Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

SPORTOPOLI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’ITALIA DELLE FRODI SPORTIVE,

OSSIA, IL FURBO E’  SEMPRE PRIMO

 

"La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui partecipano alle gare. Da ciò si può dedurre il trattamento riservato agli avversari. L’Italia dove, addirittura, lo sport è sporcato da truffe ed inganni ed è insito di dubbi sulla sua genuinità. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".

di Antonio Giangrande

 

SPORTOPOLI

LO SPORT E' PULITO ???

FRODI SPORTIVE. OSSIA, IL FURBO E’  SEMPRE PRIMO

"L’Italia dove, addirittura, lo sport e insito di dubbi sulla sua correttezza e lealtà. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".

di Antonio Giangrande

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

UNA SQUADRA DI PIPPE: SPECCHIO DELL’ITALIA.

PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.

DANZOPOLI.

A PROPOSITO DI SCHWAZER E PANTANI.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BAGARINI. GLI AVVOLTOI DEL BIGLIETTO ONLINE.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

IL PALLONE PERDUTO IN UN MONDO DI LADRI.

I FURBETTI DEL 5 PER MILLE.

IL MISTERO DI MICHAEL SCHUMACHER.

VALENTINO ROSSI, LA SOLIDARIETA’ NAZIONALE E LA LEGGE DELL’INVIDIA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

POLE DANCE: LO SPORT A LUCI ROSSE.

SESSISMO NEL CALCIO.

IL CALCIO A CASA TUA.

LEGA PRO: IL CALCIO IMPOSSIBILE.

SCANDALO CALCIOSCOMMESSE ANCHE IN LEGA PRO E SERIE D.

CALCIOPOLI: GLI SVILUPPI.

IL CALCIO: PEGGIO DI GOMORRA!

SOLDI E COMPLOTTI NELLO SPORT.

IL CALCIO FALLITO.

PARMA CALCIO: UN BEL RICORDO.

IL CALCIO ED IL BANCOMAT DEL CONSENSO.

PAY TV: SPORT E PIRATERIA.  

CALCIOPOLI: UNA FARSA ED UNA PIOVRA.

CALCIOPOLI: PIRATERIA E SPORT.  

TRUFFE DA SPORT. IL CONI NON PAGA I 13 AL TOTOCALCIO. IL CASO MARTINO SCIALPI.

FALLIMENTI TRUCCATI. IL MARCIO DOVE NON TE LO ASPETTI: NEI TRIBUNALI E NELLO SPORT.

IL PRESIDENTE DEL CONI, GIOVANNI MALAGO’ ED IL COLMO DEI COLMI.

LO SPORT DELLE EPURAZIONI, SCANDALI, SPRECHI E MALAGESTIONE.

GLI AFFARI SPORCHI DEL CALCIO.

GLI AFFARI SPORCHI DEL TENNIS.

FINE CARRIERA NELLO SPORT: NON E’ TUTTO ROSE E FIORI.

IL MISTERO DI DENIS BERGAMINI.

GIALLO PANTANI.

MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.

IL CALCIO E PAZZIA: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

CORRERE FA MALE?

LA FIDAL ED I VERI ATLETI.

L’ITALIA DEGLI ABILITATI. ESAME DI ABILITAZIONE ANCHE PER CORRERE.

TIFO E POLITICA.

TIFO, POLITICA E GIUSTIZIA.

VITTIME DI SPORT. VITTIME DI TUTTO.

CHI PAGA GLI ARBITRI DI CALCIO?

LA JUVE E LE ALTRE. E BASTA!!! LA VOLPE QUANDO NON ARRIVA ALL’UVA DICE CHE E’ ACERBA.

FISE, LO SPRECO VA AL GALOPPO.

CALCIO. LIBERI DI GIOCARE?

ALLENATORI DI CALCIO. MAFIA O CASTA?

L’ENNESIMO CALCIOSCOMMESSE….PURE GATTUSO?

STADI. TIFO E RAZZISMO. I PICCOLI IMBECILLI CRESCONO.

IL GIOCATTOLO ROTTO.

IL PROCESSO AL PROCESSO SU CALCIOPOLI E L'ALTRA VERITA'.

PARLIAMO DELLA CASTA DELLO SPORT E DELLE SUE STORTURE.

LA BUROCRAZIA DEL CALCIO.

NON E' UN CALCIO PER GIOVANI.

CALCIO MARCIO: LE FALSE CITTADINANZE.

CALCIO MARCIO: LE FALSE FATTURAZIONI.

CALCIO MARCIO: LE SCOMMESSE.

ITALIA, IL PAESE DEGLI SCANDALI.

CALCIO, INFORMAZIONE, MAGISTRATURA ED..….IPOCRISIA.

CONI: LA CASTA ALLE OLIMPIADI.

PARLIAMO DELLA CASTA DEL CONI.

“CALCIOMERCATO, QUANTE TRUFFE”.

LE MAFIE NEL PALLONE.

LE CALCIOPOLI.

LA CUPOLA NEL PALLONE SECONDO PAPARESTA.

CALCIOPOLI NELLE GIOVANILI.

PARLIAMO DI SUDDITANZA PSICOLOGICA DEGLI ARBITRI: IL DOSSIER.

PASSAPORTI FALSI, DOPING NEL CALCIO E DOPING AMMINISTRATIVO.

BASKETTOPOLI.

DOPING NELLO SPORT.

 

 

 

  

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

UNA SQUADRA DI PIPPE: SPECCHIO DELL’ITALIA.

«Eravamo il calcio migliore del mondo, ora siamo la Serie C dell'Europa». Il giornalista Marco Bellinazzo, esperto di calcio e economia e autore de “La fine del calcio italiano” (Feltrinelli), a poche ore dall'inizio dei Mondiali in Russia dipinge un ritratto agonizzante del movimento calcistico italiano: «Non è stato un suicidio, si tratta di omicidio», scrive Andrea Coccia il 14 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". «Il calcio italiano è come un paziente che si trova in uno stato molto molto grave, ma che, nonostante la situazione, continua a voler rifiutare le cure». Non risparmia le parole, Marco Bellinazzo, giornalista del Sole24ore specializzato in economia del calcio, il cui ultimo libro La fine del calcio italiano, è appena stato pubblicato da Feltrinelli. Non le risparmia perché appare abbastanza evidente che il disastro del movimento calcistico italiano, per la prima volta quest'anno nemmeno qualificato ai Mondiali di Russia, vanno ben oltre la dimensione sportiva.

Qual è la malattia che lo sta uccidendo?

«L'incapacità di tradurre in investimenti industriali quel primato economico e sportivo che avevano fino alla fine degli anni Novanta. Come spiego nel mio libro, io individuo il 2000 come il millennium bug del calcio italiano, il momento in cui tutto inizia a cambiare, ma in peggio. Perché se pensi che all'inizio degli anni Duemila, Inter e Milan avevano lo stesso fatturato di Real e Barcellona e oggi sono un terzo, direi che l'entità del problema è di quelli grossi».

Cosa è successo?

«È successo che l'illusione di poter continuare a far crescere i diritti tv, ma soprattutto tutta una serie di miopie, lotte fratricide e intrecci di interessi, molto più che conflitti di interessi visto che ci siamo trovati di fronte a determinate persone che hanno fatto bellamente i propri interessi, hanno determinato la spoliazione delle risorse. È per questo che scrivo che più che un suicidio, siamo di fronte a un vero e proprio omicidio. L'Italia dai mondiali del 90 fino ad oggi avrebbe potuto godere di successi industriali, ancor più che sportivi, ma tutte quelle occasioni sono state perse per dinamiche industriali che si sono riversate sul calcio».

Per esempio?

«Be', al di là della questione degli stadi di Italia '90, che ormai è quasi banale raccontare, a un certo punto, nel 2000, noi ci siamo trovati nella situazione di essere tra i primi a poter creare una sinergia positiva tra l'industria delle telecomunicazioni e il calcio, incrementando per esempio la diffusione della banda larga nel paese, cosa che in Inghilterra e Germania British Telecom e Deutche Telekom hanno fatto dieci anni dopo».

In che modo?

«Investendo sui diritti del calcio, quindi incrementando gli abbonamenti sui diritti del calcio, e con quel cashflow fare investimenti sulla banda larga, perché la fruibilità delle partite ha chiaramente bisogno di reti di trasmissione importanti e all'avanguardia. In Italia invece, la Telecom di Tronchetti Provera era alleata con Stream e stavano per investire sui diritti del calcio, poi però a un certo punto evidentemente per salvaguardare altri che investivano in quel settore, quel mondo — che significa anche La7 — hanno deciso di investire sulle televisioni in chiaro, comprando le tv di Cecchi Gori e facendo esaurire quello slancio. Sempre restando nell'ambito dei diritti tv, a un certo punto in Italia arriva una pay tv internazionale che va sul digitale terrestre che si chiama Dahlia, ma che dopo appena due anni soccombe».

Come mai?

«L'idea di Dahlia era creare un canale di calcio di provincia, aveva le squadre di serie B e le squadre minori. Nel contratto di assegnazione di questi diritti c'era la possibilità, direi molto strana, per Mediaset Premium di prendersi le due squadre con più bacino di utenza della serie B, un diritto che Mediaset esercitò a due mesi dall'avvio del campionato mettendo Dahlia in grandissima difficoltà».

Dietro Dahlia chi c'era?

«C'erano vari azionisti, ma in particolare la famiglia Wallenberg, una famiglia svedese che, per capirci, era la proprietaria di Electrolux e Ericsonn, praticamente un terzo del PIL della Svezia, che avrebbero potuto tranquillamente investire. Però, quando ci fu questa possibilità, i Wallenberg vennero in Italia per capire se ci fossero delle garanzie su questo investimento. Lo chiesero a coloro che in quel momento governavano sia il calcio che il paese, ovvero al governo Berlusconi, in particolare al ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, e alla Lega Calcio e all’advisor Infront, che però nel frattempo valutava l’opportunità di rilevare la piattaforma per lanciare un suo canale specifico per la Serie A. A quel punto gli svedesi presero la decisione di tirarsi indietro».

Che cosa ha causato?

«Ha bloccato lo sviluppo del sistema radiotelevisivo intorno ai diritti tv, ha tolto risorse al calcio, perché poi i competitor, almeno sulla carta, sono diventati due. La dinamica della crescita dei diritti tv in Italia da quel momento è andata a rilento. Sono cresciuti pochissimo, mentre altrove aumentavano del 50 per cento ad ogni rinnovo triennale. Oggi paghiamo gli effetti di quelle dinamiche con il sostanziale monopolio di Sky».

È un problema che ha afflitto solo i vertici del calcio o ha riguardato tutto il movimento?

«No, per niente. Perché i diritti tv, attraverso il sistema della mutualità, va a tutta la catena. E impoverendo tutta la catena noi ci ritroviamo oggi con una Lega Pro in cui sono stati 80 punti di penalizzazione, squadre sospese, squadre in servizio provvisorio, altre in mano ad organizzazioni criminali, come il Foggia, per esempio, che è stata la prima squadra di calcio ad essere commissariata per infiltrazioni. O ancora, squadre che hanno passato più tempo in tribunale come il Frosinone o il Bari. Insomma, il sistema calcistico non ha più retto a causa di questa privazione di risorse».

A chi sono andate queste risorse?

«Le risorse sono arrivate abbondantemente nel calcio italiano a partire dalla metà degli anni Novanta, più o meno in contemporanea con il lancio della Premier League. Ma mentre in Inghilterra con quei soldi ci hanno pagato, oltre che ai giocatori e ai procuratori, anche lo sviluppo delle infrastrutture e sulla internazionalizzazione dei brand».

Cosa significa “internazionalizzazione dei brand”?

«Ora è una formula che sentiamo spesso, ma è una formula vuota, perché se non aggredisci i mercati commerciali con sinergie tra squadre, con uffici aperti in giro per il mondo, con strategie mirate ai diritti internazionali e all'organizzazione di tourné puntuali in certi paesi, questa formula diventa uno slogan e non vale più niente. E infatti guarda quanti sponsor internazionali abbiamo in Italia: pochissimi, a parte Emirates o Qatar Airways, ma lì ci sono stati problemi politici che hanno forzato la situazione».

Che effetti ha avuto sull'economia del calcio italiano?

«Di fatto ha depresso sia i ricavi da stadi si quelli commerciali. Pensa solo che il sistema calcio italiano, in media, ogni anno tra tutte le squadre può contare su circa 250 milioni di euro complessivi, mentre squadre come Barcellona, Real, Arsenal, Man City, incassano dagli 80 ai 90 milioni per singola squadra».

E la questione stadi?

«Negli ultimi 15 anni in Europa sono stati costruiti o ristrutturati 137 stadi, per un investimento totale di 15 miliardi di euro, in particolare tra Polonia, Turchia e Germania. In Italia sono stati inaugurati nel frattempo 3 stadi, per 200 milioni di investimenti».

Sono intelligenti gli altri e scemi noi o c'è qualcosa sotto?

«No, più semplicemente noi in Italia abbiamo una classe dirigente calcistico che è lo specchio di quella del paese e quindi c'è stata una miopia, una incapacità totale di guardare in un’ottica comune. La Premier, che nel frattempo è diventata una potenza da 5-6 miliardi di fatturato annuale, ci è riuscita perché ha saputo adottare criteri di ripartizione delle risorse molto americani».

Come funziona?

«I diritti tv, da cui incassano quasi 3 miliardi e mezzo, vengono divisi di fatto quasi al 70 per cento in parti uguali tra tutte le squadre. In Italia, invece, per vari motivi, anche attraverso tutti gli scandali che si sono ripetuti, questa visione di insieme non si è mai realizzata e si sono sempre tutelati interessi particolari. Forse è banale ricordare che siamo il paese dei campanili e dei comuni, però è così, la storia è questa: regole strutturate per far funzionare la Lega come un condominio, in cui ogni squadra ha il 5 per cento e può bloccare qualsiasi decisione e questo ha sempre bloccato qualsiasi tentativo di cambiamento, impedendoci di aggredire i mercati esteri e costruire un'industria calcistica moderna».

In questo contesto che mi stai raccontando, come valuti lo scandalo di Calciopoli?

«Sicuramente è andato a scoprire dei bubboni, ma il problema è che è nato all'interno di una guerra dinastica della famiglia Agnelli, che porta ad estromettere una parte a vantaggio dell'altra. Ma ci sono anche altre storie interessanti, per esempio, nel libro racconto una storia molto bella sui vivai, una norma bluff».

Cosa è successo?

«Sempre alla fine degli anni Novanta, quando vengono trasformati i club in società per azioni per permettere, giustamente, alle società di fare utili, in quella riforma si prevedeva anche una norma che imponeva di investire il 10 per cento degli utili nelle giovanili, nei vivai. L'unico problema è che quella norma non nacque per motivi sportivi, ma per motivi economici e più propriamente fiscali, di due gruppi, la Ifil, ora Exor, e Fininvest, che avevano l'esigenza di far trasformare i club in Spa per poter inserire le squadre nel consolidato e quindi abbattere l'imponibile. Giraudo e Galliani, che erano i rispettivi A.d. chiesero consiglio a Carraro e lui li indirizzò verso chi, nel governo, aveva la delega allo sport, ovvero Walter Veltroni. Quindi la norma venne fatta dalla sinistra per sostenere i vivai alla fine si ridusse a una norma bluff non per aumentare gli utili, ma per scaricare le perdite. E di fatto da quel momento la Serie A è diventato il campionato che investe di meno, in percentuale, sui vivai. Bastava prevedere una percentuale anche molto più bassa, ma non sugli utili, sul fatturato».

Alla luce di questo sistema che stai descrivendo, come dobbiamo valutare il fatto che negli ultimi anni squadre italiane come la Roma, l'Inter ma soprattutto la Juventus, che sono arrivate ai vertici del calcio europeo?

«Prima di tutto l'Inter ha vinto nel 2010, ormai 8 anni fa, ma soprattutto ha vinto grazie a degli investimenti di Moratti talmente grossi che lo hanno costretto a vendere la squadra. Ma in ogni caso la verità è che in Italia, tutte le squadre che hanno cercato di vincere o sono fallite o sono arrivate sull'orlo del fallimento, pensa anche alla Roma, alla Lazio, al Milan».

E la Juventus?

«La Juve ha una storia diversa perché ha una società diversa. E comunque è passata attraverso Calciopoli. In ogni caso, nell'assetto delle società italiane di oggi direi che soltanto tre di loro si stanno trasformando in quelle che chiamo SEC, ovvero Sport Entertainement Company, e sono la Juve, che è davanti a tutti, che ha cinquecento dipendenti e che ha fatto negli anni una serie di operazioni commerciali fondamentali per accrescere la propria situazione».

E le altre due?

«Le altre due sono proprio l'Inter e la Roma. L'Inter grazie a Suning e la Roma, dopo anni difficili, grazie alla proprietà americana, che ora sembra aver trovato la quadra, non investendo alla cieca, ma organizzandosi come una azienda. Non a caso la Roma è arrivata ad avere 300 dipendenti. Sono le uniche che vanno in quella direzione. Le altre hanno un modello che io definisco patriarcale, che fa seguito al modello mecenatistico antiquato che ha governato il calcio italiano negli ultimi decenni, portando il sistema calcio ad essere sempre in perdita di almeno 100 o 200 milioni di euro all'anno».

Quanto può durare questa situazione?

«È evidente che senza le opportune riforme e un cambio effettivo di passo, questa è una situazione che ci porterà ad essere la Serie C di Europa. Considera per esempio la questione dei diritti televisivi, che sta cambiando molto velocemente. La Ligue 1 francese ha appena venduto i diritti fino al 2024 sulla base di un canale tematico che dovranno fare, Mediapro».

Quindi ci ha superato anche la Ligue 1?

«Sì, e noi rischieremo di essere la periferia e di venire tagliati fuori da tutte le novità che stanno emergendo e in questo campo. Pensa all'ingresso di un gigante con Amazon, che dopo aver investito nei diritti di NFL, tennis e altro, ha appena comprato un piccolo pacchetto — 20 partite a stagione — della Premier Ligue. Ed è solo il banco di prova per un modello di business adeguato e da questo sistema noi per ora siamo fuori, e rischiamo di restarci visto la condizione del campionato italiano».

Cosa ci dobbiamo aspettare per il prossimo futuro?

«Mercoledì c'è l'assegnazione dei diritti per il triennio '18-'21, per la prima volta siamo arrivati a farlo a due mesi dall'inizio della stagione, senza che fosse stato risolto alcunché e mettendo in difficoltà molti club che su quei diritti potevano costruire crediti per il calciomercato e adempiere alle scadenze di fine stagione. Tra l'altro lo si sta facendo tutto di corsa, cambiando il modello di vendita, da quello a piattaforma a quello a prodotto, con il problema che ora a pagare saranno i tifosi e gli spettatori, visto che si rischia di tornare ai tempi di Tele+ e Stream e serviranno due abbonamenti per seguire tutte le partite della propria squadra».

Quali saranno le conseguenze se non si trova l'accordo?

«Io credo che l'accordo sarà trovato. Il problema è capire quanti soldi verranno messi sul tavolo, perché nella migliore delle ipotesi rischiamo di stare allo stesso livello degli ultimi tre anni, circa 1,3 miliardi, mentre tutte le altre leghe viaggiano con incrementi a doppia cifra. Rischiamo di rimanere nel medioevo del calcio, restando esclusi dallo sviluppo dell'industria del calcio moderna, legato al business e all'entertainement, un'industria che a livello europeo sta esplodendo, è passato da 11 a 20 miliardi di fatturato e l'Italia ha avuto incrementi da PIL, ovvero dello zero virgola».

Quanto ci costa non giocare questi mondiali?

«Ricadute molto molto importanti su tutta l'economia nazionale: dal punto di vista pubblicitario, ma anche da quello dei consumi, visto che i mondiali erano sempre stati un'occasione formidabile di marketing. C'è da dire che molti guardano solo a questa esclusione, ma dimentichiamo che negli ultimi due siamo usciti prima degli ottavi, e contro potenze calcistiche del calibro di Slovacchia, Nuova Zelanda e Costarica, con tutto il rispetto ovviamente. I danni di immagine al movimento sono enormi e le ricadute economiche anche nel mondo del calcio sono gigantesche, anche soltanto per le sponsorizzazioni della nazionale per i prossimi 4 anni. Difficile quantificare il danno complessivo, ma soltanto dal punto di vista dei premi, che quest'anno sono oltremodo ricchi con 400 milioni in tutto, perdiamo 20-30 milioni di premio minimo, più i danni futuri, diciamo che potremmo arrivare a 50 milioni, ma tutto quello che è indotto è praticamente incalcolabili, tutte le statistiche però ci dicono che per moltissimi settori, primi tra tutti i media, i periodi dei mondiali sono sempre stati dei volani».

Per chiudere con una visione positiva, cosa possiamo fare per invertire la debacle?

«Il titolo del mio libro è molto forte, ma non voleva essere un epitaffio. E infatti ci ho messo un sottotitolo che desse speranza. Io ritengo che ci sia un grandissimo talento calcistico nel nostro paese — la nazionale under 17 è ai vertici europei — ma che rischia di essere sprecato se non viene governato e tutelato da un sistema che funziona. Credo che per invertire la rotta potremmo prendere ispirazione da altre nazioni che hanno attraversato crisi simili, l'Inghilterra per esempio, che per far fronte ai tanti insuccessi e alla sempre più forte presenza di stranieri, per esempio, ha creato un centro unico per tutte le nazionali, dall'under 12 in su, costruendo addirittura un campo che riproduce il taglio dell'erba di Wembley. L'hanno fatto da 4 anni e stanno vincendo quasi tutte le competizioni europee. Lo stesso lo ha fatto la Germania quando è stata in difficoltà ed è stata eliminata dai mondiali: hanno fatto delle rivoluzioni. In Italia se ne parla ogni volta e non si fa praticamente nulla».

Nemmeno dopo il commissariamento della federazione?

«Ci hanno provato, con l'introduzione delle squadre B, togliendo il 2 per cento di voto agli arbitri, portando il calcio femminile, quanto meno dei vertici, sotto l'egida della FIGC. Ma sono misure spot, servono a poco, l'unico risultato che hanno avuto è stato quello di ricompattare le componenti che fino a due mesi prima avevano litigato senza riuscire nemmeno ad eleggere un presidente — ovvero dilettanti, lega pro, calciatori e allenatori — attorno a un nome, che è quello di Gianluigi Abete che, al di là di quel si può pensare di lui, è stato il presidente della Federazione dal 2007 al 2014, ovvero quando abbiamo vissuto le eliminazioni in Sud Africa e Brasile. Insomma, non è un grande segnale di rinnovamento. I nomi e le visioni sono importanti e in questo momento mancano sia gli uni che le altre».

