milioni di euro lordi all'anno.

Non c'è un conflitto d'interessi tra queste norme, così favorevoli alle banche, e il fatto che nel governo Monti ci sia una folta pattuglia di ex banchieri? O pensate che questa sia solo una coincidenza? C'è Corrado Passera, che ha lasciato la guida di banca Intesa per fare il superministro dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e Trasporti (stipendio 2010: 3,5 milioni lordi) e possiede ancora circa otto milioni di azioni della banca. C'è Elsa Fornero, il ministro tagli-pensioni che era vicepresidente del consiglio di sorveglianza di Intesa, c'è Piero Gnudi, il ministro del Turismo che era nel consiglio di Unicredit. E c'è Mario Ciaccia, uno dei principali dirigenti del gruppo Intesa, che adesso è il viceministro di Passera alle Infrastrutture. Monti chiama il decreto "salva Italia". Di sicuro è anche un decreto "salva banche". Potremmo chiamarlo decreto "ad bancam".

ITALIA E SISTEMA DI POTERE: UN POZZO SENZA FONDO

Tutte le Manovre 2011: un riepilogo per non perdersi.

5 Dossier per 5 Manovre. Abbiamo pensato di riepilogare in uno speciale tutte le Manovre approvate e pubblicate nel 2011, con l'indicazione dei principali provvedimenti e novità introdotte da ciascuna. Decreto Sviluppo 2011, Manovra Correttiva 2011, Manovra Bis di Ferragosto, Legge di Stabilità 2012 e infine la Manovra Monti.

Vista la proliferazione di Manovre elaborate nel 2011 dal Parlamento, ci è sembrato utile raggrupparle in ordine cronologico, con tutti i riferimenti normativi e le principali novità introdotte da ognuna di esse.

Ad ogni Manovra abbiamo dedicato un Dossier informativo che raccoglie tutta la rassegna stampa, la normativa e gli approfondimenti sul tema.

Riepilogando abbiamo le seguenti Manovre:

1.     Decreto Sviluppo 2011

2.     Manovra Correttiva 2011

3.     Manovra Bis di Ferragosto

4.     Legge di Stabilità 2012 (Legge Finanziaria 2012)

5.     Manovra Monti – Decreto Salva Italia

Decreto Sviluppo 2011

DL del 13 maggio 2011 n. 70 - Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia. Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 110 del 13 maggio 2011. Convertito, con modificazioni, dalla Legge 12 luglio 2011 n. 106

Il Decreto Sviluppo 2011 (DL n. 70 del 13.05.2011) come modificato dalla legge di conversione del 12 luglio 2011, n. 106, è entrato in vigore il 13 luglio 2011 con tutte le sue novità introdotte nel corso dell'esame parlamentare. La legge di conversione del decreto sviluppo conferma l'impianto del testo originario, che contiene una miriade di norme che puntano soprattutto alla semplificazione degli oneri burocratici a carico di imprese e cittadini. Tra le modifiche di carattere generale l'abrogazione delle norme sulla concessione del diritto di superficie per il demanio marittimo, mentre per quel che riguarda il fronte fiscale le novità principali sono relative alle procedure di riscossione coattiva. Grazie all'entrata in vigore della manovra di rientro, però, le nuove disposizioni relative all'atto unico di accertamento e riscossione entreranno in vigore solo dal 1° ottobre.

Le novità immediatamente operative riguardano, invece:

*                  divieto di ipotecare gli immobili in caso di debiti con l'erario inferiori ai 20.000 euro se la cartella contestata o ancora contestabile in giudizio e il debitore sia proprietario dell'unità immobiliare oggetto di ipoteca o espropriazione ed essa sia adibita ad abitazione principale;

*                  8.000 euro la soglia al di sotto della quale non si può iscrivere ipoteca o procedere ad espropriazione immobiliare;

*                  uscita di Equitalia dalla riscossione dei tributi locali a partire dal 2012;

*                  per i tributi locali non pagati inferiori ai 2.000 euro obbligo di dare due preavvisi , a distanza di almeno sei mesi, prima di avviare le procedure cautelari;

*                  obbligo di cancellazione delle segnalazioni dei ritardi di pagamento in seguito alla regolarizzazione.

Le altre principali novità riguardano:

*                 credito d'imposta per gli investimenti in beni strumentali nelle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno;

*                  commissariamento per i comuni che non attuano le norme sullo sportello unico per le imprese;

*                  allungamento dei termini per il varo da parte delle regioni delle modifiche al Piano casa;

*                  obbligo di accatastamento per gli immobili rurali ai fini delle agevolazioni fiscali;

*                  possibilità di utilizzare i dati catastali a fini commerciali;

·        aumento tasse catastali per le visure dal 1° settembre.

Manovra Correttiva 2011 - Manovra Finanziaria

Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98 recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria. Pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 155 del 6 luglio 2011. Convertito, con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2011, n. 111.

La manovra di riallineamento dei conti comprende un nutrito pacchetto di disposizioni fiscali destinate ad incidere in maniera significativa soprattutto sui lavoratori autonomi. Una manovra pesante, del valore di oltre 40 miliardi, approvata in 10 giorni dal varo del decreto alla legge di conversione. L’impatto sui conti è destinato a farsi sentire fin da subito e ancora una volta il settore fiscale è chiamato a fare la parte del leone. Nella miriade di norme, infatti, molte sono le novità che non risparmiano nessun settore.

Disposizioni tutte già in vigore grazie all’approvazione sprint del provvedimento.

Per quel che riguarda il pacchetto fiscale la novità di maggior rilievo la previsione del taglio del 5% delle agevolazioni fiscali per l'anno 2013, e del 20% a partire dal 2014, qualora entro il 30 settembre 2013 non siano adottati provvedimenti di riforma del sistema per un suo complessivo riordino, in grado di garantire 4 miliardi di risparmi per il 2013 e 20 miliardi dal 14 in poi. Interessati ai tagli lineari potrebbero essere tutte le agevolazioni fiscali contenute nell'articolo 21, comma 11 - lett. a) della legge 196/2009), senza eccezione alcuna. Previsti tagli, quindi, sia per le famiglie che per le imprese se non interviene una legge di riordino. Rivisto, poi l'aumento del bollo sui conti titoli che ora viene scaglionato in base al valore del deposito. Novità anche per l'addizionale sulle stock option, mentre per quel che riguarda il nuovo regime per i contribuenti minimi con la mini aliquota del 5% è stabilito che la durata può superare anche i cinque anni, ma il regime è valido non oltre i 35 anni di età del beneficiario. Riviste in parte anche le disposizioni in materia di ammortamenti. Alcune di queste misure entreranno in vigore solo il prossimo anno, mentre fin da subito scatta l'obbligo di pagamento del contributo unificato per i ricorsi di fronte alle Commissioni tributarie, come pure la possibilità di chiusura agevolata delle liti pendenti.

Ecco le principali disposizioni:

*                  chiusura agevolata delle liti fiscali pendenti alla data del 1° maggio 2011;

*                  contributo unificato per i ricorsi tributari;

*                  abolizione della fidejussione per i versamenti rateali per accertamento con adesione;

*                  accertamenti esecutivi dal 1° ottobre con obbligo di indicazione anche delle sanzioni;

*                  obbligo per i gestori delle carte di credito di comunicare le operazioni ai fini dello spesometro;

*                  rinvio dei pagamenti fino al 2012 e zona franca a Lampedusa;

*                  limiti al riporto delle perdite e all'ammortamento dei beni gratuitamente devolvibili;

*                  revoca delle partite Iva inattive;

*                  aumento dell'imposta del bollo sul conto titoli;

*                  addizionale sul bollo auto per i veicoli con oltre 225 kw di potenza.

Di seguito, invece, le novità operative dal 2012:

*                  revisione del regime fiscale per i contribuenti minimi;

*                  introduzione dell'obbligo di reclamo e mediazione in materia di ricorsi tributari.

Manovra di Ferragosto o Manovra Bis 2011

Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 188 del 13 agosto 2011. Convertito dalla Legge 14 settembre 2011 n. 148.

La manovra di Ferragosto (d.l. 138/2011), in vigore dal 13 agosto 2011, è aggiuntiva rispetto a quella di luglio, per anticipare il pareggio di bilancio al 2013. L’intervento si è reso necessario a seguito delle sollecitazioni europee, e soprattutto della banca centrale europea. Fisco protagonista della manovra-bis. Dopo i tanti ripensamenti e le riscritture del provvedimento, è proprio quello delle entrate il settore destinato a garantire il valore aggiunto necessario per centrare l’obbiettivo del pareggio di bilancio fin dal 2013. Se i tagli in molti casi sono più che altro una dichiarazione d’intenti, come, in particolare, per quel che riguarda l’abolizione delle province, la stretta sulle entrate è un dato certo e ineludibile. Un insieme di disposizioni, peraltro, che si inseriscono nel solco tracciato già con la manovra del 2010. Ma se lo scorso anno per l’applicazione delle nuove disposizioni erano stati previsti tempi lunghi, quest’anno il clima è completamente diverso. Con la manovra-bis le novità sono tutte già in vigore, a partire dal ritocco dell’Iva, e con gran parte di queste occorrerà fare i conti già in sede di acconto.

Di seguito le principali novità in campo fiscale:

*                  Iva ordinaria sui beni e sulle prestazioni professionali al 21%;

*                  contributo di solidarietà del 3% sui redditi imponibili oltre i 300.000 euro lordi;

*                  recupero coattivo delle somme dovute per il condono del 2002;

*                  inasprite le sanzioni penali e aumentati i termini di prescrizione per i reati tributari;

*                  maggiorazione del 10,5% dell'Ires per le società di comodo e quelle in perdita sistemica;

*                  revisione della normativa fiscale sui beni d'impresa concessi in uso a soci o familiari;

*                  revisione delle agevolazioni fiscali per le cooperative;

*                  restituzione entro 90 giorni dei bonus bebè non spettanti per evitare le sanzioni fiscali;

*                  bollo del 2% sui trasferimenti di denaro verso paese extracomunitari se l'ordinante non ha matricola Inps e codice fiscale;

*                  arriva lo scontrino per gli stabilimenti balneari;

*                  delineata la riforma degli ordini professionali

Legge di Stabilità 2012 (Legge Finanziaria 2012)

Legge 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di stabilità 2012, ex legge finanziaria) Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Approvata in via definitiva dal Parlamento il 12 novembre 2011 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale 14 novembre 2011, n. 265.

Approvata in tempi record per la crisi politica, la Legge di stabilità è destinata comunque ad entrare il vigore dal 1° gennaio 2012. Nessuna anticipazione delle misure, quindi, rispetto ai tempi originariamente previsti, tranne la riforma degli Ordini che dovrà essere operativa entro agosto 2012. In ogni caso saranno necessari decreti attuativi. In vigore da gennaio, invece, il taglio della burocrazia e le semplificazioni per le srl, mentre per la possibilità di avviare società tra professionisti appartenenti a ordini diversi occorrerà attendere un apposito decreto del ministero della Giustizia.

Di seguito le principali novità per professionisti e imprese:

*                  riforma degli ordini professionali e possibilità di costituzione di società interprofessionali;

*                  certificati sostituiti da autocertificazioni per i rapporti con enti pubblici e società di gestione di servizi pubblici;

*                  zone a burocrazia zero estese dal Meridione a tutto il territorio nazionale;

*                  semplificazioni per la gestione delle imprese a contabilità semplificata e per i collegi sindacali;

*                  taglio dei contributi per i contratti di apprendistato per le imprese con meno di 9 addetti;

*                  revisione delle aliquote contributive per la gestione separata;

*                  dismissione del patrimonio immobiliare e vendita dei terreni agricoli con prelazione per i giovani coltivatori diretti;

*                  aumento del contributo unificato per le spese di giustizia.

Manovra Monti "Salva Italia".

Una manovra, quella approvata dal Consiglio dei Ministri il 4.12.2011, che come suggerisce il Presidente Mario Monti “salva l’Italia” e che si è resa necessaria per affrontare la crisi finanziaria gravissima che ha investito l’area Euro e più specificatamente il debito italiano. Complesso il pacchetto di interventi che il Governo ha messo a punto e che, nonostante l’emergenza, dà il via ad una serie di riforme strutturali dell’economia italiana. In tutto la manovra ammonta a 30 miliardi di €, per il triennio 2012-2014. Di questi 30 miliardi, 20 saranno destinati alla correzione dei conti pubblici e 10 a promuovere la crescita. Si ricorda, inoltre, che il testo della manovra – sotto forma di D.l. - dovrà essere firmato dal Presidente della Repubblica per poi passare al Parlamento, l’obiettivo è ottenere il via libera definitivo entro Natale.

Principali provvedimenti:

*                  ritorno dell’Ici sulla prima casa (c.d. IMU);

*                  Incremento di due punti percentuali dell'Iva: quella del 21% passa al 23%, quella del 10% passa all’11% da settembre 2012;

*                  l’integrale deducibilità dell’Irap sul costo del lavoro ai fini Irpef ed Ires;

*                  Super bollo per le autovetture pari a 20 € per ogni chilowatt di potenza superiore a 170 Kw;

*                  Supertassa per lo stazionamento delle imbarcazioni da diporto e degli aeromobili privati;

*                  Limite di 1.000 € per il pagamento in contanti;

*                  Prelievo dell’1,5% sui capitali fatti rientrare in Italia con lo scudo fiscale;

*                  riforma delle pensioni con l’aumento dell’età pensionabile.

Manovre, nel 2011 interventi per 75 miliardi. I più imponenti di sempre. In 20 anni finanziarie per 460 miliardi. Se si dovessero guardare gli interventi correttivi dei conti, questa sarebbe la peggior crisi degli ultimi vent'anni, peggio di quella di inizio Anni 90. Il governo Berlusconi Quater e il governo di Mario Monti, insieme, sono destinati a varare manovre finanziarie pari a quasi 75 miliardi di euro in un solo anno. La cifra supera di gran lunga l'intervento messo a punto dal governo Amato nella crisi del 1992, un 'correttivo' da 48 miliardi (96 miliardi di vecchie lire), ma con impatto immediato sui conti, diversamente da quanto avviene per le manovre di oggi, che sono cambiate e hanno un impatto triennale.

DECRETO BERLUSCONI-TREMONTI DA 54,2 MILIARDI. Il decreto Berlusconi-Tremonti varato a inizio settembre 2011 aveva un valore di 54,2 miliardi, con impatto sul 2013. A questo vanno aggiunti i 20 miliardi della 'correzione' del nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti. Per un totale per il 2011 di 74,2 miliardi di euro.

IN 20 ANNI MANOVRE PER 460 MILIARDI. Nel complesso, negli ultimi 20 anni, i conti pubblici hanno subito una correzione per quasi 460 miliardi di euro. Dopo la manovra del 2011, la seconda per entità è quella varata da Amato nel 1992, seguita da quella di Tommaso Padoa-Schioppa nel 2006 (oltre 35 miliardi). Mentre nel 1996, l'anno dell'eurotassa per centrare l'ingresso nell'euro, la manovra varata valeva 32 miliardi (62.500 miliardi delle vecchie lire).

Ecco una tabella che riepiloga l'entità degli interventi per anno governo e ammontare in miliardi di euro.

1991 Andreotti 29 miliardi di euro

1992 Amato 48

1993 Ciampi 16

1994 Berlusconi 25

1995 Dini 16

1996 Prodi 32

1997 Prodi 13

1998 D'Alema 7

1999 D'Alema 8

2000 Amato 0

2001 Berlusconi 17

2002 Berlusconi 20

2003 Berlusconi 16

2004 Berlusconi 24

2005 Berlusconi 27

2006 Prodi 35

2007 Prodi 15

2008 Berlusconi 13

2009 Berlusconi 11

2010 Berlusconi 13

2011 Berlusconi 74

2011 Monti 20

Queste manovre non ledono l’evasione fiscale: sia perché non si incentiva la volontaria e trasparente denuncia dei redditi con la detrazione assoluta di ogni spesa sostenuta, per obbligare il contribuente a chiedere la fattura o la ricevuta fiscale, sia perché pari a cento versato al fisco si ottiene zero in servizi.

Ergo si paga per sostenere le sanguisughe pubbliche, ed al cittadino, questo non gli va giù.

Allora i politici cosa fanno: si tirano fuori, nominano un capro espiatorio che si assume la responsabilità della stangata, per poi farlo fuori e ripresentarsi immacolati alle elezioni.

Sempre loro; sempre quelli uguali a se stessi da oltre 20 anni, sempre quelli, i quali hanno provocato il dissesto.

E gli italiani, coglioni, a rivotarli.

Iniqua, insostenibile, atroce, punitiva. Ma anche urgente, necessaria, senza alternative. Fra le molteplici definizioni e gli aggettivi che sono stati affibbiati alla manovra varata dal governo Monti forse manca quello più importante: inutile. Sebbene solo in pochi lo ammettano, voce ormai serpeggia fra gli economisti non allineati al pensiero dominante e gli osservatori più attenti: l'Italia si trova nel famigerato cul de sac, dal quale non è possibile uscire se non cambiando completamente paradigma. Uno dei postulati del paradigma della crescita è infatti il rapporto debito/pil. In un paese dall'economia sana – sempre ragionando nell'ottica della crescita - questo rapporto non dovrebbe essere superiore allo zero, e il debito non dovrebbe crescere con ritmi superiori al prodotto interno lordo. In Italia questo rapporto si aggira attorno all'1,2, ovvero il debito è circa il 120 per cento del pil. Inoltre il nostro debito sovrano è soggetto a forti speculazioni: quello che viene contratto in tempo di crisi, attraverso l'emissione di bond e obbligazioni, ha degli interessi a dieci anni che si aggirano attorno al 7 per cento. Il pil invece è praticamente fermo, ovvero l'Italia non cresce.

Ecco, in questa situazione – sempre nell'ottica dominante - si può intervenire un due modi: agendo sul debito o sulla crescita. La manovra Monti agisce sul debito: cerca cioè di tagliare il più possibile le spese per chiudere in attivo il bilancio statale e ripagare parte del debito (una parte minima a dire il vero) sperando così che con il diminuire del debito calino anche gli interessi da pagare su di esso. Ma così facendo egli va a colpire direttamente sia le risorse dello stato che le tasche degli italiani, che saranno più poveri e spenderanno meno. Dunque gireranno meno soldi, ancora meno ne entreranno nelle casse dello stato ed il bilancio tornerà in passivo. La crescita non ripartirà ed il debito aumenterà ancora.

Scrive acutamente nel suo blog il giornalista Paolo Barnard, “Mario Monti si troverà con un cane che si morde la coda, e mentre da una parte darà un colpo per raddrizzare il cerchio, dall’altra il cerchio picchierà sul muro storcendosi di nuovo”. È una situazione, quella attuale, dalla quale non si esce se non a patto di una radicale cambiamento di vedute. Per questo motivo sono fiorite, sul web come sulla carta stampata, moltissime proposte di contromanovre, che provano a vedere la situazione da altri punti di vista, e che nel cercare i soldi necessari al bilancio statale mettono al centro le esigenze dei cittadini piuttosto che quelle del mercato.

Il governo Passera-Monti decida di fornire garanzie statali sulle passività delle banche, garanzie pagate con soldi pubblici, che permetteranno agli istituti di credito di pagare più serenamente compensi milionari ai propri manager, senza che nessuno evidenzi un vergognoso conflitto d’interessi è francamente inaccettabile. Ci può spiegare il Primo Ministro secondo quale logica i conti delle banche italiane necessitano dei soldi di pensionati e famiglie se, tanto per citare un esempio, Banca intesa per il 2010 ha distribuito 1,3 miliardi di euro in dividendi ai propri soci e pagato poco meno di 4 milioni di euro come compenso al proprio amministratore delegato? Qual è la ratio che sta alla base della decisione di reintrodurre una tassa sulla casa di abitazione, bene per il quale la maggioranza degli italiani ha fatto sacrifici immani, non prendendo in considerazione ipotesi come quella di toccare grandi patrimoni, abolire i rimborsi elettorali e i finanziamenti pubblici dei partiti, eliminare tutti i “privilegi” della politica, non parlando demagogicamente solo dei costi, equiparare i livelli dei gettoni di presenza nei consigli comunali, spesso diversissimi tra Città e Città?”

Certo, al Senato non godono più dello stupefacente dono che fino a qualche anno fa veniva fatto da ogni presidente che, andandosene, regalava loro, a spese dei cittadini, due anni di anzianità. Ma ci sono ancora, a Palazzo Madama, persone che, assunte prima del 1998, possono andare in pensione prima di tutti gli altri italiani, a cinquant'anni o poco più, godendo anche di quella regalia. È giusto?

È un diritto acquisito e quindi intoccabile anche quello?

È accettabile che, 16 anni dopo la riforma Dini, nonostante i ritocchi, non ci sia ancora un dipendente del Senato (quelli arrivati dopo il 2007 possono andarsene con qualche penalità ancora a 57 anni) che accantoni la pensione col sistema contributivo? Così risulta: dato che dal 2007 non è entrato alcuno, i primi soggetti al «contributivo» (peraltro maggiorato con un «aiutino» intorno al 18%) dovrebbero essere sette funzionari in arrivo nel 2012. Come possono capire, gli italiani, che quei fortunati godano di 15 mensilità calcolate sul 90% dell'ultima retribuzione e trasmesse intatte al 90% alla vedova se ha figli minori di 21 anni. Ma non basta ancora: nonostante le polemiche seguite alle denunce del passato come quella dell'«Espresso» che quattro anni fa rivelò che al Senato uno stenografo arrivava a 254 mila euro l'anno e un barbiere a 133 mila, le retribuzioni sono cresciute ancora dal 2006, in questi anni neri, del 19,1%. Arrivando a un lordo medio pro capite di 137.525 euro. Centodiecimila più di un dipendente medio italiano, il quadruplo di un addetto della Camera inglese (38.952) e addirittura 19 mila più della busta paga dei 21 collaboratori principali di Obama, che dalla consigliera diplomatica Valerie Jarrett al capo dello staff William Daley, prendono al massimo (trasparenza totale: gli stipendi dei dipendenti, nome per nome, sono sul sito della Casa Bianca) 118.500 euro. Lordi.

Sia chiaro: Palazzo Madama può contare su collaboratori, dai vertici fino agli operai, di eccellenza.

Sui quali sarebbe ingiusto maramaldeggiare demagogicamente. Loro stessi, però, discutendo del loro futuro con l'apposita commissione presieduta da Rosi Mauro (sindacati di là, una sindacalista di qua) non possono non rendersene conto: di questi tempi, la loro trincea con tre liquidazioni (una interna, una dell'Inpdap, una del «Conto assicurativo individuale») e le due pensioni (una del Senato e ora ancora dell'Inpdap) è indifendibile. Tanto più che anche nel loro caso, il peso delle pensioni sui bilanci è cresciuto in modo spropositato.

Vale per Palazzo Madama, vale per il Quirinale dove troppo tardi la presidenza ha introdotto «misure dissuasive» con la previsione di «significative riduzioni» dei trattamenti pensionistici come un limite per l'anzianità «a regime» (campa cavallo...) di 60 anni con 35 di contributi (da leccarsi i baffi...), vale per Montecitorio, dove lo stipendio lordo è poco più basso che al Senato: 131.586 euro. Con tutto ciò che ne consegue sulle pensioni. Non sarà facile rompere certe incrostazioni. Verissimo. Ma è troppo facile far la faccia dura solo con i piccoli...

ICI, QUELLI CHE NON PAGANO: anche Confindustria, partiti e sindacati, gli esentati.

Sull'Ici è guerra di tutti contro tutti. Dopo le accuse alla chiesa cattolica i cui immobili - anche quelli adibiti ad attività di lucro - sono esentati dalla tassa sugli immobili, si è allungata la lista delle associazioni che non pagano. Dalle tante chiese e confessioni - sinagoghe e moschee in testa - ai partiti politici. In questo caso aggirare la legge è semplice: basta intestare l'immobile a una fondazione e il gioco è fatto. Per non parlare di ambasciate, consolati e sindacati. Il patrimonio della Cgil, per esempio, è stimato che si aggiri intorno alle 1.000 unità, anche se è difficile districarsi tra sigle e sottosigle, tra Filcams, Fillea, Fisac, Spi, Fgil. La Cisl conta sedi in ogni capoluogo di provincia e anche qui arriviamo a numeri a tre zeri. Idem per la Uil, che ha addirittura creato una società ad hoc per gestire il patrimonio immobiliare: la Labour Uil. Dal canto loro i confederali hanno prontamente rispedito le accuse al mittente: «Tutte le strutture sindacali, a ogni livello, pagano regolarmente l'Ici in base alla legislazione vigente», hanno messo nero su bianco in un comunicato congiunto. «Cgil, Cisl e Uil», hanno ribadito, «possono attestare l'avvenuto pagamento dell'Ici con i relativi bollettini a disposizione di tutti gli organi di informazione, a dimostrazione della trasparenza dell'attività sindacale».

È partita la caccia a chi non paga l'Ici. Si allarga il fronte politico di chi vorrebbe maglie più strette per far pagare le tasse anche alla Chiesa. Da "Il Corriere della Sera" si apprende che il presidente della Cei Bagnasco ha mostrato disponibilità «a valutare la chiarezza della norma». Ma allo stesso tempo l'Avvenire passa al contrattacco segnalando che non soltanto i beni ecclesiastici sono esentati dal pagamento delle tasse sugli immobili. In effetti l'elenco è lungo, e comprende tutti gli edifici di proprietà di organizzazioni internazionali e Stati esteri (compreso però il Vaticano), così come le fondazioni culturali e liriche, le Camere di Commercio, le università, le scuole. Anche i musei, ma a patto che non comprendano attività commerciali come book-shop o caffetterie (il che li esclude praticamente tutti). Sono poi esentate tutte le associazioni impegnate nel sociale, e in questo novero finiscono anche le attività ricreative, come buona parte dei 5.500 circoli Arci.

Ma torniamo ai beni ecclesiastici. Secondo stime dell'Anci aggiornate al 2007 - quando ancora esisteva l'Ici sulla prima casa - l'esenzione vale 400 milioni di euro l'anno, al netto dell'inflazione e della rivalutazione degli estimi catastali prevista dalla manovra. Come è noto, solo i luoghi di culto, di pertinenza religiosa o che svolgono funzioni di assistenza ai bisognosi sono esentati dalla legge. Ma da più parti sono stati sollevati dubbi sul rispetto delle norme. Al punto che lo stesso Bagnasco ha chiesto che vengano sanzionati gli eventuali abusi. Il controllo «fiscale» sui beni della Chiesa spetterebbe alle amministrazioni, che però su questo fronte fanno poco o nulla. Secondo alcune rilevazioni, addirittura il 20% del patrimonio immobiliare italiano farebbe capo alla Chiesa. Il catasto comprenderebbe 100mila fabbricati, con un valore di circa 9 miliardi di euro. Le stime di settore parlano di circa 115mila immobili, quasi 9mila scuole e oltre 4mila tra ospedali e centri sanitari. Solo a Roma ci sono 23mila tra terreni e fabbricati, 20 case di riposo, 18 istituti di ricovero, 6 ospizi. Ma di questi quanti realmente dovrebbero essere tassati?

I Radicali da anni, spesso come voce solitaria, segnalano l'anomalia dei beni di proprietà della chiesa sfruttati a fini commerciali e tuttavia esentati dall'Ici. Il consigliere comunale di Milano Marco Cappato ha presentato un'interrogazione per conoscere quali sono i beni della Chiesa, i controlli fiscali eseguiti e con quale risultato: «Non ho ancora ricevuto risposta - spiega al Corriere della Sera - nell'attesa ho chiesto conferma del trattamento riservato ad alcuni beni ecclesiastici chiedendo se fossero esentati. Ed ottenuta risposta positiva, abbiamo provveduto noi a fare una piccola verifica». Il segretario dei Radicali Mario Staderini si è presentato in alcuni studentati e convitti ecclesiastici chiedendo una stanza per qualche notte. Ha così scoperto che in qualche caso, dietro la parvenza di una struttura religiosa, si celava un vero e proprio albergo, con tanto di tariffe perfettamente in linea con i costi del mercato. Il tutto filmato da una telecamera nascosta.

Per Avvenire bisognerebbe diffidare dalla «Fissazione radicale». Come spiega il direttore Marco Tarquinio, quella in corso è un'offensiva contro la solidarietà: «I promotori della nuova campagna anti-Chiesa, che ha risposto acremente agli appelli del mondo cattolico per misure fiscali pro famiglia e anti evasione, vogliono in realtà tassare la solidarietà». Il giornale dei vescovi ribadisce che l'esenzione compensa il welfare erogato dalle strutture ecclesiastiche. «Chiunque altro risponderebbe con una serrata dimostrativa di almeno sette giorni delle proprie attività - aggiunge Tarquinio -. Ma una settimana senza carità cristiana l'Italia non se la merita e non se la potrebbe permettere, soprattutto oggi. E i cattolici, poi, non sanno nemmeno come si fa una serrata».

In un altro articolo appare invece una breve elencazione degli «esenti meno noti», ossia «partiti, circoli culturali e sindacati». Tesi poi ribadita anche da alcuni esponenti politici di primo piano, come Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo alla Camera del Pdl: «Esistono esenzioni fiscali per le attività non lucrative - prosegue - di cui beneficiano non solo le confessioni religiose ma ad esempio anche i sindacati e la vasta galassia dell'associazionismo». Avvenire cita il caso dei circoli di volontariato che diventano ristoranti: «Vi è mai capitato di entrare in un locale dove si ascolta musica, si mangia e si beve allegramente? Prima di entrare vi fanno pagare una piccola quota associativa con tanto di tesserina? Bene, quel locale, noto circolo di una nota associazione ricreativa, non paga l'Ici». In un duello che inevitabilmente riporta la memoria ai tempi di don Camillo e Peppone, il quotidiano dei vescovi passa poi ad elencare «le case del popolo, così come i partiti politici».

Quindi anche il Partito Radicale, che da anni è l'alfiere della caccia all'esenzione, non pagherebbe l'Ici? «Non è affatto vero - replica Staderini - per la nostra sede noi paghiamo eccome, anche 2-3mila euro all'anno». È ancora più preciso il tesoriere del Pd, Antonio Misiani: «La normativa vigente prevede che i partiti politici siano soggetti al pagamento dell'Ici, salvo diversa deliberazione delle amministrazioni comunali». Che però vengono gestite dai partiti medesimi. Ugualmente sollecitate, tutte le sigle sindacali hanno provveduto a fare lo stesso comunicato: «Paghiamo regolarmente l'Ici». Su un patrimonio che del resto, restando solo alle organizzazioni confederali, sfiora quota diecimila immobili.

Quelli che pagano meno dei preti. Un po' di chiarezza la fa Franco Bechis su Libero. Non pagano le tasse, o le pagano appena appena, ma non sono evasori. Sono decine di migliaia i privilegiati del fisco italiano che non troveranno mai l’esattore alla loro porta con la cartella in mano per reclamare il dovuto. C’è la Chiesa italiana, è vero, con tutti i suoi ordini religiosi e associazioni in qualche modo collegate. Come lei tutte le Chiese riconosciute in Italia, che certo pesano numericamente assai meno Ma ci sono anche partiti, movimenti e associazioni politiche nazionali e nelle loro ramificazioni territoriali. Ci sono i sindacati nazionali, le loro associazioni di categoria, le loro ramificazioni territoriali. Ci sono le associazioni di promozione sociale, una voce dentro cui finisce davvero di tutto: dall’Arci, agli alcolisti anonimi, a Italia Nostra, alla comunità di Sant’Egidio, al Movimento delle casalinghe, a Legambiente, alle associazioni dei consumatori, fino al Touring club italiano. Ci sono tutti gli enti non commerciali, un mare indistinto dove ci si riesce a infilare con una certa facilità. E naturalmente il mondo delle Onlus. Nemmeno la commissione presieduta da Vieri Ceriani che ha censito tutte le agevolazioni fiscali italiani è riuscita fino in fondo a quanto ammonti questo variegato mondo del no-tax. Per alcune voci i calcoli sono stati fatti, per altre lasciati in bianco: a occhio e croce lo sconto fiscale complessivo ammonta ad almeno una decina di miliardi di euro, e piccola parte è quella rappresentata dalla Chiesa italiana.

Ora la polemica sui beniamini del fisco è tutta centrata sull’Ici. Non la paga nessuna chiesa per fabbricati destinati al culto e relative pertinenze. Ma già su questa ultima formula ogni comune e commissione tributaria fa un po’ come vuole. Ci sono regioni che non hanno ammesso all’esenzione (per decisione della commissione tributaria) la casa del parroco, le stanze di un monastero dove vivevano le suore, in un caso perfino la stanza del vescovo. A Milano la chiesa paga l’Ici per gli oratori parrocchiali, che sembrerebbero esenti. A Roma e in altre città invece non paga. Stessa cosa per i cinema parrocchiali: in qualche posto si paga, in altri no. Eppure l’esenzione è pienamente sfruttata da enti laicissimi, come l’Arci e le associazioni di promozione sociale, che a differenza della Chiesa spesso riservano manifestazioni e servizi solo ai possessori di una tessera di adesione annuale a pagamento. È certo che l’Ici non venga pagata dai partiti e movimenti politici. In qualche caso nemmeno dalle fondazioni politiche che stanno nascendo come funghi. Sui sindacati qualche incertezza interpretativa in più c’è. La Cgil, poi la Cisl e la Uil hanno giurato di pagare su tutti i loro immobili ad ogni livello territoriale e funzionale. Dicono di essere pronti a mostrare i bollettini, ma non li mostrano. Solo la Cgil per la sede nazionale dovrebbe pagare 71.387 euro di Ici. Attendiamo con ansia copia della ricevuta di versamento al comune di Roma. Altro modo di verificare non c’è, perché i sindacati sono i meno trasparenti di tutto questo mondo no-tax. L’unica verifica possibile è sulle società controllate. I Caaf Cgil spesso hanno immobili di proprietà e pubblicano i loro bilanci. A leggerli, sembrano dare torto alla Cgil nazionale. Ha immobili il Caaf Cgil Puglia, e in bilancio indica 1.756 euro di Ici pagata. Però è l’unico. Perché hanno immobili anche i Caaf Cgil di Sardegna, Calabria, Lombardia e Mantova. Ma nessuno di loro indica in bilancio un euro di Ici pagata: tutte le altre imposte (scontate, scontatissime), invece ci sono. Non c’è solo l’Ici però: partiti e sindacati hanno sconti o esenzioni fiscali anche sulle principali tasse sul reddito, e per loro non entra nell’imponibile nemmeno l’attività commerciale temporaneamente esercitata durante manifestazioni, congressi, happening e così via. Godono di regime fiscale privilegiatissimo per tutte le donazioni a loro rivolte. Sono esentati da tutte le tasse di concessione governativa, hanno uno sconto dell’80% sulla Tosap per tutte le loro manifestazioni, del 50% delle imposte comunali sulla pubblicità e sui diritti alle pubbliche affissioni. Così come è scontato del 50% ogni tipo di attività promossa con il patrocinio di un ente territoriale (che certo non si nega mai a un partito o a un sindacato). Ben più anomala dell’Ici è invece l’agevolazione fiscale di cui gode il Vaticano insieme a tutti gli enti controllati su tutte le imposte principali: 3.400 dipendenti godono dell’esenzione totale Irpef sulle retribuzioni, sul Tfr e dell’esenzione totale contributiva. Si tratta di dipendenti che fanno lavori comuni, non strettamente collegati all’attività di culto. Amministrativi, dipendenti della farmacia vaticana, segretari di ufficio, dirigenti dell’Apsa o di Propaganda Fide, medici e amministrativi di ospedali e strutture di proprietà vaticana. Non sono cittadini stranieri, ma quasi tutti italiani con residenza a Roma e provincia. Ma ricevono busta paga dove il lordo è identico al netto. E avranno pagata lo stesso la pensione senza avere mai versato un contributo.

Se solo le nostre tasse corrispondessero a servizi pubblici e meritocrazia....saremmo tutti più contenti a pagarle, anzichè evaderle o eluderle.

Scurriculum, le carriere misteriose di amici e amanti senza alcun merito. Una rassegna impietosa, e a tratti ironica, di eclatanti casi di raccomandazioni in uffici pubblici e delicati ruoli dirigenziali: mediocrità al potere, mentre l'Italia affonda nelle classifiche della competitività globale. L'Italia degli Scurriculum, di quei tanti personaggi che pur non avendo titoli adeguati sono stati piazzati dalla politica a fare i manager di imprese pubbliche, di Asl, di istituti di ricerca statali o di municipalizzate, potrebbe riassumersi tutta nella trascrizione di un interrogatorio dell'inchiesta Tarantini, l'imprenditore delle escort di Arcore e delle mazzette sulle protesi. Al pm Digeronimo l'ex direttore generale dalla Asl di Taranto racconta di aver incontrato un politico pugliese al pronto soccorso di Massafra. "Gli ho chiesto come mai fosse lì e fosse così preoccupato - fa mettere a verbale il direttore generale - e lui m'ha risposto che la figlia aveva avuto un incidente automobilistico. Allora l'ho rassicurato: guarda oggi dentro ci sta proprio il primario di ortopedia. E lui: è per questo che sono preoccupato, quello ce l'ho messo io là e so come ho fatto". Sembra una barzelletta, ma come in tante altre storie raccontate nel libro "Scurriculum, viaggio nella demeritocrazia", è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come l'Italia sia sempre più una Repubblica fondata sulla mediocrità, una "mediocracy". Cioè un sistema che seleziona e promuove scientificamente una classe dirigente di basso profilo che non è funzionale al Paese, ma al partito. Al leader. Al segretario.

E' proprio questo il filo conduttore di Scurriculum (Aliberti editore). Il saggio scritto dal giornalista Paolo Casicci e da Alberto Fiorillo di Legambiente, con la prefazione di Gian Antonio Stella: mostrare come, a forza di spintarelle, raccomandazioni, tanti onesti gregari dall'esperienza professionale leggera e dalle amicizie pesanti, in virtù del tocco magico della politica, siano stati trasformati in straordinari manager e capitani d'impresa che hanno a che fare col domani del Paese e con l'oggi di tutti noi: con la salute, il trasporto pubblico, la spazzatura, la cultura, l'istruzione, il lavoro, l'ambiente... Una corte di vassalli che ha l'unica funzione di soddisfare le esigenze del principe (e ovviamente le proprie) a scapito della collettività. Come scrive Gian Antonio Stella nella prefazione, infatti, "da noi vige un sistema, ignobile e suicida, che mortifica i più bravi costringendoli spesso a regalare la loro intelligenza ai Paesi stranieri e premia al contrario quanti hanno in tasca la tessera giusta o il telefono del deputato giusto. Un errore che ha infettato la società italiana rendendola sempre più debole e incapace di stare al passo di un mondo che cambia a velocità immensamente superiore alla nostra".

E infatti via via Scurriculum dipana una galleria degli orrori: storie esemplari raccolte in altrettanti curricula, che spiegano come un ex calciatore dilettante o un insegnante di francese in pensione possano guidare due importanti enti di ricerca, come il dentista fidanzato con la Brambilla possa essere tra i boiardi che decidono le sorti della Formula1 a Monza, o come un cacciatore e un ultrà possono governare due aree protette, una nazionale e una regionale. Dal mazzo si può pescare ancora la carriera di Massimo Zennaro, portavoce e direttore generale dell'ex ministero della Pubblica istruzione, Maria Stella Gelmini. L'uomo è famoso per avere inventato l'esistenza di un tunnel costruito tra il Cern in Svizzera e i laboratori del Gran Sasso, lungo il quale i neutrini avrebbero superato la velocità della luce. Oggetto che gli è valso a lungo gli sfottò della Rete (e l'incredulità della stampa straniera). Laureato in Scienze politiche, un precedente di semplice "comunicatore" al Comune di Milano, Zennaro scala il ministero praticamente senza curriculum. Ed è ancora lì, dirigente all'istruzione, con il nuovo governo. La conclusione degli autori? "Ci resta la dignità della denuncia. O una moratoria contro i 'figli di'".