È pazzesco perché mentre me lo racconti mi sembra che questo sfacelo sia più o meno lo stesso che affligge l'Italia ad altri livelli, come quello politico...

«Lo è, credo che il calcio non sia soltanto lo specchio del paese, ma che sia figlio diretto delle politiche di governance di questo paese, in tutti i settori».

Una squadra di “pippe”. Russia 2018, mister Pochesci attacca la nazionale: "Ce menano e piagnemo", video di Repubblicatv dell'11 novembre 2017. Parole forti in conferenza stampa per l'allenatore della Ternana Sandro Pochesci. Il mister, non nuovo a uscite "singolari", commenta la sconfitta subita dall'Italia contro la Svezia nell'andata dello spareggio che vale la qualificazione ai Mondiali 2018 in Russia: "Abbiamo perso contro una squadra di profughi e ci siamo fatti anche menare", ha detto Pochesci in dialetto romanesco. "Una volta l'Italia menava e vinceva, adesso ci menano e piangiamo".

Italia fuori dai Mondiali, chi non ha 70 anni non l’ha mai visto, scrive Lucio Fero il 14 novembre 2017 su “Blitz Quotidiano”. Italia fuori dai Mondiali, chi non ha almeno 70 anni non l’ha mai visto. Anzi nessuno ha mai visto da casa un Mondiale di calcio senza la nazionale italiana. Quando fu, l’altra volta che fummo eliminati, la televisione non c’era. Era il 1958, ci buttò fuori un’Irlanda. E per averlo in qualche modo saputo e vissuto bisognava allora avere diciamo almeno dieci anni, esser nati almeno dalle parti del 1945/1948. Quindi chi non ha almeno 70 anni un Mondiale senza l’Italia non l’ha mai visto. Italia fuori dai mondiali significa anche un po’ di soldi che non entrano e non girano. Soldi non solo loro, loro di quelli del calcio, allenatori, giocatori, dirigenti…Non entrano i soldi e non girano se sei fuori dai Mondiali i soldi dei premi, dei diritti televisivi, degli sponsor. Ad occhio almeno un centinaio di milioni gireranno in meno nell’economia italiana. E in più una quota di non calcolabile indotto. Insomma sarà uno zero virgola qualcosa in meno del Pil Italia 2.018. Un graffio minimo al Pil, ma pur sempre un graffio. Italia fuori dai Mondiali, una cosa mai vista e pure qualche soldo in meno che gira. Come è successo? Come succede che un allenatore, Giampiero Ventura, pagato 1,5 milioni di euro l’anno, non riesca a mettere in piedi e insieme una squadra? E come succede che una ventina abbondante di giocatori di serie A non riescano ad essere una squadra? E come succede che un intero paese viva a lungo nella falsa percezione di avere una squadra da Mondiali e anche di più? E come succede che a buttarci fuori dai Mondiali sono gli svedesi del calcio, cioè una squadra che con il calcio giocato non ha grande confidenza, insomma una squadra, per dirla in maniera più pedestre, con i piedi fucilati? Per avere un’idea di come succede, partire dall’ultimo atto dello spettacolo, l’Italia-Svezia di lunedì sera a San Siro. Spettacolo triste, presuntuoso e letal…La retorica boriosa e caramellosa della cronaca Rai tutta infarcita di inutili e patetiche “pelle d’oca” e “non ho parole” (sono pagati per ripetere “che dire” e “non ho parole” i commentatori, si fa per dire, ex giocatori?). I fischi di popolo all’inno nazionale svedese, tanto per segnalare il tasso altissimo di…nazionalismo? La superstizione discretamente idiota del segnalare come buon auspicio lo scendere in campo tra i bambini mano in mano coi giocatori del nipote di Giacinto Facchetti. Poi, subito dopo la consueta inversione dei pronomi (l’intera comunicazione calcistica ignora esista il “suo” e sempre e solo usa il “proprio”) ecco dopo 40 secondi la telecronaca lamenta la “provocazione degli svedesi” e invoca un rigore dopo otto minuti neanche…Spettacolo triste e presuntuoso quello di un allenatore che ha mandato in campo una squadra grottesca e improbabile nei ruoli e posizioni, che ci fa Florenzi là a centro campo più o meno? E chi lo sa. E che deve fare Gabbiadini? E chi lo sa…E chi mai può sapere perché Insigne non gioca ed El Shaarawy entra solo nei minuti disperati? L’unica cosa che si sa è che Ventura aveva secondo costume nazionale assicurato che tutto era a posto, che la vittoria era certa e che l’unica cosa che disturbava era, anzi erano i sabotatori interni e gli arbitri internazionali. Spettacolo triste e presuntuoso. E letal…letale perché toglie a milioni di italiani la prossima estate il piacere delle partite ai Mondiali con la squadra italiana (sceglietevi ciascuno altra cui tifare). Triste perché fa del 2.018 un anno in filo più mesto per milioni di italiani, un’estate senza i Mondiali abbassa l’umore pubblico e non è un sentimento da ultras, è una circostanza verificata anche sul piano dei consumi e dei comportamenti pubblici. E soprattutto è successo (questo il terribile e inconfessabile sospetto) che l’Italia del calcio sia fuori dai Mondiali anche perché l’Italia tutta è sempre più come si dice “fuori come un balcone”. Fuori come un balcone nel suo percepirsi scippata e tradita mentre è assistita e protetta anche quando e dove non si dovrebbe assistere e proteggere. Fuori come un balcone quando immagina se stessa l’Italia come abitata da classi, ceti e caste dirigenti. Classi, ceti e caste ci sono ma non dirigono un bel nulla, sono proprio come la Nazionale in campo. Fuori come un balcone l’Italia quando pensa che furbizia e predazione siano diritti acquisiti e inalienabili. Fuori l’Italia dai Mondiali e l’Italia fuori come un balcone quando, ad esempio (ma è solo uno dei tanti esempi purtroppo possibili) Matteo Salvini commenta l’eliminazione così: “Troppi stranieri mezze pippe nel campionato italiano”. No, le mezze pippe siamo noi, non gli stranieri. Sul campo di calcio, sui campi dell’economia, su quelli della vita associata, per non dire dei campacci della politica. Le mezze pippe siano noi e Italia fuori dai Mondiali di calcio 2.018 rischia grosso di essere presagio di Italia fuori come un balcone alle elezioni politiche 2.018.

Travaglio senza freni, sentite che dice: “Nazionale italiana una squadra di pippe…”, scrive il 15 novembre 2017 Sabrina Franzese. Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, fa un duro commento nel corso di Di Martedì, trasmissione in onda su La7, a proposito dell’eliminazione patita dalla Nazionale italiana per mano della Svezia. Ecco quanto ha detto: “E’ un momento in cui non abbiamo campioni ma pippe e quando mandi in campo una squadra di pippe allenata da una pippa (Ventura, ndr) e con un presidente federale (Tavecchio, ndr) superpippa e non riesci a fare nemmeno un gol contro le pippone della Svezia in due partite ci piò stare l’eliminazione. Se eravamo all’ultimo tuffo con la Svezia vuol dire che già prima avevamo fatto male per finire in questo spareggino tra sfigati…”

La Nazionale di Ventura è lo specchio dell’Italia. Mentre il mondo indica una strada completamente diversa, l’Italia – che vinto sempre così – decide di rimanere ferma. Anche se così non vince più, scrive il 10 novembre 2017 "Il Napolista". Ci siamo. Svezia-Italia si giocherà questa sera, veniamo da una settimana piena, ricca di commenti e analisi e racconti su questa partita. Giornali, tv, siti internet: sappiamo tutto, lo sappiamo prima e la sensazione è quella dell’assoluto deja-vù. Con la storia, con noi stessi. Ce l’ha spiegato José Altafini, oggi, in un’intervista a Repubblica: «A Mexico 70 l’Italia non schierò dall’inizio Mazzola e Rivera, il Brasile aveva cinque numeri dieci in campo». Si parlava di Insigne, su Repubblica, ma ovviamente il discorso va oltre. Basta leggere la Gazzetta o ancora Repubblica per renderci conto che siamo fermi. A un anno fa, che poi è come dire tre o quattro o anche cinque anni fa. Scrive così, Enrico Currò sul quotidiano romano: «Età media avanzata: sette titolari sopra i 30 anni. E il modulo 3-5-2, gradito allo spogliatoio, ai senatori». Non è molto diverso da Mexico 70, ma non perché ci sia fuori Insigne. Magari. Il punto è un altro. In questo modo, si fanno fuori Lorenzo, El Shaarawy, Florenzi, Bernardeschi. Si fanno fuori tutte le indicazioni del campionato italiano, che tatticamente è molto più avanti di quanto amiamo raccontare e raccontarci. Merito di Sarri, ma lui è solo una parte dell’atlante. Ci sono la Roma di Di Francesco, l’Inter di Spalletti, la Sampdoria di Giampaolo. C’è un intero paese calcistico che prova a parlare un’altra lingua, perché la retorica autocostruita della grinta, della difesa e del gioco speculativo funziona quando hai i calciatori più forti. Quando c’è il talento cui aggrapparsi. Vedi la Juventus, che è un’altra cosa rispetto ad altre squadre di Serie A eppure ha ripudiato (sta ripudiando) le marce basse. Perché se innesti le marce basse contro il Real Madrid, fai poco. Perdi, comunque. Come il Napoli, ma almeno il Napoli si è divertito a “giocare in faccia” a Sergio Ramos – fin quando gli è stato consentito. Ci si è messo anche Chiellini, ieri. «Il guardiolismo ha rovinato una generazione di difensori, Oggi tutti vogliono impostare, ma nessuno sa più marcare. Ed è un peccato, perché certe caratteristiche hanno permesso al nostro calcio di eccellere ovunque». Non che il buon Giorgio non abbia ragione, è tutto vero quello che dice. Però il gioco e il mondo si evolvono, vanno avanti, cambiano. Serve altro. Lo dice la storia, quella recente e quella meno recente. Il nostro calcio ha prodotto gioco e risultati d’élite quando ha potuto schierare calciatori d’élite. Non solo difensori e centrocampisti di rottura, ma anche grandi uomini offensivi. Mazzola e Riva e Boninsegna a Mexico 70; Rossi e Antognoni e Bruno Conti a Spagna 82; Totti e Del Piero e Toni e Pirlo a Germania 2006. Certo, anche Facchetti, Zoff, Scirea, Gentile, Cannavaro, Buffon e Zambrotta. Tutti insieme, una qualità spaventosa. Che oggi non appartiene all’Italia, a confronto con altre nazionali. Succede, questione di cicli e di programmazione. È il tempo che gestisce e andrebbe gestito. Proprio per questo, però, potrebbe essere un’idea cambiare le cose. Provare ad uscire da questa narrazione ormai anacronistica rispetto a (tutto) il calcio internazionale, che punta sui giovani e sul talento. La domanda è per Ventura, ma anche per tutti coloro che “credono” in questi valori calcistici dal sapore vagamente patriottico: noi siamo l’Italia e siamo così, non è giusto cambiare. Ci siamo. Però sono tutti scemi tranne noi? Sono scemi anche quelli che vincono? Cioè, per dire: della nazionale in campo stasera, Buffon, Barzagli e De Rossi sono gli unici ad aver vinto un titolo internazionale. Era il Mondiale 2006. Per il resto, si tratta di uomini di secondo piano nelle grandi stanze del calcio internazionale. Oltre i “senatori” di cui sopra, ci sarebbero Bonucci e Verratti. Entrambi, però, rappresentano quanto più di antitetico possa esistere alla concezione del calcio italiano: difensore che imposta e porta palla; centrocampista moderno, offensivo, un trequartista che agisce da mezzala in una squadra che schiera, accanto a lui, Neymar, Cavani, Mbappé e uno tra Di Maria e Draxler. Cioè, ci viene da sorridere: i nostri calciatori più riconoscibili a livello internazionale sono due simboli – più o meno lucenti – del gioco propositivo e noi li incastoniamo in una squadra basata sull’impermeabilità della difesa. Sulla forza di un trio difensivo che non gioca più insieme. E che insieme è riuscito a vincere solo quando (e dove) ha avuto la certezza di essere nella squadra più forte. Il punto finale: questa Italia potrebbe bastare per battere questa Svezia. Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Candreva, Parolo, De Rossi, Verratti, Darmian, Immobile, Belotti. Nove undicesimi di Euro 2016, ma neanche questo è il punto. Perché, ripetiamo: così la Svezia è battibile, eccome. Ma una volta ai Mondiali, si spera: cosa avremo costruito? Cosa resterà di questo biennio? Se la partita decisiva è (ancora) fondata sull’esperienza dei senatori e «sul modulo o modo di giocare che piace ai senatori», qual è stato il senso di questi due anni? Il puro e semplice risultato finale, verrebbe da dire. Ripensandoci, però, è il minimo auspicabile. Ventura, lungo il suo percorso, ha via via inserito calciatori nuovi e giovani e promettenti nella sua lista convocazioni. Almeno quello, viene da dire, perché c’era comunque la percezione di un cambiamento possibile. Nel modo di giocare, nei nomi, nel senso della nazionale. Poi, però, tutto è stato e sarà sacrificato. Sull’altare della nostalgia, sull’altare di un nonsense: noi vinciamo così, eppure sono undici anni che non vinciamo a livello internazionale. Ci crogioliamo nella nostra storia, anche quando è ormai preistoria calcistica. Siamo fermi. Qualcuno disse e dice: nessuna rappresentazione è più pregnante e precisa di una nazionale di calcio, rispetto alla sua nazione. Svezia-Italia conferma e confermerà questa visione delle cose, inevitabilmente. Nonostante il mondo normale, ma anche di quelli che vincono, vada da tutt’altra parte.

Ventura, Tavecchio e la Nazionale, specchio dell'italico vittimismo. In questo Paese non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. La colpa è sempre dell'arbitro, per dire il destino, il clima, il tempo, Iddio. Il solito melodramma, anzi la solita operetta, la farsa che non passa, scrive Massimo Del Papa il 14 novembre 2017 su "Lettera 43". Vai a dormire tranquillo perché, il pallone non è la tua tazza di tà e, specie di questi tempi, non è proprio la prima delle tue preoccupazioni, giusto un filo allegro, di quell'allegria un po' carogna di fronte allo spettacolo del melodramma, urla, disperazione, anatemi per l'eliminazione, Buffon che piange come un bambino, braccialettini di gomma inclusi, la Rai col suo esercito di giornalisti sportivi che scappa, non copre l'evento a suo modo storico, si rifugia nella ridotta di Che Tempo Che Fa, si fa parare le chiappe da Fabio Fazio, e poi l'immancabile servilismo dei servi che passano dalla saliva allo sputo, tracimano in odio, in gogna, il web che scoppia e rigurgita fiele, tutti a dare addosso al povero Ventura che, con la sua onesta faccia da pompista, forse l'hanno messo al posto sbagliato e non lo sa. Il Ct ricorda, parafrasiamo molto, una battuta di Groucho Marx, «quel tale sembra uno sprovveduto, ma non lasciatevi ingannare: lo è davvero», però, via, che sporco che è questo solito gioco di prendersela col capro espiatorio quando si sa che c'è tutto un sistema, una filiera di decisioni sbagliate da teste di paglia o di ponte, frutti di decisioni politiche sbagliate, e che a loro volta hanno preso le decisioni sbagliate. Insomma sorridi, tristallegro, un po' mesto un po' distaccato; non ti convince il solito psicodramma italiano, prendersela con l'allenatore in fama di idiota (dopo la fama di salvatore della patria), coi giocatori effemminati, tatuati, viziati, infingardi, quando sai benissimo che è assurdo distinguere in tempi di globalizzazione anche sportiva, anche calcistica, che fa disperare un ossessionato Salvini, che i giocatori coi loro tatuaggi e acconciature e smalto alle unghie sono più o meno gli stessi ovunque e ovunque giocano al limite dei vizi e dei compromessi più miseri.

AZZURRI SPECCHIO DELL'ITALIA. Questi nostri azzurri saranno più scarsi, d'accordo, senza personalità, va bene, l'ultimo ad avere una sorta di autorevolezza, un barlume di carisma era il Pirlo che pareva sempre dormisse, ma si può fare una colpa a una squadra mediocre di essere quella che è? Si possono odiare quando li hai visti sputare sangue senza risolvere niente, «poveri cani», come avrebbe detto Gianni Brera? No, non ti piace, non ti suona lo psicodramma della identificazione freudiana, uccidere la Nazionale come si uccide il padre, temerne lo specchio, la rappresentativa pallonara come il resto del Paese, gli stessi difetti, le stesse presunzioni, la stessa aria fritta. E lo stesso vittimismo. Forse è questo che i tifosi intuiscono con orrore, essere degni tifosi di una Nazionale degna di un Paese indegno.

NESSUNO DEI RESPONSABILI SI DIMETTE. E allora vai a dormire e non ci pensi più. Ma al mattino ti alzi e per prima cosa, la maledizione laica del mattino, scorri in modo compulsivo anzi malato le notizie della notte, le home page dei siti di informazione, scorri Twitter e t'imbatti in una dichiarazione di Ventura che va oltre Marx, Groucho e i suoi fratelli, e va anche oltre Achille Campanile: «Dimettermi io? Perché?». Allora ti sale un convulso di riso irresistibile, non ti tieni, vai a svegliare tua moglie - «ma lo sai cosa ha detto quello?» - solo per il gusto di vederla destarsi stravolta come quando si è usciti da un incubo e si fatica a capire di essere altrove. Ma sì, ti dico, ha detto proprio così, che prima di dimettersi vuole parlare con la Federazione, il che significa che anche quell'altro, Tavecchio, il degno compare, quello piccolotto, quello delle banane per i negri e delle calciatrici tutte lesbiche, anche lui non ci pensa proprio a schiodarsi, hic manebimus optime, e l'avverbio non è un singulto alcoolico. Dal terremoto reale, con macerie e vittime, a quello metaforico e pallonaro, non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. Debbono parlare, prima. Cioè chiedere garanzie. Cioè avere la sicurezza di altri posti all'altezza del disastro che hanno combinato: una piccola, simpatica catastrofe che mancava da 60 anni nei quali questo Paese ha visto tutto, le ha viste tutte, ha combinato il peggio del peggio, in tutti i campi, in ogni aspetto della vita associata, ma bene o male galleggiava, svolazzava malamente come il calabrone che non dovrebbe volare eppure vola, anche nel calcio, dove le disfatte venivano prima o dopo, in un modo o nell'altro riscattate da trionfi anche incredibili, anche illogici. Ma questo! Ventura e Tavecchio che «ci debbono pensare», non capiscono perché mai dovrebbero farsi da parte.

UN PAESE INCAPACE DI ASSUMERSI RESPONSABILITÀ. Neanche la dignità residua di togliersi dai piedi di «60 milioni di commissari tecnici», immigrati e naturalizzati inclusi, che giustamente non vogliono più saperne delle loro facce un po' da “oggi le comiche”. Ed è una comica infatti quella che vien fuori da una piccola fragilissima figura da cioccolatini nazionali. È la conferma che, da queste parti, si è incapaci perfino di assumersi le responsabilità più fisiologiche, più soggettive, più oggettive, più lampanti, più devastanti. E allora la serenità olimpica della sera prima non funziona più, perché appare chiara un'altra cosa, speculare ma più inquietante: non è la Nazionale che si identifica nel Paese, è il contrario, a cominciare dai dirigenti, per continuare con l'allentatore (non è un refuso), i giocatori, per finire con quelli che portano i borsoni.

NESSUNO CHE DICA «HO SBAGLIATO». Dal terremoto reale, con macerie e vittime, a quello metaforico e pallonaro, non si trova mai un colpevole, nessuno con la decenza di dire: ho sbagliato, me ne vado. La colpa è sempre dell'arbitro, per dire il destino, il clima, il tempo, Iddio, il problema sta a monte, signori miei, io sono una vittima, sono scomodo, vogliono farmi fuori ma non cederò senza combattere, ah!, se voi sapeste, ma prima o poi parlerò, racconterò tutto in un libro e allora rideremo! Già, il solito melodramma, anzi la solita operetta, la farsa che non passa. Il degno Paese per la degna Nazionale, non il contrario. «Siete pezzi di me..., pezzi di me..., pezzi di me», canterebbe Levante.

L'Italia senza Mondiali specchio di una nazione malata, scrive Leo Turrini il 14 novembre 2017 su "Quotidiano.net". C'era una volta mio padre. Io ero piccino e negli anni Sessanta lui mi ricordava l'onta della esclusione dell'Italia dal mondiale di calcio del 1958. Sono passati 60 anni. Papà non c'è più, come non ci sono più tanti testimoni di quel disastro sportivo. In compenso, ci siamo noi. Oggi. Senza Mondiale. Io credo che l'eliminazione sia giusta. Credo che Ventura, il Ct, abbia le sue colpe, ci mancherebbe. Ma qui non ci serve il capro espiatorio. Qui conviene aprire il cuore. Da quanti, da troppi anni il sistema calcio si interessa della Nazionale soltanto ogni quattro anni? Non è forse vero che il mondo della informazione in primis (e mi metto anche io tra i colpevoli) si esalta per il business, per i compratori cinesi, per le squadre di serie A farcite di stranieri, per tacere di quelle di serie B? Contro la Svezia potevamo anche passare, ma qui vorrei ricordare che nel 2010 in Sud Africa pareggiamo con Nuova Zelanda e Paraguay, perdendo dalla Slovacchia. E in Brasile nel 2014 fummo eliminati da Costa Rica e Uruguay. Qualcuno disse qualcosa? Questo è un dramma, per fortuna solo sportivo, che viene da lontano. Prendetevela con Ventura, se vi va. Ma questa disfatta è lo specchio di una nazione malata, insicura, fragile, ripiegata sulle sue debolezze. Siamo l'Italia. Purtroppo. E talvolta per fortuna.

La nazionale di calcio come specchio dell’Italia ma con più supporters, scrive Alessandro Falanga il 14 novembre 2017 su "Zon". L’Italia, con l’eliminazione per mano della modesta Svezia, mette in mostra le pecche di un Paese ormai alla deriva anche nello sport. È finita nel peggiore dei modi l’avventura per le qualificazioni ai Mondiali della nazionale di calcio guidata da Giampiero Ventura. La debacle contro la Svezia nello spareggio per approdare in Russia, infatti, ha totalmente estromesso gli azzurri dalla corsa al titolo internazionale iridato ma, in una visione più ampia di quanto accaduto, questa eliminazione permette – finalmente – di avere una visione più ampia di ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Con il presupposto che senza la metafora calcistica lo Stivale non avrebbe alcuno stimolo ad affrontare la situazione che lo circonda – come dimostrano le vicende Jobs Act, Buona Scuola e Pensioni – si può dire che quanto mostrato da questa nazionale di calcio evidenzia due elementi che rappresentano, in tutto e per tutto, il disagio della nostra povera, cara, Italia. In primo luogo, facendo un parallelo con quanto sta accadendo nel mondo del lavoro in particolar modo, il mondo del pallone ha creato un circolo vizioso in cui si estromettono a prescindere le giovani generazioni, considerate inadeguate, e si punta sull’usato quasi sicuro che, pur non garantendo nulla in termini di merito, rimane l’unica alternativa. Con questa situazione – che come si è visto ha generato un mostro a livello sportivo – si inceppa totalmente un meccanismo di per sé bloccato da anni in cui l’unico appiglio è riposto in vecchie glorie, ormai incapaci di dare il proprio contributo, contrapposto ad una classe dirigente sempre più vecchia e poco qualificata per il mondo del domani. All’elemento generazionale se ne aggiunge un altro che è ancor più preoccupante: la comprensione generale della realtà solo perché coinvolto il gioco più amato del territorio. Si è sempre saputo che il calcio in Italia – e nel mondo – è stato la più grande arma di distrazione di massa, in grado di attribuire mano libera ai governanti di turno. L’eliminazione per mano della modesta Svezia, però, sembra in parte aver svegliato una fetta di connazionali che, guardando la situazione della nazionale di calcio di Ventura, si sono finalmente resi conto che qualcosa non va come dovrebbe. In un certo senso, quindi, la mancata partecipazione a Russia 2018 può essere vista come una manna dal cielo, in grado da un lato di porre maggiore attenzione – almeno si spera – sulle problematiche che attanagliano il nostro Stato ormai da quattro anni e dall’altro di affrontare con più attenzione una vita che, a causa proprio del calcio, è stata indirizzata su un binario morto data la disattenzione generale.

LA NAZIONALE AZZURRA E’ LO SPECCHIO DELL’ITALIA RENZIANA, scrive Francesco Erspamer il 14/11/2017 su "Alga news". La nazionale azzurra è lo specchio dell’Italia renziana: come il paese, il calcio è governato da dirigenti totalmente inetti, che hanno permesso alla serie A di diventare il campionato con più stranieri d’Europa a parte la Premier League e senza neppure la qualità degli stranieri che giocano in Inghilterra. Per non parlare della scelta di un allenatore senza carisma e senza idee come Ventura, confermato anche quando è diventato chiaro che non avesse il coraggio di liberarsi di una vecchia guardia ormai consunta e comunque mediocre, campioni di carta (carta di giornale e carta moneta) senza carattere, palloni gonfiati da media compiacenti. Mancanza di programmazione, di progetti, di serietà e di capacità, a ogni livello e soprattutto a quelli più alti. Devono andarsene tutti, a cominciare da Tavecchio, presidente della FIGC, a Malagò, presidente del CONI. Il declino dell’Italia è evidente e precipitoso, in ogni settore, e la causa è la superficialità, la corruzione e la drammatica incompetenza della sua (sedicente) élite, spalleggiata da una stampa completamente asservita. Vanno spazzati via, i colpevoli ma anche i loro fiancheggiatori e coloro che non sono stati capaci di opporsi o che facevano finta di non vedere; non è tempo di moderazione, in caso di dubbio meglio buttarli, i don Rodrigo insieme ai don Abbondio.

La Nazionale di Conte? Specchio dell'Italia che rinnega i leader. Un saggio del sociologo Marco Revelli “Dentro e contro” racconta il rancore degli italiani contro tutto ciò che viene avvertito come potere, non solo a livello politico, ma anche economico, burocratico, sportivo, scrive Simone Savoia, Mercoledì 15/06/2016, su "Il Giornale". Questa nazionale potrebbe entrare nel cuore degli italiani. Infatti nel Paese tira un’aria contraria ai leader, ai capi, alle istituzioni, a chi comanda, chiunque esso sia. Infatti, ad esempio, anche chi governa si affanna a presentarsi come estraneo alla politica o comunque distante dalla stessa, vedi il presidente del Consiglio Matteo Renzi che presenta l’Italicum come le forbici giustiziere sui costi della macchina statale, parlamento in testa. Ma anche i candidati a sindaco di diverse città tendono a presentarsi come persone che nella vita si occupano di altro. “Politico a me? Come ti permetti?” si sente spesso gridare nei sempre più rari e usurati talk-show. A Milano e a Napoli questo fenomeno è evidente nella campagna elettorale per le elezioni comunali. Un saggio del sociologo Marco Revelli “Dentro e contro” racconta in profondità questo rancore degli italiani contro tutto ciò che viene avvertito come potere, non solo a livello politico, ma anche economico, burocratico, sportivo. Proprio per questo la nazionale di calcio guidata da mister Antonio Conte può essere il nuovo oggetto dei desideri degli italiani. E se non la più amata dagli italiani, certo occupare un posto nella galleria storica del pallone. Il giorno dopo l’esordio vincente degli azzurri contro il Belgio si sentiva più d’uno dire, tra bar e metropolitana: “Mi piace questo gruppo senza leader! Ragazzi semplici, che lavorano!”. Stiamo parlando logicamente di emozioni, di sensazioni, di ragioni del cuore che magari la ragione calcistica non riconoscerebbe mai. Questa è una nazionale senza leader in campo e con un sergente di ferro in panchina. Cioè rappresenta in qualche modo l’Italia come oggi la vorrebbero molti italiani. Sembrano passati secoli dagli Europei del 2012, quelli in Polonia e Ucraina. L’immagine di quel torneo, che perdemmo in finale contro la Spagna “galattica”, resta la star Mario Balotelli che si toglie la maglietta e mostra i pettorali dopo aver steso la Germania a Varsavia (nemesi storica). Oppure del rigore a cucchiaio di Andrea Pirlo che fa impazzire l’insolente portiere degli inglesi, Hart. Stiamo parlando di Pirlo, l’eroe che tinse d’azzurro il cielo di Berlino e ci portò assieme agli altri eroi sul tetto del mondo. Era l’estate (l’unica, per fortuna) del governo tecnico di Mario Monti, e comunque i cittadini ancora volevano una leadership forte per vincere ai rigori e superare una devastante crisi economica. Volendo tornare indietro nel tempo, agli Europei del 2000, forse una delle nazionali più belle della storia, quella di Dino Zoff, punita dal francese Wiltord all’ultimo secondo di una finale crudele e subito dopo dal golden gol di Trezeguet. Quella era la nazionale delle stelle: Del Piero, Totti, Maldini, Cannavaro, Inzaghi, Nesta, Ferrara tanto per fare qualche nome. In Olanda e Belgio Zoff mise in campo una squadra bella, elegante, spumeggiante. Le vincemmo tutte, e anche quella maledetta sera a Rotterdam avevamo già più di una mano sulla coppa, ma i francesi ci ruppero le uova nel paniere. Anni rampanti della seconda Repubblica quelli, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, Massimo D’Alema e Gianfranco Fini. Anni di maggioritario, di leadership forti, della politica “o di qua, o di là”. Oggi anche Gigi Buffon, quello che a Berlino nel 2006 fece piangere Zidane strozzandogli in gola l’urlo di un gol che sembrava praticamente fatto, sembra non si dica un esordiente ma comunque un giocatore qualsiasi, che festeggiando appeso alla traversa cade pure come nemmeno alla partita del giovedì scapoli contro ammogliati. E il mister Conte che festeggiando il gol di Giaccherini sbatte contro il capoccione di Zaza e si fa male al naso, con uscita di sangue? Uno di noi! Giaccherini, Parolo, Darmian, Pellè: questi ragazzi sono perfetti per l’Italia del 2016, che non vuole, non accetta e non riconosce leader. Ma chiede e pretende persone normali.

Un Paese che ha perso il suo cuore azzurro. Non è l'apocalisse, ma il sintomo di una Nazione che ha smesso di crederci. E che deve ricominciare da zero, scrive Vittorio Macioce, Martedì 14/11/2017, su "Il Giornale". Non è vero che non si può fare più scuro della mezzanotte. C'è un buio pesto, che fatichi ad immaginare, un azzurro che sprofonda ancora di più nelle tenebre e ti lascia a casa. Adesso, davvero, non ci puoi credere. Non c'è neppure la voglia di maledire. C'è solo un silenzio incredulo, che scivola nella rassegnazione. Facce sconfitte, meste, il pianto di Buffon, con lo sguardo che punta il vuoto. È quello che siamo, gente a cui hanno strappato il futuro. No, non è certo questa l'apocalisse. Non lo è la maschera messa e poi buttata via di Bonucci, il quasi palo in mezza acrobazia di Florenzi, le sostituzioni confuse, sacramentare per i rigori non dati, quel tempo che scorre senza che accada nulla. Non lo è la sventura di un uomo seduto su una panchina troppo grande per lui. Chi se ne frega del calcio. Solo che il pallone è uno specchio. È un sfera che guardi e in cui ti riconosci. Vedi quello che sei, come paese, come individui, come qualcosa che assomiglia a un popolo. Te lo ricordi quel luglio del 1982? L'urlo di Tardelli al Bernabeu era un sentimento che passava di bocca in bocca come una liberazione, con la rabbia di chi voleva scacciare via angosce, piombo e paure, per sentirsi leggero, ottimista, per uscire fuori di casa senza scannarsi tra rossi e neri, senza ideologie, senza sangue, senza rivoluzioni. Te la ricordi l'estate del 2006? L'ultima prima di questa crisi senza orizzonti, quando in pochi avrebbero pensato che ci si può abituare a tutto: al terrore islamico e quotidiano, alla pensione da moribondi, ai figli senza lavoro, alle clausole di salvaguardia, allo spread da bar, a una vita da facebook e a tirare a campare. Adesso pensa alla prossima estate. Non c'è neppure quel mese ogni quattro anni che ti regala una scommessa, un'illusione, una cavolo di speranza, un segno del destino. L'oracolo del pallone, come il fondo del caffè, ti dice che non c'è riscossa, che il cielo è sempre più grigio, che da questi anni micragnosi non si esce neppure con un tiro sbilenco e fortunato oltre il novantesimo, non si esce in zona Cesarini, quando tutto sembra perduto e puoi solo appellarti al rocambolesco spirito italico. Questa volta non c'è uno stellone che ti salva, non c'è il genio improvviso, non c'è quell'abitudine a cavarsela che straluna i tedeschi e fa girare le palle ai francesi. Niente, neppure una magia sporca e di sponda. Solo il vuoto e la rassegnazione. Sono mesi che si sta lì a dire che non è verosimile un mondiale di calcio senza l'Italia. Si, è successo nel 1958 in Svezia, eliminati dall'Irlanda del Nord, ma sono passati quasi 60 anni e di quella squadra sono rimasti vivi in pochi, come Gino Pivatelli, centrattacco del Bologna. Era l'Italia oriunda di Montuori, Da Costa (l'altro superstite), Ghiggia, Schiaffino. Era solo un lontano ricordo, un'anomalia, un cigno nero, qualcosa di imprevisto nel gioco delle probabilità. La regola è che l'Italia ci va, magari inciampa, carambola, ritorna in ciabatte, sfiora il miracolo e qualche volta vince. Giovanni Arpino raccontò la caduta del '74, di un'Italia cacciata al primo turno da polacchi e argentini. Era Azzurro tenebra. Non era un romanzo sul calcio, ma sulla vita, su come anche dentro una sconfitta ci sono personaggi che sanno essere uomini, su gente mediocre e palloni gonfiati, sulle guerre di potere di grassi burocrati e su come siamo bravi certe volte a farci del male. «La spedizione azzurra ai mondiali di calcio aveva affittato quella residenza imbottendola di giocatori, ruote di formaggio grana, unguenti e acque minerali patrie, orgogli e terrori, menischi pericolanti, isterie e berrettini multicolori, taciute diarree e illusioni muscolari, vaseline ideologiche ed omertà coi giornalisti amici, polemiche a fil di denti e onestà solitarie. E tutto un arcobaleno di diplomatici abbracci, frasi fatte, slogan, luoghi comuni, evviva, distinguo, alibi, euforie». Ce ne saranno altre di cadute. In Sudafrica e in Brasile, per esempio. Ma almeno uno spicchio di speranza lo abbiamo visto. Quelle notti erano meno scure. Quell'azzurro tenebra era comunque azzurro. Forse è questa allora la differenza. In questa notte manca l'azzurro. Non c'è più, svanito, evaporato, sbiadito. Non ci crediamo più. L'Italia è un'espressione geografica, qualcosa su cui non conviene scommettere, perché non si sa neppure bene cosa sia. È un battello alla deriva, dove ognuno pensa ai fatti suoi, dove non ti puoi fidare né dei ladri e né di chi grida onestà. È un vuoto a perdere. È vero. Non andare al mondiale non è certo l'apocalisse, ma vale come una premonizione: di questo passo ci aspettano altri anni di purgatorio.

Russia 2018: il disastro Nazionale, scrive Gianfranco Turano il 14 novembre 2017 su “L’Espresso”. E adesso andatevene tutti. Luca Lotti, ministro dello Sport. Carlo Tavecchio, presidente della Figc. Giampiero Ventura, commissario tecnico. Giovanni Malagò, numero uno del Coni. C'è bisogno di spiegare perché? No ma c'è bisogno di spiegare perché sarà difficile licenziare per giusta causa anche uno solo dei principali responsabili della disfatta storica della nazionale contro la Svezia, il 13 novembre 2017. La ragione è semplice. La classe dirigente italiana, in ogni campo nessuno escluso, è la più disastrosa d'Europa e si regge su un patto fra mediocri cementato da una serie infinita di fallimenti e passi falsi. Se ne cade uno, si rischia che cadano tutti. La sera di San Siro è il riassunto migliore di questo teatrino, con De Rossi che giustamente si rifiuta di entrare in campo, con Buffon lasciato solo a piangere davanti alle telecamere e con Fabio Fazio – ce lo meritiamo Fabio Fazio - che sorride nel post-partita perché bisogna smitizzare, bisogna sopire, bisogna troncare e, nel suo caso, guadagnare. Chi non guadagna, anzi perde a rotta di collo, sono i network televisivi che avevano scommesso su Russia 2018, Sky e Rai in testa, a conferma dell'adagio per cui in Italia non si può investire (per colpa dei sindacati e delle tutele ai lavoratori, si capisce). L'analisi tecnica della notte di San Siro non richiede grandi doti interpretative. Un allenatore giunto al suo massimo livello di incompetenza ha sistemato in campo un'Italietta sperimentale escludendo in modo sistematico ogni possibile traccia di talento perché è questo che un dirigente italiano fa. Perseguita il talento. Il talento è una minaccia. Il talento prende iniziative e rischia in proprio. Se va bene, diventa un eroe popolare e questo non può succedere. Se va bene, deve essere merito del dirigente. Tanto, se va male, è colpa di qualcun altro. Per esempio, del talento che non è abbastanza talento. Oppure degli stranieri che rubano il posto agli italiani. Infatti a San Siro ha giocato Jorginho, un brasiliano troppo scarso per vestire la maglia verdeoro. Insigne, seduto. De Rossi, seduto. Bernardeschi, prima seduto poi inutile. Per battere i volenterosi svedesi, una squadra al livello del Chievo o del Sassuolo, abbiamo tirato nello specchio della porta sei volte e crossato quaranta volte, quasi sempre palla alta dalla trequarti, per essere sicuri che la prendessero sempre loro. Non li abbiamo saltati in dribbling mai e non abbiamo preso gol soltanto perché l'arbitro ha deciso di non dare quattro rigori (due per noi e due per loro), favorendo l'Italia anche se non abbastanza. Ai mondiali l'arbitro ci vuole andare e, scarso com'è, ci andrà. Noi, invece, a casa. Dopo sessant'anni restiamo esclusi dalla più grande festa dello sport internazionale. Oggi i giornali diranno che i nostri giocatori sono inadeguati e che Antonio Conte aveva fatto un miracolo ad arrivare fino ai quarti agli Europei due anni fa. Non è vero. I giocatori non sono il problema. La politica è il problema. La cooptazione tra farabutti è il problema. Questo problema ha come soluzioni possibili il commissariamento o la rivoluzione. Di rivoluzione non è aria, a meno di andare verso una nazionale grillina con il cittì e i convocati scelti attraverso votazioni web. E il commissariamento non può certo essere affidato a un comitato olimpico che ai Giochi tira a campare con le medaglie della scherma, del nuoto e di quelli che sparano. Si farà come si fa nel calcio. Si caccerà Ventura e si prenderà un altro. I dirigenti opporranno la massima resistenza con buone probabilità di salvarsi, tanto adesso ci sono le politiche e abbiamo cose più serie da pensare. Perché esistono cose più serie del calcio. O no? 

PARLIAMO DELLO SPORT TRUCCATO.

La giustizia nel pallone, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale" il 5 dicembre 2016. I pm scrivono libri sugli imputati sotto processo che poi vengono pure assolti. La giustizia, in Italia, finisce spesso in fuorigioco. Non ci voleva certo la storia di Paolo Dondarini per accorgersene. Di professione assicuratore, arbitro per passione, nel 2000 il fischietto emiliano viene mandato a dirigere in serie A. Nel 2005 diventa internazionale. L’anno dopo Calciopoli lo travolge. L’accusa: frode sportiva. La Procura di Napoli lo manda alla sbarra. Il mondo del calcio lo mette alla porta degli stadi. Per sempre. Ma le partite, diceva uno come Vujadin Boskov che di pallone e vita se ne intendeva, finiscono quando arbitro fischia. E il triplice fischio arriva nel 2015, quando la Cassazione chiude l’affaire, respingendo la pretesa di rimandare a giudizio Dondarini, già assolto in Appello nel 2012 dalla condanna rimediata in primo grado nel 2009. Serve insomma un decennio, o quasi, per definire un caso che intanto ha rovinato la carriera (e probabilmente l’esistenza) di un uomo: non la prima, non l’ultima vittima – sicuramente, purtroppo – della lentezza e dei difetti del sistema giudiziario italiano. Ma non è solo questione di burocratica e giudiziaria inerzia la vicenda del Dondarini vittima (e non artefice) di Calciopoli. C’è altro. C’è di più: il pm che lo inquisì, Giuseppe Narducci, ha scritto un libro. Intitolato “Calciopoli, la vera storia” e pubblicato proprio nel 2012, parla anche di “Donda”. Descrivendolo come colpevole di aver aggiustato alcune partite. Un racconto – a processo ancora aperto – dell’inchiesta che al processo, a quel processo, aveva dato origine e che alla fine ha svelato i tanti punti deboli dell’inchiesta poi fatta libro.

Tutto lecito. Anche opportuno? E normale? L’ex arbitro, che per un’intercettazione mal interpretata ha dovuto rinunciare alla carriera passando i guai, ha citato in giudizio per danni il pm scrittore. «Non cerco vendetta o soldi, cerco la verità», ha detto spiegando i motivi della causa di risarcimento promossa davanti al Tribunale di Bologna. «L’importo lo deciderà eventualmente il giudice. A me interessa ristabilire la verità dopo averlo già fatto in sede legale. Ho trovato incredibile che un pm scrivesse un libro su di un processo che non era ancora giunto al termine». Incredibile. Ma possibile. In Italia è possibile. Non è fallo da rigore e nemmeno da punizione. E poi, nel libro la prefazione era curata da Marco Travaglio. Molto meglio di Pelè, come cantano gli ultrà al ritmo delle manette.

GIUSTIZIA SPORTIVA: GIUSTIZIA SOMMARIA E SPESSO INGIUSTA.

LA SENTENZA LAMPRE «SENZA PROVE» E SENZA SCUSE. Oggi è la Gazzetta dello Sport a parlare di quelle 172 pagine, scrive Pier Augusto Stagi l'8 aprile 2016 su "Tuttobiciweb". Lo si è letto questa mattina, su «La Gazzetta dello Sport». La sentenza Lampre è un discreto libro di 172 pagine, che spiegano punto per punto la verità giudiziaria di uno dei processi più dolorosi del ciclismo degli ultimi anni. Ventotto imputati, con la figura di Guido Nigrelli il farmacista di Volta Mantovana al centro di tutto. E poi una serie di nomi di dirigenti, corridori e tecnici, ma su tutti quello del General Manager Beppe Saronni. La fine la conoscete, risale al dicembre scorso: uniche condanne per Nigrelli 8 mesi e Gilmozzi 5 per le sostanze dopanti al cicloamatore Messina. Tutti gli altri assolti. Dal primo all’ultimo. Il perché lo legge e lo riporta Luca Gialanella sulla Gazzetta, dopo aver letto attentamente le 172 pagine della sentenza depositata lo scorso 7 febbraio. «Niente prove». Scritta almeno 52 volte. Anche su Ballan: «Non è emersa alcuna prova della sussistenza della fattispecie contestata». E ancora: «Neppure dalla trascrizione delle conversazioni telefoniche e ambientali è emersa la prova dei reati contestati». Sarebbe stato bello che qualcuno avesse anche scritto in qualche modo o in qualche maniera, parole che assomigliassero vagamente e lontanamente a delle scuse. Ma anche questo è chiedere troppo. D'altronde «niente prove», niente scuse. Pier Augusto Stagi.

La Giustizia sportiva è l’alter ego della giustizia Ordinaria. La giustizia sportiva è veloce, sommaria e sistematica proprio perché tutela il Sistema e non l’individuo. Non ci sono garanzie.

Differenza fra giustizia SPORTIVA e ORDINARIA

Calciopoli:

-Sportiva: condannata la juve su presunzioni (si voleva garantire l'inizio del campionato, quindi si volevano garantire le tv. Se il campionato non fosse cominciato, si sarebbe creato un bordello. In pratica non hanno dato il giusto tempo alla causa).

-Ordinaria: prove non sufficienti, illecito tutto da dimostrare.

Caso scommesse:

-Sportiva: una persona (nei guai fino al collo per illeciti), può sparare a zero contro chiunque ed essere preso per "la santa voce della verità assoluta" (può anche essere). Al contrario, più di 20 persone che giurano il contrario sono considerate bugiarde.

-Ordinaria: il caso si sarebbe concluso subito per mancanza di prove (la mia parola contro la tua, alla pari, ci vogliono prove schiaccianti).

Generale: 

-Sportiva: in un processo è l'imputato a dover dimostrare la propria innocenza. Sono ridotte, e non di poco, le possibilità di difesa dell'imputato e questo perchè in questo tipo di processi viene applicato il principio del "presto e bene". In pratica per non essere penalizzato ulteriormente, si è costretti a patteggiare perchè difenderti è impossibile. Ma l'articolo più assurdo della giustizia sportiva è l'art. 4 comma 5: "Le società sono presunte responsabili degli illeciti sportivi commessi a loro vantaggio da persone a esse estranee. La responsabilità è esclusa quando risulti o vi sia un ragionevole dubbio che la società non abbia partecipato all'illecito o lo abbia ignorato". Cioè, qui si condanna su presunzioni e ragionevoli dubbi. Ed è assurdo anche il fatto che una società può essere multata o addirittura penalizzata se in una partita è stata avvantaggiata per il fatto che l'avversario giocava a perdere (la colpevolezza è appunto presunta).