Senza parlare poi de LA CASTA DELLE STELLETTE.

Pensioni, case, indennità: ecco la casta con le stellette, secondo “Il Giornale” ad un capo di Stato maggiore spettano un milione di liquidazione e 15mila euro al mese. Ed ai vertici di Esercito, Carabinieri e Finanza va anche un bonus di 409mila euro. La casta per definizione è quella dei politici e anche i giornalisti che li criticano non sempre possono lanciare la prima pietra, ma nell’Italia dei privilegi pure i generali e gli ammiragli non scherzano. Gli alti ufficiali sono tanti, troppi, secondo qualche fonte il 30% in più del necessario, per un esercito volontario che verrà ridotto di ulteriori 40mila uomini. I capi di stato maggiore tirano i remi in barca con una liquidazione che sfiora il milione di euro e 15mila euro di pensione. Non solo: i vertici delle forze armate, compresi Carabinieri e Finanza, godono di una speciale indennità pensionabile di 409mila euro lordi, che in tempi di vacche magre salta agli occhi. Oggi lo Stato sta pagando oltre 4 milioni di euro per questa indennità ad personam. La chiamano S.I.P. e non ha niente a che fare con la vecchia compagnia telefonica. Nel 1981 il primo a godere della speciale indennità pensionabile era stato il capo della polizia. Nel corso degli anni si sono aggiunti il comandante della guardia forestale ed il direttore generale delle carceri. Le stellette hanno brontolato chiedendo, per certi versi a ragione, uguali diritti e così la SIP è stata garantita anche al comandante generale dei carabinieri, a quello della Finanza ed ai capi di stato maggiore delle Forze armate che sono 4 (Difesa, Esercito, Aeronautica e Marina), oltre che al segretario generale e direttore degli armamenti. Un generale a tre stelle non arriva a 6.500 - 7.000 euro al mese, meno della metà di tanti alti dirigenti dello stato. Nel momento in cui viene nominato capo di stato maggiore, con la responsabilità su decine di migliaia di uomini, forse è giusto garantirgli un’indennità di carica. Anche se 22.755 euro in più al mese per 13 mensilità «rivelati » in una proposta di legge che addirittura voleva allargare il privilegio ai vice, non sono bruscolini. Dalla precedente gestione della Difesa non siamo riusciti ad ottenere le cifre esatte, ma secondo le fonti de il Giornale e di stampa stiamo parlando di 409mila euro lordi che corrispondono ad oltre 250mila euro netti. L’aspetto più controverso è quel termine «pensionabile». In pratica la speciale indennità viene poi riconosciuta per calcolare la pensione. Dalla Difesa scrivono che «si tratta di indennità (...) soltanto parzialmente pensionabile istituita per eliminare o quantomeno attenuare il grande divario all’epoca esistente con i vertici delle Forze di Polizia». Fonti de Il Giornale, però, sostengono che la SIP è quasi totalmente pensionabile, a parte una decurtazione che si aggirerebbe sul 10%. In definitiva le stellette che sono state ai vertici delle Forze armate si godono una pensione che si aggira sui 15mila euro. «Le responsabilità che hanno assunto sono elevatissime e quindi non mi sembra scandaloso - sostiene una fonte de il Giornale nelle Forze armate che conosce i conti - Invece è scandaloso il tentativo di estenderla anche ad altri» come i vicecomandanti ed i vicari. In Italia i generali delle Forze armate sono 425. Negli Stati Uniti gli alti ufficiali sono 900, ma comandano 1 milione e 400 mila uomini, sette volte più di noi. Secondo una fonte de il Giornale che conosce il problema generali ed ammiragli potrebbero essere anche il 30% in più del necessario, compresi i carabinieri. Per non parlare della Finanza e degli altri corpi di sicurezza della Stato. E dei privilegi garantiti a 44 alti ufficiali, che beneficiano di appartamenti da 600 metri quadrati compresi di battitura tappeti e lucidatura dell’argenteria. La spesa per lo Stato sarebbe di 3 milioni e mezzo di euro l’anno. Non è un caso che nel piano di tagli in via di preparazione sia prevista una drastica riduzione degli alti ufficiali. Non solo: La Difesa sta studiando un taglio di almeno 40mila uomini su 190mila, che dovrebbe presentare entro fine anno al nuovo ministro, Giampaolo Di Paola. Per la prima volta è stato nominato al vertice un ammiraglio ancora in servizio, anche se oltre l’età prevista per la pensione. Proprio Di Paola è il fautore del nuovo «Modello di Difesa» che prevede la riduzione degli organici a circa 120/140mila uomini. Le spese del personale assorbono il 62% delle risorse della Difesa (quasi 9 miliardi di euro). L’obiettivo è arrivare ad un costo del 50% senza tagliare le unità operative. Nelle missioni all’estero, comprese quelle di guerra come in Afghanistan, sono impegnati fra 10 e 12mila uomini. Il problema è che i tagli hanno ridotto all’osso l’addestramento ed il prossimo anno potrebbero esserci 3mila volontari in meno da arruolare per mancanza di soldi. «Già adesso i bandi per ufficiali e sottufficiali hanno numeri sempre più ridotti. Si rischia che le forze armate diventino ancora più “vecchie”» spiega una fonte de il Giornale sottolineando l’altra faccia della medaglia rispetto ai tagli. Per snellire la Difesa bisogna sicuramente continuare sulla strada della chiusura degli enti inutili. Interi reparti esistono più o meno sulla carta. Dal 2008 il programma di dismissioni che dovrebbe portare alla vendita di 200 caserme, 3.000 alloggi e 1.000 installazioni va avanti a rilento. Spesso molti degli immobili sono occupati da abusivi o gravati da incredibili intoppi burocratici, anche se le norme per la dismissione si stanno sbloccando. Gli accorpamenti necessari riguarderanno la logistica, ma sacrifici, secondo il capo di stato maggiore della Difesa, Biagio Abrate, coinvolgeranno «soprattutto le strutture di comando e supporto alle categorie dirigenziali ». Anche sulla sanità militare si addensano critiche. Centinaia di posti letto e camici con le stellette dispersi in tutta Italia si occupano sempre più di certificazioni di invalidità. L’ufficiale medico può esercitare all’esterno, ma se gli chiedono di andare in prima linea in Afghanistan spesso marca visita. Un’altra realtà controversa è l’ausiliaria. Quando il militare raggiunge i limiti di età, o dopo 40 anni di contributi, può fare domanda per questo istituto, che dura 5 anni. In pratica serve a garantirgli «il 70 per cento degli incrementi di stipendio riconosciuti al pari grado in servizio». Un ufficiale in ausiliaria può venir richiamato nella provincia di residenza, ma capita per una piccola minoranza. Ai tempi della guerra fredda serviva alla mobilitazione generale in caso di conflitto, ma oggi l’ausiliaria è un po’ desueta. Dalla Difesa fanno notare che da quest’anno fino al 2014«l’istituto è di fatto sterilizzato» perché gli stipendi dei militari sono bloccati. Non durerà per sempre, si spera, ed in ogni caso l’ausiliaria pesa nell’ultimo bilancio della Difesa per 326,1 milioni di euro, con un incremento minimo dello 0,7%. Soldi che secondo alcuni, nelle Forze armate, sarebbe meglio utilizzare per stipendi più adeguati al personale in servizio e realmente operativo.

Nessuno parla dei COMMESSI PARLAMENTARI.

L’altra Casta. Reportage de “Il Giornale”. Commessi da 9mila euro I privilegi della Camera. Intorno agli onorevoli c'è la tribù degli addetti: dai tecnici agli stenografi. Tre volte più numerosi dei deputati. Alla Camera sono 1.642, quasi tre per ogni deputato. E da questo numero sono esclusi i collaboratori degli onorevoli, per i quali i parlamentari hanno un contributo a parte (fino a 3.690 euro al mese). Sono le comparse di Montecitorio, l’ingranaggio sotterraneo della Camera che non si vede, o che s’intravede in qualche seduta movimentata, quando un braccio nero arriva ad agguantare un eletto del popolo che si sta avventando su un altro eletto del popolo. Sono questi i cosiddetti commessi parlamentari, o assistenti, ma l’infinita varietà di mansioni dell’alveare Camera propone ben 19 servizi e 7 uffici della segreteria generale, con incarichi che vanno dall’operatore tecnico al segretario, appunto, che vanta uno stipendio superiore a quello del presidente della Repubblica (28.152 euro lordi mensili). La spesa complessiva di Montecitorio per stipendi e pensioni dei 1.642 nel 2010 ha superato il mezzo miliardo di euro, 508 milioni 225mila euro. Tutto ruota intorno alla Casta, ma per muovere l’onorevole tribù c’è appunto quest’altra Casta quasi tre volte più numerosa, che a ben guardare costa alle casse pubbliche non meno della dorata schiera dei politici. Il bilancio consuntivo 2010 della Camera dice che per gli stipendi del personale (ascensoristi, commessi seda-risse, stenografi, consiglieri eccetera) la spesa è stata di 256 milioni 128mila euro. Questo significa che il guadagno medio di un dipendente è di 155mila 985 euro lordi l’anno, 6mila euro al mese netti di media. Uno stenografo sfiora i 260mila euro l’anno. Per fare un paragone, le controverse indennità parlamentari si sono fermate a 94 milioni 545mila euro. Non è solo una questione di grandi numeri. Entrare alla Camera, anche nei ruoli meno prestigiosi come appunto quello di commesso con il compito di sorvegliare la seduta di assemblea, implica portare a casa uno stipendio base, alla prima assunzione, di 2.618 euro netti. Dopo 15 anni di lavoro la busta si gonfia: 5.613 euro. A fine carriera, dopo 35 anni, il supercommesso arriva a guadagnare 9mila 400 euro. La paga di circa cinque operai. E a proposito di fine carriera va segnalato che anche per i dipendenti, fino alla settimana scorsa, sono valse regole, se non favolose come quelle dei deputati, eccezionali rispetto ai comuni lavoratori italiani: gli assunti prima del 2009 potevano andare in pensione anche a 57 anni con 35 di contributi, oppure molto prima se gli anni effettivi di servizio alla Camera erano stati almeno venti. Le nuove norme stabilite dall’ufficio di presidenza lo scorso 14 dicembre 2011 impongono anche per l’altra Casta la pensione a 65 anni, con sistema contributivo. In men che non si dica però, nello stesso giorno,l’associazione dei consiglieri della Camera ha recapitato al presidente Fini e ai parlamentari una lettera, non ancora resa nota alla stampa, per rendere consapevole «l’intera rappresentanza parlamentare» che «uno slittamento dell’età di pensionamento» anche «di dieci anni» anche per «i dipendenti prossimi al pensionamento» non rispetterebbe il requisito «dell’equità». Si segnala quindi che la «burocrazia parlamentare non appare assimilabile a nessuna delle categorie di pubblico impiego». Pur consapevoli della necessità «di fare ogni sforzo per favorire il consolidamento dei conti pubblici», i consiglieri rivendicano «la dignità e la qualità professionale della burocrazia parlamentare» e il loro «ruolo centrale» nel «sistema democratico». Una qualità professionale che, comunque sia, è pagata benissimo. Un consigliere caposervizio (che gode di un’indennità di ruolo di 1.198 euro mensili) può arrivare a guidare un servizio e avere uno stipendio fino a 23.825 euro lordi al mese, praticamente superiore a quello di un parlamentare. Le pensioni dei dipendenti valgono oltre 200 milioni di euro. E a questa voce compaiono anche 110mila euro di «assegni integrativi », 145mila euro di contributi socio- sanitari ai pensionati e 390mila euro di oscure «pensioni di grazia », di cui una rapida ricerca storica consente di trovare traccia nei registri finanziari del regno di Napoli ( XVIII-XIX secolo).I contributi previdenziali a carico dell’amministrazione hanno sfiorato nel 2010 i 47 milioni di euro,di cui quasi 11 milioni versati all’Inpdap e 36 milioni di «integrazione al fondo di previdenza del personale».

 “L' Italia degli sprechi”, il terzo volume di Raffaele Costa pubblicato nel 1999 è il più recente ed ha avuto tredici edizioni. E' stato un grande successo: se ne sono vendute oltre 50.000 copie e per un anno l'On. Costa è stato il politico più gettonato nelle librerie.

L'autore nella prefazione scrive: "a quasi trent'anni dal terremoto, i Comuni della valle del Belice hanno ricevuto dalla Regione Sicilia 46 miliardi per interventi diretti ad assicurare l'agibilità dei ricoveri provvisori e la demolizione di quelli lasciati liberi. La Regione Calabria ha stanziato 500 milioni per una campagna pubblicitaria atta a sensibilizzare le persone residenti verso la politica dell'accoglienza (ovviamente di extracomunitari). Per una consulenza circa la privatizzazione della Fondazione bancaria San Paolo di Torino (soldi dei torinesi e non dell'Istituto San Paolo S.p.a.), l'avvocato incaricato ha percepito una parcella di 23 miliardi di lire. Vale a dire 60 milioni al giorno, 2,6 milioni l'ora. Sprechi sociali, sprechi antirazziali, sprechi patriottici, sprechi internazionali, e poi ambientali, stradali, militari, turistici, intercontinentali. L'elenco è talmente lungo che se ne può ricavare un'enciclopedia. E' quello che Raffaele Costa è riuscito a fare con una ricerca tutto campo nella selva di Enti che affollano il nostro Paese. A volte lo spreco riguarda la destinazione d'uso, altre la cattiva organizzazione, altre un vizio di demagogia, altre una sproporzione fra l'obbiettivo e la spesa (rapporto costi/benefici). Leggendo questo libro, il contribuente è in grado di mettere a fuoco quel vago senso di malessere che gli deriva da informazioni frammentarie, incomplete, forse anche distorte. Ogni voce di dizionario è assolutamente documentata, chiara, esplicita. E il commento dell'autore è un contrappunto rapido e divertente: "dopo un bel po' di finanziarie sarà ora di affrontare il problema degli sprechi?"

Da un’inchiesta di Repubblica la Babele di bonus, contributi, sussidi: i 101 modi per avere soldi pubblici.

Gli appassionati del tartufo, alla fine, sono rimasti scornati. A poco è servito il doppio tentativo del senatore piemontese Luca Malan di concedere sgravi fiscali: norma bocciata sia in Finanziaria sia nel decreto "milleproroghe". E' andata meglio ai produttori di prosciutto, premiati dal Parlamento con un nuovo fondo da dieci milioni di euro. E così, nella primavera di una travagliata fase economica, anche chi lavora "derrate agricole a stagionatura prolungata" si è iscritto al club del contributo pubblico.

Insieme ai proprietari di montoni riproduttori, agli organizzatori di circhi e spettacoli viaggianti e a chi coltiva il ruscus, meglio noto come pungitopo. Insieme a chi pianta un albero nel proprio giardino ma anche a chi, nel suddetto orto, si limita a sfalciare il prato. A chi impianta un vigneto ma pure a chi lo espianta.

Abbiamo fatto un viaggio fra i soci di questo circolo immaginario, trovandone 101: sono i beneficiari di altrettanti, diversi, aiuti concessi dallo Stato e dalle Regioni, spesso e volentieri con fondi dell'Unione europea. Un percorso a zig-zag nel Paese dell'assistenza e dell'incentivo facile assegnato con funzione anti-ciclica, malgrado la carenza di risorse. Ci siamo imbattuti in figure mitologiche come l'ammansitore del cavallo della Murgia e l'alpeggiatore dell'alto Lazio: entrambi meritevoli di un sussidio. Fino a riconoscere la sagoma rassicurante dell'italiano medio - di famiglia dignitosa seppur non particolarmente agiata - che sotto l'ala protettrice di un governo liberista può nascere, crescere, invecchiare a carico dell'ente pubblico. Il primo sostegno lo riceve dallo Stato, sotto forma di bonus bebè (un prestito sino a 5 mila euro), poi ha diritto a chiedere nella maggior parte delle Regioni un buono scuola che arriva sino a 1.500 euro l'anno, godere - se meritevole - di borse di studio universitarie (media 2 mila euro) e, terminata la vita lavorativa, ottenere a 65 anni una social card da 480 euro o in alcune zone d'Italia un buono socio-assistenziale da 443 euro. E gli spetta, se ha un reddito inferiore a 15 mila euro e una moglie che non lavora, la vacanza "agevolata": grazie a un buono da 785 euro da spendere in lidi o stazioni montane. Sono le regole del welfare, si dirà. Ma quale parte, dell'enorme mole di risorse previste per sussidi, aiuti, contributi non si incanala nei mille rivoli dello spreco? E, soprattutto dove sono, visti gli asfittici bilanci, i soldi necessari a concedere queste agevolazioni?

E se lo Stato non ha più soldi? Domanda legittima, questa, rileggendo la storia degli ultimi incentivi assegnati dal governo. Sconti sull'acquisto di lavastoviglie, forni elettrici, cucine, motocicli, collegamenti a Internet e motori marini fuoribordo. Poi, quando il decreto legge è stato convertito dalle Camere, ecco pure i soldi per gli acquirenti di battelli solari e per i produttori di bottoni.

Non è solo una questione meridionale. I 101 modi per chiedere i soldi all'ente pubblico costringono a spostamenti repentini da Sud a Nord, da Palermo a Udine.

In Sicilia, per dire, puoi chiedere un premio annuo (con fondi europei) se allevi un animale in via d'estinzione: un asino pantesco vale 500 euro, una capra girgentana 200. O puoi salire sulla rutilante giostra dei finanziamenti allo sport: fondi sempre più ridotti, che suscitano le lamentele del Coni, ma meccanismi di erogazione che premiano chi gioca in serie A, anche in campionati sconosciuti, o chi propaganda prodotti tipici: capita così che il ricco Palermo Calcio di Zamparini incassi un contributo non proprio irrinunciabile da 123 mila euro e che ad essere bagnati dai soldi pubblici risultino 46 club di pallatamburello, 20 di pallapugno e sette associazioni che praticano la lippa e il tiro alla fune. Evviva!!!

In Puglia si ritrova l'asino protetto, stavolta quello di Martina Franca, ma merita rispetto anche il cavallo della Murgia: le azioni per tutelare i due animali costano 205 mila euro, che se ne vanno anche per organizzare corsi di "ammaestratore" e "ammansitore". Vanno a pedali, e non a trazione animale, i risciò finanziati dall'amministrazione Vendola per accompagnare gli sposi all'altare, all'interno di uno dei 422 progetti giovanili che hanno contribuito al successo del governatore pugliese. Naturalmente, c'è già un nuovo bando. "Ritorno al futuro", sempre in Puglia, garantisce la frequenza di un master post-universitario all'estero con contributi, per singolo studente, da 25 mila euro. Qualche ente di formazione ne ha approfittato, e pur di incamerare quattrini ha organizzato in Polonia e in Spagna corsi tenuti da professori baresi in italiano. E' scattata un'inchiesta.

In Molise, la Regione sostiene generosamente il ritorno in patria degli emigrati: pagando, con contributi sino a 2000 euro a testa, il viaggio per interi nuclei familiari, ma anche il trasporto delle masserizie e il rimpatrio delle salme.

Non solo le Regioni, ma anche parchi e comunità montane sono una fonte cui attinge chi cerca aiuti finanziari. Risalendo la Penisola, il cacciatore di contributi può far tappa nel parco dei Monti simbruini, in provincia di Roma, che garantisce 500 euro l'anno ai pastori e agli allevatori che conducono il bestiame all'"alpeggio". O nella comunità montana della Valle di Scalve, nel Bergamasco, che offre - con risorse regionali e strutturali - somme a fondo perduto a chi falcia i prati e si impegna a tenerli in ordine, a chi pulisce i boschi da masse di legna o sistema le mulattiere. E a chi, ancora, ristruttura le malghe. Non è l'unico ente a concedere contributi del genere, sopra la linea gotica. Il viaggio si avvia a conclusione proprio sulle Alpi, nella Val d'Aosta che, per difendere le sue aree sciistiche, copre fino all'ottanta per cento del prezzo di acquisto di motoslitte usate. E ha l'ultima tappa in Alto Adige, dove Provincia autonoma e Comuni erogano fondi per installare segnali sui sentieri di montagna. E dove la magistratura ha aperto un'inchiesta dopo aver scoperto che tre quarti dei cartelli installati da un'associazione turistica - che ha ricevuto contributi europei - contiene indicazioni in una sola lingua: il tedesco. Una giungla di vantaggi economici, fiscali, contributivi dove si annidano paradossi e inefficienze. Quali?

L'ultima relazione del ministero dello Sviluppo economico sul sistema degli incentivi alle imprese è dell'estate del 2009: 97 pagine di un documento analitico, nel quale è scritto come sono stati spesi, nell'anno precedente, i 12 miliardi di euro concessi alle aziende dei settori più svariati. E già nelle prime valutazioni, i tecnici del ministero denunciano "l'elemento di maggiore criticità: la numerosità degli interventi": nel Paese, fra il 2003 e il 2008, sono stati censiti 1.307 interventi agevolativi diversi, 91 nazionali e 1.216 regionali. Misure figlie di un ampio ventaglio di leggi, molte delle quali oggi inattive o sterilizzate dalla mancanza di fondi: oltre a capisaldi come credito d'imposta e 488, sono elencate norme per la valorizzazione degli stilisti o per la demolizione di navi obsolete, all'interno di un ginepraio che, scrivono gli autori della relazione, evidenzia "fenomeni di sovrapposizione e duplicazione degli strumenti di agevolazione, una polverizzazione di interventi che si traduce in diseconomie nell'utilizzo delle risorse finanziarie".

Anche il settore della solidarietà non fa eccezione: se è vero che a Palermo, negli uffici della Regione, da anni è in corso uno strisciante tira e molla con lo Stato per la gestione (e l'onere finanziario) di borse di studio, assegni scolastici, contributi a chi ha subito estorsioni e richieste usuraie, speciali elargizioni ai parenti delle vittime della mafia: misure presenti sia nella legge regionale che in quella nazionale.

E non mancano le contraddizioni: come i buoni scuola teoricamente riservati ai meno abbienti che in Lombardia finiscono nelle tasche di 4 mila famiglie con reddito fra i 100 e i 200 mila euro annui, alcune delle quali residenti nelle zone più ricche di Milano, da piazza San Babila alla Galleria Vittorio Emanuele. O come, in agricoltura, i contributi per l'impianto, ma anche per l'espianto dei vigneti: questi ultimi concessi da diverse regioni dopo che l'Unione Europea - visto il calo nei consumi del vino - ha stabilito che bisogna ridurre la superficie coltivata a vite: e per questo scopo ha messo a disposizione oltre un miliardo di euro in tre anni, fino al 2011. Con finanziamenti che vanno dai 1.740 ai 14.760 euro ad ettaro. I rubinetti della spesa, insomma, non si chiudono. Anche se le politiche di sostegno cambiano con l'evolversi della società. Come?

Un paese multietnico e in viaggio verso il federalismo favorisce l'integrazione con gli immigrati islamici ma, insieme, la difesa delle tradizioni locali. Con nuove agevolazioni pubbliche. Una di queste è l'inserimento fra le prestazioni del servizio sanitario nazionale della pratica della circoncisione, misura attuata in forma sperimentale - fra le proteste della Lega e l'obiezione di coscienza di diversi medici - negli ospedali di tre regioni del Nord: Liguria, Piemonte e Friuli.

Intanto, in attesa dei decreti attuativi sul federalismo fiscale le regioni "autonome" raddoppiano gli sforzi per tutelare la propria specificità. Il Friuli Venezia Giulia del tenace sogno bilingue ha anticipato i tempi: e già nel 2000 stanziò quattro miliardi, poi diventati cinque milioni di euro, per chi volesse studiare i celti o si ispirasse a loro per progetti culturali. Nella regione del Nord-est, in virtù di leggi nazionali e regionali, è possibile a tutt'oggi usufruire di finanziamenti per la diffusione del marilenghe, la lingua locale, che pesano sul bilancio per quattro milioni di euro l'anno. C'è chi ha ottenuto una fetta di questi finanziamenti per tradurre Brecht o per realizzare il T9 per cellulari in friulano. Anche la Sardegna difende a suon di quattrini la propria lingua. E ogni anno elargisce contributi per la produzione di notiziari radio e di programmi televisivi in sardo. L'ultimo bando della Regione porterà sugli schermi i format "Die pro die" e "Mannigos de attualidade". E nelle casse delle due emittenti vincitrici 75 mila euro.

PARLIAMO DELLE SOCIETA’ CONTROLLATE O PARTECIPATE DAGLI ENTI LOCALI: L'armata del gettone.

La carica delle 7mila società pubbliche. Un affare per 80mila amministratori.

·            7 mila Le società controllate o partecipate dagli enti locali (Comuni, Province, Regioni)

·            24.310 I componenti dei cda e degli organi direttivi delle società partecipate

·            80 mila Membri dei consigli di amministrazioni, componenti dei collegi sindacali e consulenti delle società partecipate

·            2 mld 471mln Costo del funzionamento dei cda di enti e società

·            63 euro Il costo annuo, per ogni contribuente italiano, di gettoni e indennità

·            7 mld 131 mln La spesa complessiva, comprensiva del personale, delle società controllate dagli enti locali

·            5 mld 311 mln La spesa sostenuta dalle Regioni per mantenere in vita enti, consorzi e agenzie, comprensiva del personale

·            1 mld 124 mln La spesa sostenuta dai Comuni per il funzionamento di enti e società controllate, comprensiva del personale

·            214 mln 972 mila euro La spesa sostenuta dalle Province per le proprie "collegate"

Inchiesta de “La Repubblica”. Viaggio nel pianeta delle società controllate o partecipate dagli enti locali italiani. Sono settemila, secondo una ricerca Uil, e alimentano una casta minore ma assai costosa: ottantamila persone che percepiscono indennità per sedere nei CDA e nei collegi sindacali o per fornire consulenze o lavoro spesso inutili. Il tutto costa allo Stato almeno 2,5 miliardi di euro l'anno.

Ottantamila a libro paga, ecco l'armata del gettone.

Molti spettri si aggirano nel mondo delle società per azioni controllate o partecipate da Comuni, Province e Regioni. Secondo una ricerca sui costi della politica condotta dalla Uil, circa cinquecento su un totale di settemila non svolgono alcuna attività: si limitano a garantire gettoni di presenza, assunzioni inutili e stipendi a una "casta" minore ma molto affamata.

La sede è al quarto piano di un bel palazzo che si affaccia su via Etnea, la strada principale di Catania. C'è un corridoio lungo il quale si aprono una, due, tre, quattro, cinque porte che nascondono uffici vuoti, scaffali privi di carte. Dentro una delle stanze ronza un ventilatore preso in prestito. Eccola qui la tolda di comando dell'Arsea, l'agenzia regionale creata nel 2006 con un finanziamento di 35 milioni per agevolare l'erogazione di contributi agli agricoltori, ma che non ha mai esaminato una pratica. Eppure, fino a qualche giorno fa a sovrintendere a quelle scrivanie senza computer e a coordinare i tre impiegati a foglio paga c'era un direttore generale con uno stipendio di 170mila euro l'anno. Ugo Maltese, così si chiama il manager, vista "l'impossibilità di operare" si è dimesso. Ma gli arretrati, che non ha mai percepito, li vuole lo stesso.

Un caso isolato? Non proprio. L'Agenzia che non esiste è solo uno degli spettri che si aggirano nel vasto mondo delle società controllate o partecipate dagli enti locali italiani. Sono spa, società a responsabilità limitata, consorzi e, secondo una ricerca sui costi della politica condotta dalla Uil, circa 500 non svolgono alcuna attività. Stanno in piedi solo per garantire gettoni ai consiglieri di amministrazione, stipendi e possibilità di assunzioni in vista delle scadenze elettorali. Sono, appunto, scatole vuote. Fantasmi che danno un tocco di brivido alla lunga teoria di enti le cui azioni sono in mano a Regioni, Province, Comuni. I numeri sono da sopravvissuti del socialismo reale. I ricercatori della Uil e dell'Unione province che si sono messi a contarle hanno scoperto che le società controllate o partecipate dagli enti locali sono settemila. E garantiscono la sopravvivenza di una casta meno appariscente, ma perfino più costosa di quella dei politici di prima fila.

Ottantamila persone, in tutta Italia, prendono un gettone o un'indennità per sedere nei CDA, nei collegi sindacali, o per svolgere una consulenza a favore di questa miriade di aziende pubbliche che consentono a sindaci e governatori di fare gli imprenditori, i finanzieri, i gestori di scali aeroportuali o di stazioni termali. Di assicurare servizi non proprio essenziali.

E per finanziare questa casta minore che sopravvive al taglio dei privilegi se ne va un fiume di denaro: 2,5 miliardi l'anno è il costo di compensi e benefit che spettano agli amministratori delle spa pubbliche nominati dalla politica e spesso provenienti dalla stessa. Ma cosa è successo in questi anni nei Comuni e negli altri enti italiani pur falcidiati dai tagli ai trasferimenti? Come è montata l'ansia degli amministratori di trasformarsi in spregiudicati businessmen che investono nei settori più disparati? E quanto finisce nelle tasche dei "fedelissimi" chiamati a gestire queste imprese fondate coi soldi dei contribuenti?

Gli anni del boom sono quelli che vanno dal 2006 al 2008. In quel periodo, stima la Corte dei conti, le società controllate o partecipate dagli enti locali sono cresciute dell'11 per cento. La tendenza non è cambiata da allora. L'ultimo conteggio si è fermato a quota settemila. Le poltrone, invece, sono molte di più. A conti fatti i componenti dei consigli d'amministrazione sono 24.310. E pesano su ciascun contribuente italiano 63 euro all'anno. La tassa, in realtà, è molto più pesante: perché alla pletora di membri dei CDA vanno aggiunti i componenti dei collegi sindacali o dei comitati di sorveglianza (tre o cinque) e coloro che hanno consulenze o svolgono incarichi professionali per conto di queste spa in mano pubblica. Quella cifra iniziale, insomma, secondo le stime più prudenti, va almeno triplicata. Così, alla fine, l'armata del gettone finisce per mettere insieme 80mila soldati.

"Non a caso, secondo noi, il costo di due miliardi e mezzo l'anno è una valutazione per difetto", dice Luigi Veltro, uno dei curatori della ricerca sui costi della politica fatta dalla Uil. "Il dato sorprendente - prosegue Veltro - è che per quanto riguarda il numero di poltrone gli enti locali del Sud sono più virtuosi di quelli del resto d'Italia. Il rapporto si inverte, però, quando si parla dei costi di gestione delle società. In questo caso le controllate da enti locali del Meridione determinano una spesa di tre o quattro volte superiore alle altre". Il motivo è presto detto: sui bilanci delle spa pubbliche da Roma in giù pesano soprattutto le assunzioni di personale, quasi sempre senza concorso e molto spesso riservate a portatori di voti e parenti eccellenti.

Parentopoli spa

Da quando la legge ha trasformato le municipalizzate in società per azioni, è caduto l'ultimo baluardo: il pubblico concorso. Adesso si assume per chiamata diretta e gli organici sono zeppi di parenti eccellenti e di "portatori di voti". Una situazione che porta ad appesantire i bilanci e a creare deficit che lo Stato è chiamato a ripianare. L'ultimo scandalo, all'ombra del Vesuvio, è esploso con il ritrovamento di un "pizzino" nell'ambito dell'inchiesta sugli appalti per la raccolta di rifiuti. In un foglio finito sotto la lente della Procura nomi di gente da assumere all'Asìa, la municipalizzata napoletana che si occupa dell'igiene ambientale, oppure nelle ditte subappaltatrici. Accanto a ogni nome la potenziale "dote" di consensi elettorali che ciascuna persona segnalata sarebbe stata in grado di portare. "Voti contro assunzioni", così è stata ribattezzata l'indagine dei magistrati partenopei. Il simbolo dell'inchiesta è diventata la "teste" Kaori, assunta per 1.300 euro al mese in una delle società che riceveva le commesse da Asìa. La donna ha raccontato di aver preso la stipendio senza dover nemmeno andare in ufficio. Al di là dei risvolti giudiziari, è l'ennesimo coperchio sollevato sul pentolone nel quale, in tutto il Paese, bolle e prolifica la clientela basata sullo scambio fra appoggio elettorale e posto di lavoro. Con tutto quello che ne consegue. L'Asìa di Napoli, ad esempio, ha in organico ben 2.440 dipendenti. E tra questi, secondo recenti rilevazioni della stessa azienda, oltre 400 sono inadatti a svolgere il lavoro di raccolta per anzianità o per inabilità fisica. A Palermo i numeri sono ancora più impressionanti: l'Amia, la locale azienda per la raccolta dei rifiuti, e le sue controllate pagano uno stipendio a 2.810 dipendenti. In pratica, nel capoluogo siciliano c'è un addetto alla pulizia ogni 259 abitanti, contro la media di uno ogni 577 di Torino e uno ogni 366 di Genova. Se ai numeri corrispondesse l'efficienza del servizio, la città dovrebbe essere uno specchio. E invece a Palermo (come a Napoli) l'emergenza immondizia è sempre in cima all'agenda degli amministratori. Ma non basta: Palermo, con le sue società partecipate dal Comune, è il paradigma di un sistema. Da quando la legge ha trasformato le municipalizzate in società per azioni è caduto pure l'ultimo baluardo: il pubblico concorso. Adesso all'Amia e nelle aziende "sorelle" si assume per chiamata diretta. E gli effetti si vedono. Gli organici sono pieni di parenti eccellenti: negli ultimi anni sono stati assunti la moglie di un ex assessore al Personale, il genero dell'ex coordinatore regionale di An, la cognata di un ex vicesindaco, figli di consiglieri comunali e di sindacalisti. Anche le parentopoli hanno contribuito a creare il deficit che ha costretto i vertici dell'Amia a portare i libri in tribunale. E il governo a staccare un assegno di 80 milioni di euro per salvare poltrona e faccia del sindaco di Palermo, Diego Cammarata. Asìa e Amia: aziende con numeri da record. Ma da primato sono anche i casi delle spa che nascono e si alimentano con soldi pubblici pur rimanendo, per dolo o incapacità, inattive. Senza mancare, ovviamente, di distribuire poltrone e strapuntini.

Questi fantasmi

Solo il 34 per cento delle società in mano agli enti locali operano nei settori tradizionali: ambiente, acqua, energia, trasporti... Le altre si occupano di un po' di tutto: gestiscono teatri, cineteche, perfino campeggi. E c'è chi può diventare un punto di riferimento internazionale sui materiali ecologici da usare in edilizia ma intanto è inerte da sei anni. L'Arsea di Catania è solo la capofila. A Catanzaro, per esempio, si parla da anni di un altro fantasma. E se ne parla come di una scheggia di futuro sul fondo dello Stivale. Un ente che avrebbe dovuto far diventare la Calabria "baricentro nazionale dello sviluppo dei processi e dei prodotti delle costruzioni". Questo l'obiettivo posto nell'accordo di programma che nel 2005 trasferì da Bologna alla città jonica il "centro tipologico nazionale", struttura a metà fra la ricerca e l'assistenza tecnica nel settore dell'edilizia pubblica e residenziale. Peccato però che, a sei anni dalla costituzione della società della quale fanno parte il ministero delle Infrastrutture, la Regione Calabria, il Comune e la Provincia di Catanzaro, l'attività del centro non sia ancora iniziata. Eppure, c'è una sede e c'è un consiglio di amministrazione con cinque componenti che si riuniscono a vuoto da ben sei anni. "Ma non abbiamo mai percepito indennità - si affretta a spiegare Giovanni Carpanzano, uno dei consiglieri di amministrazione - e mi creda entro fine settembre finalmente cominceremo la nostra attività. Possiamo diventare un punto di riferimento per l'intero bacino del Mediterraneo in tema di ricerca e consulenza sui materiali ecologici da usare in edilizia". In attesa che la società fantasma esca dalle tenebre della sua mission aziendale, però, le spese corrono. È vero che i gettoni ai consiglieri di amministrazione non sono stati versati, ma fino a qualche settimana fa per gli uffici della spa che non c'è veniva pagato un regolare affitto (adesso la sede è ospitata in locali concessi in comodato dalla Provincia di Catanzaro). Per il centro tipologico che non c'è finora sono stati spesi 200mila euro. A Latina, invece, hanno inseguito il miraggio di una stazione termale per anni. Il Comune ha perfino costituito una società, la Terme di Fogliano, di cui detiene l'85 per cento del pacchetto azionario. L'acqua l'hanno dovuta cercare, trivellando il suolo. Ma invano. La ditta che ha eseguito i lavori adesso chiede un corrispettivo di 6 milioni 181mila euro. Il buco vero, a Latina, l'hanno scavato nei bilanci: la Terme di Fogliano è costata sinora sette milioni 356mila euro. E' in liquidazione da sette anni: il commissario ha una parcella da 27.845 euro, il Comune ne versa 500mila l'anno per sostenere le spese di funzionamento. Oltre a una quota fissa di 532mila euro per gli accantonamenti necessari a far fronte agli "interessi moratori". E, nonostante tutto, il 5 luglio scorso sul sito del Comune è comparso un bando per la selezione del direttore minerario della società. Il compenso? Undicimila euro per sei mesi. Sul palco delle spa di periferia vanno in scena creature di cartapesta, ed è una rappresentazione senza fine. Ce ne sono altre, dal volto e dall'attività ben definiti, che tuttavia poco hanno a che fare con servizi pubblici essenziali. D'altronde, solo il 34 per cento delle società in mano agli enti locali - è una rilevazione della Corte dei conti - operano in settori tradizionali: igiene ambientale, idrico, trasporti, energia, gas. Cosa c'è nel restante 66 per cento? Un po' di tutto. Enti che gestiscono teatri, cineteche, persino campeggi: il Comune di Jesolo, per dire, ha una quota nella proprietà del "Camping international". E ancora: una ragnatela di aziende pubbliche che resistono, soprattutto al Sud, al definanziamento dei patti territoriali. O rimangono in vita per 60 anni per sovrintendere a una zona franca mai istituita: è il caso dell'ente porto di Messina.

La voglia matta di volare

Sono una quindicina in tutta Italia le società che gestiscono aeroporti, spesso destinati soltanto a ospitare arrivi e partenze di vip e amatori. Il caso, passato alle cronache, di quello di Albenga, e i due milioni e mezzo di euro andati in fumo nell'inutile tentativo di realizzare l'"Aeroporto della Valle dei Templi". Una passione degli amministratori locali sembra essere quella del volo. I ricercatori della Uil hanno conteggiato circa quindici società, sparse lungo l'intera penisola, che gestiscono aeroporti di rilevanza non esattamente strategica, e che molto spesso finiscono per ospitare arrivi e partenze di vip e amatori. A Pavullo nel Frignano, Comune di 17mila abitanti in provincia di Modena, la fregola della partecipazione azionaria ha indotto i governanti a costituire ben 12 società: in pratica una ogni 1.416 abitanti. Tra queste spicca la "Aeroporto di Pavullo srl", che accoglie una scuola per piloti di aliante. Il presidente della società non prende gettoni ma la gestione dell'aeroclub comunale pesa per 78.245 euro sul bilancio del piccolo municipio e dunque sulle tasche dei contribuenti, amanti del volo e non. In Liguria spicca il piccolo aeroporto di Luni, a due passi da Sarzana: anche questo è una pista che ospita prevalentemente voli privati ma nel quale la Provincia di La Spezia ha una partecipazione attraverso una delle sue controllate. Niente a che vedere con l'importanza dell'aeroporto di Albenga, che all'ex ministro Scajola tornava utile per le sue trasferte romane. La Provincia di Savona ne controlla il 39,95 per cento. La società ha sette dipendenti, un cda di cinque persone (fra cui il vicesindaco di Imperia Rodolfo Leone, fedelissimo di Scajola) e nel bilancio del 2010 ha fatto segnare una perdita di 378mila euro, nonostante una ricapitalizzazione di 600mila euro nell'agosto 2010. Perché questa è anche la storia di potenti che usano le spa come giocattoli: in Sicilia l'ex governatore Totò Cuffaro teneva tanto all'aeroporto nella sua Agrigento. Il brand era anche suggestivo: "Aeroporto della Valle dei Templi", si sarebbe dovuto chiamare. Per realizzare lo scalo Comune e Provincia costituirono nel '95 una società tenuta in piedi per tredici anni: il mesto bilancio, alla fine, è stato di 2,5 milioni di euro andati in fumo per gettoni ai consiglieri di amministrazione, incarichi e progetti puntualmente bocciati dall'Enac. "Poco utile uno scalo in quella zona, soprattutto alla luce di un traffico passeggeri che sarebbe modesto", scrissero più volte i tecnici. Ma nessuno, fra chi aveva fiutato il business, tenne mai conto di quei rilievi. In Sicilia, del resto, non c'è grande Comune o Provincia che non abbia tentato di costruirsi il suo aeroporto: ci hanno provato a Messina, a Gela, nella piana di Catania dove era arrivata persino una delegazione di cinesi. Ci sono riusciti a Comiso, dove lo scalo costato 36 milioni di euro è pronto dal 2007 - fu inaugurato da D'Alema - ma non è operativo per una querelle sul pagamento dei controllori di volo che vede contrapposti il ministero e la società di gestione nella quale figurano gli enti territoriali.

Carrozzoni duri a morire

Le storie parallele dell'Eipli - Ente per l'irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania e Campania - e della Fiera del Mediterraneo. Il primo giunto al trentunesimo commissariamento consecutivo, la seconda affondata sotto un macigno di debiti da 18 milioni di euro. Se non è un record, poco ci manca: trentunesimo commissariamento consecutivo. Così prosegue l'agonia dell'ultimo carrozzone meridionale. Eipli, è il nome. Acronimo che sta per Ente per l'irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania e Campania. Un residuato post-bellico, una struttura nata nel 1947 che a più riprese il governo ha annunciato - e messo per iscritto - di voler smantellare. L'ennesima proroga al liquidatore scade a fine anno. Peccato che nel frattempo sia nata un'altra società, che dovrebbe svolgere le stesse funzioni: è di proprietà della Regione Basilicata, ma anche la Puglia, nel gennaio scorso, ha deciso di entrare nel capitale azionario. Il problema è che nessuno si vuole accollare il maxi-debito contratto in quasi 65 anni di attività dell'Eipli: 250 milioni relativi soprattutto a spese per il personale ed esposizioni nei confronti degli acquedotti. Più 6 milioni e mezzo di contenzioso legale. Nel clima di incertezza, l'assessore regionale pugliese Fabiano Amati taglia corto: "Non spetta certo a noi turare la falla". E così la società "gemella", la Acqua spa, rimane in perenne attesa del trasferimento delle funzioni. Esiste, ma è priva della principale mission che, sulla carta, le è stata attribuita. E rimangono in attesa anche gli organi direttivi regolarmente in carica, fra cui il presidente Antonio Triani, un ex esponente dell'Udeur vicino a Clemente Mastella, che percepisce uno stipendio di 5.300 euro lordi mensili (malgrado una recente decurtazione del 10 per cento). La vicenda dell'Eipli è quella di uno dei non pochi pachidermi che schiacciano i bilanci degli enti locali e che nessuno riesce ad abbattere. Enti decotti, aziende che non svolgono più attività, ruderi istituzionali che lasciano sul terreno disoccupati regolarmente retribuiti. E la trama di questo film, che comincia a Catania, ci riporta infine in Sicilia. In altre stanze vuote. A Palermo fa tristezza aggirarsi per gli uffici spogli di quella che fu la Fiera del Mediterraneo, inaugurata negli anni Sessanta dal capo dello Stato Giovanni Gronchi e oggi priva persino dei soldi per organizzare una sfilata di abiti da sposa. La Fiera, fra le più rinomate dell'area mediterranea, è affondata sotto un macigno di debiti (18 milioni) mentre la Corte dei conti rimproverava agli amministratori spese quasi esilaranti come quelle per l'autoblù "con televisore e telefono al bracciolo", e per i soggiorni "senza ragioni istituzionali" all'Hilton di Washington, al Plaza di New York, al Metropol di Mosca. I 35 dipendenti dell'ente partecipato dalla Regione Siciliana, oggi, si commuovono davanti alle telecamere pensando ai tempi che furono. Costretti, loro malgrado, a ricevere uno stipendio ogni mese per non svolgere alcuna mansione.

L'autostrada fantasma che (non) funziona da quattro anni

La storia di un consiglio che dovrebbe realizzare una tratto stradale tra l'A14 e l'A1. È composto da quattro membri, che (assieme a tre revisori dei conti) percepisce da anni un regolare stipendio. In Molise c'è un consiglio di amministrazione che lavora per un'autostrada che non c'è, che non esiste. E che forse non si realizzerà mai. Un consiglio, composto da quattro membri, che (assieme a tre revisori dei conti) percepisce da anni un regolare stipendio. Già, perché la società pubblica in questione è stata istituita quattro anni fa, nel 2008, e i soci sono l'Anas e la Regione Molise. Nemmeno il progetto c'era fino a pochi mesi fa: il pezzo di carta su cui è stata progettata l'arteria che dovrebbe collegare l'autostrada A14 con l'A1, è stato approvato solo a febbraio di quest'anno. E da appena tre settimane il Governo Berlusconi - che dieci anni fa annunciò l'opera pubblica - ha sbloccato i fondi solo per i primi ottanta chilometri, che costeranno 550 milioni di euro. Mentre per il secondo lotto dei lavori non c'è alcuna certezza. Di certo per ora ci sono solo gli stipendi: 100 mila euro l'anno in tutto. Al presidente Vincenzo Di Grezia (anche dirigente regionale) e all'amministratore delegato Alfredo Bajo, spettano annualmente - secondo le cifre diffuse dall'Anas - 20 mila euro ciascuno. Quindicimila euro invece per i consiglieri. A questi vanno aggiunti anche i compensi del collegio sindacale. Mentre non si conoscono i dati sui costi di gestione degli uffici (personale e locali amministrativi). "Sarebbe opportuno capire che lavoro in concreto abbiano svolto i componenti del Consiglio di amministrazione a fronte degli stipendi percepiti" attacca Massimo Romano, consigliere regionale d'opposizione. "La Regione, azionista, non ha mai informato il consiglio regionale sulle attività svolte. Al punto che per conoscere l'entità dei compensi sono stato costretto a rivolgermi all'Anas...".

PARLIAMO DELLA TRUFFA DEL DOPPIO, TRIPLO E QUADRUPLO STIPENDIO

L’inchiesta di Milena Gabanelli e Bernardo Iovene di “Report” Rai su “Il Corriere della Sera”.

Quei super dirigenti statali pagati con un doppio stipendio.

Lo scandalo dei «fuori ruolo». Solo i magistrati sono trecento.

Il governatore Formigoni dice che i cittadini chiedono un segnale: vendere le Poste, la Rai, il patrimonio immobiliare. L'esperienza ha purtroppo insegnato che finora vendere significa svendere, o meglio, profitti privati e perdite pubbliche. Il ministro è sempre lo stesso, quello della cartolarizzazione più grande del mondo, ovvero la vendita degli immobili degli enti previdenziali, attraverso società di diritto lussemburghese, Scip 1, 2 e 3. Un fallimento pagato da noi e che qualcuno ha definito «romanzo criminale». Forse il cittadino avrebbe maggiore fiducia se a vendere fosse una nuova generazione politica. Certo è che il primo segnale che il cittadino, quello che deve continuare a tirarsi il collo, oggi chiede, è di farla finita almeno con privilegi che gridano vendetta e che si continua ad escludere dalla cura dimagrante.

Era l'inizio di dicembre 2010, era appena stata varata una manovra di correzione dei conti pubblici con i soliti tagli lineari, quando invitammo, senza essere degnati di cortese risposta, la presidenza del Consiglio e il ministro Tremonti a provvedere all'eliminazione di una norma che non ci risulta applicata in nessun altro paese civile: l'incasso di uno stipendio per un mestiere che non fai ( www.report.rai.it ). Quando un dipendente pubblico viene chiamato a svolgere un incarico presso un ministero, una commissione parlamentare, un'authority o un organismo internazionale, va in «fuori ruolo». Trattandosi di incarico temporaneo, conserva ovviamente il posto, l'anomalia è che conserva anche lo stipendio, a cui si aggiunge l'indennità per il nuovo incarico. In sostanza due stipendi per un periodo di tempo spesso illimitato. Nel 1994 il Csm lanciava l'allarme, segnalando «il numero crescente dei magistrati collocati fuori ruolo, la durata inaccettabile di alcune situazioni, alcune superano il ventennio, quando non il trentennio... la reiterazione degli incarichi... con la creazione di vere e proprie carriere parallele».

Domanda: è ammissibile che un soggetto che non lavora per un'amministrazione, ma lavora per un'altra, venga pagato anche dall'amministrazione per la quale non lavora? Sono bravi dirigenti dello Stato, sicuramente i migliori, visto che sono sempre gli stessi a passare cronicamente da un fuori ruolo ad un altro, lasciando sguarnito il posto d'origine perché non possono essere sostituiti, e i loro colleghi che restano in servizio si devono far carico anche del loro lavoro. E poi c'è il danno, il magistrato fuori ruolo percepisce anche l'indennità di malattia, mentre quelli in servizio la perdono. Per arrivare alla beffa, e cioè possono essere promossi, ovvero avanzare di carriera mentre sono fuori ruolo. Ad esempio Antonio Catricalà è fuori ruolo dal Consiglio di Stato da sempre, è stato capo gabinetto di vari ministri di schieramenti opposti, poi all'Agcom, fino al 2005 segretario della presidenza del Consiglio con Berlusconi, quindi nominato presidente dell'Antitrust. Non ricopre la carica in Consiglio di Stato, ma ciononostante nel 2006 da consigliere diventa presidente di sezione, e senza ricoprire quel ruolo incassa uno stipendio di 9.000 euro netti al mese che si aggiungono ai 528.492,67 annui dell'Antitrust.

A fare carriera senza ricoprire la carica è anche Salvatore Sechi, distaccato alla presidenza del Consiglio con un'indennità di 232.413,18, e Franco Frattini, nominato presidente di sezione del Consiglio di Stato il 7 ottobre del 2009 mentre è ministro della Repubblica (che però risulta in aspettativa per mandato parlamentare). Consigliere di Stato è anche Donato Marra: percepisce 189.926,38, più un'indennità di funzione di 352.513,23 perché è alla presidenza della Repubblica. Il dottor Paolo Maria Napolitano oltre allo stipendio di consigliere di Stato in fuori ruolo, prende 440.410,49 come giudice della Corte costituzionale. Anche Lamberto Cardia, magistrato della Corte dei conti fuori ruolo, è stato 13 anni alla Consob, ma il 16 ottobre del 2002 è stato nominato presidente di sezione, «durante il periodo in cui è stato collocato fuori ruolo», specifica l'ufficio stampa della Corte dei conti, «ha percepito il trattamento economico di magistrato, avendo l'emolumento di 430.000 euro corrisposto dalla Consob, natura di indennità».

Tra Consiglio di Stato, Tar, Corte dei conti, Avvocatura dello Stato e magistratura ordinaria, sono fuori ruolo circa 300 magistrati che mantengono il loro trattamento economico percependo un'indennità di funzione che a volte supera lo stipendio. Il commissario dell'Agcom Nicola D'Angelo ha sentito la necessità di rinunciare all'assegno e mettersi in aspettativa. Dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni riceve un'indennità di 440.410,49 annui, dall'agosto del 2010, dopo la manovra che tagliava gli insegnanti di sostegno nelle scuole per i disabili e gli stipendi dei dirigenti pubblici del 10%, ha rinunciato ai 7.000 euro al mese che prendeva da consigliere del Tar fuori ruolo. Una scelta personale, visto che non ci ha pensato Tremonti. D'Angelo dice di essere l'unico a porsi un problema etico, in effetti gli altri, ad esempio Alessandro Botto, consigliere di Stato fuori ruolo e componente dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, con doppio stipendio, ha dichiarato di non sapere che si potesse rinunciare al doppio assegno. La giustificazione è che lo stipendio da magistrato serve ad integrare quello per la carica da dirigente perché non abbastanza remunerata.

È proprio vero che all'ingordigia non c'è fine: il presidente della Consob spagnola prende 162.000 euro l'anno, quello delle telecomunicazioni 146.000, non un euro in più, e nessun magistrato prestato ad altre funzioni mantiene il posto e tantomeno lo stipendio. Le nostre associazioni dei magistrati hanno chiesto più volte di limitare l'uso dei magistrati fuori ruolo ai casi strettamente necessari, perché si può creare una pericolosa commistione tra ordine giudiziario e potere politico, oltre a quello di sottrarre centinaia di magistrati al lavoro di giudici per svolgere il quale sono stati selezionati e vengono pagati. Ma sicuramente alla politica che sceglie, dai capi gabinetto ai membri delle Authority, fa sempre comodo «valorizzare» i magistrati, sia penali che amministrativi, perché in atti dove si deve forzare un po' la mano, possono dare utili consigli. Allora, visto che in questi giorni ai cittadini verranno imposte lacrime e sangue, cominciamo ad eliminare elargizioni e benefici il cui accumulo rende impossibile perfino la quantificazione. Non sono questi i numeri che porteranno al pareggio di bilancio, ma certamente hanno contribuito a far sballare i conti e alla formazione di una cultura arraffona e irresponsabile. Una classe politica che non sa essere «giusta» incattivisce i suoi cittadini, e alla fine verrà condannata dalla storia.

Quei Parlamentari pagati con un doppio o triplo o quadruplo stipendio. Uno Scandalo da un’inchiesta de “L’Unità”.

Dal dopoguerra al 2002 il doppio incarico ad un parlamentare non era mai stato concesso. O sindaco, presidente di Provincia, assessore, consigliere o onorevole. Delle due l’una. Funzionava così fino a quando non arrivò Diego Cammarata e tutto cambiò. Parlamentare, di Forza Italia, venne eletto sindaco di Palermo: doveva scegliere, optare. Niente da fare, voleva tutte e due le poltrone, quella di sindaco e quella di parlamentare. Il caso arrivò alla Giunta delle elezioni che, dopo aver studiato le norme giunse ad una conclusione. La legge vieta al sindaco di candidarsi come parlamentare ma non il contrario. Fu così che Cammarata diventò un onorevole sindaco e inaugurò la stagione dei doppio- poltronisti. E da allora ogni proposta di legge che mira a scardinare questa consolidata prassi si arena, sparisce nei cassetti delle Commissioni.

A distanza di anni dalla vicenda Cammarata, Luciano Dussin, leghista, deputato della Repubblica e sindaco di Castelfranco Veneto, 33mila 700 abitanti, oggi si (ri)trova di fronte al dilemma proprio per colpa della manovra del ministro Giulio Tremonti. «Se il governo non salta prima - ragiona - dovremo scegliere in occasione delle politiche 2013. Per questo il decreto è una stupidata: oggi uno dei due incarichi lo facciamo gratis. Se dovessi scegliere domani? Beh, oggi è più pesante fare il sindaco». Ovvio, sceglierebbe di fare il parlamentare. E chissà che peso ha nella valutazione che prima o poi dovrà fare l’indennità che garantisce la carica di parlamentare (5.486 euro netti al mese più rimborsi vari che li fanno lievitare fino 14mila)). Dussin sta incollato sul suo scranno in Parlamento esattamente come Raffaele Stancanelli, Pdl, sindaco di Catania (oltre 300mila abitanti), o come il senatore Antonio Azzollino, presidente della Commissione Bilancio (quella dove è in esame la manovra) e primo cittadino di Molfetta, quasi 60mila abitanti. Adriano Paroli, deputato Pdl, guida Brescia città di oltre 187mila abitanti: è convinto, ha spiegato, che stando in parlamento potrà fare anche il bene della sua città. Può capitare di dover presentare un emendamento ad hoc in una Finanziaria e come dire, meglio esserci che dover chiedere a qualcun altro. Cosa c’è di strano? Assolutamente niente per il presidente della provincia di Salerno, Edmondo Cirielli (deputato Pdl), o della provincia di Foggia, Antonio Pepe, o Luigi Cesaro (Pdl) alla Provincia di Napoli, Maria Teresa Armosino (Pdl) a capo di quella di Asti, Cosimo Sibilia, provincia di Avellino, Domenico Zinzi, provincia di Caserta. Anche Bruno Tabacci, Udc, resta alla Camera malgrado sia assessore al comune di Milano.

Stanno in parlamento e in Provincia, in parlamento e in Comune e vai a capire come fanno a ricoprire contemporaneamente entrambi i ruoli. A luglio si contavano 121 - tra Camera e Senato - onorevoli con doppio incarico istituzionale: assessori sindaci, vicesindaci, consiglieri comunali. Sono ben trentadue i comuni (16 della Lega) che hanno un sindaco con uno scranno a Roma, (il comune di Arconate, 6mila abitanti, può vantare addirittura un sottosegretario alle Infrastrutture, Mario Mantovani, come primo cittadino).

In pole position c’è il Pdl, che conta 47 doppiopoltronisti, seguito dalla Lega con 42; il Pd con 13; il Terzo Polo con 9 (tra cui Francesco Rutelli, consigliere comunale a Roma e parlamentare) e ultima in classifica l’Idv con 3. Un posto da onorevole e uno da amministratore locale, una bella concentrazione di potere tra le mani, con buona pace dei rischi di conflitto di interessi e del tasso di efficientismo. Non mancano segnali contrari, ovvio. Piero Fassino, diventato sindaco di Torino si è dimesso. Idem Franco Ceccuzzi, oggi alla guida di Siena, che il 7 giugno, quando lasciò l’incarico di deputato Pd postò sulla sua pagina facebook: «Sono orgoglioso di essere un’eccezione alla regola dell’ubiquità istituzionale».

Eppure la «ratio» alla base delle norme sulle incompatibilità è chiara: garantire il massimo dell’impegno per l’incarico istituzionale che si sceglie ed evitare conflitti d’interesse. L’articolo 62 del decreto legislativo 267 del 2000 prevede infatti l’ automatica decadenza dalla carica di Presidente della Provincia, o di sindaco (di una città sopra i 20mila abitanti) nel caso della candidatura a deputato o senatore. La legge 60 del 1953 agli articoli 1 e 2 prevede il divieto di doppio incarico per i parlamentari stabilendo che non si può stare in Parlamento e avere cariche in enti pubblici e privati (con nomina o designazione del governo e della Pubblica amministrazione); in associazioni o enti che gestiscono servizi per la pubblica amministrazione o per conto dello Stato. Quello che la legge non vieta, ma che nella prima Repubblica era sconsigliato dal buon senso, è la possibilità per un parlamentare di candidarsi a sindaco, presidente di Provincia e così via. Basterebbe chiarire con una norma ad hoc che anche in questo caso scatta l’incompatibilità. Basterebbe cioè fare una legge, il problema è che il legislatore in questo caso dovrebbe legiferare per disciplinare se stesso.

«Ci troviamo di fronte ad una insensibilità diffusa - commenta il democratico Marco Follini, Presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari al Senato -. Pensano di non dover dare conto a nessuno del loro operato. Si tratta di arroganza del potere che alimenta il vento dell’ antipolitica». Una vera e propria lobby, che controlla gli snodi nevralgici del centro decisionale e non accetta di mettere in discussione i propri privilegi.

Follini ricorda che in commissione Affari costituzionali al Senato è stata calendarizzata, ma subito dopo si è arenata, una proposta di legge presentata da lui, Augello, D’Alia e Sanna (quindi bipartisan) sulle incompatibilità parlamentari, che prevede, tra l’altro, l’impossibilità di «ricoprire le cariche di sindaco di comune con popolazione superiore a 20.000 abitanti e di presidente di giunta provinciale, ove assunte durante il mandato parlamentare». Con una proposta di legge costituzionale (a firma Follini e Agostini, entrambi Pd) si stabilisce, invece, che non si può svolgere in presenza di attività parlamentare alcuna altra attività remunerata, né pubblica né privata. Infine, un’altra proposta di legge punta al modello americano: i parlamentari non possono avere un reddito ulteriore, derivante da altre attività, superiore al 25% dello stipendio da onorevole. Tutte proposte accolte «con largo favore» dagli onorevoli. Come quella sulla riduzione del numero dei parlamentari. Solo che poi non le votano.

Restituire credibilità alla politica è compito della politica, prima di tutto dando segnali concreti, quelli che la gente comune si aspetta da tempo e non arrivano. Marco Follini, senatore Pd, presidente della Giunta per le elezioni, ne è convinto. Ha presentato una proposta di legge che deve aver suscitato parecchi mal di pancia tra gli onorevoli e che punta ad impedire il cumulo di indennità per chi è parlamentare. Niente doppio stipendio, questo il senso, durante il mandato. «Sarebbe ora di affrontare il tema e risolverlo con una norma ad hoc», dice.

Follini, sarebbe ora ma non succede. Sarebbe un segnale per i cittadini, chiamati in questo momento a sacrifici durissimi. Allora perché niente si muove, visto che la politica non si autoregola?

«C’è un doppio problema: di regole e di costumi. Se i costumi fossero più sobri le regole potrebbero essere più larghe. Dato che ultimamente di sobrietà di costumi se ne vede poca è necessario intervenire con le norme. In questa legislatura mi sono appassionato a questo tipo di leggi con sfortuna sproporzionata all’argomento».

Cioè lei ha presentato leggi e lì sono rimaste?

«Le proposte di legge sono rimaste lì, oggetto di qualche curiosità e niente di più. In Aula non sono mai arrivate».

Ma sono state accolte con grande favore bipartisan...

«Proprio così, un bell’applauso e poi basta, mentre i tempi oggi ci chiedono di mettere mano a questi argomenti con uno spirito piuttosto operativo».

L’argomento è di quelli ad alta “sensibilità” per oltre 440 parlamentari in carica. Finora soltanto dipendenti pubblici o professori universitari finiscono in aspettativa non appena eletti. Per tutti gli altri, mani libere...

«Non dovrebbe essere così. È necessario introdurre una norma che riguarda l’incompatibilità parlamentare con quella professionale. Secondo me svolgere la funzione di parlamentare richiede una vocazione esclusiva. Anche questo è un modo di richiamare una certa idea della politica».

Insomma, Ghedini dovrebbe mollare tutti i processi del presidente del Consiglio e dedicarsi esclusivamente al suo compito di legislatore?

«Penso che chi fa il parlamentare per alcuni anni non debba fare altro che questo, sia alla Camera che al Senato».

Ma se li immagina i grandi avvocati, i giornalisti, i professionisti di ogni genere chiudere tutto in un cassetto e riaprirlo a fine mandato?

«Me lo immagino fino al punto di auspicarlo. Uso una parola desueta, dobbiamo restituire alla funzione parlamentare la sua “sacralità”. Abbiamo il compito più importante nella vita del Paese, siamo regolatori di un equilibrio molto delicato ed è giusto chiedere a ciascuno di noi di dedicarsi esclusivamente a questo».

Tornerà alla carica con le sue proposte di legge alla riapertura delle Camere?

«Torneremo alla carica con il senatore Mauro Agostini perché la proposta l’abbiamo presentata insieme e chiederemo che venga discussa».

Ci dice cosa prevede esattamente?

«Prevediamo l’assoluta impossibilità di avere retribuzioni al di fuori dell’indennità parlamentare e quindi implica che chi fa l’avvocato, il medico, lo scrittore, il libero professionista si dedichi a fare soltanto l’onorevole, lasciando da parte le sue attività, i suoi interessi e i relativi conflitti».

Follini, ma lei crede davvero che i parlamentari voteranno una legge del genere?

«La proposta nasce per non rimanere nel cassetto delle buone intenzioni. Capisco che possa essere scomoda per qualcuno ma insisto a pensare che alla fine sia vantaggiosa per tutti».

Lei sta parlando di una idea della politica che sembra molto lontana da quella a cui assistiamo ogni giorno.

«Ho l’idea che la politica sia un’attività nobile e preziosa. Non sono tra quanti menano scandalo per gli stipendi dei parlamentari, ma a maggior ragione credo che a fronte di stipendi così generosi ci debba essere un impegno non condizionato da nessun altra forma di interesse».

Lei ha presentato anche un’altra legge sul doppio incarico: vietato essere parlamentare e amministratore, da presidente di provincia a sindaco. Perché un onorevole eletto sindaco dovrebbe rinunciare alla sua indennità dimettendosi dall’incarico e accontentarsi di quella da primo cittadino?

«Se un parlamentare dovesse optare per lo scranno a Roma rinunciando al suo incarico di primo cittadino vuol dire che davvero non sarebbe una perdita per il Comune che dovrebbe andare a governare. Il punto è che dovremmo chiarire che nella vita politica è già difficile fare bene una cosa, figurarsi due o tre».

QUANTO CI COSTA LA CHIESA CATTOLICA ?!?

L’inchiesta de “L’Espresso” ce lo spiega.

Quantificare con precisione il "costo" della Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un'operazione quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e in altri casi solo su stime.

Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono le spese principali a carico dello Stato italiano, trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più complesso è stabilire quali sono i mancati introiti derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto gli enti ecclesiastici.

Per fare un po' di ordine è meglio dividere i capitoli.

Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria si possono far rientrare i prelievi dell'Irpef diretti alla Conferenza Episcopale Italiana (l'otto per mille), i fondi per gli stipendi dei professori di religione cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti alle scuole paritarie e alle università private che in buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da circa 2,5-3 miliardi di euro l'anno, solo per lo Stato centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità, ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano in questi conteggi.  La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più contestate, è l'otto per mille, ovvero la percentuale Irpef che il cittadino può destinare ad un credo religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la Chiesa Cattolica l'otto per mille ha fruttato nel 2011 la cifra record di un miliardo e 118 milioni di euro, circa l'85% dell'intera torta.

A essere contestati nell'otto per mille sono almeno tre aspetti: il metodo di ripartizione, la "mancata concorrenza" e l'ammontare dell'aliquota Irpef. A differenza delle altre tasse infatti, l'otto per mille di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei fondi viene stabilita solo dai "votanti".

Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme, riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli spot pubblicitari: le confessioni più piccole non possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo Stato non investe un centesimo sull'argomento, lasciando nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica.

Un aspetto sottovalutato dell'otto per mille è però l'ammontare dell'aliquota di prelievo, che secondo la legge può essere ridefinita da una apposita commissione ogni tre anni. L'articolo 49 della legge 222/85, che ha istituto l'otto per mille, prevede che "Al termine di ogni triennio successivo al 1989, un'apposita commissione paritetica, nominata dall'autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell'importo deducibile di cui all'articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all'articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche".

Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento del passaggio dall'assegno di Congrua (con cui lo Stato pagava fino agli anni 80 lo stipendio dei preti) al nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. "Abbiamo chiesto di accedere agli atti della commissione incaricata di valutare l'aliquota – spiega Mario Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato che quei documenti devono restare riservati".

Se le casse dello Stato piangono, il gettito dell'otto per mille per la Chiesa è invece cresciuto di cinque volte in venti anni, passando dai 210 milioni dei primi anni novanta al miliardo e 100 di oggi. Aumentando il gettito è cambiata radicalmente anche la destinazione di questi capitali: oggi un terzo viene usato per lo stipendio dei religiosi, circa un quinto per interventi caritativi, e poco meno della metà per "esigenze di culto", una voce che al suo interno prevede anche la costruzione di nuove chiese (125 milioni di euro solo nel 2011).

L'aumento del gettito dell'otto per mille degli ultimi anni è stato così importante che ha permesso alla Chiesa di realizzare una serie di accantonamenti (55 milioni nel 2011, 30 milioni nel 2010): un piccolo tesoretto per futuri usi insomma.

La seconda voce di spesa a vantaggio della Chiesa Cattolica sono gli stipendi degli insegnanti di religione delle scuole, che sono più di 25 mila (circa la metà di ruolo) e costano una cifra superiore agli 800 milioni di euro l'anno.

La posizione della Cei sull'argomento, riportata in varie comunicazioni ogni volta che la questione viene rilanciata, è che questi stipendi non vanno alla Chiesa, ma agli insegnanti che per oltre l'80 per cento sono laici (l'87 per cento nel 2009/2010.

In realtà, il controllo dei vescovi su questa voce di spesa non è da sottovalutare, visto che per ottenere l'idoneità all'insegnamento serve proprio un nulla osta del religioso. Il Canone 805 del Codice canonico prevede infatti che "E' diritto dell'Ordinario del luogo per la propria diocesi di nominare o di approvare gli insegnanti di religione, e parimenti, se lo richiedano motivi di religione o di costumi, di rimuoverli oppure di esigere che siano rimossi". In altre parole, gli insegnanti di religione sono gli unici a non essere scelti sulla base di graduatorie di Stato, ma sono di fatto assunti in ogni diocesi dal vescovo locale. Assunti dalla Chiesa ma pagati dallo Stato, insomma. Inoltre, e i casi di cronaca lo hanno confermato, chi divorzia può essere licenziato da un anno all'altro.

Oltre agli stipendi degli insegnanti, lo Stato si accolla direttamente anche una parte degli stipendi dei religiosi, quando questo svolgono compiti come il cappellano militare, nelle carceri o il già citato insegnante di scuola. Secondo la Cei le "remunerazioni proprie dei sacerdoti" valgono 112 milioni di euro l'anno. Una cifra che non si può però sommare alle altre voci, poiché in parte già calcolata tra gli stipendi degli insegnanti (che nell'11% dei casi sono sacerdoti o religiosi).

Il capitolo dell'insegnamento apre un altro frangente di spesa per lo Stato, ovvero il finanziamento alle scuole paritarie (private). Queste strutture sono in buona parte gestite da enti ecclesiastici, anche se esistono non pochi istituti laici nel nostro paese.

Nell'ultima finanziaria la spesa prevista per il finanziamento alle paritarie ammonta complessivamente a poco meno di 500 milioni di euro, in calo rispetto all'anno precedente ma rimpinguata dopo una prima pesante sforbiciata. Nonostante le polemiche legate al finanziamento di queste strutture (che l'articolo 33 della Costituzione vuole "senza oneri per lo Stato"), uno studio dell'associazione dei genitori delle scuole cattoliche, ripreso anche dal ministro Gelmini, sostiene come queste scuole consentano un risparmio per lo Stato quantificato in circa sei miliardi di euro. La complessità della materia e le sue tante sfaccettature non possono comunque essere esaurite in poche righe.

Alle fonti di finanziamento citate si devono poi aggiungere altre voci, non sempre facilmente rintracciabili nei documenti ufficiali. Un capitolo tutto suo lo merita ad esempio la fornitura dell'acqua alla Città del Vaticano, interamente a carico dello Stato italiano. L'articolo 6 dei patti Lateranensi del 1929 recita infatti che "L'Italia provvederà, a mezzo degli accordi occorrenti con gli enti interessati, che alla Città del Vaticano sia assicurata un'adeguata dotazione di acque in proprietà".

Su queste due righe sono state avanzate diverse interpretazioni, con strascichi che arrivano fino ai giorni nostri. Nonostante l'opposizione dei radicali, secondo cui l'adeguata dotazione di acqua significa che bisogna far arrivare i tubi al Vaticano e nient'altro, l'interpretazione vincente è che i costi dell'acqua siano a carico dello Stato, ma un discorso diverso vale per la depurazione e la gestione degli scarichi.

La questione è esplosa nel 1998, quando la romana Acea si è quotata in borsa ed ha chiesto al Vaticano di pagare una bolletta da 25 milioni di euro che, dopo diverse peripezie, è stata invece pagata dallo Stato.

Proprio lo Stato italiano dal 2005 versa anche 4 milioni di euro l'anno all'Acea per la depurazione, da sommarsi al costo dell'acqua stessa. Il costo totale della fornitura non è però esente da equivoci e la sua cifra complessiva tra depurazione, costo dell'acqua e dello smaltimento è finita di recente al centro di una polemica alimentata da una "gola profonda" del Pdl che sostiene, senza però presentare la documentazione, che questi costi ammontino a circa 50 milioni di euro l'anno.

Dopo aver passato in rassegna le voci di spesa dello Stato per il finanziamento della Chiesa Cattolica e delle sue attività, bisogna andare al capitolo dei mancati introiti, legati ai regimi fiscali privilegiati a cui hanno diritto alcuni stabili e fabbricati. Come affermato in precedenza, tanto le spese sono note ed evidenti nel bilancio dello Stato, quanto l'entità delle detrazioni è frutto di stime molto meno certe. Per chiarezza è quindi meglio dividere ogni voce e chiarire i riferimenti normativi, le critiche e il loro presunto costo per le casse statali.

Le due voci principali di detrazione fiscale a cui ha diritto la Chiesa, non in forma esclusiva, sono l'esenzione dall'Ici e la riduzione del 50 per cento dell'Ires, l'imposta sul reddito delle persone giuridiche (le società). Questi privilegi sono anche finiti nel mirino della Commissione Europea che, dopo una denuncia dei deputati radicali, ha aperto nei confronti dell'Italia un procedimento per verificare se si tratta di aiuto di Stato o meno e il cui esito finale è atteso entro il 2012.

L'abbattimento del 50 per cento dell'Ires si applica agli enti di assistenza sociale e con fini di beneficenza ed istruzione, anche quando questi svolgono in parte attività commerciale: in questo caso però la normativa vuole che vengano distinte le fonti di reddito e sulla parte commerciale venga pagata l'intera tassa. Trattandosi inoltre di un'agevolazione nata negli anni '50 (e poi rivista varie volte), la Commissione europea ha deciso di farla rientrare tra gli aiuti di Stato esistenti, che possono essere annullati ma per cui non può esser richiesto il rimborso degli "arretrati".

Per quanto riguarda l'Ici (l'imposta comunale sugli immobili) la questione è più complessa e prevede diversi livelli. Innanzitutto la legge prevede l'esenzione totale per i luoghi di culto, ma la parte più contestata riguarda l'esenzione per le attività commerciali svolte nei locali di enti non commerciali (come quelli religiosi). Un'interpretazione della Cassazione del 2004 (la legge risale al 1992), giudicata troppo restrittiva dagli organi della Cei, ha stabilito come potessero accedere all'esenzione solo le strutture che non svolgessero alcuna attività commerciale: in poche parole l'Ici doveva essere corrisposta da tutti gli istituti che prevedevano un pagamento per le loro prestazioni, fossero esse mense per i poveri,alberghi per pellegrini o cliniche private. L'anno successivo, una legge del Governo Berlusconi ha cambiato le carte in tavola, stabilendo che l'esenzione Ici valesse anche in caso di attività commerciali: un regalo alla Chiesa che ha fatto scattare subito la denuncia alla Commissione europea per i suoi effetti sulla concorrenza.

A mettere una pezza alla situazione ci ha pensato il governo Prodi nel 2006, con l'introduzione di una nuova interpretazione della legge che prevede l'esenzione dell'Ici solo per chi svolge attività "non esclusivamente commerciale". Dalla diversa interpretazione di queste tre parole nascono buona parte degli attuali contenziosi tra chi sostiene che basti una cappella in un albergo per non pagare l'Ici e la Cei, che sostiene invece la bontà della norma e definisce "mistificazioni" gli articoli che affermano il contrario. Tanto per far capire quanto l'argomento sia caldo, un editoriale di Avvenire (il quotidiano della Cei) è tornato sull'argomento il 18 agosto scorso.

Delle detrazioni dalle tasse italiane usufruiscono poi tutti gli stabili di Città del Vaticano che godono dell'extra-territorialità e previsti dal Concordato. La somma di queste esenzioni, secondo una stima fornita dall'Anci e segnalata nel libro "La Questua" di Curzio Maltese, valeva nel 2007 tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro l'anno. Da quanto è emerso invece in un'interrogazione fatta dai radicali al Comune di Roma pochi anni fa, il costo dell'esenzione Ici per la sola capitale è di circa 25 milioni di euro l'anno.

Altra tassa risparmiate alla Chiesa, o sarebbe meglio dire ai suoi "dipendenti", è l'esenzione dell'Irpef per tutti i lavoratori della Santa Sede e della Città del Vaticano: almeno duemila persone tra giornali, radio, tribunali ecclesiastici, segreterie e congregazioni. Con il Concordato del 1984 è stato inoltre stabilita la possibilità di detrarre dalla dichiarazione dei redditi le donazioni fino alle vecchie due milioni di lire (poco meno di mille euro).

Il conto complessivo delle detrazioni, almeno sulla base delle stime, supera quindi agilmente i 3 miliardi di euro. Ma la politica non ci sente: «Togliere i fondi alla Chiesa italiana significa togliere il pane agli affamati», ha commentato Rocco Buttiglione dell'Udc. Compatto nella difesa dei privilegi ecclesiastici il Pdl. Poche le voci dissonanti nel Pd, partito la cui presidente Rosi Bindi ha chiuso la porta a ogni ipotesi di Pd di tassazione degli immobili del Vaticano, perché«la Chiesa è una grande ricchezza per la società italiana e le opere di carità della chiesa sono ancora più importanti per la crisi economica che sta mordendo le famiglie». Amen.

Un miliardo di euro dai versamenti dell'otto per mille. 650 milioni per gli stipendi degli insegnanti di religione. 700 milioni per le convenzioni su scuola e sanità. 250 milioni per il finanziamento dei Grandi Eventi. Una cifra enorme passa ogni anno dal bilancio dello Stato italiano e degli enti locali alle casse della Chiesa cattolica. A cui bisognerebbe aggiungere almeno il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano e oggi al centro di un'inchiesta dell'Unione europea: il mancato incasso dell'lci, l'esenzione da Irap, Ires e altre imposte, l'elusione consentita per le attività turistiche e commerciali. Per un totale di circa 4 miliardi di euro, più o meno mezza finanziaria, l'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno. Una somma (è la stessa Conferenza episcopale italiana a dichiararlo) che solo per un quinto viene destinata a interventi di carità e di assistenza sociale.

“La questua”. Curzio Maltese (con la collaborazione di Carlo Pontesilli e Maurizio Turco). La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani. Milano, Feltrinelli 2008, pp. 172.

Scriveva il buon Voltaire, nel lontano 1763: «Esiste in Francia un libro che contiene l’obiezione più terribile che si possa fare contro la religione: è il quadro dei redditi del clero, quadro troppo bene conosciuto, anche se i vescovi hanno rifiutato al re di fornirgliene un esemplare». Oltre due secoli dopo, nonostante l’illuminismo, la Rivoluzione francese, la laicità degli Stati, la secolarizzazione delle società occidentali (e non solo), in Italia siamo sostanzialmente allo stesso punto: lo Stato finanzia copiosamente una Chiesa ricchissima, senza che quest’ultima ci tenga troppo a farlo sapere in giro.

Nel 2007 Curzio Maltese ha pubblicato su Repubblica una serie di articoli che hanno avuto il merito di portare alla luce quantomeno una parte della gigantesca massa finanziaria, prelevata dalle tasche dei contribuenti, che la casta politica trasferisce con regolarità alla casta religiosa. La stima del giornalista è di 4 miliardi e mezzo di euro l’anno: più del costo della stessa casta politica, e quasi un’intera manovra finanziaria. La valutazione è peraltro fin troppo cauta, a mio parere, perché non tiene in debito conto quanto le amministrazioni locali (regioni, comuni, le inutili province e perfino le comunità montane e le circoscrizione) corrispondono alla Chiesa o ai suoi enti e associazioni sotto forma di contributi a fondo perso, oneri di urbanizzazione, prestazioni per servizi di volontariato prestati in luogo delle strutture pubbliche. Un flusso enorme, ricostruire il quale è impresa letteralmente impossibile: occorrerebbe spulciare tutte le delibere di migliaia e migliaia di istituzioni. E, come ricorda l’autore, in Italia manca una tradizione di inchieste serie nei confronti del business ecclesiastico.