-Ordinaria: è la pubblica accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell'imputato.

Calcio, scommesse e figuracce: giustizia (comica) sportiva. Serie A. Il reo confesso Andrea Masiello torna in campo con l'Atalanta, il ct azzurro Antonio Conte rischia il rinvio a giudizio per frode sportiva. E chi ha denunciato lo scandalo? Costretto a smettere di giocare e a emigrare all'estero. La credibilità del pallone italiano non rotola più: va a rotoli, scrive Lorenzo Vendemiale il 2 febbraio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Atalanta-Cagliari 2-1. Nel tabellino, a disposizione per i padroni di casa: Avramov, Frezzolini, Scaloni, Migliaccio, Benalouane, D’Alessandro, Rosseti, Spinazzola, Bianchi, Masiello. Sì, proprio lui: Andrea Masiello, reo confesso dello scandalo Calcioscommesse colpevole di aver truccato diverse partite, torna in Serie A. Per adesso solo in panchina, presto probabilmente anche in campo. Ma non è l’unico avvenimento della settimana: secondo quanto anticipato da Repubblica, nei prossimi giorni la Procura di Cremona rinvierà a giudizio Antonio Conte, oggi ct della nazionale, all’epoca dei fatti allenatore del Siena, con l’accusa di frode sportiva. E mentre Stefano Mauri continua a giocare e segnare con la Lazio, dopo una squalifica soft e una posizione penale ancora da chiarire (anche per lui dovrebbe arrivare il rinvio giudizio), l’unico calciatore che ebbe il coraggio di ribellarsi al sistema non fa più il calciatore: Simone Farina oggi ha un incarico di community coach all’Aston Villa, in Inghilterra. Le contraddizioni della giustizia sportiva e del pallone italiano sono tutte nell’opposta parabola di questi due simboli del Calcioscommesse. In Italia c’è spazio per chi ha tradito i propri tifosi, per chi è arrivato anche a manipolare un derby (Bari-Lecce) con un autogol volontario. Ma non per chi ha denunciato le combine: Simone Farina era un discreto fluidificante mancino, arrivato anche a giocare in Serie B con il suo Gubbio. Dopo l’inchiesta non ha trovato più nessuna squadra che lo volesse, neanche un contrattino in una categoria minore. Si è ritirato dal calcio giocato nel 2012, a soli 30 anni. Certo, Andrea Masiello ha pagato: non poco, 2 anni e 5 mesi di inibizione per illecito sportivo, violazione dell’articolo 1 di lealtà sportiva e divieto di scommessa. E ha collaborato, confessando le sue colpe e aiutando gli inquirenti. Anche per questo è potuto tornare ad essere un calciatore. Giusto o sbagliato, difficile dirlo (ma se lo chiedete ai tifosi del Bari loro sì che non hanno dubbi). Sul capo di Masiello, però, resta pendente il fascicolo della Procura, in cui compaiono i nomi di circa 250 calciatori. Alcuni di loro potrebbero essere rinviati a giudizio, ma continuano a giocare. Come ad esempio Stefano Mauri. Il capitano della Lazio è indagato a Cremona per associazione a delinquere finalizzata alla truffa sportiva (per cui è stato anche arrestato nel maggio del 2012), è stato interrogato in Svizzera nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio di denaro. Ma dalla Corte Federale è stato squalificato solo per omessa denuncia, e solo per nove mesi (peraltro ridotti a sei dal Tnas, vero e proprio “scontificio” che oggi non esiste più). Per questo Mauri è tornato presto in campo, e vive una seconda giovinezza con la maglia biancoceleste. Anche il caso di Antonio Conte è emblematico. Indagato con l’accusa di frode sportiva, processato dalla Figc per omessa denuncia. Squalificato (senza troppe prove e convinzione) per dieci mesi (poi ridotti a quattro in appello), quindi assunto come commissario tecnico della nazionale dalla stessa Federazione che lo aveva ritenuto colpevole. E forse di nuovo al centro di un’inchiesta penale, adesso che da ct rappresenta tutto il movimento azzurro. La giustizia ordinaria è una cosa, quella sportiva un’altra: ma le differenze fra i due ordinamenti (che hanno tempi, regole e procedure diverse) non bastano a giustificare le troppe contraddizioni del nostro calcio. D’altra parte, il presidente della Figc, Carlo Tavecchio, governa la Federazione nonostante la sospensione di sei mesi ricevuta dalla Fifa per la famosa frase razzista su Optì Pobà. E il suo vice, Mario Macalli, è al centro di un contenzioso in Lega Pro, di cui non ha intenzione di mollare la presidenza pur essendo stato di fatto sfiduciato dalle sue società. In fondo è un po’ tutto il mondo del pallone italiano ad avere qualche problema con la giustizia.

IL VERO PROBLEMA: IL SISTEMA MARCIO DELLA “GIUSTIZIA” SPORTIVA. Scrive “IoJuventino” il 30/07/2012. Patteggiamento. Una parola improvvisamente sulla bocca di tutti. Un uomo solo al centro del mirino, come sempre in questi ultimi mesi. Antonio Conte, il capitano di mille battaglie e il condottiero dello scudetto dei record. Non voglio parlare dell’opportunità o meno di patteggiare, che stando alle voci sembra essere una scelta societaria imposta a Conte, dato che è già stato fatto da IoJuventino in un precedente articolo. Vorrei spostare l’attenzione su qualcosa che i media sembrano ignorare e a cui ben pochi danno peso. Basta vedere che al centro dell’ennesimo scandaloso processo mediatico è finita una persona che alla fine è stata accusata di omessa denuncia, peraltro senza prove, mentre chi vendeva e truccava le partite viene considerato un santo. Vorrei parlare dell’attuale modus operandi della “giustizia” sportiva. Usare la parola “giustizia” è una bestemmia comunque, un insulto alla dea Atena e all’intelligenza umana, per i pochi che possono vantarsi di possederne un briciolo. Non è possibile essere accusato, infangato, insultato, condannato mediaticamente e al 99% anche nel “processo” sportivo (rigorosamente tra virgolette, dato che un processo vero, della giustizia ordinaria, segue logiche ben diverse) senza una prova. Non è possibile che ci siano giocatori pentiti che in realtà sono solo ladri e truffatori, delinquenti che non meritano nulla dalla vita se non marcire in galera che vengono considerati credibili da chi indaga solo quando fa comodo, solo a sprazzi, traendo spunto da ognuna delle tante versioni diverse raccontate sullo stesso argomento. Non è possibile dover andare a un “processo” che dura un paio di giorni, davanti a tre giudici che neanche ascoltano e sono pagati per confermare le tesi dell’accusa, a difendersi su qualcosa che non hai fatto e su cui nemmeno l’accusa avrebbe le prove per condannarti. Non è possibile avere la sostanziale certezza di essere condannati in un “processo” sportivo quando con gli stessi elementi a disposizione verresti assolto senza problemi da un tribunale ordinario. Non è possibile, e qui parlo di Bonucci, essere accusato di illecito dalla “giustizia” sportiva quando per gli stessi fatti non risulti neanche indagato da quella ordinaria, che ti considera solo una persona informata sui fatti. Non è possibile che ci siano giornali, televisioni, predicatori, falsi moralisti e pseudogiornalisti che orientano l’opinione pubblica ignorante e scrivano a priori le stesse sentenze che poi vengono emesse da chi dovrebbe indagare in modo corretto. Non è possibile ritrovarsi ciclicamente ricoperti di fango e letame per far felici quei quattro poveri ignoranti che detengono il potere e tutto il popolino di pecoroni ignoranti antibianconeri. Volevamo fare la guerra a Palazzi, alla Figc, a chi ci infanga, a questo schifo di sistema marcio. A quanto pare non sarà così, ma non voglio che ci sia qualche tifoso bianconero che consideri Conte colpevole perché patteggia. Se lo fa, Antonio si umilia davanti a tutti per tornare il più velocemente possibile in panchina. Si espone per anni agli insulti dei tifosi avversari e alle paternali dei predicatori giornalai. Mette il bene comune, la Juve, davanti all’interesse individuale, la Giustizia con la “G” maiuscola. E nessuno dovrà prendersela con lui, anzi dovremo stringerci attorno al nostro mister e sostenerlo dato che verrà attaccato da tutti. Bisognerebbe chiedere spiegazioni alla società piuttosto, con tanto di più che sospetta improvvisa ricomparsa di John Elkann sulle pagine dei giornali nei giorni scorsi. Ma questa è un’altra storia. Riporto volentieri un estratto da un bell’articolo di Giuseppe Cruciani intitolato con un eloquente “Sei Conte, non devi consegnarti alla giustizia barbara”. Mi hanno colpito queste parole perché scritte da un giornalista dichiaratamente non juventino, che però dimostra come appaia marcio questo sistema a chi sappia un minimo ragionare. E soprattutto che è un sistema da ribaltare, da abolire, da rivoluzionare davvero: […] che non ti venga in mente di scendere a patti con una giustizia sportiva che è peggio dei processi staliniani dove ti spedivano in Siberia per niente. Non puoi difenderti. L’imputato deve portare le prove della sua innocenza. Basta la frase di un pentito, o presunto tale, per inchiodarti. I tempi sono talmente veloci, che ti trovi condannato prima di cominciare. Una barbarie che nessuno ha il coraggio di denunciare. Una roba che al confronto i tribunali del popolo erano all’acqua di rose. Almeno in Urss ti mandavano al confino e alla morte in nome dell’ideologia; c’era insomma un fine criminale ma c’era. Qui il processo sportivo serve solo a regolare i conti tra dirigenti, giocatori e addetti ai lavori. Se ne occupano una manciata di burocrati che prendono le carte dell’accusa e ti mandano al rogo. Assurdo che centinaia di milioni di euro, il business del pallone, possa venire compromesso in questo modo. Eppure nessuno dice niente. Nel mondo del calcio prevale l’omertà, i piccoli compromessi, le convenienze. Ecco perché, caro Conte, è il momento di ribaltare tutto. Devi andare davanti a questo signore che si chiama Palazzi e dire chiaro e tondo: io non sapevo nulla di questi trucchetti e di quello che dice Carobbio non me ne frega niente, siete voi che dovete provare il contrario. Se ci riuscite bene, altrimenti amen. E siccome di prove (quelle vere) non ce ne sono, puoi stare sicuro che ne usciresti alla grande. L’unica cosa che non mi convince è la frase finale di questo estratto. Perché dato che di prove non ce ne sono, non dovrebbe neanche esistere questo problema del patteggiamento. Conte avrebbe dovuto essere prosciolto da Palazzi, non deferito. E, in realtà, se condannato a processo, Conte ne uscirebbe alla grande solo per noi tifosi juventini o per i pochi che sanno ragionare. Per gli ignoranti sarebbe un ladro in ogni caso, sia che scelga il patteggiamento, sia che venga condannato a processo o persino assolto. Gli ignoranti ti infangano comunque, basta vedere che c’è gente che pensa ancora che Moggi abbia chiuso Paparesta nello spogliatoio o che fa finta di non sapere che il processo per doping è finito con un’assoluzione. Il fango e il letame ce lo tirano comunque, è sempre così. Dispiace patteggiare perché sembra di obbedire al volere di Palazzi, della Figc e del diktat rosa messo in prima pagina venerdì (“Sollievo Conte, può patteggiare”). Non vorremmo mai darla vinta a questi esseri ripugnanti ma è il sistema che è marcio fino al midollo. Ci sono già stati “processi” sportivi relativi al calcioscommesse in cui giocatori come Fontana, dopo essere stati deferiti senza prove, hanno preso anni di squalifica senza essere ascoltati dai giudici, senza avere la possibilità di discolparsi. O Locatelli, che racconta in modo agghiacciante come Palazzi ti prometta sconti di pena se tiri fuori altri nomi di gente, che ritieni coinvolta, ma se non ne sai nulla, ti butta sotto un treno. Siamo stanchi di un sistema che funziona così…vogliamo abbatterlo e questa poteva essere l’occasione giusta, ma sono anche consapevole che in questo momento la forza politica della Juve nei confronti del Palazzo, dei poteri forti del calcio, non è tale da riuscire a portare avanti una rivoluzione di questa portata e i continui torti subiti ne sono la prova. Se Conte andasse a processo verrebbe condannato di sicuro anche senza prove e non cambierebbe nulla in questo sistema marcio con l’attuale proprietà bianconera che ha già dato prova di cosa può fare nel 2006. Stringiamoci a Conte e agli altri ragazzi comunque vada. E continuiamo a lottare contro questo schifo e contro gli ignoranti che ci daranno contro in ogni caso. Come sempre del resto. È dura, siamo delusi e incazzati, ma noi tifosi non possiamo mollare. Siamo sopravvissuti a Farsopoli, non dobbiamo mollare adesso. Fino alla fine. La Giustizia sportiva va riformata da capo a piedi. L'apertura di un'indagine non significa colpevolezza, è vero, nella giustizia ordinaria. Ma se noi andiamo nella giustizia sportiva, purtroppo, è l'accusato che deve difendersi, è l'accusato che deve provare di non essere colpevole. La responsabilità oggettiva non va modificata, va abolita. Esistono delle responsabilità individuali che se vengono provate, devono essere punite a livello individuale".

Speciale Calciopoli, avv. D'Onofrio: "Indagine procura di Roma può aprire cono di luce. La Juventus potrebbe richiedere indietro gli Scudetti, c'è l'articolo 39 del CGS". Calciopoli e gli scudetti tolti alla Juventus l'argomento principale di questa sera 8 marzo 2013 a Calcio & Mercato su Sportitalia. Rivelazioni choc e spiegazioni su come la Juventus potrà avere in dietro gli scudetti. Rivelazioni anche su come la Procura di Roma sta indagando sulla Procura di Napoli. Il giallo del Dvd che manca. In studio Michele Criscitiello, Alfredo Pedullà, l'esperto di diritto sportivo Paco D'Onofrio e tanti altri ospiti.

La Juventus e i suoi tifosi possono ancora sperare di riavere indietro i due scudetti revocati nell'estate calciopoliana del 2006. Già, perchè "il processo sportivo si potrebbe riaprire", ha dichiarato sorprendentemente Paco D'Onofrio, legale di Luciano Moggi, intervenendo nella trasmissione radiofonica bianconera "Stile Juventus", in onda ogni lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì alle 21 presso l'emittente privata Nuova Spazio Radio di Roma. Ecco le dichiarazioni più significative rilasciate dal legale dell'ex direttore generale della Juventus, che ha dialogato con lo speaker del programma Nicola De Bonis, e con l'opinionista Antonello Angelini, conduttore della trasmissione televisiva sulla Signora, "La Juve è sempre la Juve".

Angelini: "L'altro giorno navigando un po' su internet, ho trovato l'articolo 39 del codice di giustizia sportiva. E' molto lungo, ma dice in sostanza che qualora intervenissero fatti nuovi, nuove testimonianze, alcune cose che in qualche modo non sono state evidenziate in sede processuale, si può riaprire quello stesso processo e farne uno nuovo".

Avvocato D'onofrio: "E' la revisione".

De Bonis: "Facciamo chiarezza. Dunque si potrebbe addirittura riaprire il processo sportivo di Calciopoli?"

Avvocato D'Onofrio: "Certo. Questo è il presupposto che la federazione finora ha sempre negato. Ma in realtà ci è venuto in aiuto indovinate chi? Guardiola. E vi spiego perchè. Perchè la revisione è quell'istituto processuale che dice che quando la sentenza viene emessa sulla base di alcune circostanze e di alcuni fatti, e poi nel corso del tempo ne emergono degli altri che avrebbero dovuto portare a una sentenza diversa, c'è l'obbligo di riaprire il processo, di rivalutare in ragione delle nuove prove, dei nuovi elementi. Però la giustizia sportiva, su questo punto, ha sempre detto che un'eventuale assoluzione in sede penale non costituisce per la giustizia sportiva un fatto nuovo. Perchè dicono: 'Noi giudici sportivi apparteniamo ad un ordinamento autonomo", cioè non risente delle decisioni statali. Bizzarra come ricostruzione, ma hanno sempre sostenuto questo. Perchè dico che ci viene in soccorso Guardiola? Perchè in realtà due o tre mesi fa si è verificato questo precedente: Guardiola, vi ricorderete, quando giocava col Brescia, fu trovato positivo al doping. Si difese dicendo che non era vero, ma i giudici sportivi non vollero credergli e gli comminarono la sanzione. Lui non si è mai rassegnato ed è andato davanti alla giustizia penale, che ovviamente ha i suoi tempi. Guardiola nel frattempo ha smesso di giocare ed è diventato un brillantissimo allenatore come tutti sappiano. Successivamente il giudice penale di Brescia gli ha dato ragione e in base alla sentenza di assoluzione penale è tornato davanti alla giustizia sportiva italiana, la quale ha dovuto riconoscere la validità della pronuncia penale e ha annullato la sanzione sportiva. Una sanzione che ovviamente non era più - come dire - cogente, perchè nel frattempo Guardiola si era ritirato, ma lui chiedeva comunque che il suo curriculum restasse pulito. Non voleva chiudere con l'onta di una squalifica per doping. Tutto questo che cosa ha comportato? Che costituisce un precedente. In ambito federale hanno sempre detto che un'eventuale sentenza assolutoria da Napoli, non costituirebbe motivo di riapertura del processo sportivo. Ma adesso questo non lo possono più dire".

De Bonis: "Questo stravolge un po' tutto..."

Angelini: "Volevo aggiungere una piccola polemica. Il professor Sandulli ha spiegato in varie trasmissioni che la giustizia sportiva era una cosa e la giustizia penale era un'altra cosa, facendo l'esempio della cravatta al circolo. Io però faccio un altro esempio: al circolo, inteso come mondo calcio, è vietato calpestare le aiuole. Se in un processo di qualunque tipo viene fuori che io quelle aiuole non le ho calpestate, come fa il circolo a non riconoscere che davanti a un giudice ordinario io quelle aiuole non le ho calpestate? L'esempio di Sandulli è strumentale".

Avvocato D'Onofrio: "E' proprio questo il punto su cui la giustizia sportiva ha un grandissimo imbarazzo. E tutte le volte che io ho avuto dei confronti televisivi con loro, l'ho sempre spuntata. Non perchè io sia particolarmente brillante, ma perchè sono onesto intellettualmente. Il problema non è valutare un fatto in modo diverso, perchè lì convengo con loro: il giudice penale segue il codice penale, il giudice sportivo segue il codice di giustizia sportiva. Qui il problema è a monte. Cioè, se un giudice penale sentenzia che il fatto non si è proprio verificato, tu non mi puoi dire che mi condanni perchè la norma sportiva condanna quel fatto in modo diverso. Il fatto proprio non sussiste. Non l'ha detto chiunque. L'ha detto il giudice statale, lo ha detto un giudice in nome e per conto della Repubblica italiana. Non è affatto smentibile".

Angelini: "Vi faccio un esempio, accaduto nei circoli romani. C'è stata una rissa in un campo da calcetto, uno è stato espulso, è andato davanti alla giustizia ordinaria e ha dimostrato che il primo ad alzare le mani è stato l'altro. E hanno dovuto riammetterlo al circolo".

Avvocato D'Onofrio: "Volevo suggerirvi una riflessione legata al processo di Napoli, sull'ipotesi della possibile ricusazione del presidente del collegio del Tribunale che si sta occupando del processo penale: questa donna si è permessa, nel corso di un'udienza, rispetto ad una richiesta di testimonianze infinita, di dire: 'Io vorrei arrivare quanto prima a sentenza, anche perchè abbiamo altri processi e ben più importanti da fare'. Siccome non fa parte della Procura di Aosta, ma di quella di Napoli - dove è facile immaginare che ci siano processi legati alla criminalità organizzata, dove si parla di omicidi, traffico di stupefacenti - è giusto che si sia espressa in questo modo. Eppure, una formulazione lessicale così pacifica e condivisibile, è stata presa a pretesto dai pubblici ministeri per ricusare il giudice. Cioè stanno chiedendo al Tribunale di sottrarre la competenza a questo giudice, perchè, secondo loro, dietro questa frase, si potrebbe celare già un'anticipazione dell'assoluzione di Moggi. Capite com'è cervellotica? Sapete per quale motivo la cosa è così sottile? Perchè se un giudice viene ricusato, il processo deve ricominciare da zero, si deve ricominciare dalle udienze preliminari. E data la consistenza di questo processo si rischia la prescrizione. Allora, se io sono un pubblico ministero e, come dichiaro da tre o quattro anni, ho delle prove talmente schiaccianti che sicuramente l'imputato finirà in galera, secondo voi, di cosa avrò bisogno? Di un processo rapido o di un processo lento? Certamente di un processo rapido. E allora perchè chiedo la ricusazione?"

Angelini: "Non solo. Aggiungo una cosa. Innanzitutto hanno chiesto la ricusazione solo del presidente, mentre i giudici sono tre, e sono tre donne. Quindi, non è che decide lei da sola. Poi tra l'altro già è stata fatta una richiesta di ricusazione del giudice da parte delle parti civili proprio per le stesse motivazioni. Ed è stata già respinta dalla Corte d'Appello. Dunque, questo vuol dire che se per caso la Corte d'Appello decidesse in senso diverso, ci sarebbe da preoccuparsi della giustizia italiana....

Avvocato D'Onofrio: "Io che sono una persona dotata di malafede, ragiono in questi termini: "Ad certo punto un pubblico ministero si accorge che dopo tre anni tutto il castello accusatorio ha portato a tutta una serie di illazioni, e all'improvviso, piano piano, si sgretola, mettendolo di fronte al rischio di dover giustificare all'erario perchè ha speso decine e decine di migliaia di euro dei contribuenti per intercettazioni che non servono a nulla e non provano nulla. Andando in prescrizione, invece, il pm si avvantaggia di un dato, e cioè il dubbio, perchè la prescrizione lascia ovviamente il dubbio che una persona sia innocente. O colpevole. Certo si dirà, la prescrizione è un atto disponibile e Luciano Moggi potrebbe rinunciare alla prescrizione. Questo è anche vero. Ma non si può giocare al rialzo. Non puoi far gravare sull'imputato il rischio che il processo vada in prescrizione. Questo è paradossale. Cioè, per anni fai delle indagini, dici che hai delle super prove, che ormai sono imputato e non posso difendermi perchè ci sono argomenti in senso contrario e poi tu rallenti il processo, subentra la prescrizione e il dubbio deve rimanere su di me che non rinuncio alla prescrizione. E' singolare questo fatto".