Incommensurabili sono del resto anche le proprietà della Chiesa cattolica italiana: rappresentino esse un quarto o un quinto del patrimonio immobiliare italiano, come sostengono alcune stime non tacciabili di anticlericalismo, siamo comunque in presenza di un’entità economica in grado di condizionare pesantemente la società; travolgendo le regole di mercato, approfittando delle esenzioni fiscali di cui dispone e riversando i profitti così conseguiti nelle attività più disparate.

Come potrebbe il movimento laico, privo anche solo di una sede, fronteggiare tale massa d’urto?

Di fronte a questi numeri, non si capisce proprio per quale motivo uno Stato in gravi ambasce come il nostro debba devolvere la gran parte dell’8 per mille del gettito IRPEF alla maggior potenza economica presente sul territorio. Gli apologeti cattolici rivendicano la democraticità di tale meccanismo: la decisione sull’utilizzo dei fondi è stabilita dai cittadini. In realtà il meccanismo è ancor meno trasparente del finanziamento pubblico ai partiti: la Chiesa (a differenza delle altre confessioni) riscuote i fondi in anticipo; inibisce, attraverso il cospicuo manipolo di parlamentari a lei devoti, che nuovi concorrenti accedano alla ripartizione; protesta vivacemente se lo Stato, che non ha mai fatto alcuna propaganda a proprio favore, anche solo lontanamente si azzarda a concepire un utilizzo dei fondi di propria pertinenza dotato di un qualche appeal nei confronti dei contribuenti. E, come se non bastasse, diffonde spot ingannevoli: le somme spese per le faraoniche campagne pubblicitarie superano le somme effettivamente stanziate per i progetti caritatevoli che fungono da testimonial.

Del resto, che il meccanismo non piaccia affatto ai cittadini è dimostrato dagli stessi dati: solo una minoranza della popolazione, a stento vicina al 40% e comprendente anche molti laici, sceglie di destinare l’8 per mille al momento della dichiarazione dei redditi. Tale percentuale si innalza al 60% quando si tratta di 5 per mille, e dunque di finanziamento di iniziative concrete: i tanti vituperati abitanti della Penisola si rivelano molto più pragmatici degli amministratori che li governano. Vi è peraltro un’altra dimostrazione indiretta della scarsa propensione dei cittadini al finanziamento della Chiesa cattolica: le offerte per il sostentamento del clero, fiscalmente deducibili, sono clamorosamente insufficienti alla bisogna. Le gerarchie ecclesiastiche lo sanno benissimo: si introducesse il sistema tedesco, come propugnato anche dall’UAAR, e tutti i fedeli (ma solo loro) fossero costretti a finanziare la confessione religiosa di appartenenza, con tutta probabilità assisteremmo alla più spettacolare apostasia di massa della storia del genere umano.

E l’otto per mille è solo la più nota forma di finanziamento statale a favore della Chiesa. Vogliamo parlare degli insegnanti di religione? Oppure del turismo religioso: tanto privilegiato, quest’ultimo, rispetto a quello artistico e naturalistico da aver fatto precipitare la nostra nazione dal primo al quinto posto nelle classifiche delle mete più frequentate. La Chiesa opera liberamente nello Stato, dunque, ma lo Stato è ritenuto sempre meno libero di mettere il naso nelle attività della Chiesa: lo IOR può operare in barba a qualsivoglia normativa antiriciclaggio e fare da punto di riferimento finanziario per la malavita, ma nessun giudice ha il coraggio di far notare agli extracomunitari di Oltretevere come l’investimento concreto dei profitti dei corleonesi andrà a discapito della sicurezza della società italiana.

La questua è costituito soprattutto dagli articoli pubblicati a suo tempo, e ha dunque il merito di non far cadere nel dimenticatoio un’inchiesta documentata e, per quanto era possibile, esauriente. Altri temi, come il racconto sulla mancata visita papale alla Sapienza, al di là di mostrare una “diabolica” capacità di creare casi politici in grado di far cadere un governo sembrano un’aggiunta poco convinta (a maggior ragione in presenza di un’introduzione scritta da Ezio Mauro, che in quell’occasione se ne uscì con affermazioni decisamente poco ragionevoli). Nel complesso, stiamo parlando di un libro da conservare con cura nella propria libreria.

«In questo Paese la libertà di un laico è considerata inferiore a quella di un cattolico», scrive Maltese: inevitabile, visto che una classe politica miope si lascia abbacinare dalla sovradimensionata visibilità mediatica della Chiesa che essa stessa ha generato. Un atteggiamento di favore giustificato, a destra come a sinistra, con la caritatevole sussidiarietà messa in atto da una sedicente disinteressata organizzazione evangelicamente ispirata. Il Vaticano, ci ricorda Maltese, vanta il reddito pro capite più alto del mondo. Ricordiamoci di ricordarglielo.

L'otto per mille e la Santa cresta. Grazie al contributo fiscale lo Stato italiano versa più di un miliardo l'anno per pagare gli stipendi dei preti. Per i quali però bastano 361 milioni. E le altre centinaia?

In un'inchiesta  “L’espresso”, tutta la verità su business e privilegi del Vaticano.

Trentunomila e 478 euro virgola qualcosa. E' la somma che lo Stato, quindi l'intera platea dei contribuenti, ha versato nel 2010 per il mantenimento di ognuno dei 33 mila e 896 sacerdoti in servizio attivo nelle diocesi del Paese. Il totale fa un miliardo e 67 milioni di euro, l'importo del cosiddetto 8 per mille (salito nel 2011 a un miliardo, 118 milioni, 677 mila, 543 euro e 49 centesimi). E l'assegno l'ha incassato la Chiesa, attraverso la Conferenza episcopale. Che poi a ciascuno di quei preti ha girato direttamente solo 10.541 euro, un terzo di quanto ha stipato nei propri forzieri. L'espressione è un po' forte, ma i numeri sono numeri: e dicono che i vescovi fanno la cresta sullo stipendio dei loro sottoposti. Wojtyla, si sa, non amava granché Agostino Casaroli. Considerava il suo segretario di Stato troppo amico dei regimi comunisti dell'Est. Quasi un propagandista. E per questo si scontrava spesso con lui. Invece avrebbe dovuto fargli un monumento equestre. Perché la revisione del Concordato che Casaroli trattò con l'allora premier italiano, Bettino Craxi (in sostituzione della "congrua", il salario di Stato garantito ai parroci), è stata di gran lunga il miglior affare che la Chiesa abbia portato a casa nella sua storia più recente. Funziona così. Un po' come in un gigantesco sondaggio d'opinione, ogni anno i contribuenti, mettendo una croce sull'apposita casella nella dichiarazione dei redditi, possono indicare come beneficiaria dell'8 per mille una delle confessioni firmatarie dell'intesa con lo Stato (o scegliere invece quest'ultimo).Sulla base delle indicazioni effettivamente raccolte, viene poi diviso in percentuale non il solo ammontare versato da quanti hanno espresso una preferenza (il 40 per cento circa del totale), ma l'intero montepremi. Al gruzzolo concorrono, cioè, anche i versamenti all'erario di coloro che, maggioranza assoluta, non hanno barrato un accidenti (quattrini che nella cattolicissima Spagna restano invece allo Stato). O che magari non hanno neanche mai sentito parlare del trappolone a suo tempo confezionato da Giulio Tremonti nelle vesti di consulente del governo. Il meccanismo, guarda caso, sembra ricalcato da quello scelto dai partiti per i rimborsi elettorali garantiti dal finanziamento pubblico. Il risultato dell'arzigogolo è facilmente intuibile. Anche perché perdere una sfida con lo Stato italiano davanti a una giuria popolare è matematicamente impossibile. Tanto più se lo stesso sedicente avversario ha stabilito regole che lo penalizzano in partenza. E ancor più se durante la gara cammina invece che correre (la Chiesa si affida a un gigante mondiale come la Saatchi & Saatchi per una martellante campagna pubblicitaria costata nel 2005 qualcosa come 9 milioni di euro, il triplo di quanto donato dai preti alle vittime dello tsunami; lo Stato risulta non pervenuto). Ma il vantaggio per la Chiesa va perfino al di là di quanto si possa intuire. Per quantificarlo bisogna necessariamente affidarsi a dati un po' vecchiotti, per il semplice motivo che il ministero dell'Economia fornisce le statistiche sulle scelte effettive dei contribuenti solo alle confessioni religiose ammesse al beneficio. Non è però un problema, dal momento che le percentuali variano in maniera quasi impercettibile tra un anno e l'altro. Dunque: nel 2004 la Chiesa è stata scelta da una minoranza pari al 34,56 per cento dei contribuenti italiani. Ma lo stesso dato, calcolato invece sulla sola platea di quanti hanno ritenuto di dare un'indicazione sull'8 per mille, l'ha fatta schizzare di colpo, e miracolosamente, a una schiacciante maggioranza dell'87,25. Ed è quest'ultima la percentuale utilizzata per ripartire l'intera torta. Che è destinata inevitabilmente a crescere. Il suo valore, infatti, si aggancia ora alla variazione del Pil, cioè alla crescita economica, ora all'aumento della pressione fiscale. Quando non ai due elementi insieme. Questo garantisce alla Chiesa di incassare sempre più quattrini, a prescindere dal consenso racimolato. E perfino quando questo scende in maniera vistosa. E' successo, per esempio, nelle dichiarazioni dei redditi del 2007 (incassate nel 2010: c'è uno sfasamento temporale di tre anni). Quell'anno, forse sulla scia dello scandalo pedofilia, il numero dei contribuenti che ha indicato come beneficiari Ratzinger & C. si è ridotto, secondo i calcoli degli stessi vescovi, di 95.104 unità.

Così, perfino la percentuale drogata di spettanza della Chiesa ha fatto registrare un passo indietro: dall'86,05 del 2006 (89,82 nel 2005) all'85,01 per cento. Ma, sorpresa, grazie al doppio traino di Pil e pressione fiscale, la Chiesa ha comunque incassato di più: 100 milioni di euro.

I conti della cresta sono presto fatti. Nel 1989, come ricorda la stessa Cei in un documento ufficiale intitolato "Otto per mille: destinazione e impieghi 1990- 2011", con la congrua la Chiesa prendeva 399 miliardi di lire (che nel 1990, nel primo anno con il nuovo sistema, diventarono 210 milioni di euro, perché nel totale furono inseriti anche 7 miliardi di lire di quattrini pubblici destinati alla nuova edilizia di culto). I coefficienti di rivalutazione dicono che oggi quella cifra equivarrebbe a 369,01 milioni. Per il 2011, secondo i calcoli più aggiornati, alla Chiesa spetta invece, come dicevamo, un miliardo, 118 milioni, 677 mila e 543 euro: più del triplo.

Ma per la Santa Casta l'affare è ancora più ghiotto di quanto già non appaia a prima vista. Nello stesso ventennio, infatti, l'importo complessivo delle paghe dei preti (addirittura diminuito di 20 milioni tondi tra il 2009 e il 2011) è cresciuto molto più lentamente: dai 145 milioni del 1990 ai 361 del 2011 (più 149 per cento). E così il margine, che rappresenta in questo caso il guadagno, o la cresta, della Chiesa è via via aumentato, passando dai 65 milioni iniziali ai 757.677.543 euro di quest'anno, con un incremento del 1.066 per cento. Chapeau. E dire che in un volantino distribuito dalla Cei nelle parrocchie, e intitolato "Aiuta tutti i sacerdoti", si sostiene che l'8 per mille «non basta» a mantenere i preti. I negoziatori della revisione concordataria del 1984, evidentemente consapevoli del papocchio che andavano allestendo, avevano previsto la possibilità di una revisione dell'aliquota: era stato insomma stabilito che l'8 per mille potesse diventare, per esempio, il sette o il nove, a seconda dell'andamento del suo gettito e delle spese reali della Chiesa.

Il compito di monitorare la situazione, e introdurre ogni tre anni gli aggiustamenti eventualmente necessari, era stato affidato, come nella migliore tradizione, a una commissione, l'ennesima. Fin da subito, se ne sono ovviamente perse le tracce. E chi, come quei rompiballe in servizio permanente effettivo dei radicali, ha chiesto notizie al riguardo si è sentito opporre il segreto di Stato. Addirittura. Un minimo di pudore da parte del governo nell'affrontare l'argomento è assolutamente comprensibile. Perché da sempre l'esecutivo di turno, non ritenendo ancora all'altezza il cadeau presentato annualmente alla gerarchia ecclesiastica, ci ha aggiunto dell'altro. Consegnando di fatto alla Chiesa anche una buona fetta della quota (striminzita, peraltro) di 8 per mille che gli veniva assegnata su indicazione dei contribuenti. Una forzatura sottolineata anche dalla Corte dei conti, che nel 2008 ha messo a punto una relazione sulla gestione dei fondi da parte dello Stato nel quinquennio 2001-2006 in cui si rilevavano «non poche incongruenze».

Una bacchettata di cui Berlusconi, troppo preoccupato a farsi perdonare dai preti certi eccessi di vitalità notturna, non ha tenuto alcun conto. Almeno a leggere le 17 pagine del decreto con cui sono stati ripartiti nel 2009 i 43.969.406 euro destinati dai contribuenti allo Stato in quota 8 per mille: 459 mila euro alla Pontificia università gregoriana di Roma, 500 mila al Fondo librario della Compagnia di Gesù, un milione e 146 mila alla diocesi di Cassano allo Ionio, 369 mila alla Confraternita di S. Maria della purità di Gallipoli... Alla fine, 10 milioni e 586 mila euro sono andati, in gran parte attraverso il Fondo beni culturali, a 26 immobili di enti-satellite del Vaticano. E altri 14 milioni e 692 mila euro sono stati destinati a soddisfare richieste (quasi tutte per opere ecclesiastiche) legate al terremoto abruzzese e curiosamente presentate ancor prima che il sisma si verificasse.

In sostanza, lo Stato ha girato al Vaticano più della metà dei soldi che i contribuenti gli avevano espressamente conferito. Resta da capire che strada prendano i soldi pubblici che ogni anno rimangono nelle casse della Cei dopo il pagamento degli stipendi ai sacerdoti. Nel 2011 (come del resto in tutti gli ultimi cinque anni, nel corso dei quali sono rimasti perfettamente invariati) gli interventi caritativi nel Terzo mondo hanno totalizzato 85 milioni, pari al 7,59 per cento dei soldi pubblici incassati dalla Cei.

Anche sommando a questi gli aiuti smistati in Italia, non si va oltre i 235 milioni, che vuol dire il 21 per cento del contributo statale alla Cei. Il tutto, ammesso e non concesso che tra queste iniziative abbia qualche senso includere «l'installazione di una radio cattolica nell'arcidiocesi di Mount Hagen, a Pasqua Nuova Guinea e a Puerto Esperanza, in Perù e la formazione per tecnici e animatori giornalisti della radio diocesana di Matadi, nella Repubblica democratica del Congo», citati a pagina 14 del dossier "Otto per mille. Destinazione ed impieghi 1990-2008" alla voce "Promozione umana", ma molto più simili a spese per la propaganda e il reclutamento. Oppure operazioni al limite del folklore sciupone come «la formazione all'uso e alla gestione di un sistema fotovoltaico per la ricarica della batteria di cellulari, laptop e lampade per creare microimprenditorialità in diversi paesi dell'Africa ». Laptop nella savana? Mah. Di tutto questo ben di Dio, agli uomini di Chiesa restano le briciole. Non alla nomenklatura, s'intende, che quella si tratta bene.

Il capo dei vescovi, Angelo Bagnasco, ovviamente, lo nega: «Per la nostra sussistenza basta in realtà poco», ha detto il 26 settembre 2011. Ma non è esattamente così, se nel solo 2007 i 20 cardinali di stanza a Roma sono costati oltre tre milioni di euro, come ha rivelato senza essere smentito il settimanale cattolico inglese "The Tablet" (del resto il giornale citava la sintesi di un rendiconto riservato della Prefettura per gli affari economici del Vaticano), e se è vero che nel 2010, come ha scritto "El Pais", la spesa per l'intera curia è stata di 102,5 milioni. Eppure non è certo ai papaveri vaticani che si riferiva "Famiglia Cristiana" quando, nel settembre del 2011, ha scolpito: «Mentre la nave affonda, i timonieri continuano a sollazzarsi». La parte del leone - si legge nel capitolo "Come mungere lo Stato" del libro "I senza Dio"- l'ha fatta "Avvenire": il quotidiano della ricchissima Cei è riuscito a incassare, nel 2010, 5.871.082 euro e 4 centesimi. Ma la lista delle gazzette di ispirazione religiosa generosamente sovvenzionate dallo Stato è lunga. E, non fossero soldi nostri, sarebbe pure divertente da scorrere, infarcita com'è di testate improbabili. Ci sono "L'Appennino Camerte" (Arcidiocesi di Camerino, 42.500 euro), "L'Aurora della Lomellina" (Diocesi di Vigevano, 41.378 euro), "Gente Veneta" (Patriarcato di Venezia, 67.036 euro), "Nuova Scintilla" (Diocesi di Chioggia, 28.830 euro), "L'Ortobene" (Diocesi di Nuoro, 78.690 euro), "Il Risveglio Popolare" (Opera diocesana di Ivrea, 55.200 euro), "La Voce Isontina" (Arcidiocesi di Gorizia, 30.590 euro) e "La Vita Casalese" (Fondazione S. Evasio opera diocesana, 35.824 euro). Dopo quello di "Avvenire", i due assegni più sostanziosi, per un totale di 618 mila euro, li hanno portati a casa "Famiglia Cristiana" e "Il Giornalino", entrambi editi dalla Periodici San Paolo.  Ma il premio Stakanov spetta senz'altro ai sacerdoti novaresi, capaci di mettere insieme otto pubblicazioni tutte giudicate meritevoli di assistenza pubblica: "L'Azione" (20.643 euro), "Il Cittadino Oleggese" (8.125 euro), "L'Eco di Galliate" (9.252 euro), "L'Informatore" (47.537 euro), "Il Monte Rosa" (8.971 euro), "Il Popolo dell'Ossola" (5.293 euro), "Il Ricreo" (7.511 euro) e "Il Sempione" (9.910 euro). Finché non vedo, non credo. E adesso ci pensano una serie di inchieste dei Radicali a mettere in luce come anche le attività commerciali della Chiesa spesso non paghino l'Ici, eludendo in questo modo il fisco ed esercitando una concorrenza sleale nei confronti degli altri esercenti. La normativa italiana prevede che l'esenzione dalla tassa sugli immobili sia possibile per gli edifici di culto e le attività 'non esclusivamente commerciali', della Chiesa e non solo. Una formulazione piuttosto ambigua che molti istituti sfruttano a loro favore per eludere il fisco, come dimostrano questi brevi filmati. La prima inchiesta dei radicali mostra come un istituto in teoria riservato al clero, in realtà ospiti anche 'laici', presentando un tariffario in linea con quanto previsto dal mercato (50 euro a notte per una singola). La 'Casa del clero', a pochi passi dal teatro La Scala e nel pieno centro di Milano, dovrebbe infatti essere rivolta ai soli sacerdoti, e proprio alla luce di questa particolarità ha ottenuto l'esenzione dal pagamento dell'Ici. In realtà, come spiega la suora nel video, da almeno tre anni un intero piano della struttura è riservato ai laici che provengono un po' da tutto il mondo e che nei periodi di punta (da marzo a maggio), a causa del gran numero, devono essere ospitati anche nel piano riservato ai sacerdoti. Un'attività che procede quindi a gonfie vele, senza che vengano però pagate le tasse previste per gli altri albergatori. Quanto paghiamo per la Chiesa.

L'esenzione da Ici e Ires. L'Irpef dei dipendenti vaticani. L'otto per mille, incluso quello di chi non sceglie di darlo alla Santa Sede. Lo stipendio degli insegnanti di religione. I finanziamenti alle scuole cattoliche. Perfino l'acqua e i depuratori del papa. Ecco, voce per voce, quali sarebbero i tagli 'sacrosanti'.

Durante il week end la pagina Facebook 'Vaticano pagaci tu la manovra fiscale' ha superato di slancio le centodiecimila adesioni. Un "partito" che tuttavia non trova sponde o quasi nella politica: di tagliare i privilegi della Chiesa, ad esempio, non c'è traccia nella contromanovra che il Pd sta studiando in questi giorni. «Quello dei soldi Oltre Tevere è un tabù che nessuno ha intenzione di affrontare», scuote la testa Mario Staderini, segretario dei Radicali, che ha per primo lanciato la proposta di eliminare le esenzioni fiscali di cui godono gli enti ecclesiastici. «Si potrebbero recuperare 3 miliardi di euro all'anno senza neppure rivedere il Concordato», sostiene.

Ha ragione? Quantificare con precisione il "costo" della Chiesa Cattolica per lo Stato italiano è un'operazione quasi impossibile, che in parte si basa su dati certi e in altri casi solo su stime.

Se è infatti relativamente facile stabilire quali sono le spese principali a carico dello Stato italiano, trattandosi di fondi che restano nel bilancio, molto più complesso è stabilire quali sono i mancati introiti derivanti dalle agevolazioni fiscali cui hanno diritto gli enti ecclesiastici. Per fare un po' di ordine è meglio dividere i capitoli. Iniziamo analizzando le spese principali che lo Stato si accolla per gli enti ecclesiastici. In questa categoria si possono far rientrare i prelievi dell'Irpef diretti alla Conferenza Episcopale Italiana (l'otto per mille), i fondi per gli stipendi dei professori di religione cattolica nelle scuole, gli stipendi dei cappellani che svolgono funzioni per lo Stato italiano, i finanziamenti alle scuole paritarie e alle università private che in buona parte ruotano attorno alla Chiesa. Un pacchetto da circa 2,5-3 miliardi di euro l'anno, solo per lo Stato centrale. Altri capitoli di spesa, come la sanità, ricadono infatti nei bilanci regionali e non rientrano in questi conteggi. La prima voce di spesa per lo Stato, e una delle più contestate, è l'otto per mille, ovvero la percentuale Irpef che il cittadino può destinare ad un credo religioso o lasciare allo Stato Italiano. Solo per la Chiesa Cattolica l'otto per mille ha fruttato nel 2011 la cifra record di un miliardo e 118 milioni di euro, circa l'85% dell'intera torta. A essere contestati nell'otto per mille sono almeno tre aspetti: il metodo di ripartizione, la "mancata concorrenza" e l'ammontare dell'aliquota Irpef. A differenza delle altre tasse infatti, l'otto per mille di ogni contribuente non viene destinato al credo da lui scelto: la firma di ogni cittadino vale come un voto e influisce sulla ripartizione complessiva dei fondi. In questo modo, anche se non si firma, la destinazione dei fondi viene stabilita solo dai "votanti". Questo meccanismo finisce per avvantaggiare la Chiesa Cattolica che, conquistando la maggioranza delle firme, riceve una grossa fetta anche dei finanziamenti senza destinazione. Il sistema è stato molto contestato dai Radicali e da associazioni come lo Uaar, che segnalano il completo monopolio cattolico per quanto riguarda gli spot pubblicitari: le confessioni più piccole non possono permettersi le campagne milionarie, mentre lo Stato non investe un centesimo sull'argomento, lasciando nei fatti il campo libero alla Chiesa Cattolica. Un aspetto sottovalutato dell'otto per mille è però l'ammontare dell'aliquota di prelievo, che secondo la legge può essere ridefinita da una apposita commissione ogni tre anni. L'articolo 49 della legge 222/85, che ha istituto l'otto per mille, prevede che "Al termine di ogni triennio successivo al 1989, un'apposita commissione paritetica, nominata dall'autorità governativa e dalla Conferenza episcopale italiana, procede alla revisione dell'importo deducibile di cui all'articolo 46 e alla valutazione del gettito della quota IRPEF di cui all'articolo 47, al fine di predisporre eventuali modifiche". Si tratta di un sistema di verifica pensato al momento del passaggio dall'assegno di Congrua (con cui lo Stato pagava fino agli anni ?€˜80 lo stipendio dei preti) al nuovo regime, che permette di rivedere i prelievi se questi si rivelano troppo bassi o troppo alti. "Abbiamo chiesto di accedere agli atti della commissione incaricata di valutare l'aliquota – spiega Mario Staderini – ma sulle relazioni è stato apposto il segreto di Stato, e anche il Tar del Lazio ha confermato che quei documenti devono restare riservati". Se le casse dello Stato piangono, il gettito dell'otto per mille per la Chiesa è invece cresciuto di cinque volte in venti anni, passando dai 210 milioni dei primi anni novanta al miliardo e 100 di oggi. Aumentando il gettito è cambiata radicalmente anche la destinazione di questi capitali: oggi un terzo viene usato per lo stipendio dei religiosi, circa un quinto per interventi caritativi, e poco meno della metà per "esigenze di culto", una voce che al suo interno prevede anche la costruzione di nuove chiese (125 milioni di euro solo nel 2011). L'aumento del gettito dell'otto per mille degli ultimi anni è stato così importante che ha permesso alla Chiesa di realizzare una serie di accantonamenti (55 milioni nel 2011, 30 milioni nel 2010): un piccolo tesoretto per futuri usi insomma. La seconda voce di spesa a vantaggio della Chiesa Cattolica sono gli stipendi degli insegnanti di religione delle scuole, che sono più di 25 mila (circa la metà di ruolo) e costano una cifra superiore agli 800 milioni di euro l'anno. La posizione della Cei sull'argomento, riportata in varie comunicazioni ogni volta che la questione viene rilanciata, è che questi stipendi non vanno alla Chiesa, ma agli insegnanti che per oltre l'80 per cento sono laici (l'87 per cento nel 2009/2010). In realtà, il controllo dei vescovi su questa voce di spesa non è da sottovalutare, visto che per ottenere l'idoneità all'insegnamento serve proprio un nulla osta del religioso. Il Canone 805 del Codice canonico prevede infatti che "E' diritto dell'Ordinario del luogo per la propria diocesi di nominare o di approvare gli insegnanti di religione, e parimenti, se lo richiedano motivi di religione o di costumi, di rimuoverli oppure di esigere che siano rimossi". In altre parole, gli insegnanti di religione sono gli unici a non essere scelti sulla base di graduatorie di Stato, ma sono di fatto assunti in ogni diocesi dal vescovo locale. Assunti dalla Chiesa ma pagati dallo Stato, insomma. Inoltre, e i casi di cronaca lo hanno confermato, chi divorzia può essere licenziato da un anno all'altro. Oltre agli stipendi degli insegnanti, lo Stato si accolla direttamente anche una parte degli stipendi dei religiosi, quando questo svolgono compiti come il cappellano militare, nelle carceri o il già citato insegnante di scuola. Secondo la Cei le "remunerazioni proprie dei sacerdoti" valgono 112 milioni di euro l'anno. Una cifra che non si può però sommare alle altre voci, poiché in parte già calcolata tra gli stipendi degli insegnanti (che nell'11% dei casi sono sacerdoti o religiosi). Il capitolo dell'insegnamento apre un altro frangente di spesa per lo Stato, ovvero il finanziamento alle scuole paritarie (private). Queste strutture sono in buona parte gestite da enti ecclesiastici, anche se esistono non pochi istituti laici nel nostro paese. Nell'ultima finanziaria la spesa prevista per il finanziamento alle paritarie ammonta complessivamente a poco meno di 500 milioni di euro, in calo rispetto all'anno precedente ma rimpinguata dopo una prima pesante sforbiciata. Nonostante le polemiche legate al finanziamento di queste strutture (che l'articolo 33 della Costituzione vuole "senza oneri per lo Stato"), uno studio dell'associazione dei genitori delle scuole cattoliche, ripreso anche dal ministro Gelmini, sostiene come queste scuole consentano un risparmio per lo Stato quantificato in circa sei miliardi di euro. La complessità della materia e le sue tante sfaccettature non possono comunque essere esaurite in poche righe. Alle fonti di finanziamento citate si devono poi aggiungere altre voci, non sempre facilmente rintracciabili nei documenti ufficiali. Un capitolo tutto suo lo merita ad esempio la fornitura dell'acqua alla Città del Vaticano, interamente a carico dello Stato italiano. L'articolo 6 dei patti Lateranensi del 1929 recita infatti che "L'Italia provvederà, a mezzo degli accordi occorrenti con gli enti interessati, che alla Città del Vaticano sia assicurata un'adeguata dotazione di acque in proprietà". Su queste due righe sono state avanzate diverse interpretazioni, con strascichi che arrivano fino ai giorni nostri. Nonostante l'opposizione dei radicali, secondo cui l'adeguata dotazione di acqua significa che bisogna far arrivare i tubi al Vaticano e nient'altro, l'interpretazione vincente è che i costi dell'acqua siano a carico dello Stato, ma un discorso diverso vale per la depurazione e la gestione degli scarichi. La questione è esplosa nel 1998, quando la romana Acea si è quotata in borsa ed ha chiesto al Vaticano di pagare una bolletta da 25 milioni di euro che, dopo diverse peripezie, è stata invece pagata dallo Stato. Proprio lo Stato italiano dal 2005 versa anche 4 milioni di euro l'anno all'Acea per la depurazione, da sommarsi al costo dell'acqua stessa. Il costo totale della fornitura non è però esente da equivoci e la sua cifra complessiva tra depurazione, costo dell'acqua e dello smaltimento è finita di recente al centro di una polemica alimentata da una "gola profonda" del Pdl che sostiene, senza però presentare la documentazione, che questi costi ammontino a circa 50 milioni di euro l'anno. Dopo aver passato in rassegna le voci di spesa dello Stato per il finanziamento della Chiesa Cattolica e delle sue attività, bisogna andare al capitolo dei mancati introiti, legati ai regimi fiscali privilegiati a cui hanno diritto alcuni stabili e fabbricati. Come affermato in precedenza, tanto le spese sono note ed evidenti nel bilancio dello Stato, quanto l'entità delle detrazioni è frutto di stime molto meno certe. Per chiarezza è quindi meglio dividere ogni voce e chiarire i riferimenti normativi, le critiche e il loro presunto costo per le casse statali. Le due voci principali di detrazione fiscale a cui ha diritto la Chiesa, non in forma esclusiva, sono l'esenzione dall'Ici e la riduzione del 50 per cento dell'Ires, l'imposta sul reddito delle persone giuridiche (le società). Questi privilegi sono anche finiti nel mirino della Commissione Europea che, dopo una denuncia dei deputati radicali, ha aperto nei confronti dell'Italia un procedimento per verificare se si tratta di aiuto di Stato o meno e il cui esito finale è atteso entro il 2012. L'abbattimento del 50 per cento dell'Ires si applica agli enti di assistenza sociale e con fini di beneficenza ed istruzione, anche quando questi svolgono in parte attività commerciale: in questo caso però la normativa vuole che vengano distinte le fonti di reddito e sulla parte commerciale venga pagata l'intera tassa. Trattandosi inoltre di un'agevolazione nata negli anni '50 (e poi rivista varie volte), la Commissione europea ha deciso di farla rientrare tra gli aiuti di Stato esistenti, che possono essere annullati ma per cui non può esser richiesto il rimborso degli "arretrati". Per quanto riguarda l'Ici (l'imposta comunale sugli immobili) la questione è più complessa e prevede diversi livelli. Innanzitutto la legge prevede l'esenzione totale per i luoghi di culto, ma la parte più contestata riguarda l'esenzione per le attività commerciali svolte nei locali di enti non commerciali (come quelli religiosi). Un'interpretazione della Cassazione del 2004 (la legge risale al 1992), giudicata troppo restrittiva dagli organi della Cei, ha stabilito come potessero accedere all'esenzione solo le strutture che non svolgessero alcuna attività commerciale: in poche parole l'Ici doveva essere corrisposta da tutti gli istituti che prevedevano un pagamento per le loro prestazioni, fossero esse mense per i poveri,alberghi per pellegrini o cliniche private. L'anno successivo, una legge del Governo Berlusconi ha cambiato le carte in tavola, stabilendo che l'esenzione Ici valesse anche in caso di attività commerciali: un regalo alla Chiesa che ha fatto scattare subito la denuncia alla Commissione europea per i suoi effetti sulla concorrenza. A mettere una pezza alla situazione ci ha pensato il governo Prodi nel 2006, con l'introduzione di una nuova interpretazione della legge che prevede l'esenzione dell'Ici solo per chi svolge attività "non esclusivamente commerciale". Dalla diversa interpretazione di queste tre parole nascono buona parte degli attuali contenziosi tra chi sostiene che basti una cappella in un albergo per non pagare l'Ici e la Cei, che sostiene invece la bontà della norma e definisce "mistificazioni" gli articoli che affermano il contrario. Tanto per far capire quanto l'argomento sia caldo, un editoriale di Avvenire (il quotidiano della Cei) è tornato sull'argomento il 18 agosto scorso. Delle detrazioni dalle tasse italiane usufruiscono poi tutti gli stabili di Città del Vaticano che godono dell'extra-territorialità e previsti dal Concordato. La somma di queste esenzioni, secondo una stima fornita dall'Anci e segnalata nel libro "La Questua" di Curzio Maltese, valeva nel 2007 tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro l'anno. Da quanto è emerso invece in un'interrogazione fatta dai radicali al Comune di Roma pochi anni fa, il costo dell'esenzione Ici per la sola capitale è di circa 25 milioni di euro l'anno. Altra tassa risparmiate alla Chiesa, o sarebbe meglio dire ai suoi "dipendenti", è l'esenzione dell'Irpef per tutti i lavoratori della Santa Sede e della Città del Vaticano: almeno duemila persone tra giornali, radio, tribunali ecclesiastici, segreterie e congregazioni. Con il Concordato del 1984 è stato inoltre stabilita la possibilità di detrarre dalla dichiarazione dei redditi le donazioni fino alle vecchie due milioni di lire (poco meno di mille euro). Il conto complessivo delle detrazioni, almeno sulla base delle stime, supera quindi agilmente i 3 miliardi di euro. Ma la politica non ci sente: «Togliere i fondi alla Chiesa italiana significa togliere il pane agli affamati», ha commentato Rocco Buttiglione dell'Udc. Compatto nella difesa dei privilegi ecclesiastici il Pdl. Poche le voci dissonanti nel Pd, partito la cui presidente Rosi Bindi ha chiuso la porta a ogni ipotesi di Pd di tassazione degli immobili del Vaticano, perché«la Chiesa è una grande ricchezza per la società italiana e le opere di carità della chiesa sono ancora più importanti per la crisi economica che sta mordendo le famiglie». Amen.

La Santa Evasione. Un patrimonio immobiliare sterminato. E tutto senza tasse. Più sovvenzioni, sconti, esenzioni. Così lo Stato privilegia il tesoro del Vaticano. E rinuncia a entrate milionarie.

Ci sono gli aspirantati, i commissariati, le case sante, le pie società, le arcidiocesi, le curie generalizie, le arciconfraternite e i capitoli. Poi: i seminari pontifici, i pellegrinaggi, i vescovadi, gli stabilimenti, i sodalizi e le postulazioni generali. E ancora: i segretariati, gli asili, le confraternite, le nunziature e le segnature apostoliche... E' accuratamente nascosto dietro una babele di migliaia di sigle spesso imperscrutabili il patrimonio immobiliare italiano della Chiesa, il più grande del mondo intero, che alcuni arrivano a stimare nell'iperbolica cifra di un miliardo di metri quadrati. Un tesoro comunque immenso, ormai circondato dalla leggenda e che costituisce uno dei segreti meglio custoditi del Paese. Da sempre. E più che mai oggi, nel momento in cui intorno a questa montagna di mattoni, e alla Santa Evasione, legalizzata sotto forma di elusione, infuria una polemica politica al calor bianco. E che potrebbe presto trasferirsi clamorosamente nelle aule del Parlamento.

UN'ICI RADICALE. "Quante divisioni ha il Papa?", chiedeva Joseph Stalin a chi gli riportava le accuse del Vaticano. Si vedrà quando il Parlamento sarà chiamato a votare la maxi manovra balneare da 45 miliardi abborracciata dal governo per tentare di far fronte alla crisi economica. I radicali hanno infatti presentato un emendamento che farebbe cadere l'esenzione dall'Ici, l'imposta comunale sul mattone, per tutti gli immobili della Chiesa non utilizzati per finalità di culto (quelli cioè in cui si svolgono attività turistiche, assistenziali, didattiche, sportive e sanitarie, spesso in concorrenza con privati che al fisco non possono opporre scudi di sorta).

Una partita decisiva per la Santa Casta della Chiesa e per il suo vertice, una pletorica nomenklatura autoreferenziale e interamente formata per cooptazione che, secondo tutti i sondaggi più recenti, rischia di strappare alla partitocrazia la palma dell'impopolarità nazionale. Dopo averle già scippato il primato in termini di costo per la collettività.

L'ALTRA CASTA. Anni di trattative con la politica, spesso sfociati in accordi di favore ai confini con la legalità, hanno infatti assicurato alla Chiesa un pacchetto di privilegi che, tra sovvenzioni statali dirette e indirette (quelle garantite attraverso gli enti locali) ed esenzioni fiscali vale - secondo i calcoli di Curzio Maltese ("La Questua") - quattro miliardi e mezzo l'anno, 500 milioni in più rispetto all'apparato politico (ma in un altro libro Piergiorgio Odifreddi arriva addirittura a una cifra doppia). Una parte consistente di questa ricchissima torta deriva proprio dall'esenzione sull'Ici.

Un privilegio che una prudentissima analisi dei Comuni ha valutato in un mancato gettito fiscale compreso tra i 400 e i 700 milioni di euro l'anno (ma secondo Odifreddi le esenzioni fiscali immobiliari del Vaticano valgono invece dieci volte di più: 6 miliardi) e per il quale Roma rischia una salata condanna a Bruxelles per aiuti di Stato. Se il bonus venisse abrogato, allora anche tutto il resto potrebbe essere messo in discussione. In Vaticano è dunque allarme rosso. Anche perché la crociata lanciata dai radicali sta guadagnando consensi. Nei giorni scorsi l'incauta sortita contro l'evasione fiscale del capo dei vescovi, Angelo Bagnasco, ha suscitato una reazione forte in un Paese chiamato al sacrificio per fronteggiare la crisi. Nel giro di poche ore, su Internet decine di migliaia di firme (120 mila solo su Facebook) sono comparse in calce alla proposta di presentare al Vaticano il conto della manovra. Così ora anche il vertice dei Pd propone di dare una sforbiciata ai bonus della Santa Sede. Che ha spedito i suoi al contrattacco: "Vogliono tassare la beneficenza", s'è lamentato il direttore di "Avvenire", Marco Tarquinio, facendo balenare la prospettiva di una chiusura della Caritas.

QUANTI SANTI IN PARLAMENTO. I nemici sono forse più agguerriti di sempre. Ma la Chiesa è tutt'altro che disarmata: nei palazzi del potere romano il Vaticano dispone da sempre di una lobby formidabile, trasversale all'intero schieramento partitico e pronta a scattare al primo cenno di comando. Quella che lesta è entrata in azione, nell'autunno 2007, con il governo di Romano Prodi, per spazzare via con 240 voti contrari (contro appena 12 a favore) un emendamento della stessa maggioranza che avrebbe costretto gli enti ecclesiastici a pagare l'odiata Ici. La stessa che pochi mesi prima, stavolta a Montecitorio, era riuscita a mobilitare 435 voti intorno agli interessi fiscali della Chiesa. E che all'inizio di quest'anno ha strappato la conferma dello sconto milionario, inizialmente soppresso, anche nell'Imu, la nuova imposta destinata a sostituire l'Ici dal 2014. "Oggi c'è più attenzione mediatica rispetto al passato, ma alla fine non se ne farà nulla", dice sconsolato il deputato radicale Maurizio Turco, uno degli alfieri della battaglia contro i privilegi del Vaticano.