Speciale Calciopoli, avv. D'Onofrio: "Indagine procura di Roma può aprire cono di luce. La Juventus potrebbe richiedere indietro gli Scudetti, c'è l'articolo 39 del CGS". Calciopoli e gli scudetti tolti alla Juventus l'argomento principale di questa sera 24 dicembre 2013 a Calcio & Mercato su Sportitalia. Rivelazioni choc e spiegazioni su come la Juventus potrà avere in dietro gli scudetti. Rivelazioni anche su come la Procura di Roma sta indagando sulla Procura di Napoli. Il giallo del Dvd che manca. In studio Michele Criscitiello, Alfredo Pedullà, l'esperto di diritto sportivo Paco D'Onofrio e tanti altri ospiti.

CRISCITIELLO: "Gli Scudetti tolti alla Juventus potrebbero tornare in ballo - spiega il conduttore Michele Criscitiello -. Le partite, infatti, già non risultavano alterate. L'unica cosa a tenere in piedi il castello accusatorio è questo famoso dvd sui sorteggi alterati. Non c'è dvd, non c'è la prova dei sorteggi alterati. La Juventus a breve potrà richiedere indietro gli Scudetti".

CRISCITIELLO: "Oggi perchè è stata una giornata chiave? E' mai successo che una procura come quella di Roma entrasse nel merito di un'altra procura, perchè scompare la prova chiave di un'accusa?"

AVV. D'ONOFRIO: "Provo a risponderti in ordine. Il punto degli Scudetti revocati che evidentemente la Juventus immagina di poter riottenere è il punto cruciale, perchè gli altri effetti di Calciopoli sono ormai irreversibili: la Juventus ormai la Serie B l'ha fatta, il parco giocatori fu smembrato, quindi sono effetti irreversibili. Gli Scudetti vengono revocati sul presupposto che i presunti illeciti fossero stati tali da aver condizionato l'esito di quei campionati e quindi i risultati: lo Scudetto è la sintesi di un risultato falsato. Il processo di Napoli è stato un processo molto complesso, un processo penale, nel quale accusa e difesa si sono scontrati apertamente. Oggi la notizia che Tuttosport riportata - una fonte piuttosto attendibile perchè chiaramente vicina alla società Juventus - è che la procura di Roma, probabilmente, vorrà affrontare alcuni temi rimasti oscuri nella precedente inchiesta, cioè le presunte prove che non sono state più trovate, prove che non sono emerse, prove che probabilmente avrebbero aiutato le difese e che riguardano i sorteggi arbitrali. Da questo punto di vista non ci sono soltanto Moggi e la Juventus, ci sono anche tanti arbitri che hanno visto le proprie carriere e le proprie vite interrotte ingiustamente e poi sono stati assolti. Uno di questi è per esempio l'arbitro Dondarini, egregiamente difeso dall'avvocato Bordoni. Questa iniziativa potrebbe fare chiarezza su alcuni punti. Uno di questi è che se non c'è stata l'alterazione del sorteggio, evidentemente non c'è stata nemmeno la possibilità di intervenire sulle griglie, di manipolarle, di condizionarle, di falsarle. Allora la prova degli illeciti, che portò alla revoca degli Scudetti, a questo punto dov'è? Questo è il primo interrogativo".

CRISCITIELLO: "Tra due-tre mesi, dopo che la procura di Roma avanzerà questa indagine, la Juventus potrà richiedere gli Scudetti. E con molta, molta probabilità, in assenza della prova-chiave, del famoso dvd che certificava l'irregolarità del famoso sorteggio arbitrale, la Juventus potrà riavere indietro i suoi Scudetti".

PEDULLA': "Avrei due-tre domande da profano. Come sarebbero sparite queste prove, il dvd? Quando? Perchè?".

AVV. D'ONOFRIO: "Per deontologia devo premettere che parlo del lavoro di magistrati e di colleghi nell'ambito di un processo che non ho seguito direttamente, perchè come sapete ho seguito Moggi nel momento sportivo, nei processi sportivi. Chiaro che il processo penale e quello sportivo erano collegati, però, faccio questa premesse perchè stiamo parlando di una notizia che Tuttosport ha evidenziato relativa ad un'azione di accertamento. Quindi le due domande restano sospese perchè sono proprio l'oggetto dell'accertamento, ovvero per verificare se veramente, come taluni difensori hanno avanzato, vi siano stati dei riscontri, delle prove, improvvisamente mancanti, oppure questo sia stato solo un argomento difensivo privo di qualsiasi sostegno. Che la procura di Roma abbia deciso di muoversi mi sembra già un grado significativo. Poi quelli che saranno gli esiti, le risposte alla tua domanda, si potrà valutarlo solo successivamente".

PEDULLA': "Ma le prove c'erano e non ci sono più? Non c'erano inizialmente? Questo mi sfugge...".

AVV. D'ONOFRIO: "Esistevano secondo i difensori delle prove che attestavano la regolarità del sorteggio. Alcune difese evidenziano che determinate prove, di cui hanno evidentemente notizia, probabilmente... si stupiscono di come mai non siano state portate al processo di Napoli e fossero presenti tra gli atti di prova. Quindi su questa assenza si incentra questa attività di indagine e di accertamento. Io non saprei a cosa porta, ma la notizia mi sembra significativa e ha una fondatezza sportiva rilevante, perchè la Juventus non subì soltanto la penalizzazione, cioè la comminazione di punti di squalifica, subì una serie di sanzioni, una somma di sanzioni, che derivava da una somma di illeciti. Cioè, non soltanto aveva tentato di manipolare, ma è riuscita a manipolare. Siccome la prova dell'effettività della manipolazione, quindi della non genuinità del risultato sportivo, non sembra esserci stata, a questo punto, il motivo e la domanda che immagino la società si porrà successivamente per rispondere anche ai tifosi - non voglio sostituirmi agli avvocati della Juventus -, è: ma a questo punto dov'è la legittimazione alla revoca degli Scudetti? Perchè un risultato sportivo su cui non c'è prova contraria circa la manipolazione è stato sottratto? Non bastavano soltanto i punti di penalizzazione?".

CRISCITIELLO: "Però ci sono comunque condanne che fanno parte della cronaca giudiziaria attuale e quindi bisogna anche capire....Ci sono state condanne, gente squalificata, processi....".

AVV. D'ONOFRIO: "Mi sento però di fare una precisazione: ridimensioniamo, perchè innanzitutto si tratta di una sentenza di primo grado che inoltre ha fatto chiarezza su un punto centrale e cioè non si è raggiunta la prova di un effettivo illecito, ma siamo fermi per ora all'accertamento di un tentativo, che è una cosa molto differente. Cioè, questo vuol dire che anche il processo penale, che comunque è stato un processo rigoroso, ha dimostrato che i risultati conseguiti da quella Juventus, in quelle stagioni, sono stati risultati non alterati da alcuni tipo di manipolazione. Questo è un dato molto significativo. Siccome rimaneva la questione del sorteggio, ecco, questo nuovo filone di indagine, avrà, probabilmente il merito e sicuramente l'effetto di aprire un cono di luce su quest'altra vicenda, che se - chiaramente come la Juventus auspicherà - determinerà un nuovo motivo di liberatoria a favore dei dirigenti della Juventus, potrà legittimare la richiesta degli Scudetti".

CRISCITIELLO: "L'estrema sintesi è abbastanza semplice: la Juventus quegli Scudetti li meritava perchè era la squadra in assoluto più forte, perchè giocava un calcio eccezionale, perchè meritava di vincere. Che poi determinati personaggi in quella Juventus, bravi capaci, abbiano capito che stavano esagerando in questa loro bravura e dalla bravura stava nascendo un potere eccessivo, allora di mezzo c'è stato un inserimento di terzi, fino ad arrivare a voler dimostrare, che si vinceva sì per bravura, ma anche per eccesso di potenza e consapevolezza".

AVV. D'ONOFRIO: "Sei stato chiaro, Diciamo che la potenza e la consapevolezza sono qualità e non sono demeriti. Se qualcuno dimostrerà che i risultati delle partite sono stati alterati da manipolazioni e da atteggiamenti deontologicamente e giuridicamente scorretti, allora probabilmente il disvalore giuridico, cioè la non meritevolezza di quei risultati, ha un senso. Ma oggi non mi sembra così...".

PEDULLA': "Pensavo fosse tutto finito alla luce di un lavoro affidato ad una procura. Questo mi inquieta".

AVV. D'ONOFRIO: "Sollevi un problema legittimo, ma in realtà è un meccanismo fisiologico e non patologico. In fondo il sistema giustizia perchè è articolato su tre gradi, Tribunale, Corte d'Appello e Cassazione? Perchè c'è un secondo giudice che valuta il lavoro del primo e c'è un terzo giudice, la Cassazione, valuta il lavoro del secondo.Quindi non è che un intervento successivo di un altro protagonista è qualcosa di anomalo, di sconvolgente o ingiusto, è probabilmente un sistema di garanzia. Per ora - questo lo diciamo per amore di verità - l'apertura di un'indagine non significa colpevolezza. Non sappiamo nulla. Ha un valore conoscitivo importante, vuol dire che quantomeno dei profili che meritano accertamento ci sono".

CRISCITIELLO: "Probabilmente la Juventus non ha pagato le proprie colpe, ha pagato chi dirigeva in quegli anni la Juventus, quindi i propri dirigenti, che oltre ad interessarsi della Juventus si interessavano di altre 5-6-10-12 squadre in Italia".

CLAUDIO ARRIGONI (giornalista): "Per questo la giustizia sportiva va riformata da capo a piedi. Quando l'avvocato diceva che l'apertura di un'indagine non significa colpevolezza, è vero, nella giustizia ordinaria. Ma se noi andiamo nella giustizia sportiva, purtroppo, è l'accusato che deve difendersi, è l'accusato che deve provare di non essere colpevole. Questa è la stortura grandissima. Non voglio dire che sicuramente la Juventus ha il diritto di andare a richiedere la restituzione degli Scudetti, ma vado anche oltre. E dico che se da quella indagine risultasse che vi erano delle prove alterate io credo che la Juventus abbia anche il diritto di andare a richiedere un risarcimento danni, quello fra l'altro che sta facendo Paolo Cannavaro con il Napoli. La responsabilità oggettiva non va modificata, va abolita. Esistono delle responsabilità individuali che se vengono provate delle reponsabilità individuali, devono essere punite a livello individuale".

CRISCITIELLO: "Cosa deve fare la Juventus per essere ancora parte attiva di questo processo e per riaprire i giochi?".

AVV. D'ONOFRIO: "Credo che la Juventus assisterà con interesse a quelli che saranno gli esiti di questa inchiesta, come credo anche al processo di appello nei confronti di Moggi. Poi credo che a questo unto assumerà una decisione formale, circa la richiesta di riassegnazione degli Scudetti. Evidenzio che la Juventus con la richiesta di risarcimento del danno per 444 milioni di euro, pendente presso il Tar di Roma contro la Figc, ha già significato una propria intenzione di non considerare chiusa la vicenda Calciopoli. Qui c'è una società che è stata fatta retrocedere, 15 milioni di tifosi che si sono sentiti quasi dei banditi per aver tifato una squadra che a questo punto ha vinto tutto regolarmente. Quindi la vita sportiva di taluno e la vita personale di qualche altro, merita questo accertamento".

ARRIGONI: "Se risultano queste anomalie, credo che la Juve possa richiedere la restituzione dei due Scudetti revocati. E credo sia anche corretto e giusto nei riguardi dei tifosi che questo accada. Poi è da valutare se la cosa possa esserci o meno, ma se risultano queste anomalie, su queste anomalie bisogna anche un po' riflettere, quindi chi è parte in causa può richiedere un risarcimento di questo tipo".

AVV. D'ONOFRIO: "La Juve potrà riavere i due Scudetti? Quello che succederà sarà una decisione della Federazione, quindi sarà difficile poterlo dire con certezza. Che la Juventus abbia la possibilità di richiederlo oggi e a maggior ragione all'esito di un eventuale accertamento favorevole alle sue ragioni, questo è indubbio. C'è peraltro uno strumento previsto dal codice di giustizia sportiva che è l'articolo 39, che dice che nonostante ci siano state sentenze definitive della Federazione, se emergono fatti nuovi, la stessa Federazione può, o d'ufficio o su istanza di un tesserato o di un soggetto affiliato come una società, riaprire il processo sportivo. Quindi effettivamente questa possibilità c'è".

AVV. D'ONOFRIO: "A proposito delle motivazioni del processo di Appello Giraudo, che è un processo tecnicamente differente - per una scelta processuale che qui non spieghiamo - rispetto alla scelta processuale fatta da Moggi. Ora il problema nasce dal fatto che la cosiddetta 'Cupola', cioè questo meccanismo che secondo l'accusa Moggi avrebbe ordito e messo in campo, si basava su un rapporto di colleganza illecita con gli arbitri. Arbitri che però tuttavia vengono assolti in questo processo. Quindi l'anomalia è: con chi si associavano visto che i sodali dell'associazione, cioè gli arbitri, vengono scagionati e discolpati? Giraudo sceglie un rito particolare, sceglie un rito abbreviato. E' una scelta processuale che ha visto i due dirigenti divergere profondamente. E' una scelta tecnica, non c'è una scelta migliore e una peggiore, sono scelte diverse. Questa motivazione richiama Moggi ma non può essere imputata a Moggi perchè è una scelta proprio differente".

CALCIOPOLI, PARLA L’AVVOCOATO PACO D’ONOFRIO: “NOVE ANNI PER DIMOSTRARE CHE NON C’ERA NESSUNA FAZIONE JUVENTINA FRA GLI ARBITRI”, scrive "SpazioJuve" il 28 marzo 2015. La Corte Suprema di Cassazione ha emanato la sentenza: Moggi prescritto per associazione a delinquere e assolto per due frodi sportive poiché il fatto non sussiste; Giraudo prescritto per frode sportiva; Bertini, Dattilo e Mattei assolti perché il fatto non sussiste; condannato De Santis, per il quale viene confermata la condanna, mentre per Racalbuto il reato era stato già prescritto in appello. Tuttavia, il verdetto lascia spazio a tanti, troppi dubbi: non ci sono arbitri minacciati o corrotti, il teorema delle sim svizzere si sta sgretolando come tutte le colonne portanti dell’intero processo, non sono state registrate ammonizioni o espulsioni mirate. La domanda, quindi, sorge quasi spontanea: la Cupola come alterava i campionati? Per fare chiarezza e analizzare la sentenza della Cassazione, noi di SpazioJuve.it abbiamo contattato in esclusiva l’avvocato Paco D’Onofrio, uno dei più brillanti e qualificati esperti di diritto sportivo, nonché legale di Luciano Moggi per quanto riguarda il settore della giustizia sportiva.

– Non ci sono arbitri minacciati o corrotti, non sono state registrate espulsioni o ammonizioni mirate, il teorema delle sim svizzere si è sgretolato passo dopo passo: ma la cosiddetta “Cupola” come avrebbe dovuto agire realmente?

La verità è che al di là del sensazionalismo giornalistico a tinte rosa e dei teoremi accusatori federali, così tanto frettolosi ed infondati, la Cassazione ha sancito che non c’è mai stata alcuna “Cupola” capace di alterare i risultati delle partite e condizionare interi campionati.

– Con la sentenza emanata dalla Corte di Cassazione, siamo giunti alla fine del procedimento penale. Per quanto riguarda il processo sportivo invece? Quali sono i margini d’azione della Juventus e come prevede debba muoversi la società di corso Galfer?

Ritengo, come sostengo peraltro da molto tempo e ben prima della conferma pervenuta dalla Cassazione, che la revoca degli scudetti, aggravata dalla grottesca assegnazione all’Inter di uno dei due, sia stata una sanzione ingiusta ed illegittima. Pertanto, la Juventus potrà ricorrere alla FIGC per la riassegnazione degli stessi, poichè i campionati in questione si sono svolti regolarmente.

– Fin quando è corretto dividere il percorso processuale di Moggi e quello della Juventus?

Per onestà occorre precisare che se oggi la Juventus ha la possibilità di reclamare legittimamente i due scudetti e di pretendere un consistente risarcimento del danno, deve tutto proprio a Luciano Moggi ed alla sua perseveranza nel ricercare ogni prova utile e nel far emergere la verità. Pensi che per qualcuno, Paparesta è stato davvero chiuso nello spogliatoio e sottoposto a sequestro!

– Solo un imputato tra i 37 inizialmente coinvolti, ossia De Santis, ha ricevuto una condanna definitiva. Un impianto accusatori che trova anche nei numeri deficit enormi…

Nove anni di indagini, tre gradi di giudizio per dimostrare ciò che era noto e palese sin da subito, cioè che non vi fosse alcuna “fazione” juventina tra gli arbitri. Sapete che con i c.d. arbitri “amici” secondo l’accusa, la Juventus conseguì una media punti addirittura inferiore rispetto alle partite dirette dagli altri? Questa sarebbe la famigerata Cupola?

– Poco più di un mese fa, Todosio de Cillis, il famoso rivenditore di Chiasso e fornitore delle schede svizzere, è stato rinviato a giudizio per falsa testimonianza. Sebbene questo non sia sinonimo di condanna, è sicuramente un duro colpo ad una delle colonne portanti dell’intero processo sportivo…

Una delle tante incongruenze emerse nel corso del processo. Qualcuno ha forse notizia del famoso video che avrebbe dovuto provare in modo incontrovertibile l’irregolarità dei sorteggi? Sparito nel nulla!

– Tra le 6 partite in cui si è realizzata la “frode sportiva”, figurano Juventus – Udinese e Bologna – Juventus, eppure Rodomonti e Pieri sono stati assolti sia in appello sia in Cassazione. Come sono state alterate quindi queste partite?

Un omicidio senza cadavere, un bel dilemma in effetti!

– La condanna in primo grado e successiva prescrizione del reato per Racalbuto può rappresentare un problema per la restituzione degli scudetti alla Juventus?

Assolutamente no, perchè, come ho già precisato, nell’ordinamento sportivo vige il principio dell’intangibilità del risultato fino alla prova che lo stesso sia stato il frutto di una dolosa alterazione. Nel nostro caso i campionati in questione si sono svolti regolarmente. Chi non accetta questa verità processuale o è ignorante o è in mala fede.

All’Avvocato D’Onofrio va un sentito ringraziamento da parte di tutta la redazione di SpazioJuve.it

«L'Inter commise illecito». Tre anni fa la relazione Palazzi. Il 4 luglio 2011 veniva reso pubblico il documento che ha riscritto ufficialmente la storia di Calciopoli..., scrive il 4 luglio 2014 Guido Vaciago. Sono passati tre anni da quando, nel mezzo di un pomeriggio estivo, venne reso pubblico un il documento che ha cambiato la storia di Calciopoli, certificando gli errori dell'inchiesta del 2006. Passata alla storia come "Relazione Palazzi" dal nome del procuratore federale che l'ha stilata, è in sostanza l'ideale requisitoria che avrebbe pronunciato durante un processo, se quel processo ci fosse stato. Invece, com'è noto, le telefonate che riguardavano l'Inter e le altre società coinvolte furono occultate dalle indagini e, una volta riemerse nel 2009, prese in seria considerazione troppo tardi per evitare la prescrizione. Da tre anni, tuttavia, c'è la Relazione di Stefano Palazzi che non ha consentito l'applicazione della giustizia, ma se non altro ha il merito di aver riscritto ufficialmente la storia, che era già cambiata durante l'udienza penale. Perché si può pensare quello che si vuole di quel pasticcio giudiziario denominato Calciopoli, ma dal 4 luglio del 2011 non si può più ignorare che per la giustizia sportiva anche l'Inter era passibile di un processo con l'accusa di "illecito sportivo" (violazione dell'articolo 6, per dire, non fu imputato alla Juventus nei processi del 2006). Piaccia o non piaccia, soprattutto a chi ritenne e ritiene Moggi e la Juventus gli unici colpevoli, Palazzi - lo stesso che chiese le condanne per il club bianconero - scrive: «E' il caso di rilevare che la società Internazionale F.C. di Milano, oltre che essere interessata da condotte tenute dal proprio Presidente che, ad avviso di questa Procura federale, presentano una notevole rilevanza disciplinare per gli elementi obiettivamente emergenti dalla documentazione acquisita al presente procedimento, risulta essere, inoltre, l'unica società nei cui confronti possano, in ipotesi, derivare concrete conseguenze sul piano sportivo, anche se in via indiretta rispetto agli esiti del procedimento disciplinare... ...Dalle carte in esame e, in particolare, dalle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica, emerge l'esistenza di una fitta rete di rapporti, stabili e protratti nel tempo, intercorsi fra il Presidente della società INTERNAZIONALE F.C. ed entrambi i designatori arbitrali, Paolo BERGAMO e Pierluigi PAIRETTO, fra i cui scopi emerge, fra l'altro, il fine di condizionare il settore arbitrale. 57 La suddetta finalità veniva perseguita sostanzialmente attraverso una frequente corrispondenza telefonica fra i soggetti menzionati, alla base della quale vi era un consolidato rapporto di amicizia, come evidenziato dal tenore particolarmente confidenziale delle conversazioni in atti (....)»  E ancora: «Pertanto, alla luce delle valutazioni sopra sinteticamente riportate, questo Ufficio ritiene che le condotte in parola siano tali da integrare la violazione, oltre che dei principi di cui all'art. 1, comma 1, CGS, anche dell'oggetto protetto dalla norma di cui all'art. 6, comma 1, CGS, in quanto certamente dirette ad assicurare un vantaggio in classifica in favore della società INTERNAZIONALE F.C., mediante il condizionamento del regolare funzionamento del settore arbitrale e la lesione dei principi di alterità, terzietà, imparzialità ed indipendenza, che devono necessariamente connotare la funzione arbitrale». Tutto questo (e altro ancora) scriveva Palazzi tre anni fa. E molti si chiesero se non fosse il caso di ripensare la questione dello scudetto del 2006, quello revocato alla Juventus e riassegnato all'Inter in «virtù dell'onestà» della società nerazzurra. Tre anni dopo lo scudetto del 2006 è ancora nell'albo d'oro ufficiale dell'Inter. E la relazione Palazzi negli archivi della Figc. Guido Vaciago

DALLA RELAZIONE PALAZZI SI DEDUCE CHE SENZA PRESCRIZIONE LO SCUDETTO VA RIASSEGNATO ALLA ROMA E L'INTER RETROCEDE IN SERIE C.