GRAZIE ALL'OTTO PER MILLE. Il pessimismo dei radicali è più che giustificato se si guarda alla storia dell'altro grande privilegio strappato dalla gerarchia ecclesiastica allo Stato e quindi in ultima analisi ai cittadini. Quello dell'otto per mille, messo a punto nel 1985 (con la consulenza di Giulio Tremonti) in sostituzione della cosiddetta congrua, e cioé dello stipendio di Stato ai sacerdoti. Un marchingegno furbetto: in teoria ogni contribuente può destinare la sua percentuale a una delle confessioni che hanno firmato l'intesa con lo Stato; in pratica funziona come un gigantesco sondaggio d'opinione, al termine del quale si contano le scelte effettuate, si calcolano le percentuali ottenute da ogni soggetto e in base a queste si ripartiscono tutti i fondi, compresi quelli di chi non ha espresso alcuna preferenza. Così, se coloro che mettono una croce sono solo una minoranza rispetto al totale, nel 2007 la Chiesa (attraverso la Conferenza episcopale) s'è vista assegnare l'85,01 per cento del montepremi. Non solo: ogni tre anni, secondo la legge, una commissione avrebbe dovuto valutare la congruità del gettito ed eventualmente rivedere la percentuale destinata alla Chiesa. Dell'organismo s'è subito persa ogni traccia. Eppure i numeri dicono che tra il 1990 e il 2008 l'incasso della Cei è salito di cinque volte (da 210 a 1003 milioni), mentre la spesa dei vescovi per il sostentamento dei preti è poco più che raddoppiata (da 145 a 373 milioni). La Chiesa dunque ci guadagna, eccome. Ma nessuno pensa di chiedere ai suoi dignitari di tirare la cinghia, come tocca fare ai comuni mortali.

MATTONE NASCOSTO. Logico dunque attendersi che la rete protettiva della Chiesa avvolga anche la partita Ici. Del resto, sono passati più di trent'anni da quando Gianluigi Melega è stato congedato dalla direzione de "L'Europeo" dopo la pubblicazione, alla fine del 1977, dell'inchiesta sugli immobili della Chiesa a Roma intitolata "Vaticano spa". Ma da allora nulla o quasi è cambiato. Appartamenti, uffici, negozi, capannoni e garage di proprietà della Chiesa sono sempre irrintracciabili. Tuttora una mappa del tesoro non esiste: un emendamento del radicale Turco alla Finanziaria 2008, che prevedeva un censimento del mattone vaticano, è stato considerato neanche meritevole di voto. Amen.  In barba a ogni esigenza di trasparenza, di fatto la Chiesa, proprio come i sindacati, non si sogna neanche di predisporre un bilancio consolidato. In quello della Santa Sede, per esempio, non sono compresi i numeri del governatorato della Città del Vaticano, né quelli dello Ior, delle conferenze episcopali e degli ordini religiosi. Così, chi si cimenta nel seguire le tracce delle singole sigle si ritrova davanti a un groviglio che avrebbe disorientato anche il mago Houdini. Quanto alle poche cifre ufficiali, compulsarle è davvero tempo perso: farebbero alzare il sopracciglio anche a un bambino. Per farsi un'idea basta provare a spulciare i conti dell'Amministrazione del patrimonio della sede apostolica: si legge di un portafoglio immobiliare di 430 milioni (dati 2006), capace di produrre un reddito di 36 milioni, a fronte di 18 di spese. Decisamente, i conti non tornano: vorrebbe dire infatti che l'Apsa è in grado di spremere dai suoi palazzi un rendimento dell'8,4 per cento, più di quattro volte superiore a quello che, in media, portano a casa gli enti previdenziali italiani. E dato che nessuno è così fesso da gonfiare artificialmente le proprie entrate, si deve supporre che sia il valore iscritto in bilancio a essere sottostimato di almeno tre quarti.

UN MILIARDO DI METRI QUADRATI. In mancanza di dati certificati, bisogna affidarsi alle valutazioni, più o meno spannometriche che siano. Quelle del gruppo Re (Religiosi ecclesiastici), da sempre vicino alla gerarchia vaticana nel business del mattone, attribuiscono alla Chiesa il 20-22 per cento dell'intero patrimonio immobiliare italiano, che è pari a 4,7 miliardi di metri quadrati. Se fosse vero ("La stima mi pare comunque esagerata", è la pallida smentita del presidente dell'Apsa, Domenico Calcagno) si arriverebbe appunto intorno a un miliardo di metri quadrati, per un valore approssimativo di 1.200 miliardi di euro. Per altri immobiliaristi non si va invece oltre i 100 milioni di metri quadrati: che tradotti in euro varrebbero comunque tre volte la manovra economica di quest'estate. Le inchieste condotte sul campo danno in ogni caso l'idea di un patrimonio davvero sconfinato. Secondo i dati raccolti dal solito Turco, che ha passato due anni a setacciare il catasto, solo a Roma la Chiesa avrebbe in portafoglio 23 mila immobili. E le sue proprietà sarebbero in continua crescita, dato che nel 2008 ha beneficiato di qualcosa come 8 mila donazioni (esentasse, ça va sans dire). Così, nel 2010, Propaganda Fide (una sorta di ministero degli Esteri vaticano, accreditato di immobili per complessivi 9 miliardi di euro) risulta intestataria a Roma di 2.211 vani e 325 terreni. Alla fine, comunque, tutte le indagini si sono arenate davanti ai depistaggi messi in campo dalla gerarchia vaticana. Non solo, per esempio, a Roma le proprietà sono suddivise tra una miriade di soggetti (circa duemila, tra cui 325 ordini femminili e 87 maschili). Di più: anche quelle che fanno capo a una stessa sigla risultano ben mimetizzate. E' il caso dei possedimenti di Propaganda Fide, che usa come schermo alle sue proprietà 48 denominazioni sociali diverse, sia pure sempre con lo stesso codice fiscale.

DESTRA E SINISTRA PARI SONO. Quello sull'Ici e il Vaticano (che in base al concordato non paga tasse sugli edifici di culto come le chiese) è un tormentone che va avanti da anni. Esattamente dal 2004, quando a mettere provvisoriamente fine alla diatriba tra comuni e Chiesa è intervenuta una sentenza della Cassazione, che ha dato ragione ai primi. A ribaltare il verdetto, a fine 2005, ci ha pensato il governo di Silvio Berlusconi, che, pressato dai vescovi, ha ribadito l'esenzione. L'anno dopo è toccata a Prodi, autore di un capolavoro di ambiguità all'italiana, in base al quale lo sconto vale solo per gli immobili in cui non si esercita un'attività esclusivamente commerciale. Basta dunque che una qualunque struttura, per esempio turistica, abbia una piccola cappella incorporata et voila: il gioco è fatto (secondo i comuni, oggi infatti la Chiesa paga solo nel 10 per cento dei casi in cui dovrebbe). Tutto regolare, ha stabilito all'epoca una commissione istituita dall'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. L'Unione europea, però, non l'ha bevuta.

MA BRUXELLES INDAGA. A quel punto, su iniziativa dei soliti radicali, la partita s'è dunque trasferita a Bruxelles. Che, dopo aver costretto la Spagna ad abolire l'esenzione Iva per la Chiesa, ha invece archiviato per due volte la pratica italiana. Ma è stata poi costretta a riaprirla quando gli autori della denuncia si sono rivolti alla Corte di giustizia. Nel mirino della commissione Ue (per la quale alcuni parlamentari italiani hanno invocato tutti seri la scomunica) ci sono, oltre all'esenzione Ici, lo sconto del 50 per cento sull'Ires concesso agli enti della Chiesa che operano nella sanità e nell'istruzione (valore: circa 500 milioni l'anno) e l'articolo 149 del Testo unico delle imposte sui redditi, che, in base a una logica stringente, conferisce a vita agli enti ecclesiastici la qualifica (e i relativi benefici fiscali) di enti non commerciali, indipendentemente dalla loro reale attività. Turco spera in Bruxelles più che in Roma: "A livello tecnico", dice, "i funzionari si sono già espressi, con un pollice verso alla normativa italiana". Resta il fatto che la Santa Casta della Chiesa sta giocando la sua partita con un mazzo di carte truccate. "Amministrare i beni della Chiesa", si legge in un solenne documento sottoscritto dai vescovi e datato 4 ottobre 2008, "esige chiarezza... su questo fronte, tuttavia, dobbiamo ancora crescere". Sante parole, davvero.

PARLIAMO DI OSPEDALI MAI NATI.

C’è l’ospedale fantasma di Pizzo Calabro, dove hanno costruito ascensori tanto minuscoli da non fare passare nemmeno le lettighe. C’è il mastodontico ospedale di Cagliari: nacque per la bellezza di 1.040 posti letto e adesso ne ospita appena un centinaio. E c’è pure l’ospedale di Turi, nel Barese, che doveva essere un centro per curare le tossicodipendenze. Invece è diventato regno di spacciatori e drogati. Tre eclatanti casi di sprechi all’italiana. Esempi tratti da una relazione, datata luglio 2000, della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario: 222 pagine che dettagliavano i risultati di un’indagine sugli ospedali mai terminati. Trovarono, all’epoca, 132 incompiute in 16 regioni. Nell’elenco c’era di tutto: costruzioni lasciate a metà, reparti incompleti, nosocomi finiti ma senza pazienti. Un mare di soldi pubblici buttati via. La relazione firmata dall’ex senatore dell’Ulivo Fernando Di Orio, oggi rettore dell’Università dell’Aquila, fece scalpore. Venne calcolato pure il danno per l'erario: 20 mila miliardi di lire, 10 miliardi di euro di oggi. Quasi una finanziaria. Da allora le cose non sono migliorate molto. "Panorama" ha verificato ospedale per ospedale, regione per regione. E ha scoperto che 45 strutture rimangono abbandonate, chiuse o non completate. In particolare, resta critica la situazione in Lazio, Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. Lo sperpero continua. Come anni fa. «Allora i soldi degli appalti erano usati spesso come finanziamento illecito ai partiti» dice Di Orio. «Si partiva, sotto elezioni, con un progetto faraonico e un piccolo stanziamento. Poi i costi lievitavano. E i lavori si fermavano fino alla successiva tornata elettorale. A Vico del Gargano, in provincia di Foggia, l'ospedale è stato inaugurato 11 volte. E non è mai entrato in funzione». Megalomanie immaginate negli anni Cinquanta e Sessanta, e poi ridimensionate. Ospedali che, nella stragrande maggioranza dei casi, nascono già vetusti.

Come quello dell’Aquila: in costruzione per 27 anni, venne inaugurato nel 2000, già vecchio e poco funzionale. Dieci anni dopo la Commissione annotava: «Irrazionalità e obsolescenza dell’impianto costruttivo, scarsa qualità dei materiali impiegati…». Come è finita, lo hanno visto tutti: il terremoto del 2009 lo ha sbriciolato. Tutti a gridare allo «scandalo». Ma, a luglio 2000, lo «scandalo» era già stato denunciato dalla relazione parlamentare.

PARLIAMO DI ENTI INUTILI.

Ma quanti sono gli enti inutili ?

Facendo una ricerca su Internet il risultato numerale è dei più vari: per la Gabanelli e per l’On. Borghezio che se ne occuparono in una puntata di Report, ce ne sono ben 300; per la Corte dei Conti ne rimangono 110 di quelli che fin del 1956 si sono iniziati a chiudere ufficialmente; per i Radicali e Libero ce ne sono 101.

Negli ultimi anni sia a Destra che a Sinistra s’è parlato di eliminarli: a maggio 2007 Rutelli esortava alla cancellazione in una intervista sul Corriere della Sera. L’allora Ministro dell’Economia ne individuò 130, ma ne chiuse solo 11: tra recuperi in extremis, problemi di liquidazione, ostacoli politici d’ogni genere, ben 119 rimangono in piedi. In compenso dal ‘98 è stato fondato l’Ispettorato generale per la liquidazione di enti disciolti (IGED): un nuovo ente preposto alla liquidazione degli enti inutili, che però fin’ora non ne ha liquidato neanche uno, dimostrandosi esso stesso… un ente inutile.

In buona sostanza in Italia è facile costituire un nuovo ente, che macini denaro e che permetta ad uno sparuto gruppo di persone (generalmente dirigenti “altolocati”) di percepire stipendi ragguardevoli tratti dal denaro pubblico e fringe benefits. Il difficile è poi liberarsi di questi polmoni inutili che alla collettività non portano nulla.

La politica sfortunatamente ha l’abitudine di metter bocca un po’ da per tutto, e quindi, se da una parte si è fatto sopravvivere un ente che si occupava di gestire la liquidazione delle Linee Aeree Littoree fino a pochi anni fa, dall’altra si chiudono uffici od enti che sono utili ed utilizzati, ma che sono politicamente scomodi, per poi doverli riaprire pochi anni dopo. E’ l’esempio del settore Moda della Camera di Commercio di Roma, che fino al 1981 si chiamava CRAMI e che, dopo una improvvida chiusura per spostare il centro d’interesse su Firenze (scelta che si dimostrò non all’altezza degli interessi degli operatori che all’epoca preferirono Milano), è stata riaperta nel 1998 con un nuovo nome: Alta Roma, azienda autonoma con partecipazione CCIAA che svolge le medesime attività dell’ufficio distaccato che l’ha preceduta. Dimostrazione che forse serviva davvero avere una struttura simile nella Capitale.

Gli enti inutili sono come i pidocchi. Tanti, tantissimi, non si sa con precisione neppure quanti siano. Sono fastidiosi, costosi, non servono a nulla e per di più sono difficilissimi da eliminare. Ogni governo dichiara guerra ai baracconi di Stato; ogni governo perde in partenza. Anche Prodi ci ha provato. Inutilmente. Il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa - come ha notato l’Espresso - aveva stilato una lista di ben 130 enti da sopprimere. È riuscito a cancellarne appena 11.

Queste realtà semi-immortali, insomma, sono come le croste: gratti, gratti ma è impossibile mandarle via. Eppure è mezzo secolo che si cerca di estirpare la gramigna degli enti inutili. La Corte dei conti, di recente, ne ha fatto la cronistoria. La prima legge sulla soppressione degli enti inutili è del 1956. Allora ne censirono più di 600. Il primo a essere cancellato fu il consorzio provinciale tra macellai per le carni di Napoli. Ci si è accorti subito che eliminarli definitivamente è impresa titanica. Per sbarazzarsi definitivamente delle Lati, linee aeree transcontinentali italiane fondate da Italo Balbo, ci sono voluti 49 anni!

Il problema è che questi «burosauri» sono facili da creare, difficilissimi da distruggere. Innanzitutto ci sono i veti politici. Ma, superati quelli, la strada resta in salita. Bisogna nominare il liquidatore, censire il patrimonio, gestire crediti e debiti, risolvere i contenziosi. Poi, finalmente, si può chiudere baracca. I contenziosi, appunto: un avvocato dà ossigeno all’Ente per la carta e la cellulosa perché rivendica il pagamento di parcelle di oltre 20 milioni di euro. E la Lati, senza sede né dipendenti, è rimasta viva per decenni a causa di una vertenza col governo brasiliano a proposito di un terreno del valore di circa 15mila euro.

Nel 1998 è nato l’Iged (Ispettorato generale per la liquidazione di enti disciolti): un ente inutile che non è riuscito a eliminare gli enti inutili e quindi finito nella lista dei «da sopprimere». E la patata bollente è passata così nella mani della Fintecna, società esterna controllata dallo Stato. Ma spazzare via questi mostri è un vero incubo: se l’Inpdap avanza crediti all’ex Enpas, il quale ne vanta dall’ex Enpded, si capisce che il pasticcio è di quelli tosti. La soluzione? L’onorevole azzurro Enrico Costa non ha dubbi, ci vuole la bomba atomica: «Il nuovo Parlamento dovrà subito autorizzare procedure semplificate. Dal bisturi occorre passare all’accetta».

PARLIAMO DI BUROCRAZIA A FONDO PERDUTO: 500.000 DIPENDENTI DEGLI ENTI LOCALI COSTANO 18 MILIARDI DI EURO ANNUI.

Questo risulta dal censimento del Ministero dell’Interno. Sono sempre di più i dipendenti pubblici. Premiati e promossi senza merito, quasi mai puniti. Così per il personale di comuni, province e comunità montane spendono 18 miliardi. Un terzo delle risorse.

PARLIAMO DI BUROCRAZIA CLIENTELARE: 100.000 DIPENDENTI PUBBLICI ASSUNTI IN SANATORIA COSTANO 1 MILIARDO DI EURO ANNUI.

Tanto costa la presa per i fondelli attuata da istituzioni e media. E’ passata sotto una falsa contrapposizione politica la sanatoria di 100 mila precari della Pubblica Amministrazione. Assunti per clientelismo e nepotismo a tempo determinato, diventano dipendenti pubblici senza concorso, in virtù di una norma inserita nell’ultima legge finanziaria del governo Prodi. I politici di sinistra e i sindacati, prima li hanno assunti a tempo determinato, poi hanno avuto il coraggio di equiparare in tv questi signori ai veri precari: lavoratori sfruttati e non tutelati da nessuno. 

PARLIAMO DI FINANZIAMENTI A FONDO PERDUTO: OFFRE LO STATO E IL 60% DEI FINANZIAMENTI VA PERDUTO.

Una legge famigerata, la 488, una rete di amici (il politico, l'industriale, il consulente commercialista). Triangolazione perfetta e risultato chiavi in mano: ogni dieci euro che lo Stato italiano stanzia per finanziarie attività produttive, sei euro vengono perduti.

PARLIAMO DI AEROPORTI INUTILI ED INUTILIZZATI.

Sono 102 gli scali, a volte solo con 16 passeggeri all'anno. Ultimo arrivato Viterbo.

PARLIAMO DELLE COMPAGNIE AEREE INUTILI E DANNOSE: ALITALIA, 4,5 MILIARDI SBORSATI.

Un baraccone di Stato che ha dissanguato l’Italia. Non sono i bastati i 4,5 miliardi sborsati negli ultimi anni dal Tesoro né la raffica di supermanager pagati a peso d’oro per evitare il tracollo. Un destino annunciato che arriva dopo venti anni di bilanci quasi tutti in rosso, il fallimento di ben undici piani industriali e passaggi di consegne tra sette amministratori delegati. Ma la compagnia di bandiera sarà ricordata anche per altri primati. Sempre in negativo.

Negli ultimi anni Alitalia ha perso, in media, un milione di euro al giorno ed accumulato ore di sciopero come nessun altro vettore.

PARLIAMO DELLE COMPAGNIE MARITTIME INUTILI E DANNOSE.

Traghetti vecchi, nessun controllo, informazioni oscure, ruggine e incuria persino sulle scialuppe.

PARLIAMO DI FORAGGIAMENTO DEI PARTITI, COMPRESI QUELLI ESTINTI.

La Legge Piccoli n. 195/1974. Il finanziamento pubblico ai partiti è introdotto dalla Legge Piccoli n.195/1974, che interpreta il sostegno all'iniziativa politica come puro finanziamento alle strutture dei partiti presenti in Parlamento, con l'effetto di penalizzare le nuove formazioni politiche. Il flusso di fondi ha anche l'effetto di rafforzare gli apparati burocratici interni dei partiti e disincentivare la partecipazione interna. Proposta da  Flaminio Piccoli (DC), la norma viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, ad eccezione del PLI. La nuova norma si giustifica in base agli scandali Trabucchi del 1965 e petroli del 1973: il Parlamento intende rassicurare l'opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi interessi economici. A bilanciare tale previsione, si introduce un divieto - per i partiti - di percepire finanziamenti da strutture pubbliche ed un obbligo (penalmente sanzionato) di pubblicità e di iscrizione a bilancio dei finanziamenti provenienti da privati, se superiori ad un modico ammontare. Ciò risulta tuttavia smentito dagli scandali affiorati successivamente (tra cui i casi Lockheed e Sindona). Nel settembre 1974 il PLI propone un referendum abrogativo sulla norma, ma non riesce a raccogliere le firme necessarie.

Il fallito referendum abrogativo del 1978. L'11 giugno 1978 si tiene il referendum indetto dai Radicali per l'abrogazione della legge 195/1974. Nonostante l'invito a votare "no" da parte dei partiti che rappresentano il 97% dell'elettorato, il "si" raggiunge il 43,6%, pur senza avere successo. Secondo i promotori del referendum lo Stato deve favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non garantire le strutture e gli appartati di partito, che devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti.

Le prime modifiche negli anni '80. Nel 1980 una proposta di legge vorrebbe introdurre il raddoppio del finanziamento pubblico, ma viene messa da parte al momento dell'esplosione dello scandalo Caltagirone, con finanziamenti elargiti dagli imprenditori a partiti e a politici.

La Legge 659/1981 introduce le prime modifiche: i finanziamenti pubblici vengono raddoppiati; partiti e politici (eletti, candidati o aventi cariche di partito) hanno il divieto di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici o a partecipazione pubblica; viene introdotta una nuova forma di pubblicità dei bilanci: i partiti devono depositare un rendiconto finanziario annuale su entrate e uscite, per quanto non siano soggetti a controlli effettivi. I Radicali manifestano in aula parlamentare con tecniche di ostruzionismo per bloccare la proposta di indicizzazione dei finanziamenti e a ottenere maggiore trasparenza dei bilanci dei partiti nonché controlli efficaci.

Il referendum del 1993 e l'abrogazione della norma. Il referendum abrogativo promosso dai Radicali Italiani dell'aprile 1993 vede il 90,3% dei voti espressi a favore dell'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, nel clima di sfiducia che succede allo scandalo di Tangentopoli.

La reintroduzione dei "rimborsi elettorali" nel 1994. Nello stesso dicembre 1993 il Parlamento aggiorna (con la Legge 515/1993) la già esistente legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”, subito applicata in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994. Per l'intera legislatura vengono erogati in unica soluzione 47 milioni di euro. La stessa norma viene applicata in occasione delle successive elezioni politiche del 21 aprile 1996.

Il 4 per mille ai partiti politici (1997). La Legge 2/1997, intitolata “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici”, reintroduce di fatto il finanziamento pubblico ai partiti. Il provvedimento prevede la possibilità per i contribuenti, al momento della dichiarazione dei redditi, di destinare il 4 per mille dell'imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito), per un totale massimo di 56.810.000 euro, da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. Per il solo anno 1997 viene introdotta una norma transitoria che fissa un fondo di 82.633.000 euro per l'anno in corso. Il Comitato radicale promotore del referendum del 1993 sull’abolizione del finanziamento pubblico tenta il ricorso rispetto al tradimento dell’esito referendario, ma pur essendo stato riconosciuto in precedenza come potere dello Stato, gli viene negata dalla Corte Costituzionale la possibilità di depositare tale ricorso. Sempre la legge 2/1997 introduce l'obbligo per i partiti di redigere un bilancio per competenza, comprendente stato patrimoniale e conto economico, il cui controllo è affidato alla Presidenza della Camera. La Corte dei Conti può controllare solo il rendiconto delle spese elettorali. L’adesione alla contribuzione volontaria per destinare il 4 per mille ai partiti resta minima.

Il "rimborso elettorale" (1999). La Legge 157/1999, dietro il titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” reintroduce un finanziamento pubblico completo per i partiti. Il rimborso elettorale previsto non ha infatti attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. La legge 157 prevede cinque fondi: per elezioni alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo, Regionali, e per i referendum, erogati in rate annuali, per 193.713.000 euro in caso di legislatura politica completa (l'erogazione viene interrotta in caso di fine anticipata della legislatura). La legge entra in vigore con le elezioni politiche italiane del 2001.

La normativa viene modificata dalla Legge 156/2002, “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”, che trasforma in annuale il fondo e abbassa dal 4 all'1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa più che raddoppia, passando da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro.

Infine, con la Legge 51/2006, l’erogazione è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. Con quest’ultima modifica l’aumento è esponenziale. Con la crisi politica italiana del 2008, i partiti iniziano a percepire il doppio dei fondi, giacché ricevono contemporaneamente le quote annuali relative alla XV e alla XVI Legislatura.

Esemplare è l’inchiesta di Alberto Custodero ed Enrico Del Mercato su “La Repubblica”.

Di alcuni non è  rimasto che il simbolo, assemblee di ex che vengono convocate di tanto in tanto e, forse, il ricordo di qualche elettore nostalgico. Altri, invece, hanno sedi, strutture, impiegati, ma da anni non hanno nessun rappresentante in parlamento. Eppure, i "partiti fantasma" continuano ad incassare soldi dallo Stato. L'ultima rata, relativa ai rimborsi per le elezioni regionali del 2007 in Molise, arriverà prima della fine dell'anno 2011. E così, la cifra incamerata dai partiti che non ci sono più, toccherà la vertiginosa quota di 500 milioni di euro. Spicciolo più, spicciolo meno. Per intendersi, è una somma pari allo stanziamento del governo per Roma capitale quella che è finita in questi anni nella pancia di sigle che si supponevano scomparse dalla scena della politica, come Forza Italia, Alleanza nazionale, Democratici di Sinistra, Margherita, oppure di partiti che gli elettori hanno cancellato dal parlamento e che sono stati smontati e rimontati da scissioni e nuove aggregazioni come Rifondazione comunista, i Verdi, perfino l'Udeur di Mastella o un partito personale come "Nuova Sicilia" il cui dominus è Bartolo Pellegrino- un ex deputato dell' assemblea regionale siciliana recentemente assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa - che fino allo scorso anno ha percepito circa centomila euro di rimborso elettorale. Nulla, se confrontato a quanto ha potuto iscrivere nei propri bilanci il più ricco dei "partiti fantasma", Forza Italia. Quella che fu la creatura di Silvio Berlusconi, nata nel 1994 e sacrificata nel 2007 per fare posto al Pdl, ha continuato ad incamerare i rimborsi elettorali fino ad arrivare, nel 2010, alla cifra monstre di 96 milioni di euro. Molto staccati, in questa classifica, i Democratici di sinistra che hanno potuto iscrivere in bilancio 74 milioni di euro e spiccioli. Soldi che - per ammissione del tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti - sono stati rapidamente pignorati dalle banche ed adoperati per chiudere la partita di debiti ereditata dal vecchio Pci. Alla Margherita, altro partito formalmente cancellato, invece, è andata meglio. I 42 milioni di euro di rimborsi incassati, ad onta della scomparsa dalla scena politica, sono tutti lì. E, anzi, intorno a quella eredità si è accesa una disputa alla quale partecipano pure parlamentari che, nel frattempo, hanno preso altre direzioni, accasandosi in altri partiti o inaugurandone di nuovi. Ma come è stato possibile che partiti scomparsi dalla scena o bocciati dagli elettori abbiano continuato ad incassare soldi pubblici a titolo di rimborso elettorale? Quanto hanno pesato i rimborsi ai "partiti fantasma" sulle tasche dei cittadini? E, soprattutto, che fine hanno fatto quei soldi?

La chiave di tutto è nel comma di un articolo accuratamente nascosto nelle pieghe della legge mille proroghe che viene discussa e approvata in parlamento il 2 febbraio del 2006. In quella norma sta scritto che il rimborso elettorale (che la legge numero 157 del 1999 fissa in un euro per ogni cittadino iscritto nelle liste elettorali da dividere percentualmente in base ai voti ricevuti) spetta ai partiti anche in caso di chiusura anticipata della legislatura. Dunque, lo Stato continua a versare i soldi ai partiti per tutti e cinque gli anni, anche se il parlamento è stato sciolto. Adesso, la legge è stata corretta, ma le nuove regole varranno solo a partire dalle prossime elezioni. Comunque, una settimana dopo quel blitz del febbraio 2006, guarda caso, la legislatura si chiude. Si torna al voto. Vince l' Unione di Prodi per una manciata di preferenze e il leader del centrosinistra governa, sul filo di lana, per meno di due anni. Poi, cade e il Paese torna alle urne. Nel frattempo, però, nella politica italiana va in scena l'ennesima rivoluzione. Spariscono partiti (Forza Italia, An, i Ds, La Margherita), ne nascono di nuovi (il Pd e il Pdl) e, nelle urne, gli italiani polarizzano i loro consensi sulle formazioni maggiori lasciando fuori dalle aule parlamentari forze politiche come Rifondazione comunista, i Verdi, l'Udeur. Una semplificazione dalla quale dovrebbe derivare anche un risparmio in termini di rimborsi elettorali. Nulla di tutto ciò, dal momento che - grazie a quel comma approvato in fretta e furia nel febbraio del 2006 alla vigilia dello scioglimento delle Camere - i partiti che non esistono più continuano ad incassare i rimborsi elettorali. Non si tratta di bruscolini dal momento che il totale per il periodo 2006-2011 ammonta a 499,6 milioni di euro. Una somma che viene divisa tra i partiti che sono sopravvissuti alla rivoluzione e quelli che non esistono più o che non sono più rappresentati in parlamento. Come se non bastasse, a quella cifra vanno aggiunti i rimborsi che spettano per la legislatura in corso e quelli relativi alle regionali e alle europee del 2004, del 2005 e del 2006. L'anno d'oro, per i partiti italiani, è senza dubbio il 2008. In quella stagione - come accertato dalla Corte dei conti - nella casse della formazioni politiche, quelle in vita e quelle "defunte", finiscono - nell' ordine - la terza rata del rimborso per le politiche del 2006 che vale 99,9 milioni di euro, la prima rata del rimborso per le politiche del 2008 che ammonta a 100,6 milioni di euro, i 41,6 milioni di euro della quarta rata del contributo dovuto per le regionali del 2005 e la quinta rata del rimborso per le europee del 2004 che vale 49,4 milioni di euro. In tutto, fanno 291,5 milioni di euro. Ce n'è abbastanza per dedurne - come fa l'ex ministro della Difesa Arturo Parisi - che «la volontà dei cittadini espressa attraverso il referendum che aboliva il finanziamento pubblico ai partiti è stata raggirata». Dice Parisi: «Siccome la legge prevede che il contributo assuma la forma di rimborso elettorale ciò obbliga l'amministratore del partito a non potervi rinunciare. Dal momento che, se vi rinunciasse, potrebbe essere denunciato per cattiva amministrazione. Ecco come è stato aggirato il referendum che vietava qualsiasi finanziamento ai partiti da parte dello Stato».

Eppure, Arturo Parisi gode di un osservatorio privilegiato in tema di soldi versati dallo Stato ai "partiti fantasma". L'ex ministro, infatti, fa parte dell' assemblea della Margherita partito confluito nel Pd, ma che ha continuato ad incassare rimborsi elettorali. «Di solito le riunioni dell'assemblea per discutere i bilanci - ironizza Parisi - vengono convocate in orari come quello del matrimonio di Renzo e Lucia». L'ultima volta l' assemblea dei "superstiti" della Margherita non è riuscita a decidere nulla sul bilancio ed ha deciso di riaggiornarsi. Ovvio, dal momento che la Margherita, trai "partiti fantasma", è quello con le maggiori disponibilità. Quasi nessun debito pregresso, il personale ormai tutto trasferito nei ranghi del Pd. A parte le spese sostenute per tenere in vita il quotidiano Europa, i rimborsi elettorali incassati in questi anni sono in gran parte ancora lì. L' ultimo bilancio consultabile, quello del 2009, racconta di una disponibilità liquida di 24 milioni e 636 mila euro. Ma, per ammissione del tesoriere Luigi Lusi, la somma rimasta in pancia al partito che dovrebbe chiudere i battenti è ancora superiore. Cosa farne di quei soldi? Lo decideranno gli organismi superstiti del partito che non c' è più. Il fatto è che dell'organismo chiamato a decidere sull'eredità milionaria della Margherita, fanno parte anche parlamentari che, nel frattempo, si sono accasati altrove. Per esempio, a presiedere la Margherita è Francesco Rutelli, oggi leader dell'Api. E, di quella assemblea, fa parte anche Enzo Carra che oggi milita nell'Udc. Carra è uno che nella sua lunghissima carriera politica ne ha viste tante, eppure si è stupito nell'apprendere i farraginosi meccanismi studiati per decidere chi debba avere accesso all' assemblea della Margherita. Racconta Carra: «Ho incrociato un collega in Transatlantico e gli ho chiesto: "scusa ma perché io e Lusetti non siamo stati invitati alla assemblea della Margherita visto che facciamo parte dell'organismo?" Quello per tutta risposta mi ha detto: "vuoi decidere anche tu su come dividere il rimborso elettorale?". Ora, a parte che ne ho il diritto ho appreso che saranno ammessi all'assemblea tutti quelli che militano in partiti che stanno all'opposizione dell'attuale maggioranza. Dunque, noi dovremmo esserci». In ogni caso, Carra, Lusetti e altri hanno allo studio un'azione legale. Evidentemente l'eredità della Margherita fa gola a tanti. Anche a quelli che sono andati via.

Che i "partiti fantasma" siano destinati ad aggirarsi ancora per un po' sulla scena della politica italiana, lo si capisce leggendo la relazione al bilancio 2009 di Forza Italia firmata dal tesoriere Sandro Bondi. Scrive Bondi: «Il movimento (Forza Italia ndr) resterà in attività almeno fino a tutto il 2012 anche per consentire la presentazione dei propri rendiconti annuali, a norma di legge indispensabili per completare l'incasso dei residui rimborsi spese elettorali rimasti di propria diretta pertinenza e per permettere la percezione da parte dell'istituto di credito interessato dei crediti elettorali ad esso ceduti nel 2007, le cui erogazioni in caso diverso sarebbero sospese». In pratica, a partire dal 2006, Forza Italia ha incassato non solo i rimborsi elettorali riconosciuti per la legislatura che si è interrotta in anticipo, ma anche una quota di quelli spettanti al Pdl per il periodo 2008-2013. Dietro il matrimonio tra Forza Italia e An che ha portato alla nascita del Pdl, infatti, c' è un accordo da fare invidia ai patti da osservare in caso di divorzio sottoscritti da star del cinema e regnanti. In base a quel contratto il Pdl ha ceduto a una banca l'intero ammontare del rimborso elettorale che gli spetta per il periodo 2008-2013 (si tratta di circa 40 milioni di euro l'anno) facendosi liquidare in anticipo l'importo e dividendone il cinquanta per cento tra An e Forza Italia. Come dire, lo Stato paga il rimborso elettorale a un partito che ha partecipato alle elezioni, ma quei soldi vanno, in gran parte, a partiti che non esistono più. E che useranno quei soldi per prolungare la loro presenza da "fantasmi". È il caso di Alleanza nazionale che, per gli elettori ha chiuso i battenti all'inizio del 2008, ma che ha ancora una sede, un comitato di gestione e, soprattutto, ha continuato ad incassare i soldi del rimborso elettorale. Al punto da chiudere il bilancio del 2009 con un attivo di 75 milioni di euro. Che fine faranno quei soldi? Serviranno a mettere in piedi la fondazione Alleanza nazionale che avrà come obiettivo - si legge nella relazione al bilancio - quello di «determinare l'affermazione, la diffusione e la comunicazione dei modelli sociali, culturali e politici legati alla sua tradizione». Il tutto anche grazie al denaro pubblico che doveva servire solo a coprire le spese elettorali sostenute nel 2006. Ma, intorno al fiume di denaro che inonda le casse dei partiti, si addensano altri interrogativi. Come viene determinato l'ammontare dei rimborsi? E quanto spendono davvero i partiti per le campagne elettorali?

Ecco, appunto. Le spese elettorali e la loro copertura. A guardare bene, i soldi che i partiti hanno ricevuto a titolo di rimborso sono molti di più di quelli che hanno tirato fuori per stampare manifesti e volantini o per organizzare comizi. La Corte dei conti è andata a spulciare tra le fatture e ha scoperto, per esempio, che per le politiche del 2008 la Lega Nord ha dichiarato spese elettorali per 2 milioni e 940 mila euro e ha incassato, come rimborsi, la bellezza di 41 milioni e 385 mila euro. Tanto per spostarsi sull'altro fronte dello schieramento, Rifondazione comunista per le elezioni del 2006 ha dichiarato spese per un milione e 636 mila euro. Sapete quanto ha avuto di rimborso? Sei milioni e 987 mila euro. Che tra l'altro sono stati versati nelle casse del partito fino allo scorso anno, nonostante in parlamento non sedesse più da anni neppure un rappresentante del partito. Adesso, però, il rubinetto dei rimborsi per la legislatura finita in anticipo si è chiuso. E per Rifondazione, si annunciano tempi davvero duri. Nella relazione al bilancio, il tesoriere lo dice senza mezzi termini: «Rischiamo di chiudere bottega».

PARLIAMO DEI VOLI DI STATO.

180 mila euro al giorno per far viaggiare lor signori.

PARLIAMO DELLE AUTO BLU.

Le auto blu a carico solo dello Stato sono almeno 90 mila, tra blu-blu, blu e grigie. Poi ci sono le altre..........In tutto 630 mila. Costo: 21 miliardi di euro.

Le auto blu in dotazione alle pubbliche amministrazioni sono circa 30mila. Di queste 10mila sono le auto “blu blu” in dotazione dei politici cioè dal Capo dello Stato in giù. Mentre 20mila sono quelle "blu” degli alti papaveri dello Stato. In media, ogni singola auto, costa circa 3.300 euro l'anno. Questi sono i primi risultati emersi da un’indagine condotta per la prima volta dal ministero della Funzione Pubblica attraverso il Formez. Indagine avviata il 15 maggio 2010 dallo stesso ministero della Pubblica amministrazione. I dati sono stati resi noti dal Ministro Renato Brunetta: «Abbiamo cercato di circoscrivere l'universo delle auto blu e, dal monitoraggio che abbiamo avviato attraverso un questionario inviato a 9.199 amministrazioni centrali e locali, risulta chiarissimo che le “auto blu-blu” sono attorno alle 10mila, quelle in dotazione agli “eletti” - ha dichiarato Brunetta - quanto alle auto blu semplici, in dotazione agli “alti papaveri”, ossia alti funzionari della pubblica amministrazione, sono circa 20mila». Ma il ministro si è soffermato anche su un altro punto: il parco automobili della Pubblica amministrazione è ben più ampio, ci sono altre 60mila auto cosiddette “grigie” che sono ancora in fase da verificare e che sono quelle «senza autista, a disposizione degli uffici per attività prettamente operative». L'obiettivo di Brunetta è quello di fare chiarezza sulla questione delle auto della Pubblica Amministrazione per «contrastare leggende metropolitane spesso propagandate senza statistica metodologica». Il ministro comunque ha segnalato che «si spende molto e che la cifra più rilevante è relativa al carburante e quindi non tanto sul parco macchine in se.

Secondo altri dati le auto blu in Italia sono in tutto 629.120. Cifre clamorose rispetto a qualsiasi altro Paese: 73mila negli Stati Uniti; 65mila in Francia; 55mila nel Regno Unito; 54mila in Germania; 44mila in Spagna; 35mila in Giappone; 34mila in Grecia; 23mila in Portogallo. Le auto blu del belpaese sono aumentate del 6% in due anni secondo uno studio realizzato da Contribuenti.it - Associazione Contribuenti Italiani con "Lo Sportello del Contribuente". Un dossier compilato analizzando il parco auto esistente, sia proprie che in leasing, in noleggio operativo ed in noleggio lungo termine, presso il Parlamento, Governo, Procure della Repubblica, Regioni, Province, Comuni, Municipalità, Asl, Comunità montane, Enti pubblici, Enti pubblici non economici e Società misto pubblico-private, Società per azioni a totale partecipazione pubblica. Eppure esisteva una legge del 1991 che limitava l'uso esclusivo delle auto blu ai soli ministri, sottosegretari e ad alcuni Direttori generali, si sono sempre proposte regolamentazioni e tagli, mai effettuati. Le auto blu costano ai contribuenti italiani 21 miliardi di euro l’anno (42mila miliardi delle vecchie lire) che se ne vanno fra stipendi degli autisti, carburante, pedaggi autostradali, leasing e noleggio. Qualcuno si è preso la briga di calcolare che se fossero parcheggiate tutte insieme coprirebbero 1.200 campi di calcio.