La Roma nel 2005-2006 concluse il campionato al 5° posto, ma aveva già scavalcato Juventus, Milan e Fiorentina dopo la sentenza Calciopoli, rimanendo alle spalle solo dell'Inter, scrive “Goal.com” il 5 luglio 2011. Juventus 91, Milan 88, Inter 76, Fiorentina 74, Roma 69. No, non stiamo facendo i pronostici per la prossima stagione, ma riportando invece la classifica finale del campionato 2005-2006, vinto in volata dai bianconeri poco prima che scoppiasse il terremoto Calciopoli. Quello Scudetto, qualche mese dopo, fu tolto alla Juventus per essere assegnato all'Inter e, date anche le penalizzazioni di Milan e Fiorentina, coinvolte nello scandalo, la Roma si ritrovò al secondo posto. Adesso, dopo che il procuratore Palazzi ha affermato che anche l'Inter, quell'anno, si macchiò di comportamenti illeciti per interessi di classifica, il primo pensiero che viene in mente in casa Roma è che, quello Scudetto, sarebbe potuto toccare alla Magica. Fu l'anno delle undici vittorie consecutive, del mercato bloccato per via dell'affare Mexes e dell'infortunio di Totti in Roma-Empoli. In panchina c'era Luciano Spalletti, il presidente era ancora Franco Sensi. A 5 anni di distanza, Bruno Conti commenta così: "Quello Scudetto lo avremmo meritato - si legge sul 'Corriere dello Sport' - I ragazzi lo avrebbero meritato per come si sono comportati, per quello che hanno fatto vedere sul campo. Per carità, si tratta di un argomento delicatissimo, si parla di una sentenza del procuratore federale e della questione si deve occupare chi di dovere. Ma per quello che la squa­dra ha fatto, per il messag­gio che ha dato in quella stagione così difficile, avrebbe meritato di vincere".

Calciopoli: niente risarcimenti. Il Tar dice no alla Juventus. La società bianconera aveva presentato ricorso per la revoca dello scudetto 2006. I giudici hanno bocciato la maxi-richiesta di danni per 443 milioni di euro, scrive Arianna Ravelli il 7 settembre 2016 su “Il Corrirere della Sera”. Calciopoli è (forse) davvero finita. Dopo dieci anni il Tar del Lazio ha respinto la richiesta danni di 443 milioni 725 mila e 200 euro, esclusi gli interessi, avanzata dalla Juventus contro la Federazione (richiesta che era stata definita «strabiliante» dall’avvocato Figc Luigi Medugno) per l’assegnazione dello scudetto 2005-2006 all’Inter, e soprattutto, per la sua mancata revoca nel 2011, quando emersero — fuori tempo massimo per qualsiasi procedimento, visto che era intervenuta la prescrizione — le telefonate di altri dirigenti, tra cui quelli nerazzurri. Per questo mancato intervento il club bianconero, difeso dall’avvocato Luigi Chiappero, lamentava una «disparità di trattamento» rispetto all’Inter calcolando poi il preteso danno subito. Per la verità il club bianconero aveva un po’ indugiato, senza la voglia di brandire questa richiesta danni come vessillo di una battaglia troppo urlata, ma anche senza la volontà di sotterrare del tutto l’ascia di guerra. Alla fine la richiesta della Figc al Tar di fissazione dell’udienza, svoltasi quindi il 18 luglio davanti alla I sezione (presidente Germana Panzironi, relatore Alessandro Tommasetti), cui avevano partecipato da una parte la Juve e dall’altra la Figc e l’Inter. Ieri la sentenza. Il Tar ha definito il ricorso «in parte inammissibile e, per la restante parte, infondato». La Juventus, infatti, si era già rivolta al Tar nel 2006 per poi rinunciare. «La vicenda — si legge nella sentenza — era già stata trattata in un precedente ricorso, presentato sempre dalla Juventus nel 2006, e poi abbandonato dalla società, che preferì ricorrere al lodo arbitrale da cui uscì sconfitta». E il Tar «non può pronunciarsi se lo ha già fatto il collegio arbitrale». Non solo: l’assegnazione dello scudetto all’Inter, avvenuto per mero «scorrimento della classifica» non è illegittimo e la domanda di revoca della Juve «è inammissibile per carenza di interesse»: la Juve non ne ricaverebbe «alcun vantaggio» (a parte la soddisfazione). «È una sentenza molto completa che non si ferma alle eccezioni preliminari, ma entra nel merito della questione», il commento soddisfatto dell’avvocato Luisa Torchia che, assieme ad Angelo Capellini e Adriano Raffaelli, rappresentava l’Inter. Contro la decisione è ancora possibile il ricorso al Consiglio di Stato, ma la Juve deve ancora decidere: «I suoi legali analizzeranno le motivazioni e valuteranno i prossimi passi per tutelare le ragioni della società». Calciopoli, forse, è finita.

Calciopoli deve finire: Thohir, Zhang e Tavecchio invitino Agnelli vicino a loro, scrive il 7 settembre 2016 Gianluca Minchiotti su “Calciomercato.com”. Calciopoli finirà mai? Ieri il Tar del Lazio ha respinto la richiesta di indennizzo da parte della Juventus nei confronti della Figc. Subito dopo, i legali bianconeri hanno fatto sapere che "analizzeranno con attenzione le motivazioni e valuteranno i prossimi passi per tutelare le ragioni della società". La Juve ora ha tempo 60 giorni per ricorrere eventualmente al Consiglio di stato. Per quanto riguarda la Federcalcio, invece, il presidente Carlo Tavecchio si dice "soddisfatto" e aspetta: se Andrea Agnelli rinuncerà al Consiglio di stato, non gli chiederà i danni. Altrimenti, anche lui potrebbe decidere di andare fino in fondo, chiedendo a sua volta un risarcimento danni multimilionario alla Juventus. Intanto, sul web, si assiste a una recrudescenza dell'infinita polemica fra tifosi juventini e interisti. E a farla da protagonista è anche una foto, che ritrae Tavecchio seduto fra Erick Thohir e Zhang Jindong, lo scorso 28 agosto a San Siro in occasione di Inter-Palermo. In un paese normale e in un calcio meno avvelenato del nostro sarebbe una cosa normale, per il presidente della Figc, essere ospite alla prima casalinga della nuova proprietà (Suning) di un club dell'importanza dell'Inter. In Italia no, non è così: e Tavecchio, complice anche la sua dichiarata simpatia per i colori nerazzurri, finisce per apparire agli occhi dei tifosi bianconeri più partigiano di quanto dovrebbe essere chi ricopre la sua carica. Detto questo, e ricordando che la contesa in essere riguarda Juventus e Figc, con l'Inter spettatrice e non direttamente coinvolta, sarebbe bello se, in occasione di Inter-Juve del 18 settembre, Tavecchio, Agnelli e la dirigenza nerazzurra potessero sedersi gli uni accanto agli altri in tribuna per assistere alla partita. E' un'utopia, lo sappiamo, ma per tornare a competere con Premier, Liga e Bundesliga, il nostro calcio avrebbe bisogno di essere compatto e unito, dimenticando i veleni del passato. E avrebbe bisogno di un presidente federale e di un presidente di Lega capaci di unire più che dividere. 

Mai stati (mandati) in B. Storia di una prescrizione, scrive il 2 febbraio 2014 Emiliano su I Faziosi. Internet e i social network hanno il pregio di metterti in contatto non solo con amici vicini e lontani ma anche con comunità di persone che condividono i tuoi stessi interessi. Purtroppo però talvolta si genera un certo isolamento all’interno di queste comunità o gruppi di interesse che, se da un lato rafforza le tue convinzioni, dall’altro non ti consente di conoscere quelle degli altri. Quando poi ti apri al mondo, dialogando, o litigando, con persone fuori dalle tue cerchie (dai tuoi amici, dai tuoi followers eccetera) scopri cose molto interessanti e comprendi quanto variegato sia il mondo. Questa lunga premessa per raccontarvi quanto accadutomi ieri sera quando, incautamente ma non troppo, ho risposto, in modo polemico, ad un tweet di @Ruttosporc, account parodia del quotidiano Tuttosport dietro al quale si cela un tifoso dell’Inter. In genere tendo a seguire qualcuno, non troppi, degli account illustri di tifosi delle squadre avversarie per curiosità e per scoprire cose interessanti come, ad esempio, il venire a conoscenza del fatto che la Juve domenica sera avrebbe “rubato” contro il Milan. Seguo, dicevo, questi account sapendo però di non dover rispondere: un po’ perchè ognuno ha il diritto di scrivere ciò che gli pare senza che il mondo che non la pensa come lui lo tempesti di messaggi (che spesso poi diventano insulti); un po’ perchè so che poi si scatenano le polemiche e io raramente riesco a non farmene risucchiare. Ma ieri sera forse ero meno sereno del solito e ci sono cascato. Ma è stato positivo perchè ho scoperto delle cose davvero interessanti a proposito dei tifosi interisti. Cose che fino a quando rimanevo confinato nella mia cerchia di amici tifosi della Juve (e del Toro) non potevo conoscere. In pratica ciò che riempie di orgoglio i tifosi di una delle tre potenze del calcio italiano è il fatto di non essere mai stati in Serie B. 105 anni di serie A rappresentano sicuramente un valore. Se, però, sei una società che, specie negli ultimi 40 anni, ha speso tantissimo (più di tutte), allora magari non può essere un valore soltanto il partecipare. Ogni tanto bisognerebbe anche vincere. E invece no. “Non siamo mai stati in B”; “Voi dove eravate dal 2007 al 2011“, “Non avete ancora digerito la B“… insomma, applicando a noi tifosi della Juve i loro curiosi parametri di valutazione dei risultati calcistici, gli interisti pensano che noi ancora siamo lì a soffrire per il fatto di essere stati mandati in Serie B. Cari interisti, fatevene una ragione, la Juventus è tornata a vincere e noi si vive proiettati nel presente e nel futuro, cercando la vittoria e basta. Partecipare a 105 campionati per vincerne 18 (di cui uno, è questo è record impareggiabile, vinto pur arrivando terzi! e un altro vinto con la Juve in B e tutte le altre fortemente penalizzate) spendendo più di tutti in allenatori e giocatori non mi sembra un risultato di cui vantarsi. Che poi il loro vanto “Mai stati in B” andrebbe cambiato in “Mai stati mandati in B”. Perchè la Juve in B non ci è finita per demeriti sportivi ma a causa di una vicenda squallida e priva di fondamento come “calciopoli”. La Juve è stata mandata in B a causa delle intercettazioni che dimostravano pressioni da parte dei dirigenti nei confronti di arbitri e dirigenti federali al fine di trarre vantaggi per la propria squadra, mentre l’Inter no perchè, come disse nel corso del processo il PM Narducci: “piaccia o non piaccia non ci sono telefonate di Facchetti o Moratti agli arbitri”. Poi la storia ha mostrato che quelle telefonate c’erano eccome e non solo, con Carraro che chiama Bergamo (qui l’intercettazione) e gli dice “assolutamente che non si sbagli a favore della Juventus, per carità di Dio che ci sono le elezioni in Lega e non possiamo permetterci casini”. Infatti, il Procuratore Federale Palazzi nelle conclusioni accluse al dispositivo sull’inchiesta relativa ai fatti del 2006, spiega che l’Inter è stata assolta per prescrizione nonostante “condotte finalizzate ad assicurare un vantaggio in classifica”. Di calciopoli ci sarebbe da scrivere e da parlare ancora a lungo ma non è questo il post adatto per farlo. Qui basta quanto abbiamo già detto (consiglio anche la lettura di questo post Andrea Agnelli, John Elkann e Calciopoli in cui analizzo anche il ruolo della proprietà della Juve nella vicenda calciopoli) e rimandando comunque a futuri post ulteriori analisi per una vicenda tipica dell’Italia dalla curiosa e atipica idea di giustizia. Ringrazio pubblicamente le persone che ieri sera mi hanno consentito di scoprire che se per la Juve “vincere è l’unica cosa che conta”, per l’Inter, invece è “mai stati (mandati) in B“. E ho tralasciato, volutamente e per non annoiare, il discorso sul famoso Triplete, quello di cui si parlerà per i prossimi 50 anni poichè quando il presente è grigio e il futuro è indonesiano allora è meglio guardare al passato. Ah, vero, ho anche tralasciato che per fregiarsi della patente di onesti occorre essere onesti sul serio (no chiamate agli arbitri, no passaporti falsi, no marchi ceduti fittiziamente, no pedinare e spiare giocatori propri e dirigenti avversari e molto altro ancora).

Quando l’Inter fu retrocessa ma non andò in B. La settimana del prescritto, scrive il 28 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. C’è una squadra, tra quelle che militano nel campionato di serie A, a non aver mai disputato neanche una stagione in Serie B. Quella squadra é l’Inter ed i suoi tifosi si vantano, giustamente, di non essere mai stati in B. La conosciamo, l’Inter, soprattutto attraverso le parole dei suoi tifosi, i quali sanno di fare il tifo per una squadra magari non delle più vincenti, ma sicuramente la più onesta e, come abbiamo detto, che mai ha conosciuto l’onta della retrocessione nella serie cadetta. Ma qui c’è già un errore piccolo ma non trascurabile: l’Inter in B non ha mai giocato, ma ciò non significa che non sia mai tecnicamente retrocessa. Torniamo indietro nel tempo. No, non fino al 1910, quando cioè l’Inter vinse, con l’inganno, il suo primo scudetto. No, basta tornare al 1922. Nel ’22 non si disputa un solo campionato ma due, come due erano le federazioni: la Cci e la FIGC. L’Inter gioca nel CCI e, purtroppo, arrivò ultima. Il regolamento prevedeva la retrocessione diretta per le squadre le ultime due classificate di ogni campionato. Pertanto, per il girone CCI, sarebbero dovute retrocedere il Brescia e l’Internazionale. Ma la situazione della compresenza delle due federazioni non era sostenibile, era necessario fare qualcosa affinché il campionato italiano di calcio fosse uno solo. Si dibatte a lungo sulla questione, ma è Emilio Colombo, commendatore milanese direttore, guarda un po’ i corsi ed i ricorsi della storia, della Gazzetta dello Sport a risolvere la questione, proponendosi come arbitro della vicenda. Così, tre mesi dopo la fine del campionato, si decise di riassorbire la CCI all’interno della FIGC, tornando al campionato unico. Per una logica incomprensibile allora come oggi, si decise di assegnare gli ultimi sei posti del successivo campionato attraverso degli spareggi tra squadre delle due federazioni. La CCI decise di far disputare un turno preliminare tra le sole squadre del nord Italia, retrocedendo automaticamente quelle del centro e del sud, compreso il Venezia, che pure si era salvata giungendo terzultima nel campionato. In questo modo, allo spareggio preliminare giunse l’Inter, che sconfisse a tavolino la Sport Italia Milano, squadra praticamente fallita che non riuscì a schierare una squadra da contrapporre ai milanesi. Il turno successivo venne disputato dall’Inter contro un’altra squadra in disarmo per problemi economici, la Libertas Firenze. Pertanto l’Inter, grazie al maggior quotidiano sportivo, venne salvato dalla serie B. (A onor del vero il campionato di Serie B come lo intendiamo oggi non sarebbe esistito fino al 1930, ma vi erano comunque le serie minori, a livello regionale). Nella settimana che precede Juve-Inter è doveroso raccontare questi episodi di storia, giusto per ricordare che la squadra che si ritiene unica depositaria dell’onestà, qualche piccolo scheletro nell’armadio ce l’ha. Dovremmo dunque correggere il “mai stati in B” con il più corretto “mai stati mandati in B”. Ieri abbiamo parlato del primo scudetto, vinto in modo non troppo limpido, oggi abbiamo sfatato, o almeno ridimensionato, il mito del mai stati in B, domani, sempre per il nostro dossier denominato “la settimana del prescritto”, parleremo della vicenda, molto triste, relativa a Ferruccio Mazzola e al presunto doping nell’Inter di Helenio Herrera.

Il primo scudetto dell’Inter vinto con il trucchetto. La settimana del prescritto, scrive il 27 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Dice un vecchio adagio che c’è sempre uno più puro di chi ti epura e a Milano dovrebbero saperlo.  Capita in politica ma non solo: in ogni comportamento umano sarebbe bene sempre tenere a mente il fatto che fare della propria purezza, o onestà, la propria ragione di vita e vantarsene in modo da esaltare oltremodo le proprie, magari rare, vittorie così come per giustificare le proprie sconfitte, può essere un’arma a doppio taglio. Se, infatti, giustifichi quasi 30 anni di umiliazioni e sconfitte con la motivazione di essere unica onesta in un mondo di ladri, omettendo che per provarci, a vincere, hai dilapidato qualcosa come 1,2 miliardi di euro (di euro, eh, non di lire!), allora poi onesto lo devi essere sul serio, senza avere scheletri nell’armadio. E così, visto che questa è la settimana che precede la partita Juve-Inter, ho deciso di scrivere un articolo al giorno in cui racconto alcuni episodi curiosi relativi alla storia dell’Internazionale FC, una società che si vanta di non essere mai stata in B, di avere in bacheca l’unico “scudetto degli onesti” della storia, di essere, indiscutibilmente, l’unica società onesta della Serie A italiana e che non dovrebbe pertanto avere scheletri nell’armadio. In quella che definisco “la settimana del prescritto”, racconto alcuni episodi che non tutti conoscono, tifosi nerazzurri compresi. Il primo episodio poco chiaro nella storia centenaria dell’Inter è relativo, guarda un po’, proprio alla conquista del primo scudetto, nell’anno 1910. In quei remoti tempi, c’era una squadra, la Pro Vercelli, che faceva incetta di vittorie. Una cosa impensabile, oggi, ma quello era un calcio diverso, dove a trionfare era spesso la presenza di un vivaio organizzato e di una rete di osservatori capaci che era in grado di scovare potenziali campioni negli sperduti campi di periferia. In quel 1910 la Pro Vercelli arrivava da due titoli consecutivi vinti ed anche in quella stagione sembrava non avere rivali. Ma proprio nello scontro diretto contro l’Inter la marcia trionfale dei piemontesi si inceppa e i nerazzurri vincono per 2-1 a Vercelli, dando il via alla rimonta milanese che porterà le due squadre all’ultima giornata di campionato con gli stessi punti. Ilregolamento prevedeva lo spareggio e spareggio fu. Subentrò però subito un problema: delle tre date comunicate dalla Federazione come ideali per lo svolgimento dello spareggio, due erano fortemente svantaggiose per i piemontesi. Le date erano il 17 aprile, il 24 dello stesso mese o il primo di maggio. Il 17 aprile, come ricorda con dovizia di particolari il sito La Banda degli Onesti alcuni giocatori della Pro dovevano disputare un torneo universitario mentre il 24 altri tre giocatori dovevano giocare nella rappresentativa del 53° Reggimento Fanteria una partita valevole per la Coppa del Re. A quei tempi, non era possibile, per i giocatori convocati, non rispondere alle convocazioni neanche per un motivo piuttosto valido come quello della finale per l’assegnazione dello scudetto. Restava il primo maggio disponibile e quella gara fu scelta dalla Pro Vercelli. L’Internazionale non era dello stesso parere, stranamente per una società che fa dell’onestà la sua bandiera fin dalla notte dei tempi e fece pressione affinché la gara si disputasse il 24 aprile. La Federcalcio, rendendosi protagonista del primo episodio di quell’imparzialità all’italiana che poi si sarebbe manifestata in molte altre occasioni nei decenni successivi, sceglie proprio il 24 aprile. La Pro Vercelli, scandalizzata, decide così di manifestare il proprio disappunto schierando una squadra di ragazzini la cui età era compresa tra gli 11 ed i 15 anni. Non solo, il capitano dei vercellesi, quel Sandro Rampini che della squadra piemontese diventerà grande goleador, consegna, all’ingresso in campo, una lavagnetta al capitano dell’Inter, Fossati, in modo che questo potesse tener conto dei gol che realizzeranno contro i poveri ragazzini. Uno smacco. L’Inter infatti vinse per 10 a 3 e ottenne il primo scudetto della sua storia. Uno scudetto vinto in modo non proprio onorevole. Qualcuno, maliziosamente, direbbe che chi ben comincia è a metà dell’opera o, rischiando di abusare dei modi di dire, che se il buongiorno si vede dal mattino…Il prossimo articolo della rubrica “La settimana del prescritto” sarà dedicata alla mancata retrocessione dell’Inter nel 1922.

Il doping e l’Inter, una storia triste – La settimana del prescritto, scrive il 29 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Ci sono vicende talmente tristi per le quali risulta quasi difficile scrivere un articolo da pubblicare su un blog, come questo, chiaramente e dichiaratamente fazioso. Vicende nelle quali sono coinvolte persone che, purtroppo, non ci sono più o, se ci sono ancora, a lungo hanno sofferto. Stiamo parlando del doping e delle malattie che dall’utilizzo di droghe e sostanze varie atte a migliorare le proprie prestazioni sportive possono derivare. Di doping si parla spesso a proposito di sport quale il ciclismo mentre il nostro amato calcio sembra esserne immune. Ovviamente non è così. Di doping si parla a sproposito nel caso della Juve, che pure non ha subito alcuna condanna in tal senso (la vicenda sulla prescrizione meriterebbe un post a parte, consiglio questa lettura per un approfondimento) ed anzi è stata assolta dal Tasdi Losanna in modo definitivo; ma di un doping ben più grave, che ha causato e probabilmente causerà ulteriori vittime non se ne parla. C’era una volta una squadra, l’Inter di Angelo Moratti, guidata dal Mago Herrera in panchina, che vinceva in Italia e in Europa. Una squadra nella quale grandi campioni erano coadiuvati da onesti mestieranti che contribuivano alla causa. Dietro a quei successi, secondo l’accusa ben precisa di un ex giocatore di quella squadra, Ferruccio Mazzola, ci sarebbe però l’utilizzo di sostanze proibite e sconosciute, addirittura anfetamine. Mazzola, fratello del più noto Sandro (figli, entrambi, nel mitico Valentino, capitano del Grande Torino), è morto recentemente, ultima vittima di una serie di morti che hanno coinvolto giocatori di quella squadra. Questo l’agghiacciante elenco, che non tiene conto di altri ex giocatori, che sarebbero attualmente malati o che comunque hanno superato gravi malattie:

Armando Picchi, morto a 36 anni per tumore alla colonna vertebrale;

Marcello Giusti, morto per cancro al cervello nel 1999;

Carlo Tagnin, morto nel 2000 per osteosarcoma;

Mauro Bicicli, deceduto per un tumore al fegato nel 2001;

Ferdinando Miniussi, morto nel 2002 a causa di una cirrosi epatica;

Enea Masiero, morto di tumore nel 2009;

Giacinto Facchetti, morto per tumore al pancreas nel 2006;

Giuseppe Longoni, morto nel 2006 per vasculopatia cronica;

Ferruccio Mazzola, morto di cancro nel 2013.