Le auto blu? Un concentrato di inaccettabili privilegi. Non soltanto sono troppe e troppo costose per le casse dello Stato, ma molto spesso non sono neppure identificabili perché dotate di targhe «fantasma». A denunciare l’inghippo è il mensile Quattroruote, di Editoriale Domus, nel numero di luglio 2010. La rivista ha preso di mira una trentina di macchine di servizio che sono state fotografate mentre erano parcheggiate intorno ai palazzi romani della politica: Senato, Camera e Palazzo Chigi. Ha scoperto così che un quarto delle auto esaminate non risulta nemmeno iscritto al Pubblico Registro Automobilistico, Pra. Se si mantenesse lo stesso rapporto in assoluto, sarebbero quindi circa 45mila le vetture non registrate in tutta Italia. Che cosa succede dunque se una di queste auto viene coinvolta in un incidente? Senza una targa diventa impossibile identificare legalmente il conducente. In caso di infortunio dunque diventa necessario rivolgersi alla Motorizzazione civile che, per rendere noto il nome del proprietario, impone la richiesta da parte di un avvocato o di uno studio legale. La mancata registrazione al Pra, resa possibile in virtù di un Regio decreto del 1927, comporta dunque costi notevoli e inutile dispendio di tempo da parte dei cittadini. E infatti in caso di danni di modesta entità, spesso le vittime dei sinistri finiscono per rinunciare alla richiesta di risarcimento.

Non è questo l’unico inghippo denunciato dal mensile Quattroruote. Chi ha la targa dell’automobile che comincia con le lettere «CD» rischia infatti di vedersi recapitare a casa le multe di diplomatici e consoli. La rivista rivela come in Italia circolino vetture del Corpo consolare e del Corpo diplomatico che hanno sequenze alfanumeriche uguali a quelle di normali auto in circolazione. L’unica variante, precisano, è il colore che nelle prime è azzurro. Questa differenza però non è rilevabile dai dispositivi che registrano le irregolarità e dunque le multe vengono recapitate a innocenti automobilisti. Un altro pasticcio, denuncia la rivista, è da attribuire al Poligrafico, incapace di gestire quanto previsto da un decreto ministeriale del ’95, ovvero che le targhe in questione abbiano una combinazione di due lettere, quattro numeri e due lettere per distinguerle da quelle normali. Se non si segue la combinazione giusta le targhe si sovrappongono e le multe arrivano anche a chi non ha commesso infrazioni.

PARLIAMO DELLE PENSIONI FARAONICHE.

Mentre la crisi affonda i cittadini italiani, ci sono 495 persone che vivono di privilegi. Nel pensiero comune è un’idea diffusa, ma Mario Giordano, direttore di NewsMediaset e collaboratore de Il Giornale, ha fatto di più, mettendoli nero su bianco in un libro che ha fatto arrabbiare già un milione d’italiani. “Sanguisughe, le pensioni d'oro che ci prosciugano le tasche” (Edizione Mondadori. Paradossale è il parlamentare, che per un solo giorno di carica, perché poi destituito, intasca una pensione di 3mila euro al mese, mentre ci sono cittadini che sognano anche solo di poterla ricevere. Incredibile il solo pensiero che ai mafiosi cui sono stati confiscati i beni sia data la pensione sociale. «C'è anche chi alla fine del mese arriva a percepire una pensione di 0,78 centesimi di euro. Non possiamo far finta di niente. Il mio libro nasce con la speranza che qualcosa possa cambiare. Penso che chiunque lo legga non possa non restare indignato, e per me indignarsi è sempre positivo. Poi ci sono due strade: o ci metti la faccia e t’impegni quotidianamente per cambiare le cose, o pensi che non ci puoi fare niente. Io ci metto la faccia», così afferma Giordano. E se non sono sufficienti gli esempi sopra citati, ci sono addirittura casi di magistrati, parlamentari e onorevoli che arrivano a percepire sino a tre pensioni contemporaneamente: Giuliano Amato percepisce 31.411 euro lordi al mese (1.047 euro al giorno) e percepisce due pensioni, quella da ex docente universitario e quella da ex parlamentare; Oscar Luigi Scalfaro quella da senatore a vita e quella da magistrato; la pensione di Rocco Buttiglione è di 3.258 euro netti come professore universitario da sommare all'indennità parlamentare. Questi sono solo alcuni tra artisti, politici e tanti altro che, appunto come sanguisughe, vivono sulle spalle di chi i sacrifici li fa davvero, le persone comuni.

495 persone che vivono “sulle tasche” degli italiani, gli stessi italiani che non arrivano alla fine del mese, la cui disoccupazione è del 30% e che la pensione, almeno per quanto riguarda i giovani, possono solo sognarla (a causa del precariato). Leggendo il libro di Giordano non si può non rimanere sbigottiti di fronte a tanta ingiustizia e spreco, soprattutto per la situazione di chi, ogni giorno, sacrifica qualcosa non per avere la propria pensione ma per pagarla a qualcuno che, già di suo, è un privilegiato. La nostra classe dirigente va in pensione senza lavorare. L'ultimo libro inchiesta di Mario Giordano fa venire la pelle d'oca: smaschera la schiera di coloro che hanno vissuto da privilegiati. In questo Paese bello e maledetto, sono un esercito di 495 mila unità. C' è anche l'attuale moglie del Senatur Bossi, al secolo Manuela Marrone. E' dal 1992, quando aveva la veneranda età di 39 anni, che percepisce i suoi 766,37 euro al mese. Non molti, ma comunque troppi. Da allora, scrive Giordano, «fra le attività che ha seguito con più passione c'è la scuola elementare Bosina, da lei medesima fondata nel 1998, “la scuola della tua terra”, che educa i bambini attraverso la scoperta delle radici culturali, anche con racconti popolari, leggende, fiabe, filastrocche legate alle tradizioni locali. E sarà un caso che nelle pieghe della Finanziaria 2010, fra tanti tagli e sacrifici, sono stati trovati i soldi per dare un bel finanziamento, (800 mila euro) proprio alla Bosina?». Ma è una cosa normale in questo Paese, dove non ci si indigna nemmeno se il ripetente figlio della signora è consigliere regionale della Regione Lombardia senza avere maturato una lunga e approfondita gavetta.

Ma la signora Bossi è in allegra compagnia: anche gli artisti possono permettersi di non lavorare.

1) Adriano Celentano: in pensione da quando aveva 50 anni.

2) Sophia Loren e Raffaella Carrà: in pensione dai 53.

3) Carlo Callieri: 5.000 euro al mese da quando aveva 57 anni.

E non scherzano nemmeno gli assegnatari delle pensioni 'a cumulo'. I parlamentari, gli onorevoli di ogni ordine e grado e i magistrati possono prenderne fino a tre. Qualche esempio, tanto per gradire:

1) Giuliano Amato: 31.411 euro lordi al mese (1.047 euro al giorno), che netti sono circa 17mila. L'ex presidente del Consiglio, in pensione da quando aveva 59 anni, ha due pensioni: quella da ex docente universitario e quella da ex parlamentare.

2) Oscar Luigi Scalfaro ha due pensioni, quella da senatore a vita e quella da magistrato (ma ha indossato una toga solo per 36 mesi, fra il 1943 e il 1946). Totale: 15.000 euro netti.

3) Rocco Buttiglione, la pensione di 3.258 euro netti come professore universitario da sommare all'indennità parlamentare.

4) Romano Prodi prende tre vitalizi, quello da ex Presidente della Commissione europea, quello da ex docente e alla fine quello da ex parlamentare. Totale: 14.254 euro lordi al mese.

5) Franco Marini, deputato Pd, che oltre all'indennità parlamentare prende circa 2.500 euro da quando aveva 57 anni.

E questi sono solo alcuni degli esempi 'bomba' che fa Giordano nel suo libro.

Sono davvero meritati tutti questi soldi? Sono davvero produttivi i nostri governanti? E soprattutto: quali saranno le conclusioni che un cittadino normale trarrà quando sentirà parlare di innalzamento dell'età pensionabile? Disillusione. Malcontento. Rabbia. Sgomento. E sempre meno voglia di alzarsi la mattina per fare andare avanti questo benedetto Paese. Per molti la pensione è un sogno. Per alcuni diventa davvero poco onorevole, come per esempio per Antonio Di Pietro, ex magistrato di Mani Pulite e presidente del partito L'Italia dei Valori. Lo sostiene il giornalista Mario Giordano nel suo libro. È il caso del sessantenne parlamentare bergamasco che da ormai quindici anni, dal 1° settembre del 1995 quando a 44 anni ha lasciato la magistratura, percepisce una pensione di circa 2mila euro al mese. I cedolini sono «in carico alla provincia di Bergamo» che ogni mese fa transitare sul conto corrente dell'onorevole Di Pietro la pensione da magistrato: 2.644,57 euro lordi al mese, 1956 euro netti. «Che forse non saranno molti – scrive Giordano – ma sono sempre quasi cinque volte più della minima. E che si vanno a cumulare senza alcuna decurtazione al ricco stipendio da parlamentare. Non male per chi passa le sue giornate a tuonare contro i privilegi altrui, non è vero?». Con la sua scrittura graffiante il giornalista affonda la penna senza pietà. «Se la sua esistenza dovesse durare quanto quella media di un italiano (lunga vita!) – continua Giordano – finirà per incassare il vitalizio almeno per altri 20 anni. E dunque è evidente che il magistrato Di Pietro ha versato all'ente previdenziale solo una minima parte di quello che il pensionato Di Pietro dall'ente previdenziale ha preso e prenderà. È così che nascono i buchi nei conti, ma che importa? "Tanto alla fine è sempre il cittadino che paga". Lo sapete di chi sono queste parole? Di Tonino, naturalmente. Un moralizzatore baby pensionato. Un uomo sempre molto attento ai valori. Così attento che ha cominciato a incassarli già a 44 anni...».

Pensioni da 3 a 10 mila euro al mese. Con soli cinque anni di mandato. Prese già a 50 anni. E cumulabili con qualsiasi altro reddito. Queste sono le pensioni dei nostri Parlamentari.

Ottomila euro lordi al mese per quindici mensilità. È la pensione spettante a quel commesso del Senato che giusto una decina di giorni fa ha deciso di lasciare il lavoro. All’età di 52 anni. Il più recente protagonista di un inarrestabile e costosissimo esodo.

Al Senato, per esempio, chi è stato assunto prima del 1998 può ancora oggi andare in pensione a 50 anni di età, sia pure con una penalizzazione del 4,5%, a condizione che abbia raggiunto quota 109: la somma dell’età anagrafica, degli anni di contributi e dell’anzianità di servizio al Senato. Con 53 anni di età e la stessa quota 109 la pensione (80% dell’ultimo stipendio) è assicurata senza alcuna penalizzazione. Da tenere presente che i dipendenti entrati in Senato prima del 1998 sono la maggioranza, 609 su 1.004. E che la loro pensione si calcola con il vantaggiosissimo sistema retributivo puro, cioè in percentuale dello stipendio, anziché con il sistema contributivo (in rapporto ai contributi effettivamente versati) stabilito dalla riforma Dini del 1995 per tutti i lavoratori comuni mortali. Con lo stesso sistema retributivo sarà calcolata anche la pensione degli assunti a palazzo Madama dopo il 1998, in tutto 395. Per loro tuttavia il consiglio di presidenza ha deciso che scatta il limite minimo d’età di 57 anni. Aspetteranno un po’ di più per avere una pensione da leccarsi i baffi come già hanno avuto i loro colleghi più fortunati.

PARLIAMO DEI PRIVILEGI FARAONICI.

Stipendi folli, auto blu, biglietti gratis, poltrone assicurate, bonus faraonici. Dai politici, ai magistrati e ai manager, dai religiosi ai sindacalisti, tutti i benefici-scandalo, che gli italiani vedono crescere sempre di più sui bilanci di competenza.

I PARLAMENTARI: Stipendi smisurati e una vita spesata, questo è il bello del rappresentare i cittadini. Già, perché deputati e senatori incassano ogni mese più di 14 mila euro tra indennità, diaria e rimborsi vari. Allo stipendio di 5 mila e 500 euro bisogna aggiungere il rimborso di 4 mila euro per il soggiorno a Roma e altre 4 mila e 200 euro per 'le spese inerenti il rapporto tra il deputato e l'elettore'. Soldi rubati per un rapporto inesistente!! Al Senato questa voce è aumentata di circa 500 euro al mese. Poi c'è il capitolo trasporti: il parlamentare si muove come l'aria nel territorio nazionale. Infila la porta del telepass in autostrada senza ricevere nessun estratto conto, al check-in prende posto in business senza mettere mano al portafoglio e all'imbarco del traghetto non fa fila né biglietto. E i taxi? Niente paura. È previsto un rimborso trimestrale pari a 3 mila e 300 euro. Mentre per i deputati che abitano a più di cento chilometri dall'aeroporto più vicino, il rimborso sale a 4 mila euro. L'angelo custode del bonus non abbandona il parlamentare nemmeno quando varca i confini nazionali per 'ragioni di studio o connesse alla sua attività': gli spettano fino a 3.100 euro all'anno. Per avere un'idea del costo degli 'onorevoli viaggi' basti un dato: i soli deputati in un anno sono costati alla collettività 40 milioni di euro. Non paga nemmeno il telefono, fisso o mobile, fino a una bolletta massima di 3.100 euro. E ha diritto a un computer portatile e alla fine della legislatura (per tutelare la riservatezza dei dati) può tenerselo. Di tutti i privilegi, però quello che costa di più è il dopo. Ossia il trattamento pensionistico. Deputati e senatori, anche se in carica per una sola legislatura, maturano il diritto a una pensione straordinaria. Si chiama vitalizio e dovrebbe maturare al compimento dell'età di 65 anni. In realtà, se ha fatto più legislature il deputato, come un lavoratore usurato, può andare in pensione a 60 anni (che scendono a 50 per quelli delle precedenti legislature). Il vitalizio varia da un minimo del 25 per cento dell'indennità (2.500 euro circa), per chi ha versato solo i canonici cinque anni di contributi della singola legislatura. Ma arriva fino a un massimo dell'80 per cento dell'indennità per chi ha più legislature alle spalle. Comunque, per maturare il diritto alla pensione non è necessario restare in carica cinque anni. In passato bastavano pochi giorni. Ora ci vogliono due anni, sei mesi e un giorno. E gli eletti dal popolo contano doppio: possono sommare la pensione dovuta per la loro attività professionale a quella ottenuta per rappresentare i cittadini. La liquidazione parlamentare, poi, non è meno regale: 80 per cento dell'indennità moltiplicato per gli anni della legislatura, ossia minimo 35 mila euro.

I CONSIGLIERI REGIONALI: Ma che bel mestiere fare il consigliere: Lombardia, Lazio, Abruzzo, Emilia Romagna, Calabria gli elargiscono il 65 per cento del compenso riconosciuto al deputato. E più si sentono autonomi, più si premiano. I sardi, infatti portano a casa l'80 per cento dell'indennità nazionale a cui vanno aggiunte tutte le voci previste alla Camera: la diaria, i rimborsi, la segreteria. A conti fatti si superano i 10 mila euro. E non è finita qui. I consiglieri isolani hanno inventato anche i fondi per i gruppi: 2 mila e 500 euro per ogni consigliere più altri 5 mila al gruppo di almeno cinque persone. Inoltre, quando sono a Roma, hanno diritto a un auto blu con autista. In passato la Sardegna si distingueva anche per le sue generose buonuscite: 117 mila euro per consigliere. La chiamavano 'indennità di reinserimento', come si fa con i tossici usciti da San Patrignano. Ora è stata ridotta a 48 mila euro, speriamo che non ricadano nel vizio. Quella del reinserimento è una moda diffusa. Il Molise ha appena varato un sostanzioso "premio di reinserimento nelle proprie attività di lavoro" a tutti i consiglieri trombati o non ricandidati. Le strade del bonus sono infinite. Un'altra veste giuridica per coprire l'ennesima erogazione va sotto il nome di indennità di funzione per i vertici di giunte e commissioni su misura. Per questo ogni giorno ne nasce una nuova. Dai dati del libro “La Casta” di Rizzo e Stella e dai dati del sito della Conferenza delle Regioni si nota come la retribuzione netta dei Governatori delle Regioni italiane sia un diritto liberticida: ognuno prende quello che vuole!!

PUGLIA

228.631

 

CALIFORNIA

162.598

SARDEGNA

175.733

 

NEW YORK

130.656

SICILIA

171.954

 

MICHIGAN

129.197

CALABRIA

160.240

 

NEW JERSEY

127.737

VENETO

151.380

 

PENNSYLVANIA

119.997

LAZIO

150.576

 

ILLINOIS

113.576

CAMPANIA

148.656

 

WASHINGTON

110.215

LOMBARDIA

144.777

 

CONNECTICUT

109.489

MOLISE

144.457

 

OHIO

105.715

LIGURIA

139.342

 

VERMONT

105.078

PIEMONTE

135.251

 

WYOMING

76.642

VALLE D'AOSTA

126.740

 

UTAH

75.895

TRENTINO ALTO ADIGE

126.089

 

MONTANA

70.410

EMILIA ROMAGNA

120.073

 

ARIZONA

69.343

ABRUZZO

119.613

 

OREGON

68.321

BASILICATA

114.073

 

NORTH DAKOTA

67.505

MARCHE

101.734

 

COLORADO

65.693

FRIULI VENEZIA GIULIA

96.459

 

TENNESSEE

62.043

TOSCANA

89.980

 

ARKANSAS

59.013

UMBRIA

85.231

 

MAINE

51.094

Scandaloso se si raffronta con i redditi lordi dei Governatori degli Stati Uniti.

Si noti bene: per gli italiani sono netti, per gli americani sono lordi. Inoltre i primi sono governatori di Regioni, i secondi sono governatori di Stati.

I FUNZIONARI PUBBLICI: Scavando un po' si può scoprire che oggi i funzionari generali della Banca d’Italia hanno un lordo annuo di 110 mila euro. Gli oltre 200 direttori di filiale stanno a quota 64 mila; i funzionari di prima a 49 mila e 200. Ma allo stipendio-base si aggiunge una giungla di altre voci che arrotonda la cifra finale. Siccome lavorare stanca, c'è per esempio uno stravagante premio di presenza: chi va in ufficio per almeno 241 giorni in un anno si porta a casa una sorta di quattordicesima: il premio Stachanov. A dicembre c'è la cosiddetta gratifica di bilancio: vale circa 35 mila euro per i funzionari generali; 18 mila per i direttori e oltre 6 mila per i funzionari. Siccome poi la Banca d’Italia ha un suo decoro, i più alti in grado incassano anche un'indennità di rappresentanza, una specie di buono-sarto, che è semestrale, forse per rispettare il cambio di stagione: poco meno di 8.500 euro per i funzionari generali; 4 mila per i direttori; 1.200 per i funzionari.

I PROFESSORI UNIVERSITARI: Si ereditano posti da ordinario o li si scambia, creando intrecci o addirittura facendo nascere nuove Facoltà per gemmazione. La summa del 'tengo famiglia' viene registrata a Bari, dove nell'ateneo prosperano tre clan principali: uno vanta ben otto parenti-docenti, gli altri due si attestano a sei. Insomma, l'ateneo è cosa nostra. Il discorso non cambia quando in cattedra sale il medico, che di sicuro dovrà rispondere della sua produttività clinica, ma che rappresenta anche la vetta di una categoria molto corteggiata. Soprattutto dalle case farmaceutiche, prodighe di viaggi per convegni e presentazioni di mirabolanti macchinari: prodotti che poi vengono pagati dalle Asl.

I MAGISTRATI: Oggi noi sappiamo che al Consiglio di Stato 419 persone costano 130 miliardi di vecchie lire l'anno: il Presidente ha un lordo annuo di 220 mila euro, l'ultimo dei consiglieri quasi 65 mila. La Corte dei Conti ha a ruolo quasi 550 consiglieri. L'ultimo della scala gerarchica guadagna seimila euro lordi al mese, il primo quasi 20. Poi ci sono le indennità e i fringe benefits. Spesa globale, dipendenti inclusi, almeno 130 miliardi di rimpiante lire ogni anno. L'Avvocatura dello Stato ha 780 dipendenti che costano 100 milioni di euro l'anno. Un avvocato generale può arrivare ai 200 mila euro annui, il procuratore di prima nomina a 60 mila. C'è poi il capitolo Corte Costituzionale,  una vera e propria oasi dove si fa a cazzotti per entrare anche come semplice autista, visto che lo stipendio lordo iniziale raramente è inferiore ai 3 mila euro al mese a cui va aggiunta una contingenza che i giornalisti semplicemente si sognano. Per di più lor signori  hanno persino i cosiddetti "assegni Befana" ogni sei gennaio, assistenza scolastica, assistenza estiva e invernale per le vacanze dei bimbi, sussidi persino per i furti subiti in casa. I giudici, sebbene le cifre esatte siano un vero e proprio segreto di Stato, raramente scendono sotto i 250 mila euro lordi annui. Però poi godono di una serie di privilegi che vanno dall'appartamentino con vista sul Quirinale per i fuori sede, all'automobile con autista a vita, a due assistenti di studio,un segretario particolare  e un addetto di segreteria, alla bolletta telefonica a carico della collettività. Che è a vita per gli ex presidenti. Le pensioni per i giudici costituzionali superano i 15 mila euro mensili. Tutto questo ben di Dio costa altri 80 milioni di euro l'anno allo Stato.  Il costo per la collettività degli stipendi dei circa 9 mila magistrati italiani è di più di 1 miliardo di euro. E a proposito di privilegi, benché non sia mai stata applicata, la norma sulla responsabilità civile dei magistrati (la 177 del 1988 varata sull'onda dell'emozione che suscitò il caso Tortora), le toghe nostrane sono riuscite anche a stipulare  un accordo molto vantaggioso con le assicurazioni. Siglato da una parte dall'ANM e dall'altra  dalla  BNL Broker Assicurazioni: con soli 138,60 euro all’anno, si sono così messi al riparo dalla possibilità di dover risarcire di tasca propria l’eventuale vittima di errori giudiziari. Eventualità invero remota visto che  la legge voluta da Vassalli e Craxi (a cui gli interessati dimenticarono di attestare eterna gratitudine) mette a carico della collettività l'eventuale errore per colpa grave del singolo. Ma nella vita non si sa mai. Come se non bastasse la casta del partito dei giudici, ora ci sono  nuovi privilegi e nuovi privilegiati che bussano alle porte dell'assistenzialismo di stato: i giudici onorari. La spesa pubblica per i giudici di pace  assorbe risorse per  135 milioni di euro all’anno. Se poi venissero accolte le richieste di “stabilizzazione” della categoria per almeno 4.500 unità (sulle circa novemila in servizio), si registrerebbe un ulteriore aggravio per la collettività pari a 142 milioni di euro. Detto tutto questo, non sembra che il “Sistema Giustizia” in Italia abbia dato, come è sotto gli occhi di tutti, risultati di eccellenza.

I Papponi in Toga. L’appetito dell’ultracasta. I giudici del CSM sono 27 e ci costavano 29 milioni di euro l’anno. Ne hanno chiesti al governo 35  milioni. Far tintinnare le manette conviene, così da un’inchiesta di “Libero”.

L’unico a tirare la cinghia è il suo presidente, Giorgio Napolitano, che per la prima volta nella storia ha ridotto la spesa per il Quirinale. L’esempio del Capo dello Stato non ha contagiato però Nicola Mancino e i giudici che lo affiancano nell’organo di autogoverno della magistratura. Non hanno alcuna intenzione di mettersi a dieta, anzi. Dopo avere sfondato già nel 2008 e nel 2009 le previsioni di spesa costringendo il Tesoro a mettere una pezza da due milioni di euro, ora mettono le mani avanti chiedendo al Governo ben 35,3 milioni di euro contro i 28,6 previsti nel bilancio pubblico.

La cifra poi lieviterebbe di un altro milione e mezzo nel biennio successivo e sarebbe davvero difficile spiegare perché tutte le amministrazioni dello Stato debbono contrarre la spesa pubblica e i giudici no. Anche se raramente una richiesta che arriva dalle toghe viene cestinata da chi la riceve. Un po’ come ha raccontato l’ex democristiano (poi passato al Pdl), Giuseppe Gargani in un suo libro ricordando l’approvazione parlamentare delle due leggi del 1966 e del 1973 che stabilivano gli scatti automatici di carriera e di portafoglio dei magistrati: «Molti di noi, tra i quali Francesco Cossiga, erano contrari agli automatismi. Fummo convocati dal capogruppo Flaminio Piccoli che, furioso, ci disse: “Se questa legge non passa, quelli ci arrestano tutti”. E la legge passò». Il costo del Csm riguarda un numero assai più ristretto di magistrati: quelli eletti in consiglio e quelli segretari contabili, ma anche lì la politica non si è mai permessa brutti scherzi. Anche il rigidissimo ministero del Tesoro, poi divenuto ministero dell’Economia, ha chiuso spesso almeno un occhio sui bilanci del Csm, che quasi mai hanno rispettato le previsioni iniziali, sfondando ogni capitolo di spesa, compreso quello tenuto in assai considerazione degli stipendi dei magistrati lì eletti.

È accaduto anche con il documento contabile ufficiale: quello relativo al 2008 e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 14 ottobre 2009. Nicola Mancino & c avevano in budget 5,9 milioni di euro alla voce “spese per compensi e altri assegni ai componenti del Csm”, e cioè le sole indennità e rimborsi spese per i membri togati e non togati del consiglio superiore. Quel tetto di spesa è stato sfondato di 318.776 euro, e a consuntivo se ne sono pagati 6 milioni e 272 mila euro. Cifra assai simile a quella che spende l’organo di autogoverno della magistratura per la formazione delle toghe. Una voce fra le meno sondate e che porta a pagare le spese di convegni come quello che sui processi in tv (con gettoni di presenza essenziali pagati a Giovanni Floris o Aldo Grasso) o come quello con protagonisti non troppo diversi (di scena ancora Floris) su come tenere riservate le indagini durante l’istruttoria: sono sicuramente i giornalisti gli esperti della materia.

GLI AVVOCATI DI STATO: Ricchi stipendi. Gratifiche da capogiro. Incarichi esterni e consulenze milionarie. Arbitrati d'oro. Così i legali della Pubblica Amministrazione moltiplicano le entrate. Si chiama 'quadrimestre' e frutta complessivamente 42 milioni 405 mila euro. I legali dell'Avvocatura rappresentano e difendono l'amministrazione statale in tutte le sue articolazioni, Governo e ministeri, regioni e comuni, enti e rappresentanze diplomatiche, senza contare i dipendenti patrocinati nelle cause di servizio. Dai tribunali civili a quelli penali, dalla Corte Costituzionale (ammissibilità dei referendum, legittimità di leggi, impugnative, conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato), alle commissioni tributarie (assistenza delle amministrazioni statali), dalla Corte dei Conti al Consiglio di Stato agli organi di giustizia comunitari, non c'è procedimento che non veda comparire un avvocato dello Stato. Organizzata in sezioni (ciascuna specializzata a difendere branche omogenee della pubblica amministrazione) e articolata sul territorio in 25 distretti, l'Avvocatura ogni anno vede affluire nei suoi uffici circa 200 mila nuove cause (in gergo, 'affari') che, su decisione dell'Avvocato Generale (nominato dalla Presidenza del Consiglio), dei suoi vice o dei responsabili dei vari distretti, vengono poi assegnate ai 370 avvocati in organico. Tanto lavoro, dunque, molto delicato, ma anche ben retribuito. A cominciare dallo stipendio che, stratificato su quattro classi e rivalutato ogni triennio, in base all'anzianità e a seconda degli scatti di carriera parte dai circa 88 mila euro annui lordi dell'avvocato di prima nomina, sino ai 222 mila dei vice avvocati generali inquadrati nella quarta classe di stipendio. In aggiunta c'è il ricco quadrimestre frutto delle 'propine', cioè le competenze che gli avvocati e i procuratori dello Stato si vedono riconoscere per sentenza in tutte le cause vinte nei diversi giudizi (circa il 57 per cento del totale). E quando non si vince, cosa che accade quasi regolarmente in appello (73 per cento), o davanti al giudice di pace (73), o di fronte al giudice del lavoro (90), e si compensano le spese, (cioè ciascuna parte paga il proprio legale), neanche in questi casi l'avvocato dello Stato resta a bocca asciutta: l'amministrazione patrocinata paga comunque all'Avvocatura la metà delle spese che il giudice avrebbe presumibilmente liquidato, se la causa fosse stata vinta. E vai a capire perché. È comunque grazie a queste parcelle che si alimenta il famoso 'quadrimestre'. Però il vero pozzo senza fondo dei loro guadagni sono gli incarichi extragiudiziari, a cominciare da quelli ministeriali. Ma gli orizzonti extragiudiziari degli avvocati non si limitano ai ministeri. Straripano negli organi di garanzia, agenzie, enti pubblici, commissariati, ospedali e università.  Ma la voce più ricca, e anche la più discussa, tra quelle che fanno lievitare i compensi extra degli avvocati è sicuramente costituita dagli arbitrati, controversie nelle quali i membri del collegio giudicante vengono retribuiti in proporzione al valore della lite (solitamente dal 3 al 5 per cento). Ma che si vinca o si perda gli avvocati comunque ci guadagnano.

PARLIAMO DEL FORAGGIAMENTO ALL’ INFORMAZIONE.

LA RAI: BARACCONE DI STATO. L'ORGIA DEL POTERE.

Un esercito di 13.248 dipendenti. Più 43 mila collaboratori. E nuove assunzioni alle porte. Eppure la Rai compra quasi un quarto delle trasmissioni all'esterno. Radiografia della scandalosa gestione della televisione pubblica. Un organico “monstre” che, tra contratti a tempo indeterminato e determinato, abbraccia 1.771 giornalisti (di cui 54 sono vice direttori, quasi cinque per ognuna delle 11 testate), 931 programmisti-registi, 76 aiuti registi, 476 assistenti ai programmi. Il dettagliatissimo rapporto del Comitato Istruttorio per l’Amministrazione dimostra come, nonostante i prepensionamenti a tutti i livelli, il popolo Rai non accenni a diminuire. Per forza. La televisione di Stato continua a essere sotto lo scacco della politica e dei partiti, che a ogni cambio di Palazzo Chigi si precipitano a chiedere le teste di direttori per inserire innesti nuovi, più organici all'ennesima colonizzazione.

90 MILIONI DI EURO PER LA TV PRIVATA: LO STUDIO SUI BILANCI DELLE TV LOCALI.

Le emittenti operanti risultano essere 584, di cui 115 comunitarie e 469 commerciali, gestite da 427 società di capitali. Le misure di sostegno corrisposte dalle Stato sin dal 1999 alle tv locali sono corredate da un grafico che evidenzia come nel corso degli anni e con le diverse leggi finanziarie i contributi siano passati da circa 12 a 90 milioni di euro, assumendo un rilievo significativo nei bilanci delle imprese. A tal proposito si è tenuta il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli. Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98. Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia: 13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti. Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione. La denuncia è stata oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza. E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.

1 MILIARDO DI EURO PER I GIORNALI: LA CASTA DEI GIORNALI. I CONTRIBUTI ALLA STAMPA.

Il libro fa luce sul denaro pubblico, all’incirca 700 milioni di euro, che finisce nelle casse di grandi gruppi editoriali, giornali e organi di partito. Un’elargizione che non fa distinzione di partito o area politica. “La Casta dei giornali”, edito da Stampa alternativa-Eri Rai, ripercorre la storia di questa vicenda che trova origine, addirittura, nel ventennio fascista. Lo Stato italiano finanzia generosamente i giornali italiani – grandi e piccoli, quotati in borsa e di partito, di cooperative e di “movimenti” fantasma, di finte cooperative e di imprese truffaldine – insieme a periodici, agenzie di stampa e radio e televisioni locali. Un fiume di contributi, provvidenze e agevolazioni tariffarie con una portata fra i 700 e i 1.000 milioni di euro in un anno. 700 è la cifra che in un solo anno ha effettivamente richiesto l’applicazione della legge per l’editoria. Di circa 1.000 si può parlare se si tiene conto delle convenzioni e dei contributi elargiti dai singoli ministeri, regioni, ecc. Come avviene questo finanziamento? La parte più cospicua delle provvidenze se ne va in “contributi indiretti”: agevolazioni postali, agevolazioni telefoniche, elettriche, ecc. Contributi che premiano in particolare i grandi gruppi editoriali con molte testate, alte tirature e ampi organici. Così la Rcs è arrivata in un anno a prendere 23 milioni di euro, la Mondadori 19 milioni di euro, Il Sole 24 Ore 19 milioni di euro, la Repubblica-Espresso 16 milioni di euro, l’Avvenire 10… Le provvidenze per l’editoria sono elargite sulla base di una serie di leggi, provvedimenti, finanziarie, circolari e decreti sovrappostisi nel tempo senza alcuna logica e coerenza, nemmeno giuridica. Una stratificazione normativa di complicata applicazione e di difficile lettura. Un autentico ginepraio. Solo nel testo degli ultimi contributi ufficializzati, sono citate ben dodici fonti legislative.

PARLIAMO DEL FORAGGIAMENTO AI SINDACATI: COSTANO QUASI 2 MILIARDI DI EURO ALL'ANNO.

“L 'ALTRA CASTA” di Stefano Livadiotti è il libro che parla dei privilegi delle organizzazioni dei Sindacati. Il libro e l’inchiesta del “L’Espresso” parlano di fatturati miliardari. Bilanci segreti. Uno sterminato patrimonio immobiliare. E organici colossali, con migliaia di dipendenti pagati dallo Stato. I sindacati italiani sono una macchina di potere e di denaro che continuano a promettere bilanci consolidati, tranne poi guardarsi bene dal metterli nero su bianco. Forse perché i numeri racconterebbero come le organizzazioni dei lavoratori, difendendo con le unghie e con i denti una serie di privilegi più o meno antichi, si siano trasformate in autentiche macchine da soldi. Con il benestare di un sistema politico giunto ai minimi della popolarità e spaventato dalla loro capacità di mobilitazione. Che a sua volta dipende proprio, in grandissima parte, da un formidabile potere economico alimentato a spese della collettività: se c'è un problema di costi della politica, allora il discorso vale anche per il sindacato. Se non di più. Fare i conti in tasca alle organizzazioni sindacali, che hanno ormai raggiunto un organico-monstre dell'ordine dei 20 mila dipendenti, è difficile, anche perché le loro fonti di guadagno sono le più disparate. Ma ecco quali sono i principali meccanismi di finanziamento. E le cifre in ballo.

Il sostituto d'incasso. Sono le quote pagate ogni anno dagli iscritti: in media l'1 per cento della paga-base; di meno per i pensionati, che danno un contributo intorno ai 30-40 euro all'anno. Un esperto della materia come Giuliano Cazzola, già sindacalista di lungo corso della Cgil ed ex presidente dei sindaci dell'Inps, parla di almeno un miliardo l'anno. Una bella cifra, per la quale il sindacato non deve fare neanche la fatica dell'esattore: se ne incaricano altri; gratuitamente s'intende. Nel caso dei lavoratori in attività, a versargli i soldi ci pensano infatti le aziende, che li trattengono dalle buste paga dei dipendenti. Per i pensionati provvedono invece gli enti di previdenza. Nel 1995 Marco Pannella tentò di rompere le uova nel paniere al sindacato, promuovendo un referendum che aboliva la trattenuta automatica dalla busta paga (introdotta nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori). Gli italiani votarono a favore. Ma il meccanismo è tuttora vivo e vegeto.

Lo strapotere dei Caf. I Centri di assistenza fiscale rappresentano per i sindacati un formidabile business. Per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati vengono pagati dagli enti previdenziali. Solo per i lavoratori in attività i Caf incasseranno dal Fisco 15,7 euro per ognuna delle 12.261.701 dichiarazioni inviate agli uffici. Il ministero sborserà dunque 186 milioni e spicci. Un piatto ricco, considerando che i Caf ricevono inoltre, come contribuzione volontaria, una media di 25 euro dalle tasche dei contribuenti aiutati nella compilazione del 730 (per un totale di 175 milioni, secondo Cazzola) e mettono insieme un'altra cinquantina di milioni per il calcolo di Ise e Isee (i redditometri per le famiglie che chiedono prestazioni sociali).

Intoccabili patronati. Se il monopolio dei Caf è sotto assedio, resiste saldo quello dei patronati, le strutture (quelle convenzionate con l'Inps sono 25) che assistono i cittadini nelle pratiche previdenziali (ma anche, per esempio, per la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione): una rete capillare, dall'Africa al Nordamerica passando per l'Australia, che alcuni sospettano abbia un ruolo non indifferente anche nell'indirizzare il voto degli italiani all'estero. I patronati, infatti, sono fondamentali per il reclutamento di nuovi iscritti tra i pensionati, che quando vanno a ritirare i moduli si vedono sottoporre la delega per le trattenute: "Con i patronati e gli altri servizi nel 2005 la Cgil ha raggranellato 450 mila nuove iscrizioni", sostiene Cazzola. Non bastasse, i patronati assicurano un gettito che non è proprio da buttare via: in pratica si dividono (in base al lavoro svolto) lo 0,226 del totale dei contributi sociali riscossi dagli enti previdenziali. A lungo questa cifra è stata calcolata solo sui contributi dei pensionati privati, per l'ottimo motivo che a quelli pubblici le scartoffie per l'assegno le ha sempre curate l'amministrazione (e proprio per questo motivo pochi di loro sono iscritti al sindacato). Poi, però, nel 2000, per gentile concessione del parlamento (con un voto a larghissima maggioranza) nel monte-contributi sono stati fatti confluire anche quelli dei lavoratori statali. Alla fine, secondo quanto risulta a 'L'espresso', l'Inca-Cgil in un anno ha incassato 82 milioni e 250 mila euro, l'Inas-Cisl 66 milioni e 150 mila euro e l'Ital-Uil 26 milioni e 600 mila euro.

Forza lavoro gratuita. È quella distaccata presso il sindacato dalla pubblica amministrazione, che continua graziosamente a pagarle lo stipendio. Compresi, e vai a capire perché, i premi di produttività e i buoni pasto. Oggi i dipendenti statali dati in omaggio al sindacato sono 3.077 e costano al contribuente (Irap e oneri sociali compresi) 116 milioni di euro. Ai quali vanno sommati 9,2 milioni per 420 mila ore di permessi retribuiti. Di regalo in regalo, per i dipendenti che utilizza in aspettativa, ai quali deve invece pagare lo stipendio, il sindacato usufruisce comunque di uno sconto: non paga i contributi sociali, che sono considerati figurativi e quindi a carico dell'intera collettività. Un privilegio che hanno perduto perfino le assemblee elettive (a partire dal parlamento). Ma i sindacati no.

Business formazione. Dall'Europa piove ogni anno sull'Italia circa un miliardo e mezzo di euro per il finanziamento della formazione professionale. In più ci sono i circa 700 milioni dell'ex fondo di rotazione, alimentato dallo 0,30 per cento del monte-contributi che le aziende versano agli enti previdenziali. Un tempo, non meno del 40-50 per cento di queste somme passava attraverso enti di emanazione sindacale, che non incassavano direttamente un euro ma gestivano comunque le assunzioni e la distribuzione degli incarichi. Oggi la concorrenza s'è fatta più dura. Ma i sindacati non mollano l'osso. Dieci dei 14 enti che si distribuiscono ogni anno circa la metà dei finanziamenti nazionali sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil.