La prima considerazione che occorre fare è che se si prende un gruppo di persone che han superato i 60 anni, è facile trovarne parecchi colpiti da mali terribili come quelli elencati. La circostanza triste e da considerare è che questi giocatori erano tutti appartenenti di un’unica squadra nello stesso periodo storico. In Italia, e forse nel mondo, non esiste altra circostanza simile. Mazzola ha raccontato tutto in un libro, “Il Terzo Incomodo”, in cui racconta di come i giocatori di quella squadra venissero invitati a prendere pillole sconosciute prima delle partite. Molti di loro, con il passare dei mesi, presero l’abitudine di sputare le pillole di nascosto ma il Mago Herrera se ne accorse ed iniziò a scioglierle in quelli che diventarono poi i famosi caffè di Herrera. Erano, stando al racconto di Ferruccio Mazzola, proprio le riserve a sperimentare nuove combinazioni o prodotti, in modo da poter poi dare ai titolari le sostanze che garantivano risultati migliori. Non è un caso, infatti, che la maggior parte dei giocatori dell’elenco di cui sopra erano proprio delle riserve…Il libro, quando uscì, destò scandalo. Uno scandalo tale per cui Facchetti, ancora in vita, decise di denunciare l’ex compagno autore del libro. Il processo però non fu favorevole all’Inter che dovette anche pagarne le spese processuali. Una testimonianza incredibile, che però precisa come non era solo l’Inter a ricorrere a certe usanze. Mazzola dichiarò di aver visto cose simili anche nella Fiorentina e nella Lazio. Nella Fiorentina di quegli anni morirono, in seguito, Bruno Beatrice, Ugo Ferrante, Nello Saltutti e Mattiolini e si ammalarono, fortunatamente in modo non mortale, anche Caso e De Sisti. Mazzola stupisce il lettore ricordando come in una delle tragedie più grandi che hanno colpito il calcio italiano, ossia la morte di Giuliano Taccola, 26 anni, giocatore della Roma, ci fosse una triste quanto curiosa coincidenza, ossia la presenza, come allenatore, di Helenio Herrera…Il libro è attualmente in vendita e noi ne consigliamo vivamente la lettura. Non me la sento, onestamente, di aggiungere altro nè, soprattutto, di trarre delle conclusioni che possano, in qualche modo, strumentalizzare la tragedia di così tante persone. L’unica cosa che mi sento di dire è che chi si riempie la bocca con accuse di doping mai verificate e lo fa solo per poter gettare fango sulle vittorie di una squadra (o di un altro atleta, come nel caso di Nadal nel tennis) forse dovrebbe informarsi meglio e tacere, anche solo per rispetto nei confronti di ex giocatori che hanno fanno una brutta fine. Da domani, per fortuna, si torna a parlare di cose più leggere con il quarto articolo della “settimana del prescritto”. Parleremo di quando l’Inter ha macchiato la propria gloriosa storia con tentativi di corruzione, lanci di lattine e taroccamenti di documenti in un torneo giovanile. Insomma, situazioni che non si confanno troppo ad una società che, Thohir docet, si è distinta, nel corso della sua storia per integrità e lealtà.

Corruzione, lattine e tornei giovanili col trucco – La settimana del prescritto, scrive il 30 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Esiste solo una squadra, in Italia, che si vanta in ogni occasione, e specialmente durante le non rare stagioni fallimentari, di essere l’unica depositaria di valori quali onestà, lealtà e correttezza. Questa squadra è l’Inter anche se la sua storia, come abbiamo visto nei post precedenti (vedi in basso l’elenco completo), racconta di qualche, non grave, caduta di stile o, se vogliamo, di qualche adattamento alla leggendaria arte tutta italiana di arrangiarsi. Non si può parlare della storia dell’Inter senza ricordare lo squadrone allestito negli anni ’60 da Angelo Moratti, capace di vincere tre scudetti, due Champions League e due Coppe Intercontinentali. Purtroppo, a provare a guastare la memoria e il ricordo di quel ciclo di grande successo ci pensano le malelingue degli avversari invidiosi, le tristi accuse e sospetti di doping da parte di ex giocatori purtroppo deceduti (Ferruccio Mazzola) e, come se non bastasse, anche presunte accuse di corruzione di arbitri. Nel 2003 The Times, quotidiano inglese, pubblicò un articolo a cura di Brian Glanville, che riportavano la confessione dell’arbitro Gyorgi Vadas, relativa al presunto tentativo di corruzione da parte del Presidente Moratti, in occasione della partita tra la squadra nerazzurra e il Madrid CF. Glanville, semifinale di ritorno della Coppa dei Campioni 1965/66. Nell’articolo c’è scritto che il Presidente Moratti aveva messo in piedi un vero e proprio sistema dedito alla corruzione dei direttori di gara portato avanti da due uomini di fiducia: Italo Allodi e Dezso Solti. Per ben tre anni consecutivi, prosegue l’articolo del giornalista inglese, l’Inter avrebbe cercato, e in due occasioni riuscendovi anche, di corrompere gli arbitri nelle semifinale di Coppa dei Campioni. Vincere quelle due semifinali fu molto importante per l’Inter perché poi, nelle successive finali, arrivarono le conquiste della prestigiosa coppa. Nel 1966 il tentativo di corruzione non andò in porto. La semifinale era quella contro il Real Madrid e l’arbitro era il già citato ungherese Vadas. Egli venne corteggiato con la promessa di un corrispettivo in denaro equivalente all’acquisto di 10 automobili Mercedes se avesse indirizzato la gara verso il successo dei nerazzurri, il doppio in caso di rigore allo scadere e cinque volte tanto per un rigore nei tempi supplementari. Vadas arbitrò in modo regolare e l’Inter perse. Quella fu l’ultima gara arbitrata da Vadas. Un altro episodio spiacevole prova a sporcare, ovviamente non riuscendovi, la linda storia dell’Inter. Siamo nel 1971/72, Coppa dei Campioni. L’Inter gioca negli ottavi di finale contro il forte Borussia Moenchengladbach. L’andata di gioca in Germania e la partita si mette male. I tedeschi vanno avanti per 2-1 quando Boninsegna si accascia a terra poco prima di calciare un corner. Pare sia stata una lattina a colpirlo. Il centrocampista tedesco Netzer trova a terra una lattina vuota e accartocciata e la spinge verso un poliziotto, il quale la raccoglie. Subito Mazzola prova a farsela consegnare, invano. Ma il capitano nerazzurro vede un tifoso italiano intento a bere una lattina. Mazzola se la fa consegnare e la consegna, a sua volta, all’arbitro. Boninsegna non si rialza pur non manifestando particolari danni. La gara riprende e i tedeschi, infastiditi e resi rabbiosi dalla sceneggiata degli italiani, finiscono per vincere 7-1. L’Inter, per mano dell’Avvocato Prisco, sporge reclamo alla Commissione disciplinare dell’Uefa. La quale, però, non può accoglierlo poiché ai tempi non era in vigore il principio della responsabilità oggettiva delle società per il comportamento dei propri tifosi.  Ma Prisco è uno che non molla e, alla fine, riesce ad ottenere la non omologazione del risultato. Nonostante non ci sia un regolamento che prevedesse questo tipo di provvedimento. La partita è annullata e il campo del Borussia squalificato. Pertanto, si gioca a Milano come se fosse la gara di andata mentre il ritorno si sarebbe dovuto giocare in campo neutro. Peraltro, nel corso di quella gara Mario Corso venne squalificato per 14 mesi perché ritenuto colpevole di aver preso a calci l’arbitro al termine della partita. Una squalifica ingiusta perché autore dell’atto violento fu Ghio e non Corso. Ad ogni modo, la squalifica non venne confermata, Ghio giocò e realizzo anche la rete del 4-2 di Milano. L’Inter poi avrebbe pareggiato 0-0 a Berlino qualificandosi ai quarti. Tutto questononostante la sconfitta per 7-1 patita all’andata. Tra i miracoli dell’Inter, oltre a quello di vincere uno scudetto pur arrivando terzi, occorre annoverare anche questo…Nel 1981 l’Inter è chiamata a rappresentare l’Italia al torneo “Mundial Infantil de Football”, che si disputa in Argentina. Un trofeo di livello mondiale, e quindi prestigioso, aperto ai ragazzi di età inferiore ai 14 anni, nati cioè entro il 1967. L’Inter vinse il trofeo, con gran giubilo di tutti. Il calcio italiano era ai vertici mondiali, come poi avrebbero dimostrato i ragazzi della Nazionale maggiore l’anno dopo al Mundial in Spagna. Goleador, con otto reti, di quel torneo è Massimo Ottolenghi. Peccato però che un giornale, qualche giorno dopo, attribuisca al ragazzo un’età diversa da quella dichiarata. Non solo, il tal Ottolenghi si chiamerebbe Pellegrini, nato a Roma nel 1966! Lo scandalo divampa e toccò a Sandro Mazzola, già capitano dell’Inter dell’episodio della lattina, giustificare dinanzi al mondo il fattaccio, in quanto consigliere delegato della società nerazzurra. Si, abbiamo sbagliato, avrebbe detto Mazzola, ma quella di barare sull’età dei ragazzi è un’abitudine diffusa e chi è senza peccato scagli la prima pietra. Venne aperta un’indagine e molti dirigenti dell’Inter vennero sanzionati con pene dai 2 anni di inibizione (per il dirigente accompagnatore Migliazza) ad un anno per Mario Fiore, per l’allenatore Meneghetti oltre a sei mesi di squalifica per il giocatore Pellegrini ed il prestanome Ottolenghi. Inoltre, l’Inter venne punita con una multa di 5 milioni di lire. Anche in questo caso evitiamo di emettere giudizi. Nel caso della tentata corruzione stiamo parlando comunque solo della confessione di un arbitro a suo dire contattato per inscenare una manipolazione del risultato e della denuncia di un giornalista, magari abbastanza autorevole. Troppo poco perché se ne possano trarre conclusioni (oddio, poi i tempi cambiano e magari nel 2006 potrebbe bastare molto meno, ma questa è un’altra storia). Nel caso della lattina quasi sicuramente Boninsegna e l’Inter subirono un duro colpo, fisico e morale, che li ha impossibilitati dal poter concludere con la dovuta serenità la gara (perdendola poi per 7-1). Infine, per quanto concerne il taroccamento e lo scambio di persona al torneo giovanile, si sa, sono cose che fanno tutti e chi è senza peccato scagli la prima pietra…Domani, quinto giorno della settimana del prescritto, ossia la settimana che precede Juve-Inter, racconteremo di quando, ed è storia recente, un giocatore dell’Inter, Alvaro Recoba, venne tesserato come comunitario pur non essendolo…

Il passaporto di Recoba: si cambiarono le regole per non far retrocedere l’Inter – La settimana del prescritto, scrive il 31 gennaio 2014 Emiliano su I Faziosi. Cosa pensereste di una situazione nella quale esiste un regolamento ben preciso che viene rispettato senza alcun problema fino a quando, però, non vengono toccate persone che, diciamo così, godono di protezioni di un certo tipo e, piuttosto che vedersi colpite per la violazione di quelle norme, fanno pressione affinchè proprio quelle regole vengono cambiate? Assurdo, eh? Ebbene, è quanto accaduto al calcio italiano tra il 2000 e il 2001. Esisteva, allora, una regola, esattamente la 40 settimo comma delle NOIF della FIGC, che prevedeva che le squadre del campionato di calcio non potessero schierare più di 5 giocatori con passaporto extracomunitario. Accadde però che quella norma venne violata da alcune società, senza però che queste fossero punite come meritavano (ossia in base a quanto previsto dal regolamento), ma soltanto multate con la squalifica dei calciatori coinvolti e l’inibizione dei dirigenti coinvolti, oltre ad una irrilevante sanzione pecuniaria. Questo perché la regola che ne avrebbe decretato penalizzazioni a livello sportivo, fino alla retrocessione, venne abolita. Anzi, si fece peggio: il processo venne rimandato alla fine della stagione in modo da avere il tempo per cambiare la regola. Entriamo un po’ più nel dettaglio della vicenda in modo da capire quali siano i soggetti coinvolti. Recoba arriva all’Inter nel 1997, assieme al Fenomeno Ronaldo. Sembra essere promettente ma ancora acerbo. Viene mandato a Venezia a farsi le ossa e, in effetti, in laguna il Chino disputa un grande campionato. A fine stagione l’Inter lo richiama in squadra ma emerge un problema: l’Inter ha già in rosa 5 extracomunitari, ossia Ronaldo, Jugovic, Simic, Cordoba e Mutu. Come fare? Semplice, il 12 settembre del 1999 Recoba ottiene il passaporto comunitario. E dire che già nel 1997 venne cercato, invano, un qualche avo spagnolo per poter tesserare Recoba come comunitario…Recoba esplode e Moratti gli regala un contratto da record, addirittura di 15 miliardi di lire a stagione più bonus vari. Recoba disputa quell’anno 29 presenze realizzando 8 reti. Accadde però un fatto: durante una trasferta per una gara di coppa Uefa, il 14 Settembre del 2000, alla frontiera polacca due calciatori dell’Udinese, tali Warley e Alberto, vennero fermati perché in possesso di passaporti falsi. Scoppia lo scandalo passaportopoli, che coinvolge le società Inter, Lazio, Roma, Milan, Udinese, Vicenza, Sampdoria, i giocatori Recoba, Veron, Fabio Junior, Bartelt, Dida, Warley, Jorginho, Alberto, Da Silva, Jeda, Dedè, Job, Mekongo, Francis Zé e i dirigenti Oriali, Ghelfi, Baldini, Cragnotti, Governato, Pulici, Pozzo, Marcatti, Marino, Sagramola, Briaschi, Salvarezza, Mantovani, Arnuzzo, Ronca. Il 30 gennaio 2001 durante un’ispezione nella casa di residenza di Recoba venne accertato che anche il passaporto del Chino era falso. La prima reazione dei nerazzurri non può che essere di sdegno e una decisa presa di distanza dal fattaccio. Poi però si scopre che fu Oriali, dirigente interista, su suggerimento di un altro personaggio che ha sempre fatto della sportività e della correttezza il suo vanto, Franco Baldini, dirigente della Roma, a contattare tale Barend Krausz von Praag, oscuro faccendiere per risolvere la vicenda del passaporto di Recoba. Insomma, l’Inter del tutto estranea alla vicenda non era, al punto che Oriali andò a Buenos Aires proprio per ottenere il documento e, secondo Barend Krausz von Praag (lo ha dichiarato durante un interrogatorio), aver anche pagato 80 mila dollari per conto della società per il disbrigo della pratica. Siccome tante erano le società coinvolte nello scandalo ma ancor di più quelle del tutto estranee, ci si pose il problema di sanzionare i comportamenti illeciti. Già ma come? C’è il precedente, proprio in quei mesi, del medesimo scandalo che ha portato, in Francia e Spagna, alla sospensione dei giocatori e alla penalizzazione delle società coinvolte. Qualcuno, guarda un po’, spinge per il colpo di spugna ma la cosa è impraticabile, si perderebbe del tutto la faccia! Inizia il processo e le società, Milan e Inter in testa, hanno paura. Il rischio è quello di addirittura retrocedere (visto che andrebbe penalizzata la squadra per ogni partita in cui ha schierato il giocatore), la certezza sarebbe quella della non partecipazione alle coppe europee. Galliani si ribella e studia la scappatoia: se si riuscisse, contemporaneamente, a prolungare il processo fino al termine del campionato, per poi cambiare la regola (la famosa 40 NOIF), si potrebbero rendere meno gravi le sanzioni. Mica male, eh? Se una cosa che è reato non lo è più perché si cambia la regola ecco che tutto assume una dimensione diversa. Moratti dichiara: “Se squalificano Recoba e poi la giustizia ordinaria lo assolve, chi ci restituisce squalifiche e penalizzazioni?” per spingere affinchè sia preso il dovuto tempo prima di emettere le sentenze. Strano, qualche anno dopo fu ritenuto sacrosanto svolgere un processo sportivo in pochi giorni, comminando sanzioni assurde ad alcune squadre e ignorando le prove a danno di altre e ben prima che la giustizia ordinaria facesse il suo corso…Sta di fatto che poi anche la giustizia ordinaria condannerà Recoba e Oriali, ma l’Inter non avrebbe pagato con penalizzazioni in classifica per tutti i punti ottenuti in modo illecito. Il 3 maggio del 2001 arriva il provvedimento che tutti i coinvolti nella vicenda aspettavano: cambia la norma relativa al tesseramento e impiego dei calciatori extracomunitari. Mancano sei giornate alla fine del campionato. Il processo si svolgerà a campionato finito e le sanzioni saranno ben più leggere rispetto a quanto avrebbero dovuto essere, poiché la norma era cambiata e le violazioni del regolamento, pertanto, erano meno gravi. Il 27 giugno 2001 la Commissione disciplinare della Lega Calcio emette la sentenza di primo grado: tra le altre, Inter condannata ad una ammenda di 2 miliardi di lire mentre Recoba punito (come anche Dida e tanti altri), con un anno di squalifica. Tra i dirigenti, Oriali è stato condannato ad 1 anno di inibizione. La Commissione di Appello Federale conferma le sanzioni. Anche la giustizia ordinaria fece il suo corso e, il 25 maggio 2006 condannò, in via definitiva, Recoba e Oriali che ricorsero al patteggiamento, ottenendo una pena di 6 mesi di reclusione con la condizionale per i reati di ricettazione e concorso in falso, commutati in multa da 25.400 euro. Una vicenda che, esattamente come le altre raccontate fino qui (e come quelle che racconteremo in seguito), non può gettare ombre sull’onore dell’unica squadra onesta del campionato di calcio italiano. A volte, si sa, capitano certe cose, come, ad esempio, taroccare passaporti, evitare retrocessioni, vincere uno scudetto con l’inganno e vedere le proprie intercettazioni dimenticate nel processo più importante della storia del calcio italiano; sono cose che succedono ma che non possono assolutamente significare che anche l’Inter ha qualche scheletro nell’armadio, quasi fosse come la Juve (magari con qualche vittoria in meno). Per la settimana del prescritto, ossia quella che precede la partita Juve-Inter, domani si parlerà del famoso rigore di Ronaldo per fallo di Iuliano del 1998 che la leggenda vuole abbia fatto perdere lo scudetto ai nerazzurri.

Iuliano – Ronaldo vs West – Inzaghi, la storia raccontata a modo loro, scrive l'1 febbraio 2014 Emiliano su I Faziosi. In questi giorni sto leggendo il, fantastico, libro di Massimo Zampini intitolato “Il Gol di Muntari”, un saggio divertente e ironico che racconta in chiave bianconera la trionfale cavalcata della Juve nella stagione 2011-2012, conclusasi con la vittoria del 30° scudetto. Questa lettura è particolarmente stimolante poichè aiuta a far comprendere le modalità in base alle quali i media e i tifosi avversari attribuiscono le sconfitte della loro squadra alla logica, e dimostrabile, corruzione degli arbitri a favore, ovviamente, della Juve. Perchè ce l’abbiano tutti con la Juve è semplice e lo è per due motivi. Il primo è che inevitabilmente la squadra che più vince è quella più odiata. Lo dimostra il fatto che, dopo la Juve, in Italia, le squadre più odiate siano l’Inter e il Milan. Pochi odiano il Toro o il Parma anzi, suscitano una certa simpatia da parte di tutti i tifosi. In Italia, peraltro, c’è questa mentalità distorta e stupida secondo la quale se uno vince in modo continuo e ripetuto, nella vita come nello sport, sicuramente lo fa in modo non pulito. Nella retorica tipica dell’italiano medio, quello pigro, invidioso, rancoroso e un po’ frustrato, non si può emergere dall’anonimato se non truffando, corrompendo o, al limite ricorrendo a dosi da cavallo di fortuna. La Juve, peraltro, quando non vince lo scudetto arriva seconda. Infatti, a fronte di 31 piazzamenti al primo posto, la Juve è arrivata 21 volte al secondo posto (e 12 al terzo). Questo significa che quasi ogni volta che il Milan, l’Inter, la Roma, la Lazio, la Fiorentina eccetera hanno vinto lo scudetto, oppure l’hanno perso sul filo di lana, la loro avversaria era la Juve. Il secondo motivo dell’odio nei confronti della Juve deriva dalla parzialità e faziosità dei media italiani. Il calcio divide come solo la politica sa fare. Ma mentre nella politica c’è un certo equilibrio tra le parti a livello mediatico (grazie alla lottizzazione in Rai ci sono giornalisti e dirigenti di tutti gli schieramenti, Mediaset appoggia, velatamente, il partito del suo proprietario; di quotidiani di parte ce ne sono per tutti i gusti), nel calcio tale equilibrio non esiste. Intanto perchè le redazioni di giornali e televisioni sono tutte situate a Milano o a Roma, e, ad esempio, in Rai sono le squadre romane a godere di una “leggera” prevalenza di tifo da parte dei giornalisti che vi lavorano mentre in Mediaset e Sky sono le milanesi a vantare un maggior numero di estimatori. Inutile dire che Mediaset ha una “velata” prevalenza di giornalisti di fede rossonera (come mai? Boh). Tra i quotidiani, Gazzetta dello Sport e Corriere della Sera sono, anche in questo caso, lievemente vicine alle posizioni delle squadre milanesi mentre Corriere dello Sport e Repubblica sembrano e sottolineo il sembrano, avere tra i propri giornalisti parecchi simpatizzanti delle squadre romane, del Napoli e della Fiorentina. A Torino, peraltro di proprietà della famiglia Agnelli, c’è La Stampa nella cui redazione sportiva abbondano i simpatizzanti del Toro, come ha mostrato la vicenda relativa all’esultanza nella sala stampa dello Juventus Stadium, al goal del Chelsea nell’ultima Champion’s League, con tanto di cazziata di Antonio Conte. C’è Tuttosport, è vero, unico quotidiano sportivo spudoratamente dalla parte della Juve. Tuttosport però vende, all’incirca, un terzo delle copie della Gazzetta e la metà di quelle del Corriere dello Sport. La conclusione di tutto questo è che i tifosi della Juve sono soli e devono essere bravi a difendersi. Non devono, mai, pretendere di diventare simpatici, perchè simpatici sono quelli che perdono, nè possono sperare nella benevolenza dei tifosi avversari. Quel che devono fare è, semplicemente, essere informati e ribattere colpo su colpo. Noi cerchiamo di contribuire alla causa mostrandovi due video. Nel primo vedrete il famoso rigore non dato a Ronaldo contro Juliano. Quello che avrebbe determinato le sorti dello scudetto 1997-1998 (peraltro la Juve terminò il campionato con 5 punti di vantaggio). Tutti se lo ricordano. Ricordiamolo anche noi. Poi c’è questo video. E’ relativo alla partita di andata, a Milano, tra Inter e Juve. Il risultato finale fu di 1-0 per i neroazzurri. Nel video c’è un rigore non fischiato alla Juve per fallo di West su Inzaghi (che è ben più clamoroso di quello non concesso a Ronaldo) e, per non farsi mancare nulla, un goal regolarissimo di Inzaghi, clamorosamente annullato. Le immagini sono eloquenti eppure la maggior parte dei tifosi della Juve non ricordano questi episodi. Da oggi in poi, quando vi parleranno del rigore di Juliano su Ronaldo, rispondete con quello di West su Inzaghi e con il goal annullato allo stesso Inzaghi.