Casa mia, casa mia. L'assenza di bilanci consolidati non consente di far luce sull'immenso patrimonio immobiliare accumulato negli anni dai tre sindacati confederali, cui lo Stato a un certo punto ha pure regalato i beni delle corporazioni dell'epoca fascista. Fino a pochi anni fa i sindacati non potevano possedere direttamente gli immobili: li intestavano a società controllate. La legge che ha consentito loro il controllo diretto ha garantito anche un passaggio di proprietà al riparo dalle pretese del fisco. Oggi la Cgil dichiara di avere, sparse per tutto il Paese, qualcosa come 3 mila sedi, tutte di proprietà delle strutture territoriali o di categoria. "Non so stimare il valore di mercato di un patrimonio che non conosco ma", afferma l'amministratore della Cgil, "deve trattarsi di una cifra davvero impressionante". La Cisl dichiara addirittura 5 mila sedi, tra confederazione, federazioni nazionali e diramazioni territoriali (pensionati compresi), quasi tutte di proprietà. La Uil è l'unica che ha concentrato il grosso degli investimenti sul mattone in una società per azioni controllata al 100 per cento. Si chiama Labour Uil e ha in bilancio immobili per 35 milioni e 75 mila euro (a valore storico; quello di mercato è tre volte superiore), ma non, per esempio, la sede romana di via Lucullo, che lo stesso tesoriere nazionale stima tra i 70 e gli 80 milioni di euro.

Il fatto certo, alla fine, è che Cgil, Cisl e Uil sono ricchi. Quanto, però, nessuno lo sa davvero.

Sindacalisti potenti. La mancanza di un bilancio consolidato non consente di fare chiarezza sugli stipendi dei circa 20 mila sindacalisti a tempo pieno delle tre grandi confederazioni. Della Cgil si sa solo che ne conta 14 mila (per il 40 per cento dirigenti, qualifica che scatta a partire dal grado di funzionario) e che il costo del lavoro è pari a circa il 40 per cento del fatturato. Ma un calcolo si può azzardare sull'organico del quartier generale. Dove i dipendenti sono 178 e il costo del lavoro è pari a 9 milioni e 109 mila euro: la media fa 51 mila euro.

Quanto ai benefit, in corso d'Italia ce ne sono pochi: se si escludono i segretari confederali, gli altri dipendenti dotati di cellulare hanno un tetto di spesa di 750 euro l'anno. Più fortunati, sotto questo aspetto, i 180 dipendenti della sede nazionale romana della Cisl, che dispongono di uno sconto sui trasporti pubblici e stanno per ottenere un asilo nido.

Dove i sindacalisti godono di più che un privilegio è in un sistema di welfare molto particolare. Come quello garantito dagli enti previdenziali, da sempre riserva di caccia quasi esclusiva per ex dirigenti di Cgil, Cisl e Uil in pensione. Solo all'Inps sono a disposizione 6 mila e 222 tra poltrone e strapuntini.

Sindacato e carriera politica. La Cisl ha conquistato la seconda carica dello Stato con Franco Marini alla presidenza del Senato. La Cgil s'è accaparrata la terza con Fausto Bertinotti sullo scranno più alto di Montecitorio. In Italia il sindacato è un buon trampolino di lancio.

Le assenze per motivi sindacali nella Pubblica Amministrazione. Le assenze possono essere non remunerate, ovvero remunerate come nelle forme seguenti.

DISTACCO SINDACALE: Il distacco sindacale è l’istituto attraverso il quale viene riconosciuto ai dipendenti pubblici il diritto a svolgere, a tempo pieno o parziale, attività sindacale, con la conseguente sospensione dell’attività lavorativa. Il periodo trascorso in distacco sindacale è equiparato, a tutti gli effetti, al servizio prestato presso l’amministrazione; infatti, viene regolarmente retribuito, con esclusione solo delle indennità per lavoro straordinario e dei compensi collegati all’effettivo svolgimento delle prestazioni.

PERMESSI CUMULATI SOTTO FORMA DI DISTACCO: Il permesso cumulato è l’istituto attraverso il quale viene riconosciuta, alle confederazioni ed alle organizzazioni sindacali rappresentative, la possibilità di cumulare le ore di permesso sindacale spettanti per lo svolgimento del mandato, in modo da consentire al rispettivo dirigente sindacale lo svolgimento dell’attività sindacale fino ad un massimo di un intero anno, pari a 1572 ore lavorative. Le modalità e le condizioni per la fruizione sono identiche a quelle specificate per il distacco sindacale.

PERMESSI SINDACALI RETRIBUITI PER LA PARTECIPAZIONE ALLE RIUNIONI DEGLI ORGANISMI DIRETTIVI: Il permesso sindacale in argomento è l’istituto attraverso il quale viene riconosciuto ai dipendenti pubblici il diritto a partecipare alle riunioni degli organismi direttivi statutari nazionali, regionali, provinciali e territoriali, indette dalle confederazioni e dalle organizzazioni sindacali rappresentative di appartenenza, assentandosi dal posto di lavoro e sospendendo così la propria attività lavorativa, per alcune ore o per una o più giornate e, comunque, per il tempo necessario allo svolgimento delle riunioni. Il periodo trascorso in permesso sindacale è equiparato, a tutti gli effetti, al servizio prestato presso l’amministrazione ed è retribuito, con esclusione dei compensi e delle indennità per il lavoro straordinario e di quelli collegati all’effettivo svolgimento delle prestazioni.

PERMESSI SINDACALI RETRIBUITI PER LO SVOLGIMENTO DEL MANDATO: Il permesso sindacale in argomento è l’istituto attraverso il quale viene riconosciuto ai dipendenti pubblici, ivi compresi quelli eletti negli organismi di rappresentanza del personale (RSU), il diritto ad espletare l’attività sindacale, nonché a partecipare a trattative, convegni e congressi di natura sindacale, assentandosi dal posto di lavoro e sospendendo così, per alcune ore o per una o più giornate, la propria attività lavorativa. Il periodo trascorso in permesso sindacale è equiparato, a tutti gli effetti, al servizio prestato presso l’amministrazione ed è retribuito, con esclusione dei compensi e delle indennità per il lavoro straordinario e di quelli collegati all’effettivo svolgimento delle prestazioni. Tale periodo può essere anche di più giornate lavorative, e comunque fino all’esaurimento del contingente orario, fissato, annualmente, dall’amministrazione e ripartito tra l’organismo di rappresentanza (RSU) e le organizzazioni sindacali rappresentative, per queste ultime tenuto conto del grado di rappresentatività conseguito presso l’amministrazione.

E' di 121 milioni e 440 mila euro l'anno il costo stimato per la pubblica amministrazione delle assenze per motivi sindacali. Il ministro per la Funzione pubblica, Renato Brunetta ha messo on line sul sito del ministero la relazione e i dati presentati al Parlamento su questa questione. Si tratta di 18 pagine di dati e grafici, senza alcun commento. I dati si riferiscono al 2006 e quasi tutte le amministrazioni (l'83,73%, da cui dipende il 95,48% degli impiegati pubblici) hanno adempiuto all'obbligo di fornire i dati richiesti.

Le 830.598 giornate di distacchi retribuiti, calcola la relazione, corrispondono ad un anno di assenza dal servizio di 2.276 dipendenti, a cui ne vanno sommati altri 47 per le 17.095 giornate di permessi cumulati sotto forma di distacco. Ci sono poi 263.466 giornate di permessi retribuiti per l'espletamento del mandato, corrispondenti all'assenza, sempre per un anno, di 1.198 dipendenti, e 115.868 giornate per le riunioni degli organismi direttivi statutari (527 dipendenti). Infine, ci sono 140.169 giornate di aspettative e 2.178 di permessi non retribuiti, che equivalgono ad altri 394 dipendenti assenti per un anno.

Bisogna poi considerare le aspettative e permessi per funzioni pubbliche elettive: sono 817.144 giornate, equivalenti a 2.239 dipendenti assenti e a un costo stimato di altri 67 milioni.

La parte più elevata del costo (quasi 30 milioni) deriva dai distacchi e permessi di Regioni ed enti locali, seguite dal Servizio sanitario nazionale (22,6 milioni) e dalla scuola (poco più di 20). Quarti, ma molto distanziati, i ministeri (11,8). Costi di rilievo anche per enti pubblici non economici (8,7 milioni), Polizia (6,6), agenzie fiscali (6,1) e Polizia penitenziaria (5,5). Per tutte le altre branche dell'amministrazione le cifre sono molto minori. Il costo delle aspettative per cariche pubbliche elettive ricalca grosso modo la classifica precedente, tranne il fatto che in questo caso i corpi di polizia mostrano dati estremamente bassi.

PARLIAMO DEL FORAGGIAMENTO ALLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI: 47 MILIONI DI FINANZIAMENTO DI STATO PER FARE ANTISTATO.

Votate alla difesa del consumatore: agguerrite, preparate, specializzate; capaci di minacciare cause contro tutto e tutti. Fonte di reddito inesauribile per molti avvocati privilegiati. Le associazioni dei consumatori, i cani da guardia nel mercato dei beni e servizi, per difendere il cittadino, che si barcamena tra beni e servizi, non guardano in faccia a nessuno. Tranne che allo Stato e ai poteri forti. Perché da Roma le associazioni sono massicciamente finanziate.

I Fatti e misfatti di chi difende (?) i consumatori, scrive Angelo Allegri, Mercoledì 12/12/2018, su "Il Giornale. A forza di denunce e di proteste Elio Lannutti è arrivato in Senato. Non una, ma due volte e in due partiti diversi: prima nell'Italia dei valori di Antonio Di Pietro, oggi nel Movimento Cinque Stelle. E da grillino osservante il fondatore e presidente onorario dell'Adusbef passa il suo tempo lanciando anatemi attraverso i social: «Ventriloqui del potere dei manutengoli con la bava alla bocca», ha scritto di recente in un ragionato commento via Twitter, dedicato ai giornali che avevano parlato dei lavoratori in «nero» nell'impresa del vice-premier Di Maio. Insieme a Carlo Rienzi, presidente del Codacons, più volte candidato alle elezioni (mai eletto) e arrivato a mettersi pubblicamente in mutande per protestare contro il carovita, Lannutti rappresenta il coté più mediatico del consumerismo italiano: sempre pronto a una dichiarazione d'occasione in tv, a una manifestazione clamorosa, a un esposto piazzato con cura (indimenticabili quelli contro l'intera finanza mondiale presentati alla Procura di Trani). È lui a rappresentare la rumorosa avanguardia di decine, c'è chi si spinge a dire centinaia, di associazioni che utilizzando la parola «consumatore» cercano spazio e attenzione presso l'opinione pubblica. Il loro vangelo, citato a ogni piè sospinto, è il Codice del Consumo, la summa normativa, approvata nel 2005, che regola i rapporti tra aziende, clienti ed utenti. Il faro sono, o dovrebbero essere, i diritti stabiliti dall'articolo due dello stesso Codice: prima di tutto la «trasparenza». Una trasparenza, che spesso sono le associazioni per prime a dimenticare.

Grandi e piccoli. L'organismo rappresentativo delle associazioni consumeriste italiane si chiama Consiglio nazionale dei Consumatori ed Utenti, in sigla Cncu. È una specie di parlamentino del settore, costituito presso il Ministero per lo Sviluppo economico. Per entrare a farne parte un'associazione deve avere tre anni di attività alle spalle, essere presente in almeno cinque regioni e schierare un numero di soci pari almeno allo zero virgola qualcosa della popolazione italiana. In pratica, in base ai calcoli del Ministero per il 2017 la soglia è fissata a 29.970 iscritti. Le associazioni che fanno parte del Cncu sono attualmente 20 e c'è un po' di tutto: si va dal colosso Altroconsumo (377mila soci) a una pletora di piccoli organismi, molti appena al di sopra del numero magico dei 29.970 associati. Chi fa parte del Consiglio (ogni ente rappresentato esprime un componente effettivo e un supplente) entra in una sorta di serie A del settore: può esprimere pareri sulle leggi e i regolamenti in fase di elaborazione, avanzare proposte che riguardano il consumo. In più ha la possibilità di concorrere per i finanziamenti statali legati a singoli progetti (le somme sono più ridotte di un tempo, quest'anno il bando in scadenza ha un ammontare di 4,5 milioni di euro). I partecipanti possono anche entrare a far parte delle Commissioni di conciliazione paritetica con le aziende previste dalle norme. Assistono cioè i consumatori che cercano un accordo extragiudiziale con le aziende con cui hanno una controversia. E per questo tipo di prestazione ricevono un corrispettivo che va dai 30 ai 60 euro a pratica. È questo tipo di rapporti che non piace a un'associazione come l'Aduc, sede nazionale a Firenze, che ha una particolarità, è l'unica tra le grandi (i soci dichiarati sono più di 133mila) che per scelta ha deciso di non aderire al Cncu: «Ci troveremmo a lavorare con il ministero dello Sviluppo Economico e con aziende che spesso sono controparte nelle nostre iniziative. La cosa non ci piace», spiega il presidente Vincenzo Donvito. «Poi siamo contrari a ogni tipo di finanziamento pubblico, perfino al cinque per mille. Siamo per un autofinanziamento totale. Ufficialmente le somme assegnate dal Ministero sono legate a bandi che parlano di progetti specifici, di solito campagne informative. Ma poi noi di questi progetti non vediamo traccia. In realtà si tratta di sostegni economici a strutture associative per il solo fatto che esistono. E il peggio avviene a livello locale».

I soldi delle regioni. A dare soldi ai rappresentanti dei consumatori sono infatti anche Regioni e Comuni. Anzi, dopo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione le Regioni sono diventate protagoniste in materia, e ognuna ha stabilito i requisiti che le associazioni devono avere per essere riconosciute a livello locale. Con il riconoscimento arrivano anche i fondi, e in quasi tutti i casi per avere l'uno e gli altri l'associazione deve avere un numero minimo di sedi fisiche sul territorio regionale. «È il criterio che premia gli enti vicini ai sindacati», spiega un addetto ai lavori. «Prenda la Cgil, ha uffici dappertutto. E in ogni sede troverà una stanzetta della Federconsumatori». Anche per questo l'associazione è la terza riconosciuta per numero di iscritti con oltre 76mila soci, mentre, nonostante la capillare presenza sul territorio dei sindacati di riferimento, restano più indietro Adoc, legata alla Uil (quasi 38mila), e Adiconsum, legata alla Cisl (34mila). Quanto alle associazioni, per così dire, private, le sedi locali sono l'ultimo dei problemi. Adusbef dichiara per esempio 175 uffici decentrati, il Codacons tra i 140 e i 150. «Io ho la fila di avvocati che si offrono di ospitare un nostro ufficio», dice Donvito di Aduc. La convenienza è duplice ed evidente: l'associazione non sostiene costi aggiuntivi e allarga il suo network nazionale, il professionista ospitale può affacciarsi su un business con prospettive economiche interessanti. «Con questo sistema però a non essere premiata è la qualità del lavoro svolto a favore di consumatori», dice Luisa Crisigiovanni, segretario generale di Altroconsumo. «Noi, per esempio, non siamo ufficialmente riconosciuti in alcune Regioni in cui pure abbiamo molti soci, perché riteniamo più utile operare in prima battuta con un call center nazionale». Sia per quanto riguarda le sedi sia quando si parla di finanziamenti pubblici (oltre a quelli statali e regionali ci sono i bandi europei) l'osservatore esterno fa comunque fatica ad orientarsi, perché i bilanci delle associazioni restano di solito un segreto ben custodito. Sono poche le associazioni di consumatori che mettono a disposizione documenti contabili rivolti all'esterno con l'indicazione dell'attività svolta e dei fondi pubblici ricevuti (di solito c'è anche il finanziamento dei contribuenti sotto forma di 5 per mille sulle tasse). E le richieste di chi vuole approfondire i numeri si trasformano quasi sempre in faticosi bracci di ferro con la nomenklatura delle associazioni interessate. Quanto al Ministero dello Sviluppo economico, che sovrintende all'attività del già citato Consiglio nazionale, la legge gli attribuisce la verifica del numero dei soci, ma non altri poteri di controllo. La situazione è dunque quasi paradossale: le imprese commerciali private, spesso oggetto delle rampogne dei paladini dei consumatori, sono obbligate per legge a dare conto pubblicamente della loro attività, con bilanci di immediata lettura, depositati nelle Camere di Commercio e disponibili via Internet. Al contrario per le associazioni di consumatori, portatrici di interessi collettivi e, come abbiamo visto, spesso destinatarie di fondi pubblici, non è previsto un meccanismo di diffusione dei conti: le case di vetro finiscono per avere strutture più opache delle loro controparti.

Riforma al palo. Per dirla tutta il deficit di trasparenza non riguarda solo chi si occupa di consumo ma l'intero mondo delle associazioni, e in generale del non profit. Un economista come Stefano Zamagni, docente universitario ed ex Presidente dell'Agenzia per il terzo settore si batte da anni per norme che offrano un maggiore controllo: «La svolta c'è stata: il 2 agosto del 2017 il Parlamento ha approvato il Codice del Terzo settore con l'istituzione del Registro unico nazionale a cui enti e associazioni non profit dovranno iscriversi». Il Registro sarà una sorta di anagrafe accessibile a tutti dove dovranno essere resi pubblici i dati che riguardano organismi di volontariato ed enti di promozione sociale, compresi i rendiconti economici. «C'è un solo problema», conclude Zamagni. «A più di un anno dall'approvazione delle norme non si sa bene che fine abbia fatto il regolamento applicativo dedicato al Registro, che non è ancora partito». Nell'attesa dei tempi biblici della burocrazia italiana e di più trasparenza la lotta per la tutela dei consumatori continua. Da quando John Kennedy, il presidente ucciso a Dallas, presentò di fronte al Congresso Usa il primo Manifesto per i diritti dei consumatori sono passati 56 anni. Se possibile nel frattempo le minacce sono aumentate: l'ultimo grande caso internazionale riguarda le accuse mosse dal Beuc (il Bureau Européen des Unions de Consommateurs) un network di associazioni che rappresentano i consumatori di mezza Europa, contro il colosso Google. Il colosso americano non avrebbe rispettato l'ultima direttiva di Bruxelles sulla privacy, raccogliendo informazioni improprie sugli spostamenti, le abitudini e le località frequentate dagli utilizzatori del motore di ricerca Viste le multe previste (fino al 4% dei ricavi) e le dimensioni di Google, si parla di cifre miliardarie.

PARLIAMO DI PROVINCE.

Province sanguisughe: ci costano 14 miliardi. Mantengono 4.520 amministratori e finanziano tutto e tutti: dalla sagra dei carciofi agli studi sugli orsi. Nel suo libro «Spudorati» Giordano racconta sprechi e abusi. Eliminare le Province italiane? Macché ne vogliono sempre di nuove. E perché? Perché sono veri e propri centri di spese, spesso di spese folli. A questo viene dedicato un capitolo di Spudorati (152 pagine, 18 euro, Mondadori) di Mario Giordano, 45 anni, direttore di Mediaset all-news TgCom24. Avanti c’è posto: è dal 1970, cioè da quando sono state create le Regioni, che si dice che le Province non hanno più senso. Eppure non c’è paesello, rione, quartiere che non sogni di diventare capoluogo... Vi chiederete come mai. E la risposta è semplice: non è vero che le Province non servono a niente. Macché: le Province servono un sacco. A che cosa? Semplice: a finanziare la sagra del salmone del Medio Campidano, per esempio. O il censimento per lo studio delle abitudini del cormorano dell’Iglesias. Vorrete mica perdere di vista il cormorano dell’Iglesias, perdinci. E allora perché vi stupite? La Provincia di Oristano (meno di 300.000 abitanti) è riuscita a finanziare in un solo anno: la sagra della fragola (8942,42 euro), la sagra dei pesci (2257,67 euro), la sagra dei muggini (1474,20 euro), la sagra de sos cannisones (983,55 euro), la sagra de sos culurzones de patata (903,05 euro), la sagra del riso (1493,87 euro), la sagra degli agrumi (1867,34 euro), la sagra del pomodoro (5465,73 euro), la sagra dei ravioli (1806,09 euro), la sagra del pane e dei prodotti tipici (2709,14 euro), la sagra su pai fattu in domu (1354,57 euro), la sagra del carciofo (1331,58 euro), la sagra de su bino nou (903,05 euro) e la sagra pane e olio in frantoio (1422,30 euro). Ho l’impressione che alla fine abbiano mangiato un po’ tutti...Il fatto è che di dimagrire nessuno ha voglia. La Provincia di Napoli, per dire, negli ultimi dodici mesi ha sostenuto con oltre 3 milioni di euro una miriade di fondamentali iniziative come «La cucina di mammà», «Cogli l’attimo», «C’è di più per te» e «Sognando di diventare campioni tirando la fune». Il tiro alla fune, ecco, ci mancava. La Provincia di Roma pensa alle lepri e ai fagiani: spende 298.392 euro per distribuirne una certa quantità nei boschi. La Provincia di Trento finanzia ogni tipo di convegno: 110.000 euro per quello sul clima, 790.000 per quello sull’economia, 100.000 per quello sulle «rotte del mondo», addirittura 180.000 per «educare nell’incertezza» (fra l’altro, di questi, 82.000 se ne vanno in comunicazione, cartellonistica, vitto e soprattutto buffet, che in mezzo a tanta incertezza restano l’unica cosa sicura). Inoltre, sempre la Provincia di Trento ha affidato anche una consulenza da 20.000 euro a due professori universitari per «capire gli orsi», mentre quella di Belluno paga dieci volte tanto un consulente per sapere se le Dolomiti possono entrare nel patrimonio dell’Unesco. E la Provincia di Bolzano batte tutti: è riuscita ad assoldare un consulente per fare lezione ai troppi consulenti che aveva assoldato. «Come migliorare le proprie prestazioni», era il titolo esatto del seminario. Ecco: come migliorare le proprie prestazioni. E magari farsi pagare qualche euro in più sognando la cucina di mammà o il tiro alla fune. E dimenticando, però, che a forza di tirare la fune, si rischia di spezzarla. Ma chi ci pensa ai pericoli? Ma chi ci pensa ai costi? Ma chi ci pensa agli sprechi? Ecco perché, nonostante le promesse elettorali, le Province sopravvivono sempre. Ecco perché, quando si arriva al dunque, nessuno vota per l’abolizione. Perché le Province sono utili. Prendete quella di Monza e della Brianza. La neonata organizzazione territoriale brianzola ha appena visto la luce in una terra che, come tutti sanno, è celebre per la febbrile attività e l’indomito dinamismo. Ebbene, che cosa ha prodotto in sei mesi, dal gennaio al giugno 2011, il consiglio provinciale della produttiva Brianza? Una delibera. Proprio così: una di numero. Accidenti, non sarà mica calata l’ernia a qualcuno dentro quel palazzo? Una delibera tutta intera? Tutta insieme? L’avranno approvata in un colpo solo oppure a rate per non affaticarsi troppo? Fra l’altro trattasi di una decisione operativa di importanza fondamentale, dati i tempi di crisi e le necessità del Paese: il premio Talamoni, cioè una medaglietta d’oro (4 centimetri) da assegnare a non si sa bene chi. Valeva la pena costituire una nuova Provincia per avere un riconoscimento così prestigioso, no? Pare che in Brianza si fatichi a trovare uno stemma, un simbolo, un segno distintivo per rappresentare il nuovo ente locale. Che, in compenso, ha ben quattro sedi (proprio quattro) e quattro aziende dell’acqua (proprio quattro) che costano, secondo quanto riferisce l’Espresso, 1,5 milioni di euro l’anno. Le spese per la comunicazione istituzionale ammontano a 880.000 euro, quelle per le consulenze a 1 milione di euro. E non mancano nemmeno le solite regalie a pioggia per foraggiare ogni tipo di manifestazione, da «Pagine come rose» a «Le immagini della fantasia», da «Libritudine» a «Teodolinda messaggera di pace»...Finanziamenti in libertà anche a Palermo: qualsiasi sagra, dal ficodindia all’asino di Castelbuono, e qualsiasi associazione, dal Badminton di Cinisi alla Confederazione siciliani del Nordamerica, sembra in grado di ricevere generose donazioni di soldi dei contribuenti. All’altro capo dell’Italia, in compenso, c’è la Provincia di Treviso che spende 22.800 euro per organizzare un sondaggio sulla soddisfazione dei pescatori e altri 21.600 per studiare le anguille. In effetti, però, lo studio delle anguille può presentare anche alcuni lati assai interessanti: considerato il modo in cui vengono gestiti i soldi dei contribuenti, almeno si impara a essere sfuggenti...Ecco a che cosa servono le Province. Costano 14 miliardi di euro l’anno, ci prosciugano, non funzionano, ma svolgono due compiti fondamentali: mantengono un esercito di 4520 amministratori e distribuiscono denari a pioggia, dall’associazione della salsiccia agli amici del peperone. Che poi, oltre che essere amici del peperone, evidentemente, sono pure amici dell’assessore. O almeno di sua moglie. Altrimenti come spiegare certe spese?

Il numero è quasi raddoppiato dall’unità d’Italia. Nel 2010 sono arrivate a 109.

Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano quasi la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro abolizione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventare 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad 8) di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovanni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un record mondiale.

Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore : 17 miliardi di euro. Con un aumento del 70% rispetto al 2000. Da dove arrivano i denari? Un po’ dai trasferimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 miliardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arrivano dall’imposta provinciale di trascrizione: le annotazioni al Pubblico registro automobilistico che doveva essere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provinciale per l’ambiente.

Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non vede, cuore non duole: sono tutte tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spese, il cittadino vede lusingato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fermo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’atomo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire della provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chiamata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quella nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervino Murge. E la targa automobilistica? «BT». Rivolta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman».

C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo dell’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Berlusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassare i costi folli della politica?», gli chiese la signora Ines nella chat-line al Corriere . E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una mano... ». Veltroni, del resto, era già d’accordo: «Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi comuni metropolitani».

Posizione confermata a Matrix : «All’abolizione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province».

L’abolizione delle Province, ”fermo restando il trasferimento dei dipendenti e delle funzioni agli altri livelli territoriali di governo, consentirebbe di realizzare risparmi di 7 miliardi annui, ossia una parallela riduzione di spese e di imposte pari a mezzo punto di Pil”. L’abolizione potrebbe portare inoltre nelle tasche delle famiglie italiane almeno 300 euro l’anno. E’ quanto calcola la Confesercenti in un dossier dal titolo ‘Riaprire la pratica dell’abolizione delle Province. Secondo lo studio della Confesercenti il taglio delle Province «consentirebbe di realizzare risparmi dell’ordine di 7 miliardi annui, ossia una parallela riduzione di spese e di imposte pari a mezzo punto di Pil». Sempre nello stesso dossier, l’organizzazione degli esercenti, evidenzia che «la transizione al federalismo» non cambia la situazione. «Con l’avvento del federalismo - afferma lo studio - si rischia che a cambiare siano solo le intestazioni: le risorse provenienti da Stato e Regioni non si chiameranno più trasferimenti ma compartecipazioni. La sostanza tuttavia, non cambia». Mettendo a confronto i maggiori paesi Confesercenti sottolinea come l’ente Provincia «non ha paragoni in nessun altro Paese simile all’Italia». In Francia i Dipartimenti hanno dimensione analoga, ma al di sopra c’è poi solo lo Stato. E in Germania non c’è nulla tra i Comuni e i Länder. In Gran Bretagna ci sono le Contee, ma hanno carattere tecnico-amministrativo e non politico. Negli Stati Uniti avviene lo stesso e nella maggior parte dei casi le contee sono una linea sulla carta geografica oppure individuano le competenze giudiziarie o di polizia: non a caso l’autorità più importante è lo sceriffo. Tagliando le 110 Province (erano 59 nel 1861 e 91 nel 1947) «fermo restando il trasferimento dei dipendenti e delle funzioni agli altri livelli territoriali di governo, consentirebbe di realizzare risparmi dell’ordine di 7 miliardi annui, ossia una parallela riduzione di spese e di imposte pari a mezzo punto di Pil».  Attualmente il sistema Province - secondo i calcoli di Confesercenti - si caratterizza per entrate complessive per 13 miliardi, spese totali per 13.700 e un disavanzo di poco superiore a 700 milioni. Le entrate correnti sono costituite al 50% da imposte e tasse e il restante 50% dai trasferimenti dallo Stato e da altri enti pubblici. I tributi che spiegano la maggior parte del gettito sono cinque: l’imposta assicurazioni RC auto, l’imposta provinciale di trascrizione (IPT), l’addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica, la compartecipazione provinciale al gettito Irpef e il tributo per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione e igiene dell’ambiente.

“Eliminare gli sprechi”, “cancellare gli enti inutili” eccetera, eccetera. Il governo e l'opposizione si riempiono la bocca di parole che fanno ben sperare. Ma poi quando i parlamentari votano è tutta un'altra storia. Così le inutili e costosissime province non si toccano. Con i voti contrari del Pdl e la decisiva astensione del Pd, la Camera il 5 luglio 2011 ha respinto la proposta di legge presentata dall'Idv. Le province, per ora, non si toccano. Con i voti contrari del Pdl e la decisiva astensione del Pd, la Camera dice infatti «no» alla proposta di legge sulla loro soppressione presentata dall'Idv. Un risultato che accende la polemica all'interno delle opposizioni, visto che non solo il partito di Antonio Di Pietro ma anche il Terzo Polo ha invece votato a favore. Più in dettaglio, la Camera ha respinto innanzitutto il mantenimento del primo articolo del testo, quello che cancellava le parole «le province» dal Titolo V della Costituzione (225 i voti contrari, 83 quelli a favore, 240 gli astenuti). Poi, è stata bocciata l'intera proposta di legge dell'Idv.  «Si è verificato un tradimento generalizzato degli impegni e dei programmi elettorali fatti da destra a sinistra - attacca Di Pietro -. Tutti hanno fatto a gara nel far sognare gli italiani sul fatto che si sarebbe tagliata la "casta" eliminando le province e poi non hanno mantenuto gli impegni. In aula si è verificata una maggioranza trasversale: la maggioranza della "casta"». «Mi dispiace molto perché il Pd ha perso l'occasione per fare una cosa saggia, visto che se avessero votato a favore il governo sarebbe andato in minoranza» rincara la dose il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Il Pd risponde con Pier Luigi Bersani: «Non ci facciano per favore tirate demagogiche, noi abbiamo una nostra proposta che prevede di ridurre e accorpare le Province ma bisogna anche dire come si fa, perché le Province gestiscono un certo numero di cose importanti, come ad esempio i permessi per l'urbanistica».

E’ questo dato che, al di là delle inchieste giornalistiche e le piccate repliche istituzionali e i «facile parlare più difficile farlo», ecco, c’è questo numero che spiega più di mille parole quanto sia necessario interrompere al più presto un intollerabile spreco istituzionalizzato. Emerge dallo studio dell’associazione Trecentosessanta, che ha analizzato i bilanci consuntivi di tutte le Province italiane. E niente: se oggi stesso le Province smettessero di operare, così, di colpo - e dunque niente più stipendi né auto blu né affitti o bollette e neanche i costi dei servizi erogati, niente di niente -, ecco, se così succedesse, costerebbero ugualmente alla collettività oltre mezzo miliardo di euro all’anno. Per la precisione: 522 milioni 351mila 649 euro. Un milione e 431mila euro al giorno. Perché a tanto ammonta la spesa totale per interessi passivi, vale a dire i soldi che gli enti pagano alle banche per i debiti contratti. Debiti che complessivamente, a tutto il 2008, hanno raggiunto l’impressionante cifra di 11.558.700.801 euro (più di undici miliardi e mezzo). «Ma allora cos’è, le Province sono come la Grecia?» potrebbe paradossalmente azzardare qualcuno, paragonando (impropriamente) le difficoltà debitorie. Ora, ovvio che ai passivi bancari delle Province contribuiscano anche le spese d’investimento, certo non assimilabili ai debiti improduttivi. Resta il fatto che, in tempi di crisi grave, faremmo volentieri a meno dell’indebitamento di un livello amministrativo che, nel nostro Paese, va ad aggiungersi ad altri quattro o cinque - in Italia si eleggono i rappresentanti comunali (nelle città anche circoscrizionali) e poi quelli regionali e nazionali ed europei. Dice: ma quelli provinciali sono davvero necessari? Risposta: no. Tra l’altro, codesto fardello debitorio diventa fonte di altri ricaschi amministrativamente nefasti.  Peraltro, le Province non si fermano ai debiti in chiaro: ci sono quelli fuori bilancio - le spese occulte e soprattutto i contenziosi, che non compaiono a chiusura d’esercizio e però poi saltano fuori. A fine 2009 la Corte dei Conti ne ha fatto una ricognizione. Per quanto riguarda gli enti provinciali, le regioni dove se ne registrano di più «sono la Calabria (4 Province con complessivi 9,273 milioni di euro), la Campania (4 Province, 7,068 milioni di euro), il Molise (2 Province per 5,743 milioni di euro), il Lazo (2 Province, 5,677 milioni di euro), la Sicilia (9 Province, 5,253 milioni) e l’Abruzzo (4 Province, 3,841 milioni di euro). Questo è l’andazzo.

PARLIAMO DI BRACCIALETTI ELETTRONICI.

Potrebbe essere di platino e tempestato di diamanti grossi come il Koh-i-Noor, per quanto costa. Invece è fatto di pochi fili elettrici e di qualche sensore, annegati in 45 grammi di plastica anallergica. Ecco a voi il monile più caro e più inutile nella storia della giustizia italiana: il braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti.

Lanciato in pompa magna il 5 aprile 2001 da Enzo Bianco, ministro dell’Interno del governo di Giuliano Amato, da allora il più tecnologico degli strumenti carcerari è stato fatto indossare in tutto a una decina di persone agli arresti domiciliari. Per una spesa folle, che il prossimo 31 dicembre arriverà a circa 110 milioni di euro: quasi 11 milioni per ognuno dei braccialetti usati.

È istruttivo ripercorrere la storia ormai decennale di questo spreco assurdo, proprio nel momento in cui le prigioni esplodono, con 67 mila detenuti stipati in celle che potrebbero contenerne 44 mila, e mentre il governo ha difficoltà a pagare gli straordinari ai 38.750 agenti di custodia. E lo scandalo è doppio: perché i braccialetti elettronici da noi si sono rivelati esclusivamente un costo inutile, visto che al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dichiarano che «quasi sicuramente oggi non ne funziona più nemmeno uno».

Però in molti paesi vengono utilizzati per decine e decine di migliaia di reclusi, alleggerendo i penitenziari e liberando cospicue risorse economiche. Va detto che la sperimentazione andò male fin dall’inizio. Nel 2001 il governo Amato aveva stipulato contratti con cinque aziende fornitrici e Bianco aveva annunciato che 400 apparecchi sarebbero stati messi a disposizione di giudici e polizia in cinque città: Milano, Roma, Napoli, Torino e Catania. In realtà quelli utilizzati furono pochissimi. Probabilmente vennero anche scelti male i soggetti cui applicarli. Il 21 aprile 2001 il braccialetto numero 1 fu stretto alla caviglia destra di Cesar Augusto Albirena Tena, un peruviano condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi per traffico di droga. Per 60 mila lire al giorno la ditta garantiva che, se si fosse allontanato di 10 metri dalla centralina, collegata al telefono della sua minuscola abitazione milanese, sarebbe scattato un allarme nella centrale operativa e in questura; altrettanto sarebbe accaduto se avesse tentato di manomettere l’apparecchio. La sirena partì alle 11.04 del 26 giugno: Cesar Augusto aveva tagliato la plastica e la corda. Altrettanto accadde il 25 luglio 2002, sempre a Milano: a «evadere» fu un ergastolano messinese, il killer Antonino De Luca, ricoverato all’ospedale Sacco di Milano. Alla fine dell’anno Mario Marino, che a Catania aveva scelto il braccialetto per scontare a casa una pena per rapina, se lo sfilò esasperato: «Suonava ogni 5 minuti, anche di notte» spiegò. «Alla fine ho rotto tutto. Sapevo che così sarei tornato in carcere: ma lì, almeno, avrei potuto dormire».

Quei primi insuccessi, era ovvio, dovevano essere messi in conto. Invece accesero polemiche strumentali, anche perché fu chiaro da subito che la sperimentazione, disorganizzatissima, non era mai decollata davvero. I giudici non chiedevano i braccialetti, per i quali occorreva comunque l’assenso del recluso, e nei rari casi in cui accadeva le questure non sapevano trovarli in tempi rapidi. Il nuovo governo decise quindi di rivedere tutto e il 6 novembre 2003 (ministro dell’Interno era Giuseppe Pisanu) venne firmato un contratto unico, stavolta con la Telecom, che comprendeva noleggio degli apparecchi, installazione dei braccialetti e assistenza al controllo. L’intesa prevedeva un costo di 10 milioni 369 mila euro per il 2003, più un canone annuo di 10,9 milioni dal 2004 al 2011. In totale poco più di 97,5 milioni, che andavano a sommarsi ai soldi già spesi nei primi due anni della sperimentazione, che il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (il Sappe) oggi calcola in altri 10 milioni.

Che cosa il nuovo accordo prevedesse dal punto di vista operativo lo ha raccontato nei dettagli Gianfilippo D’Agostino, direttore del public sector dell’azienda, ascoltato l’11 maggio 2010 dalla commissione Giustizia della Camera: «Il Viminale ci chiese di riorganizzare la sperimentazione, sempre con 400 braccialetti, ma allargandola a tutto il territorio nazionale. E la Telecom dispose un servizio attivo 24 ore al giorno, con una grande centrale di controllo installata a Oriolo Romano, ben protetta e collegata con tutte le questure d’Italia. L’allarme avrebbe suonato al più tardi dopo 90 secondi dalla fuga o dalla manomissione degli apparecchi. E dal 2003 a oggi non abbiamo rilevato alcun problema operativo».

Il vero problema è che, in quella medesima audizione, incalzato dalle domande della deputata radicale Rita Bernardini, il manager della Telecom ammise che in quel momento le unità attivate erano appena 6 su 400. Interrogata da Panorama, l’azienda delle telecomunicazioni conferma che non importa il numero dei braccialetti funzionanti: la centrale di Oriolo è attiva e il servizio viene comunque garantito. Così, fino al prossimo 31 dicembre, lo Stato ha continuato e continuerà a pagare quasi 11 milioni d’euro l’anno, per nulla.

Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, dice: «Visto lo scarso utilizzo del braccialetto ho parlato con la Telecom per vedere cosa si poteva fare, ma l’azienda ha dato attuazione all’accordo regolarmente». Aggiunge il ministro: «Lo scarso utilizzo del braccialetto comunque non dipende da noi. È la magistratura che ne dispone l’utilizzo. Al Viminale dobbiamo controllare che chi è agli arresti domiciliari non scappi; ma è solo un giudice che decide se utilizzare o meno tali strumenti: può farlo, ma non lo fa». Maroni ha ragione. Vari magistrati, sentiti da Panorama, dimostrano addirittura di non sapere che la sperimentazione sui braccialetti è ancora in corso. Uno dei pochi che risponde a tono è Enrico Tranfa, presidente del tribunale del riesame a Milano: «A me» dice «non è mai capitato un avvocato che ne richiedesse l’uso. Il sistema però mi pare macchinoso. E comunque o un imputato è affidabile, e allora ottiene gli arresti domiciliari, oppure non lo è. Forse si potrebbe rendere obbligatorio il controllo elettronico come una terza via più restrittiva».

Anche Donato Capece, segretario del Sappe, contesta le procedure, troppo complesse, ma soprattutto che la gestione degli apparecchi sia stata affidata alle questure: «Doveva essere la Polizia penitenziaria a occuparsene» sostiene. «Noi siamo sul campo e conosciamo i diretti interessati». Certo, con 110 milioni si sarebbe potuto costruire un carcere modello come quello di Trento, varato nel 2010 e costato per l’appunto 112 milioni. «Peccato» dice Capece «che oggi ospiti 100 detenuti sui 350 previsti. Del resto, anche progettare nuove prigioni senza agenti di custodia non ha molto senso». Ne ha ancora meno costruirne senza completare la strada d’accesso: è accaduto ad Arghillà, alle porte di Reggio Calabria (300 posti). È stato completato nel 2004, da allora mancano 100 metri di asfalto di collegamento con l’autostrada. E costerebbero sicuramente meno di un braccialetto.

PARLIAMO DELLE ASL.

Un «enorme spreco di denaro pubblico», con un maggiore esborso per oltre 1,5 miliardi di euro a carico del servizio sanitario nazionale per la mancata attuazione delle misure di contenimento della spesa farmaceutica. La scoperta è stata fatta dalla Guardia di finanza attraverso controlli nei confronti di 165 Asl di 19 regioni. Si tratta di farmaci destinati a garantire la continuità delle cure programmate dall’ospedale per pazienti cronici, ovvero bisognevoli di particolari terapie periodiche, come nei trapiantati d’organo, nei malati oncologici, nei diabetici e che devono essere costantemente controllati. Gli ospedali e le Asl, fin dal 2001, possono acquistare questi farmaci direttamente dalle case farmaceutiche con uno sconto del 50%. Per la distribuzione dei preparati, poi, è prevista una duplice via e cioè «diretta» tramite ospedali ed Asl, e «diretta per conto» tramite farmacie convenzionate, che ricevono però solo un aggio. Ciò nonostante è emerso che la distribuzione dei farmaci PH-T, nel periodo dal 2004 al 2008, è avvenuta, in larga parte, mediante il rimborso delle farmacie. In pratica, il mancato ricorso alla modalità di distribuzione «diretta pura» per i farmaci PH-T ha causato una maggiore spesa pari a 1.515.655 euro.

PARLIAMO DELLE SCORTE.

Italia, paradiso delle scorte, inchiesta di Gianluca Di Feo su “L’Espresso”.

“Il fantomatico attentato virtuale contro Gianfranco Fini. I micidiali pacchi bomba anarchici. I petardi contro le sedi della Lega. E la misteriosa sparatoria sulle scale di casa Belpietro, passata in due mesi da emergenza nazionale a bufala individuale. Le cronache tornano a riempirsi di allarmi, in un contesto che tra crisi economica, aspri confronti sindacali e scontri studenteschi è di sicuro teso, offrendo lo scenario perfetto per azioni clamorose e simulazioni più o meno credibili. In questo clima da fine impero c'è una figura che torna protagonista: quella del pretoriano, che spesso invece di difendere l'imperatore diventa strumento di interessi diversi. Oggi si chiama scorta e, nell'italica declinazione viene sempre più spesso percepita come lo status symbol supremo. Per alcune persone realmente in pericolo si tratta di una logorante necessità, che annulla la libertà di movimento e la privacy, una condanna alla vita blindata. Per altri invece è solo l'ostentazione di un rango: il massimo del privilegio, molto più dell'auto blu. Tra minacce concrete e sfarzi di casta, l'Italia è diventata l'Eldorado delle auto corazzate: il nostro governo vanta il record mondiale degli acquisti, più degli Usa o della Russia, della Colombia o del Libano. Negli ultimi anni lo Stato ha speso circa 120 milioni per comprare 600 Bmw delle serie 3 e 5; un centinaio di Audi 6, ciascuna del costo di 140 mila euro; un'ottantina di "carri armati" Audi A8 e Bmw 7 che per 300 mila euro promettono di incassare anche le raffiche di kalashnikov. Ma nei garage pubblici c'è molto altro. Centinaia di Lancia Thesis e Lybra, decine di Alfa 164, le nuove Subaru Legacy e le ormai vetuste Fiat Croma, residuati della flotta commissionata all'indomani della strage di Capaci. Non esiste un censimento dell'autoparco blindato: dovrebbero essere circa 1.500 macchine, che consumano il doppio e si logorano molto più rapidamente. Solo per le missioni assegnate dal Viminale ogni mattina ne partono 650: messe in fila formerebbero un corteo lungo più di tre chilometri. Servono per garantire la sicurezza di 263 magistrati, la metà dei quali in Sicilia e Calabria; 90 parlamentari e uomini di governo; 21 sindaci e governatori regionali; altrettanti ambasciatori e otto tra sindacalisti e giornalisti. A sedici di loro viene assegnato il dispositivo massimo: due-tre blindate con oltre otto agenti. Altri 82 hanno una doppia macchina con sei uomini armati, mentre 312 si devono accontentare di una sola auto corazzata con una coppia di bodyguard. Ad ulteriori 174 personalità invece è stata concessa una vettura normale con uno o due militari di tutela. In totale il ministero dell'Interno ha disposto 585 "servizi di protezione ravvicinata" che richiedono 650 vetture antiproiettile, 300 auto non blindate, circa 2 mila tra agenti, finanzieri, carabinieri e guardie carcerarie più altri 400 uomini per vigilare su case e uffici. E questo apparato in molti casi si alterna su due turni, raddoppiando così personale e macchine. L'elenco ufficiale del ministero - che "L'espresso" rivela per la prima volta - è comunque parziale, perché esistono molte altre scorte che non dipendono dal Viminale. Anzitutto, c'è lo scudo di Palazzo Chigi, con una struttura da 007 che schiera 30 commandos ed ex guardiaspalle privati della Fininvest, tutti alle dipendenze dei servizi segreti, con 13 Audi corazzate e altri 70 uomini per sorvegliare le residenze del premier. E bisognerebbe conteggiare anche i dispositivi che vegliano sul capo dello Stato e quello che contribuisce alla sicurezza del papa. C'è poi una serie di provvedimenti d'urgenza disposti dai singoli prefetti: nell'ultimo periodo hanno riguardato 23 magistrati e un numero top secret di politici nazionali o locali. Nella lista vanno aggiunti i "servizi di vigilanza", ossia il livello minimo di protezione: un'auto di ronda che passa periodicamente sotto l'abitazione o il luogo di lavoro della personalità da protegger. La vigilanza riguarda 678 magistrati e una moltitudine di esponenti di partito, sindacalisti, imprenditori, alti prelati e un gruppetto di giornalisti. Infine, l'ultima novità: i vigili urbani usati come guardia personale dai sindaci, con la benedizione o meno dei prefetti, come avviene da Palermo a Pavia. E persino, è accaduto a Milano, la discesa in campo della polizia provinciale che normalmente si occupa di caccia e pesca mentre invece ha esibito un pool di bodyguard con equipaggiamento da Secret service. Una stima ufficiosa ritiene che per le scorte ogni giorno siano mobilitati più di 4000 uomini con duemila vetture: una moltitudine di pretoriani che tra stipendi, auto e carburante grava sull'erario per oltre 250 milioni di euro l'anno. Un costo altissimo in termini economici e professionali, perché si acquistano blindate da sogno mentre le volanti perdono i pezzi e si destinano a questi incarichi agenti di prima scelta, uomini e donne giovani ed esperti, con ottima forma fisica e grandi capacità. "Personale che sa "leggere" quello che succede per strada, interpretare gli atteggiamenti della gente e gestire la reazione: l'ideale per quei servizi di controllo del territorio che vengono sempre invocati", come sottolinea un sindacalista delle forze dell'ordine.

Eliminare le scorte inutili è uno slogan che ritorna periodicamente. Eppure da anni non ci sono attacchi di gruppi organizzati di natura politica, criminale o religiosa: le Brigate rosse sembrano debellate, le mafie hanno subìto duri colpi - come magnifica la propaganda di governo - e scelto una linea di basso profilo. La sparatoria nel condominio del direttore di "Libero", stando alle indagini, sembra una discutibile iniziativa del suo agente di scorta. Mentre le azioni di squilibrati, come il lancio della statuina contro il premier, non sono state impedite dalla sicurezza ravvicinata più potente d'Italia. Inoltre bisogna ricordare che gli attentati più gravi della storia recente, quelli contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, hanno ucciso magistrati con protezione massima. Certo, ci sono personaggi che per il ruolo rivestito o per specifiche iniziative, hanno ricevuto minacce o corrono pericoli concreti. Ma siamo sicuri che in Italia ci siano 700 persone che non possono fare a meno di una protezione armata 24 ore su 24? Queste cifre testimoniano la sconfitta dello Stato nel garantire l'ordine pubblico o sono solo l'ennesimo corto circuito tra istituzioni che invece di controllarsi si scambiano favori? Nell'Italia delle cricche la scorta diventa il regalo più ambito, quello che dona un'immagine di potere al politico, al grand commis e al magistrato. Tutti i sindacati di polizia sono compatti nel denunciare lo scandalo quotidiano che avviene in questo settore. E sono numerosi gli episodi che hanno diffuso questa percezione di abuso. I militari che continuano a proteggere l'ex governatore laziale Piero Marrazzo, assiduo frequentatore di transessuali nonostante fosse sotto scorta. La difesa anti-ultra accordata per mesi ad Adriano Galliani. O i filmati della Mercedes di Lele Mora carica di pin up che entra nella villa di Arcore senza nessun controllo dei carabinieri all'ingresso. O il traffico di chiamate di escort, starlette e minorenni sedicenti nipotine di Mubarak smistato dal telefonino del caposcorta di Berlusconi che - alla luce dello stipendio d'oro di dirigente dell'intelligence - dovrebbe occuparsi di vicende più serie per la sicurezza nazionale. Ma le proteste anonime degli agenti segnalano lo stesso malcostume: ore passate a vigilare su party e festini delle autorità. E se un poliziotto o un carabiniere reclama, quasi sempre finisce per beccarsi una punizione. Pochi mesi fa un importante ministro è stato messo in guardia dai problemi di sicurezza connessi alle frequentazioni discutibili di un suo stretto familiare: e lui invece di ringraziare ha preteso che tutti gli uomini della sua vigilanza venissero rimossi.

Altro vizio diffuso poi sono le tutele eterne, che proseguono per anni senza che se ne capisca l'esigenza: benefit a vita. Il sindacato di polizia Coisp ha fatto un elenco di lungodegenti della blindata: Oliviero Diliberto anni fa fu il secondo Guardasigilli comunista dopo Palmiro Togliatti e da allora continua a girare con autista e agente; il combattivo avvocato ed ex deputato Carlo Taormina ha ben quattro uomini; Mario Baccini non è più sottosegretario dal 2005 ma ha ancora cinque guardaspalle. I presidenti di Camera e Senato continuano per lustri a girare con tutela calibro nove: Irene Pivetti l'ha avuta per oltre dieci anni e oggi sorveglia i convegni di Marcello Pera e Pier Ferdinando Casini mentre Fausto Bertinotti passeggia per villa Borghese con la signora Lella sottobraccio e agente al seguito. L'ex governatore calabrese Agazio Loiero ha tre finanzieri, quattro il leghista Federico Bricolo e due l'ex sindaco di Segrate e deputato Giampiero Cantoni. Marcello Dell'Utri viene protetto da nove anni, nonostante la condanna confermata in appello per mafia. Vittorio Sgarbi è un altro habitué della scorta. La ebbe per la prima volta nel 1993 e la perse due anni dopo anche per le interrogazioni del postdemocristiano onorevole Sergio Tanzarella che lo accusava di "seminare il panico nelle strade di Roma, soprattutto di notte, scarrozzando allegre e schiamazzanti brigate gaudenti da ristoranti e balere". Ma il critico l'ha riottenuta come sindaco di Salemi, pronto a scagliarsi contro lo scempio dei parchi eolici siciliani: una misura potenziata per effetto di due lettere anonime recapitate alla Sovrintendenza di Venezia. La sua attività tra Roma, Veneto e trapanese richiede lunghi spostamenti: a settembre uno dei "suoi" finanzieri ha rischiato la vita dopo un incidente sull'Autosole. La legge prevede che tutte le misure di protezione vengano riesaminate periodicamente, per capire se sono ancora indispensabili. In realtà queste revisioni sono rare: per quieto vivere o per mantenere buone relazioni, difficilmente si interviene. Eppure basterebbe poco per risparmiare. Due mesi fa a Palermo il prefetto Caruso ha limato molti dei servizi, togliendo le blindate a giudici che non avevano più incarichi a rischio o a politici come l'ex governatore e imputato Totò Cuffaro: così ha recuperato 50 agenti. Nel 2011 l'italiano più protetto dopo Berlusconi è Renato Schifani: il presidente del Senato è la seconda carica istituzionale, ma in questa stagione turbolenta la sua posizione non appare in prima linea. Invece la sua sicurezza è affidata a venti uomini dei reparti speciali con quattro vetture corazzate, mentre il figlio che vive a Palermo ha una blindata con tutela. Spicca anche l'esercito personale di Raffaele Lombardo, con 18 agenti e quattro Audi che si alternano intorno al governatore siciliano. Le scorte spesso sono anche uno strumento per cementare relazioni e costruire carriere. Nel 2001 l'allora direttore del Sismi Nicolò Pollari grazie all'emergenza dell'11 settembre aveva istituito un inedito servizio vigilanza degli 007 per dotare di auto blu e pretoriani una cinquantina di politici, ex membri di governo, top manager pubblici e privati. Una cortesia che andava a rimpiazzare gli agenti richiamati dal ministro degli Interni Claudio Scajola, che con una drastica riforma aveva tagliato quasi 800 uomini dalle scorte per destinarli alla lotta contro il terrorismo islamico. Nonostante non sia più agli Interni da anni e abbia dovuto rinunciare anche alla poltrona delle Attività industriali per la casa con vista Colosseo pagata dagli assegni della Cricca, Scajola conserva otto poliziotti e due blindate. Un bel paradosso per chi definì Marco Biagi, lasciato senza protezione ignorando le sue richieste angosciate, "un rompicoglioni"."

PARLIAMO DEGLI IMPIANTI TURISTICI INVERNALI.

 “L'abominevole spreco delle nevi” è il titolo dell’inchiesta su “L’Espresso” a firma di Paolo Tessadri. Impianti abbandonati, alberghi in rovina, Skilift fantasma. Dal Piemonte alla Carnia, le Alpi sono costellate di relitti del turismo, che hanno dilapidato fiumi di denaro pubblico. Tralicci che spuntano come scheletri dalla nebbia delle valli, alberghi abbandonati come colossi di ghiaccio, seggiovie fantasma sospese nel nulla. Eccolo, l'abominevole spreco delle nevi: un monumento alla memoria di Olimpiadi affrettate, sovvenzioni sperperate e investimenti gettati via in discesa libera. Tutto l'arco alpino ne è pieno: un cimitero di occasioni buttate o di opere sacrificate in nome di un turismo di massa sempre meno rispettoso della montagna. Il fronte nord dell'Italia che sperpera e non sa coniugare vacanze e ambiente, nemmeno quassù dove la bellezza nasce tutta dalla natura e richiede solo di essere rispettata: montagne sfregiate da condomini mostruosi e inutili colate di cemento servite per eventi show e subito dimenticate. L'ultimo censimento di questo paradiso ferito conta 186 impianti chiusi su 350 esistenti in Italia, 4 mila tralicci abbandonati, 600 mila metri di fune d'acciaio che oscillano nel vuoto senza vedere più sciatori. Il film dell'abbandono va in onda in Piemonte, sull'Alpe Bianca nelle Valli di Lanzo. Una desolazione che si tocca con mano, dentro i sei piani di una scatola di cemento lunga un centinaio di metri, divorata dal vandalismo. Un condominio faraonico iniziato negli anni Ottanta e mai completato, fra vetri rotti, bagni divelti, porte abbattute e attrezzature accatastate in cantina, accanto gli skilift immobili dal '92. Morte di una stazione sciistica, che si voleva fonte di facile guadagno con una speculazione selvaggia. Una tomba in ferro e cemento per "problemi finanziari dovuti agli alloggi invenduti, mancanza di neve e dimensioni ridotte della stazione non avrebbero consentito di avere lo sviluppo previsto", spiegano gli esperti. Il simbolo di questa spoon river della vette, alimentata da una valanga di investimenti negli anni del boom, dal 1960 in poi. La Cipra, la Commissione internazionale per la protezione delle Alpi, e Mountain Wilderness hanno censito gli impianti dismessi nel Nord. Fabio Balocco, Francesco Pastorelli e Alessandro Dutto descrivono i fantasmi della montagna: ne sono stati finora trovati 40 in Piemonte, 39 in Valle d'Aosta, 20 Lombardia, 30 sull'Appennino fra Emilia e Liguria, 35 in Veneto, 25 in Friuli, fra funivie, skilift, ovovie, bidonvie, telecabine, tapis roulant. I mostri piemontesi. Alla stazione di partenza i muri sono crivellati, mentre lo scheletro di ferro della cabinovia è ancora infisso nel soffitto; fuori una vecchia poltrona sfondata, un water e un lavandino rotti. Questo il biglietto da visita di Pian Gelassa, alta Val di Susa in Piemonte. Un centro turistico mai decollato su un'area di oltre un milione di metri quadrati. Nato nel '64, in cinque anni vennero costruiti un albergo, un ristorante, una cabinovia e tre skilift. E quattro condomini. Un investimento disastroso, travolto dai debiti e dalle valanghe che hanno spazzato via gli impianti: agli inizi degli anni Settanta era già un cimitero nella neve. Ma tralicci, stazioni degli impianti e tantissimo cemento sono ancora lì, in quell'area protetta. "Spesso è più conveniente per un proprietario aprire una nuova stazione, piuttosto che mettere a norma quella vecchia, come a Col del Lys, nella Valle del Viù", precisa Pastorelli. Quattro skilift, alcuni con le funi ancora appese e i sostegni di quattro colori diversi, a pois con il rosso del ferro ossidato della ruggine. L'ecomostro che batte tutti è però in provincia di Cuneo, 1.200 metri di altezza, a Saint Gréé di Viola. Negli anni Settanta si chiamava Sangrato, poi Porta della Neve, ma ha portato solo trent'anni di fallimenti. Hanno costruito un centro polifunzionale con dentro un'enormità di appartamenti e pure un cinema. Poi in un improbabile rilancio, ha inghiottito una slavina di soldi pubblici appesi a una nuova seggiovia finita nel 2006 (aperta in stagione solo sabato e domenica). Mentre la pista di pattinaggio, ai piedi di uno squarcio nel bosco per una pista senza sciatori, ha ancora gli altoparlanti sui pali d'acciaio, fatti vibrare dal vento. Un abbandono che segna anche Breuil-Cervinia in Valle d'Aosta: appartamenti chiusi, skilift fermi da ormai troppo tempo. L'Olimpiade disastrata. Dall'Olympic Park di San Sicario - sede delle gare del biathlon, costata 25 milioni di euro - e da Pragelato - dove si trovano i cinque trampolini del salto con gli sci costati 34 milioni - sono spariti alla fine di novembre i cannoni per l'innevamento artificiale, transenne, sedie, mobiletti, materassini anticaduta e pure bandiere e portabandiere. Li avevano quistati per le Olimpiadi di Torino 2006. Sono stati traslocati in Alto Adige, in Val Ridanna per la Coppa Europa di biathlon. "Un saccheggio", dicono gli amministratori di Pragelato, che si domandano: "Non vorremmo che questo atto significasse la definitiva scelta di abbandonare gli impianti". "Un prestito", replicano i gestori delle strutture olimpiche. Tuttavia non sono previste gare: per ora è in programma solo una competizione di slittino sulla pista di Cesana, costata 61,4 milioni di euro. Senza altri soldi pubblici sia i trampolini, sia la pista da bob che le strutture del biathlon di San Sicario saranno destinate alla chiusura perenne: soltanto per la manutenzione degli impianti del salto e quelli del bob servirebbero rispettivamente 1,2 e 2,2 milioni di euro l'anno. Natura devastata. Anche la scuola di sci a Ardesio in Valcanale è desolatamente vuota, sebbene la seggiovia abbia ancora i vecchi seggiolini monoposto montati sulla fune. L'albergo e il bar sono chiusi da tempo e semidistrutti, vicino agli skilift. E dalla cima della montagna la profonda lacerazione nel bosco della vecchia pista di sci s'allarga fino all'hotel spettrale: da 13 anni non funzionano più per la scarsa redditività. Ora il Comune vorrebbe sanare almeno le piaghe nell'ambiente ma i costi sono proibitivi. La cabina della funivia di Valcava a Torri dei Busi (Lecco), una delle prime in Italia, è invece rimasta alla stazione di arrivo. È lì dal 1977, con gli alti piloni in cemento in mezzo al bosco. Dopo Valcava la mappa della disfatta elenca altri relitti: Alpe Paglio, Lanzo, Poggio Sant'Elsa, Pialeral, Arnoga, Arera, Pian del Tivano, Cainallo, Crocione. Tutti sbarrati per colpa di calcoli affrettati: ci si aspettava più neve o fatturati più ricchi. O la fine è stata decisa dalle concessioni non rinnovate o dai preventivi per le ristrutturazioni troppo esosi. Se il Trentino ha una legge che finanzia le dismissioni, lo stesso non vale per le altre strutture. Gli impianti di risalita, infatti, sono stati smantellati anche a Tremalzo nel comune di Ledro (Trento), e l'edificio dell'ex tavola calda è occupato dal ghiaccio: bar, ristorante e 12 appartamenti, tutto in rovina. Sull'altra sponda del Garda, sul versante veronese, proprio a ridosso della funivia rotante di Malcesine, svettano un albergo in abbandono e uno skilift con vista sul più grande lago italiano. Ma in Veneto la lista delle dismissioni è assai lunga, da Roana al Cansiglio, al Grappa. Non si salva nemmeno la celebrata Cortina dei vip, dove si nota lo skilift rimesso a nuovo nel 2007 a Lacedel e mai attivato. A Taiarezze-Fedo sopra Auronzo nel 2007 hanno rimpiazzato la seggiovia con una costruita a pochi metri, ma meglio esposta al sole. La vecchia resta però a mutilare il bosco. L'illusione friulana. Anche il Friuli ha subito il rovescio del meteo, spiega Marco Lepre: "Ma da oltre una ventina d'anni gran parte di queste strutture, in genere piccoli skilift sorti in vicinanza di centri abitati per favorire i residenti e accontentare le amministrazioni comunali, sono entrati in crisi". Nevica di meno e la stagione ridotta spinge i gestori a dileguarsi. L'abbandono ha toccato pure Sauris (Udine), il comune più elevato della Carnia. Costruito negli anni Settanta dalla Pro Loco, lo skilift è stato spento sei anni fa: la pista di soli 800 metri non piaceva più ai turisti. Rimangono i tralicci e le funi. Sella Chianzutan è stata probabilmente, prima dell'avvento dello Zoncolan e di Piancavallo, una delle località invernali più frequentate: attorno agli skilift sorgeva un ristorante self service e un albergo. Ma non nevica più come una volta e le comitive sono migrate altrove. Dopo una lunga crisi, i privati hanno ceduto gli impianti al Comune di Verzegnis che ha cercato di rimetterli in funzione. Ma ben tre bandi pubblici per affidare la gestione sono andati deserti. Una selezione naturale legata al surriscaldamento climatico e a progetti poco lungimiranti che allunga ogni anno la lista dei dispersi nel ghiaccio: Cima Corso, Passo Tanamea, Sella Duron, Valdajer, Osteai, Valbruna, Latteis, Claut, Collina di Forni, Cave del Predil, Studena Alta, Ravascletto e Monte Matajur. L'ultimo lamento di una montagna sedotta e abbandonata dal turismo mordi e fuggi.

ENIT. IL RE DEGLI ENTI INUTILI.

«L'Enit è in agonia, rottamaci!» I dipendenti del  carrozzone di Stato scrivono a Renzi. In una lettera i lavoratori dell'agenzia che dovrebbe promuovere il turismo chiedono di essere chiusi e fusi con l'Ice: «Se restiamo aperti compromettiamo l'immagine dell'Italia». Tra stipendi e sprechi, l'ente brucia una ventina di milioni l'anno, ma il ministro Dario Franceschini non ha ancora deciso cosa farne, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. «Basta, rottamateci!». Quando ha letto la mail, Matteo Renzi ha gridato al miracolo. Perché per la prima volta nella storia della Repubblica un baraccone di Stato ha chiesto ufficialmente al governo di essere chiuso. L'Enit, la famigerata agenzia che dovrebbe promuovere nel mondo il turismo italico, incontrastato re degli enti inutili che da lustri mangia decine di milioni di euro usati per la sopravvivenza sua e dei manager, utilizzato dai politici di ogni colore per assumere famigli, amici e trombati, ha chiesto di essere smantellato. Sembra incredibile, ma attraverso una lettera spedita a Renzi qualche giorno fa tutti i dipendenti, dirigenti compresi, hanno pregato il premier di accorparli all'Ice, l'Istituto per il commercio estero, e di farlo il più rapidamente possibile. I toni della lettera sono accorati: «Egregio Signor presidente…si auspica un suo urgente intervento in tal senso, affinché si ponga fine a questa laconica agonia dell'agenzia che, nonostante l'impegno profuso quotidianamente da tutti i dipendenti, sta compromettendo l'immagine turistica del Paese nei confronti della stampa estera e degli operatori internazionali, rendendo impossibile anche una programmazione efficace di medio periodo». Alla Fantozzi, in pratica, chiedono al premier di avere pietà, e dare il colpo di grazia. In modo da ripartire, e essere finalmente (si spera, visto i problemi dell'Ice) utili alla causa. Secondo gli stessi dirigenti l'Enit, se resta aperto, non solo non può aiutare come dovrebbe il settore turistico nazionale, ma lo danneggia. Un paradosso. L'ultimo flop riguarda l'Expo di Milano: l'agenzia ha curato la promozione dell'evento all'estero, ma finora - come hanno denunciato il 20 maggio in un comunicato congiunto Federturismo, Assoturismo e Confturismo, non ripreso dai cantori della fiera meneghina - «ci sono principalmente visitatori italiani e alberghi vuoti al 50 per cento, con una notorietà dell'evento sui principali mercati stranieri ancora estremamente bassa». La lettera dell'Enit è firmata da 64 persone, quasi tutto il personale italiano dell'agenzia. Manca all'appello, ovviamente, il commissario straordinario Cristiano Radaelli, voluto un anno fa dal ministro competente Dario Franceschini. E manca, of course, anche la firma del direttore generale Andrea Babbi (stipendio da 150 mila euro l'anno, è indagato a Roma per presunti illeciti nella sua nomina), che mentre i suoi uomini chiedevano la fusione con l'Ice era in missione a Bibione a un convegno della Conferenza episcopale italiana. Nonostante l'arrivo dei rottamatori del Pd, ma a tutt'oggi non è ancora chiaro cosa Franceschini voglia fare del carrozzone in capo al suo ministero. Chiuderlo sembra un'ovvietà: imbattibile macchina da sprechi (costa una ventina di milioni l'anno) nell'ente sono stati spesi anche 138 mila euro in un anno per comprare giornali e riviste, mentre i fortunati dirigenti agognavano a partire per le sedi estere dove potevano intascarsi indennità vicine ai 17 mila euro al mese (escluso stipendio base). Il nuovo statuto promesso da mesi non è stato ancora approvato. Prevede che l'Enit diventi un «ente pubblico economico»: i vecchi dipendenti vedrebbero modificato il loro contratto, da pubblico diventa sottoposto a diritto privato. «Nessuno di noi rimarrebbe, perché perderemmo il nostro status» ammette uno di loro. «Per legge, possiamo chiedere di essere spostati ad altre amministrazioni pubbliche: non è per questo che abbiamo firmato l'appello. Di sicuro c'è qualcuno che spera che l'Enit si svuoti, così la politica può riempirla con assunzioni nuove di zecca». Malignità. Due mesi fa Franceschini ha spiegato che anche lui è per la fusione, poi non se ne è fatto più nulla. Per ora l'Enit è vivo e lotta insieme a noi. Chissà se Renzi terrà fede alla sua fama: salvasse il carrozzone nonostante l'appello alla rottamazione dei suoi stessi dipendenti, sarebbe un vero paradosso.

Enit, il re degli enti inutili. E la procura di Roma apre un'inchiesta. Brucia milioni tra stipendi e sedi ma non ha soldi per rilanciare il turismo. Mentre nessuno ferma lussi e privilegi. Solo nel 2013 ha speso 138 mila euro per comprare giornali e riviste, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Non c'è pace per l'Enit, ormai mitico "carrozzone" della nostra pubblica amministrazione. Dopo il commissariamento deciso dal governo, l'Agenzia che dovrebbe rilanciare il turismo italico (costa una ventina di milioni l'anno, e non fa nulla) è finita stavolta nel mirino della procura di Roma, che sta indagando su alcune consulenze esterne decise negli ultimi mesi dal direttore generale Andrea Babbi. La notizia dell'indagine è uscita oggi sul "Corriere", dopo che qualche mese fa "L'Espresso" aveva pubblicato un'inchiesta sui folli sprechi dell'ente pubblico e dei sui dirigenti, spesso e volentieri propaggini dei politici e di amici degli amici. C’è un ente inutile che nel solo 2013 ha speso 138 mila euro per comprare giornali e riviste. Guidato da un gruppo di dirigenti che prende un’indennità mensile netta che può arrivare fino a 17 mila euro al mese (escluso lo stipendio base). Un’agenzia dove i funzionari vanno spesso e volentieri in alberghi a cinque stelle, e che brucia oltre 5 milioni di euro l’anno soltanto per pagare un centinaio di dipendenti all’estero. Si chiama Enit, e tra i tanti enti inutili che nessun governo è riuscito a cancellare, è di certo il più costoso. Meno celebre delle odiate province, secondo qualcuno più superfluo dell’Ente nazionale risi (che difende, letteralmente, il nostro «settore risicolo»), l’Enit è la nostra “Agenzia nazionale per il Turismo” e sulla carta ha un compito fondamentale: promuovere il brand Italia all’estero e far venire gli stranieri nei nostri hotel e sulle nostre spiagge. In modo da dare un po’ di ossigeno al settore trainante della nostra economia, il turismo, che pesa tra il 10 e il 13 per cento del Pil nazionale. Peccato, invece, che l’Enit non serva a un bel niente. Non solo perché gli ultimi dati Eurostat segnalano che l’Italia è uno dei pochi Paesi tra i 28 membri dell’Unione europea in cui sono crollati i soggiorni dei turisti (sia quelli degli italiani sia quelli degli stranieri che - nonostante la crisi - crescono in numero persino in Lettonia, Bulgaria e Slovacchia). Ma anche perché tutto quello che lo Stato gira all’Enit (circa 18 milioni l’anno, una cifra che negli anni si è andata sensibilmente riducendo) viene usato solo per coprire i costi di gestione, pagare ricche buste paga a direttori, dirigenti, presidenti e amministrativi (180 persone in tutto) e le spese di affitto delle 23 sedi sparse per il mondo. Per la promozione e le campagne pubblicitarie, alla fine della fiera, restano poche decine di migliaia di euro. Nulla, rispetto a quanto investito dai nostri rivali, Spagna su tutti. Le spese più alte riguardano gli stipendi: il direttore generale, Andrea Babbi, uomo considerato vicino a Comunione e Liberazione, amico sia di Vasco Errani che del ministro Maurizio Lupi, prende 180 mila euro l’anno. I sette capi delle direzioni d’area a Francoforte, Mosca, New York, Parigi, Pechino, San Paolo e Tokyo guadagnano, oltre allo stipendio base, indennità da favola: da un minimo di 9 mila a un massimo di 17 mila euro nette al mese. A sfogliare i documenti interni che “L’Espresso” è riuscito a leggere si scopre che, su 180 dipendenti totali, un centinaio lavorano all’estero. Tra retribuzione annua e oneri a carico dell’ente costano agli italiani 5,1 milioni di euro l’anno. Tra i beneficiari Fujio Kitazume di Tokyo: andato in pensione da poco, costava 111 mila euro l’anno; mentre i suo colleghi Makiko Miura, Kiyomi Suzuki e Maki Manai pesano sulle casse pubbliche per circa 80 mila euro a testa. Poco meno di quanto costano i contratti di Wilfried Wannemacher a Francoforte, di Brigit Van Sereveren a Bruxelles e di mister Rasmi Sakulsuvarn a Sydney. «Il problema non sono i loro stipendi», sottolinea una fonte interna, «il problema è che non ci sono i soldi per fargli fare cose utili». Fondata quasi cent’anni fa, l’Enit è emblema perfetto di uno Stato incapace di tagliare gli sprechi della pubblica amministrazione. Sono decenni che i governi d’ogni colore tentano di sbarazzarsene, ma alla fine resta sempre in piedi. L’ex ministro berlusconiano Franco Frattini voleva accorparlo con l’Ice (l’Istituto commercio estero) e dare ai vari ambasciatori il coordinamento sul campo di tutte le iniziative degli enti nazionali all’estero, ma non ci fu niente da fare. Troppe le lobby e gli interessi contrari. Mario Monti ci riprovò e riuscì addirittura a decretarne l’abolizione, ma l’articolo scomparve prima dell’approvazione della Finanziaria. Anche il Pd lo ha spesso attaccato: poltronificio per boiardi e politici trombati, baraccone di Stato, carrozzone pubblico, gli insulti non si contano. Eppure il nuovo ministro competente, il dalemiano Massimo Bray in sella al dicastero dei Beni culturali da maggio, a parte qualche dichiarazione di prammatica non ha ipotizzato nessuna riforma strutturale. Due mesi fa persino il Vaticano, tramite un accorato e stanco appello di monsignor Liberio Andreatta, direttore dell’Ufficio dei Beni culturali del Vicariato di Roma, parlando dell’Enit e delle politiche turistiche ha accusato l’Italia di continuare, imperterrita, a gettare denaro dalla finestra. «Si spendono tanti soldi e male», ha ragionato. «Non si va da nessuna parte. Ormai sono disincantato, diciamo sempre le stesse cose. La mia famiglia è longeva, quindi c’è il rischio che tra altri 40 anni continuerò a dirle». Dopo le scelte di Michela Brambilla, che da ministro del Turismo piazzò a capo dell’Enit Matteo Marzotto come presidente e Paolo Rubini come direttore generale (che nel curriculum aveva solo la vicepresidenza della StemWay Biotech, un’azienda specializzata nel congelamento di cordoni ombelicali), il montiano Piero Gnudi ha dato fiducia nell’ottobre del 2012 a Pier Luigi Celli, presidente, e al manager Andrea Babbi. Due nomine che allora suscitarono polemiche. A Celli, che siede contemporaneamente su più poltrone (attualmente è consigliere di Aeroporti di Roma, membro del comitato esecutivo di Illy Caffè e senior advisor di Unipol), fu rimproverato di non essere esattamente l’uomo giusto per promuovere l’immagine dell’Italia all’estero: nel 2009, in effetti, con una lettera aperta a “Repubblica” invitò il figlio ad andare via da «un Paese che non ti merita», un posto in cui non è «possibile stare con orgoglio». Non una grande pubblicità per il Belpaese. Anche Babbi oltre a quello in Enit vanta una decina di altri incarichi, tra cda di consorzi, banche (Cariromagna) e società di ogni tipo. Tra queste spicca l’Iscom, di cui il direttore dell’Enit è amministratore delegato: una srl che fa consulenza ad enti pubblici e privati nel settore del turismo e in quello dei servizi, in pratica le stesse cose dell’Enit. Alla faccia del conflitto di interessi. Ma c’è dell’altro. Qualche giorno fa nella sede romana dell’agenzia sono arrivati gli uomini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, su ordine dei magistrati della Corte dei Conti che hanno aperto un’inchiesta su presunte irregolarità nel contratto di assunzione di Babbi. Il manager è stato in effetti ingaggiato il primo dicembre 2012, quando le norme sulla spending review avevano già vietato l’assunzione di personale «a qualsiasi titolo e con qualsiasi contratto», ricorda il sindacato Fialp in una nota mandata ai pm contabili. Vedremo se i finanzieri indagheranno anche sulle accuse lanciate due anni fa dall’ispettorato generale del ministero dell’Economia: un elenco «di 19 irregolarità e disfunzioni» che spaziano dall’assunzione di collaboratori esterni all’utilizzo improprio delle auto blu, passando dall’uso smodato di alberghi a cinque stelle. Proprio così. I dirigenti dell’Enit per regolamento possono alloggiare, quando sono in missione, in hotel a quattro stelle. Ma a qualcuno deve essere sembrato squalificante: così - dicono i controlli effettuati dall’ispettorato - ha preferito infilarsi negli alberghi ultra-lusso. La differenza? L’hanno pagata i contribuenti. Finora presidente e direttore generale, nonostante una lettera dal ministero abbia chiesto al nuovo management di intraprendere «iniziative» in merito, pare non abbiano fatto alcunché, né mandato lettere di contestazione ai responsabili. Secondo i maligni Babbi rischia di doverla mandare anche a se stesso: qualche settimana fa ha chiesto un rimborso di 327 euro per essere andato due giorni a Milano «per incontri istituzionali». Sarà una coincidenza, ma a “l’Espresso” risulta che il direttore generale quel giorno (il 16 dicembre 2013) era stato invitato a vedere la partita clou Milan-Roma, in scena in serata a San Siro. Invitato da Trenitalia, azienda con cui Enit ha firmato l’anno scorso un accordo di collaborazione. Il romagnolo (che secondo il suo curriculum parla un inglese «medio») è spesso in viaggio. Una settimana prima della partita era andato in missione a Vienna spendendo quasi mille euro in due giorni per «partecipare al saluto del dottor Leo-nardo Campanelli», spiegava nella richiesta di rimborso, «in occasione del suo pensionamento». Per la cronaca, la festa d’addio dell’anziano dirigente Enit è stata organizzata all’ambasciata italiana in Austria. Ma il direttore generale ha lavorato anche subito dopo Capodanno, periodo in cui gli uffici sono ovunque chiusi per ferie. Ed è andato a Parigi da giovedì 2 a domenica 5 gennaio per non meglio specificati «incontri istituzionali». Costo della missione: 1.310 euro. Quando l’ex ministro Gnudi cercò di trasformare l’Enit, chiese agli esperti di Boston Consulting di redigere uno studio per rilanciare l’ente e realizzare un nuovo piano per il turismo. Ne uscirono dati sconfortanti: se fino al 2000 l’Italia è stata prima per introiti, negli ultimi due lustri siamo stati surclassati sia dalla Francia che dalla Spagna. A causa, in primis, di prezzi alti, servizi inadeguati, campagne regionali sbagliate, «della mancanza di un’offerta moderna e integrata e dell’incapacità di lavorare nei nuovi mercati, Cina in primis». «L’Enit dovrebbe essere una fabbrica di prodotti e avere una strategia fortissima sul digitale, ma ora non ha le competenze. Così com’è l’Enit può essere chiuso», concludevano gli esperti. È passato un anno e mezzo e due governi da quello studio, e la situazione è identica. Il governo Letta non ha mosso un dito, il piano del commissario Carlo Cottarelli per abbattere la spesa pubblica è ancora segreto e nei corridoi dell’ente tutto va avanti come al solito. L’Enit di Celli e Babbi ha investito qualche migliaio di euro per cambiare i colori del logo («il restyling garantisce una chiara leggibilità in occasione di fiere e manifestazioni internazionali», la spiegazione); ha partecipato alle solite fiere e fatto un po’ di conferenze per l’Expo di Milano; ha tagliato le auto blu (lo chiedeva la legge) e risparmiato qualche soldo in affitti e telefoni. La stampa ha anche magnificato la riproduzione su un francobollo di un vecchio manifesto Enit e il patrocinio concesso a un film brasiliano (titolo: «Diminuta») che sarà girato in Campania. Nessun giornale, però, ha pubblicizzato altre cifre, come i costi delle varie sedi sparse tra Oceania e Sud America (vedere tabella a pagina 47), quelle per l’acquisto di giornali (a Vienna hanno speso nel 2013 ben 20 mila euro, a Toronto 11.600, a Pechino 15.000), né la nuova occasione per i dirigenti più fortunati, che in cambio di un taglio del 20 per cento dell’indennità possono chiedere all’Enit di pagargli la casa in affitto. «O all’ente vengono dati soldi per fare campagne di comunicazioni vere, o è meglio risparmiare accorpandolo all’Ice, oppure facciamone una Spa. Così è la fiera dello spreco», chiosa un funzionario scontento. Difficile che sia accontentato. Metafora perfetta dei paradossi italici, all’Enit si sono anche autopromossi. L’ultima relazione sulle performance è datata 2012, e tutti gli obiettivi principali sono stati centrati. Con un grado di «raggiungimento», ovviamente, «del 100 per 100». Evviva.