ESSERE DELLA JUVE, DEL MILAN, E DELL’INTER: NASCE “LA VOCE DELL’IDEOLOGIA”. Scrive "Il Giornale il 10 agosto 2016". Il fatto che parlare di calcio sia una delle attività preferite di ciascun maschio italiano medio che si rispetti è di per sé una cosa piuttosto assurda. Non tanto perché si tratti di argomento noioso e senza particolare dinamismo, anzi: considerazioni del genere tendenzialmente arrivano da coloro che morirebbero dalla voglia di essere come tutti ma ormai si sono costruiti il personaggio dal tipico snobismo anti-pallonaro e non possono più uscirne; piuttosto perché, fondamentalmente, è inutile. Provate a pensarci: quante discussioni con gli amici su questo o quel giocatore, quante diatribe su allenatori o sistemi di gioco, e cosa ne è mai venuto fuori? Nulla. Ognuno è sempre rimasto della propria idea, grazie e arrivederci. E allora perché lo facciamo? Perché perdiamo interi pomeriggi e mettiamo a rischio solide amicizie per scornarci su argomenti rispetto ai quali non ci smuoveremo mai e poi mai nemmeno di un millimetro? Semplice: perché è maledettamente bello. Perché è magnifico essere certi di qualcosa, e le certezze che ciascuno è convinto di avere sul calcio sono le più inossidabili che esistano, ed è ancor più magnifico perdere tempo a tentare di divulgare questi presunti assiomi ovunque e ogni volta che ne abbiamo occasione. Un principio che si fonda su una verità incontestabile, per quanto dura da ammettere: il tifoso di calcio è per sua stessa essenza un ideologico. La strenua convinzione con cui porta avanti le proprie tesi sul 4-3-3 o sul reale valore di Pogba non nascono certo da alcuna competenza tattica o sugli andamenti di mercato, ma dalla pura e genuina ideologia. Ed è straordinario come ciascun agglomerato di tifo si caratterizzi per impronte ideologiche assolutamente comuni. Prendiamo i tifosi delle tre principali squadre italiane, Juventus, Milan e Inter. Sono complessivamente svariate decine di milioni ma tutto sommato potrebbero benissimo essere anche solo tre, perché una volta che hai conosciuto uno juventino è come se li avessi conosciuti tutti, e lo stesso discorso vale per milanisti e interisti. Il topos letterario di bandiera non cambia, al massimo è leggermente sfumato di caso in caso, ma il sostrato è quello, non si scappa. Provate a pensare alle reazioni che questi tifosi solitamente hanno nei confronti, per esempio, delle sconfitte: lo juventino la vive come uno sfregio irreparabile, un accadimento che potrebbe minare la coscienza popolare del fatto che la Juventus sia la squadra più forte, qualcosa di intollerabile; il milanista si arrabbia, certo, ma lo fa comunque con una certa classe perché, al fondo, sa benissimo che qualsiasi cosa succeda nulla potrà mai intaccare il fatto che il Milan sia il più forte, glorioso e magnifico club di sempre, ed è ridicolo pensare che qualche annata storta possa mettere in discussione questo dato di fatto; l’interista invece, che fondamentalmente interiorizza come pochi altri sanno fare e personalizza ogni cosa, vive la sconfitta come un dramma personale, come se il mondo gli fosse caduto addosso, come se fosse la fine di tutto, nella continua altalena che di domenica in domenica lo porta a toccare le stelle come a raschiare le più ruvide terre. Di conseguenza, per lo juventino la vittoria è una sorta di liberazione, di avvenimento straordinario facente però parte (o che dovrebbe far pare, perlomeno) della più assoluta normalità: ecco perché quando la Juventus vince il suo tifoso vorrebbe correre per strada e fermare ogni passante per dirgli “Hai visto? Hai visto che i più forti siamo noi? Avevi dei dubbi, eh? Beh, ti sbagliavi!”, per fugare qualsiasi possibile pensiero che possa mettere in discussione che i migliori siano loro; il milanista, data l’impareggiabilità di cui gode il suo club, festeggia le vittorie con apparente tranquillità, quasi con nonchalance, andando in giro con stampata sul volto la frase “Massì che volete che sia, per noi è normale…”, beandosi di questo senso di superiorità; per il tifoso dell’Inter, infine, la vittoria rappresenta l’apoteosi, qualcosa di individuale e profondo, una sorta di ascesi da vivere quasi in solitaria, come se l’Universo avesse deciso finalmente di degnarlo di uno sguardo: non esiste niente e nessun altro, è una vittoria quasi più nei confronti del Cosmo che di una squadra avversaria. Da tutto ciò, le naturali controparti delle discussioni: gli juventini litigano con chiunque, i milanisti tendenzialmente non litigano, mentre gli interisti litigano soprattutto fra di loro.

Beccata al letto con Coppi: «Lei, è in arresto», scrive Lanfranco Caminiti il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. Si conobbero quando entrambi erano già sposati e scoppiò l'amore. Li perseguitarono, ma riuscirono lo stesso a sposarsi in Messico e ad avere un figlio, Faustino. Fu lei a pagare il prezzo più alto, attaccata soprattutto dalle altre donne in un Italia perbenista. La denuncia era ormai lì. Contro Occhini Giulia in Locatelli, di anni trentuno, casalinga, e contro Coppi Fausto, del fu Domenico, di anni trentaquattro, coniugato, di professione corridore. Era d'obbligo darvi seguito. E fu subito scandalo. «Ma chi crede al dolore di quella concubina, a chi lo vuol far credere? Non parlare più di questa grande peccatrice che ha tanto disgustato sarebbe un'ottima cosa per noi madri e mogli oneste che abbiamo sacrificato tanto per la nostra missione, per la nostra reputazione» (Eleonora, Padova). Un'altra: «Mi meraviglia l'arroganza e la crudeltà della signora Occhini. Chiama suocera la madre di Coppi e ha il coraggio di abitare nello stesso paese a poca distanza dalla moglie di lui» (Giovanna). E ancora: «Ma la Occhini avrebbe abbandonato marito e figli se Coppi fosse stato il garzone di un salumiere invece che il Campionissimo? » (Carmen, Piacenza). E ancora: «Non vi sembra che si esagera non poco nella stampa di oggi presentando la Occhini quale vittima di un tragico destino? In fin dei conti si tratta sempre di una donna che ha rovinato due famiglie» (Enrico, Firenze). È questo il tono di alcune delle tante lettere che Franco Pierini pubblicò in una lunga inchiesta sull'adulterio uscita su l'Europeo nel 1960, quando tutto sarebbe dovuto essere, letteralmente, morto e sepolto. Ma l'adulterio era il marchio peggiore in quegli anni. «Religione, codice e costume sono i tre elementi che congiurano per fare dell'adulterio il peggior reato che si possa commettere in Italia. Le sue conseguenze durano tutta la vita. Di fronte alla nostra società può riabilitarsi il ladro e perfino l'omicida, non l'adultera». Aveva scritto così il professore Mario Luzzatti, noto matrimonialista, che pure era stato uno degli avvocati del marito di Giulia Occhini al processo. Perché Giulia Occhini, e la sua storia con Fausto Coppi, il Campionissimo, erano il "concentrato" di tutte le storie adultere di quegli anni - storie adultere di necessità e non per scelta, perché non esisteva possibilità alcuna di interrompere il matrimonio -, per l'enorme visibilità che ebbe, data la straordinaria popolarità del ciclista, per l'accanimento dei media, per la complicata e intrigata realtà dei protagonisti, per l'aspetto drammatico che assunse e per il carattere tragico della sua fine. Coppi, allora, superava in popolarità qualsiasi altro campione di sport o anche un cantante o un attore: è inimmaginabile oggi, ma allora la fatica della bicicletta univa come nient'altro "nazione e popolo". Gliela fecero pagare amara, quella popolarità. Insomma, c'era una pancia della nazione che giudicava con ferocia Giulia Occhini, ed erano soprattutto donne. Lei, la moglie del dottore, bella, elegante, maliarda, aveva potuto scegliere, e meglio. Ma il matrimonio rappresentava per milioni di donne un fragile argine di sicurezza: la Occhini era una minaccia, era "l'altra donna" che poteva rubarti il marito, e con lui quell'argine all'insicurezza. E poi, le donne che lavoravano non erano molte, non avevano autonomia economica, badare a marito-padrone e figli rappresentava pur sempre un modo di sopravvivenza; la "dote" della reputazione era tutto il patrimonio spendibile. E mandare all'aria un matrimonio, essere esposta al giudizio morale di tutti, e all'emarginazione, a meno di non volere appositamente mettersi "su una brutta strada", era considerata una spudorata pazzia, di certo non un comportamento che si sarebbe potuto riprodurre con facilità e come via di liberazione. I tempi erano questi. Meschini. Settembre 1954. Quando il pretore, il brigadiere, l'appuntato e il medico di Novi Ligure vanno a mezzanotte a Villa Carla, dove vivevano i due concubini, per pescarli in "flagrante reato" dopo che il marito di lei, con tanto di due testimoni, ha presentato denuncia, superano un primo cancello, poi un secondo. È notte, e i due, ormai svegli, non si fanno beccare certo a letto insieme. Coppi li accoglie in vestaglia, lei - che da un po' figura come la sua segretaria privata, per salvare la faccia e il quieto vivere - è già in ordine: la flagranza non ci sarebbe. Però, l'appuntato - il mandato li autorizza a ispezionare ogni stanza - allunga la mano sul letto: è caldo, eccola, la prova. Su quella "prova", arrestano lei in nome della legge e della pubblica morale - trascorrerà tre notti in prigione e poi andrà in domicilio coatto da una zia a Ancona, a lui ritirano il passaporto; su quella prova nel 1955 verrà intentato il processo e saranno comminate le condanne, lui a due mesi, lei a tre. Molti anni dopo, ricordando quella sera del '54 la Occhini dirà che quella visita notturna se l'aspettavano, e che per quello avevano messo tutti quegli sbarramenti, per avere del tempo a non farsi trovare abbracciati; rivelerà, anche, che dentro l'armadio c'era un doppiofondo, che conduceva a un'altra stanza, un rifugio, insomma, dove scappare in casi estremi. Racconterà ancora che a Ancona, al domicilio coatto, quando usciva per fare la spesa, le donne sputavano al suo passaggio. Questi erano i tempi per l'amore: meschini. Tutto era cominciato nel 1948, quando il dottor Locatelli, medico condotto a Varano Borghi, comune del Varesotto, sfegatato tifoso del Coppi Fausto, l'Airone che volava sulla bici, si era fatto accompagnare dalla moglie al Tre Valli Varesine, che lui, il Campionissimo, aveva vinto, e dove lei gli aveva chiesto un autografo. Poi, le famiglie si erano frequentate, il medico e la moglie andavano a Novi Ligure, dove il Campionissimo viveva con la propria, di moglie, Bruna, una bella e modesta ragazza che conosceva da ragazzino, quando l'avevano mandato prima nei campi, come tutti i fratelli, e poi dal fornaio, che con quel fisico strano - magro magro, lungo lungo e con quel petto carenato - non era cosa sua la fatica della terra, a fare le consegne. Era lì che il Coppi, andando su e giù per valli e colline, aveva scoperto come si potesse andare veloce in bici, come potesse essere imprendibile. C'erano state lettere, tante lettere, fra il Fausto e la Giulia: lei spigliata, lui silenzioso, lei di mondo, lui un contadino nel cuore, lei elegante, lui vestito come uno che s'è appena comprato il doppiopetto per la vita. Lui un campione che il mondo ci invidiava, lei, forse, una che sentiva stretta la vita di provincia. Scoppia l'amore, è irrefrenabile. Lo tengono nascosto, come possono. Lui lascia la moglie e la figlia, lei lascia il marito e i figli: vanno a vivere a Villa Carla di Novi Ligure. Tutto rimane un po' così, sembra che il medico condotto se ne sia fatta una ragione, e pure Bruna forse - si sono separati, Fausto le ha lasciato la loro prima casa e cinquanta milioni, che allora erano un'enormità. Quando nel 1953 vince il campionato del mondo a Lugano, Fausto regala a Giulia, che gli sta vicino vicino, i fiori della vittoria. È il primo gesto scopertamente "pubblico". Prima, sullo Stelvio, mentre lui scollinava, qualcuno aveva colto il grido d'entusiasmo di Giulia e lo sguardo compiaciuto di Fausto - ma era ancora una "storia di ciclismo". Poi, al Tour de France del 1954, dopo la tappa di Saint Moritz, Pierre Chany, giornalista de l'Équipe, scrive: «Vorremmo sapere di più di quella dame en blanc che abbiamo visto vicino a Coppi» - lei indossava un montgomery color neve. È lì che nasce l'appellativo con cui Giulia Occhini passa alle cronache. La dama bianca. Forse, fu lì che il dottor Locatelli non ci vide più. E si presentò alla caserma di Novi Ligure. Giulia, nel 1955, l'anno del processo, è incinta. Con Fausto si sposano in Messico - matrimonio non riconosciuto dalla legge italiana - e poi lei va a partorire in Argentina, per poter dare il cognome del Campionissimo al figlio, Faustino. Partorisce mentre avviene la punzonatura del 38° Giro d'Italia, dove lui arriverà secondo tra entusiasmi e tifoserie divise. Lei non potrà rivedere i suoi figli per anni, e così lui per la sua piccola Marina. Coppi continua a correre e vincere, e la gente, lentamente, sembra voler dimenticare quella storia. Dimenticare, non perdonare. Quello, non accadrà più. Per Giulia e Fausto saranno anni quasi tranquilli - lui è "anziano" come ciclista ma, benché Ginettaccio Bartali, tra il serio e il faceto, al Musichiere, la famosissima trasmissione di Mario Riva, gli rinfaccerà di aver usato «eccitanti», ha un cuore che è un mantice e come quello d'un ragazzo, e continua a correre. E guadagnare. E cambia: veste più ricercato, sembra elegante quasi, impara i buoni modi, ha un'aria rilassata quando sta in mezzo agli altri e pure felice nelle foto con lei e Faustino - per come potesse esprimere la felicità un uomo solitario, timido e riservato. Quando, per insipienza dei medici, una malaria contratta in Africa, dove era andato per una battuta di caccia, nel dicembre del 1959 diventa mortale e se lo porta via in un amen, quasi quasi gliela rimprovereranno a Giulia, quella morte banale. Lui, da morto, diventò leggenda. Lei, la rovinafamiglie, da viva, Occhini Giulia in Locatelli, casalinga, restò colpevole.

Olimpiadi, quegli atleti Dei per un minuto. Medaglie d’oro. E poi miseria, malattie, oblio. Dalla Germania al Kenya, dagli Stati Uniti all’Italia, storie di sportivi dalla gloria durata molto poco, scrive Gianfranco Turano l'8 agosto 2016 su “L’Espresso”. Se lo ricordano in pochi. Nel 2012 a Londra ha vinto l’oro. Ai Giochi di Rio non si è qualificato ma una medaglia se la merita lo stesso. Si chiama Carlo Molfetta e il 12 luglio scorso ha twittato: «Io vinco le Olimpiadi e sono un pirla. Pellè è un pirla e prenderà 16 milioni di euro l’anno! Ergo nella vita meglio essere un pirla». Molfetta ha poi chiarito: «Il pirla era anche riferito all’errore dal dischetto agli ultimi Europei e al famoso gesto dello scavetto fatto a Neuer. Sarebbe come se io andassi dal mio avversario prima di un match e gli dicessi: ti faccio un culo così. E poi perdessi l’incontro». Molfetta, salentino come Pellè, è un campione di taekwondo, arte marziale coreana introdotta nel programma olimpico a Seul nel 1988 come sport dimostrativo. Se non fosse stato eliminato al preolimpico di gennaio, Molfetta avrebbe potuto puntare di nuovo al jackpot dell’oro, quotato dal Coni 150 mila euro (lordi, a differenza dello stipendio di Pellè). Quattro anni di sacrifici non si affrontano nella speranza di vincere 80 mila euro netti contro i più forti del mondo. L’unico movente è la passione sportiva. In questo, e solo in questo, le Olimpiadi sono rimaste dilettantismo nel senso etimologico del termine. Si compete per diletto o perché si è “amateur”, nella lingua del barone de Coubertin. La passione può abbinarsi alla gloria ma niente dura meno della gloria senza un giro d’affari adeguato. Lo sprinter giamaicano Usain Bolt o la stella della Nba Kevin Durant sono punte di diamante nell’entertainment business quanto Matt Damon o Jennifer Lawrence. La portabandiera Federica Pellegrini fa la pubblicità in tv. Idem il fidanzato Filippo Magnini. Molfetta e quegli azzurri che, a Rio come in ogni altra Olimpiade, contribuiranno in quota maggioritaria al medagliere italiano con la scherma, il tiro a segno, il tiro a volo, il tiro con l’arco, la lotta, sono destinati all’oblio in tempi brevissimi secondo il teorema dell’arciere Marco Galiazzo, due ori (2004, 2012) e un argento (2008). «Il brutto è che ora il nostro sport cadrà nel dimenticatoio per altri quattro anni». E perché poi non dovrebbe? Il mondo ha ignorato in vita Franz Kafka. Non c’è da meravigliarsi se l’epopea olimpica moderna è ricca di campioni sedotti e abbandonati dalla fama ai piedi del podio. I Giochi di Rio sono segnati in partenza dal doping sistematico, che avvenga sotto patrocinio statale (Russia e Cina) o sotto il segno dell’impresa privata (tutti gli altri). I nuovi test stanno consentendo di scoprire nuove positività risalenti ai Giochi del 2008 (Pechino) e del 2012 (Londra). Ma in Germania non si sono ancora spente le polemiche per i trionfi anabolizzati della Ddr, lo squadrone tedesco-orientale capace, con 17 milioni di abitanti, di piazzarsi al secondo posto nel medagliere a Montreal 1976 e a Seul 1988, davanti agli Stati Uniti, oltre che nell’edizione boicottata di Mosca 1980. I giochi coreani sono stati l’ultimo momento di una gloria truffaldina certificata dalle analisi antidoping che da Messico 1968 a Seul 1988 non hanno mai trovato positivo un solo atleta della Germania est, caso unico fra i paesi del socialismo reale. La verità è venuta fuori dopo la caduta del muro di Berlino (novembre 1989). Ancora più che in Unione Sovietica la macchina della propaganda imponeva agli sportivi della Ddr l’uso di sostanze dopanti a partire da un’età di 8 anni grazie al programma denominato14.25 in codice. Gli exploit degli araldi del compagno segretario Erich Honecker, erano sostenuti da dosi massicce di Oral-Turinabol, uno steroide prodotto dall’azienda di Stato Jenapharm, poi privatizzata e acquisita dalla Schering. Dopo la riunificazione della Germania, il doping di Stato è stato denunciato da molti olimpionici e negato da altri. Fra coloro che hanno chiesto un risarcimento all’ex Jenapharm ci sono la nuotatrice Rica Reinisch, la sprinter di atletica Ines Geipel, il martellista Thomas Gotze, oggi procuratore della Repubblica, e un gruppo di circa 200 atleti. Sono nomi che in alcuni casi sono poco conosciuti anche agli esperti. L’elenco delle nuotatrici tedesche che sono state private a posteriori del titolo simbolico di Nuotatrice dell’anno è lungo: Ulrike Tauber, Ute Geweniger, Petra Schneider, Kristin Otto, Barbara Krause, Silke Hörner e la grande Kornelia Ender, prima donna a vincere quattro ori in un’Olimpiade e prima nuotatrice dell’est a ottenere le copertine del gossip occidentale grazie al suo fidanzamento con il connazionale Roland Matthes che ha sempre negato ogni coinvolgimento nel programma orchestrato dalla Stasi, la polizia di Stato di Honecker. Il caso di scuola è quello della lanciatrice del peso Heidi Krieger che nella sua carriera ha assunto un totale di 2,6 chilogrammi di Turinabol (1 chilo in più dello sprinter canadese Ben Johnson). Qualche anno fa Krieger ha cambiato sesso. Si chiama Andreas e ha sposato un’altra sportiva del tempo, la nuotatrice Ute Krause. Sul fronte negazionista si trovano il pesista Ulf Timmermann, mentre il collega Udo Beyer ha confessato l’uso di steroidi. Non ha mai ammesso il doping neanche Marita Koch, detentrice del record mondiale dei 400 piani tolto nel 1985 all’arcirivale cecoslovacca Jarmila Kratochvílová che tuttora ha il miglior tempo di sempre sugli 800 metri, stabilito nel 1983. È il record più longevo dell’atletica all’aperto. Negli 800 a Rio correrà un’altra atleta molto discussa, la sudafricana Caster Semenya. Altrettanto negazionista è stata la casa farmaceutica Schering che a lungo ha addossato agli ex atleti in maglia blu la responsabilità di avere abusato del Turinabol. Nel 2005 il comitato olimpico tedesco ha versato 9250 euro di risarcimento a ogni atleta. Un anno dopo l’ex Jenapharm ha sborsato la stessa cifra a chiusura del contenzioso. Il martellista Detlef Gerstenberg non è arrivato a questo traguardo. È morto di cirrosi epatica a 35 anni nel 1993. Può sembrare strano inserire nella lista degli atleti dimenticati Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo sui 200 metri a Città del Messico nel 1968. Di sicuro, i due statunitensi hanno avuto infinitamente meno fama e riconoscimenti rispetto alla foto che li ritrae durante la cerimonia di premiazione con la testa bassa e il pugno guantato di nero teso verso il cielo in sostegno alle lotte dei neri americani. Erano passati sei mesi dall’assassinio di Martin Luther King e quattro mesi dall’omicidio di Robert Kennedy. Come replica, il vincitore dell’oro dei pesi massimi nella boxe all’Olimpiade messicana, l’afroamericano George Foreman, futuro campione del mondo, si presentò sul ring avvolto dalla bandiera a stelle e strisce dicendo che la protesta di Smith e Carlos era roba da “universitari”, pur essendo i due sprinter di origine molto povera e ammessi al college solo per le loro capacità atletiche. Carlos e Smith vennero immediatamente allontanati dalla squadra Usa e accolti in patria come due pericolosi estremisti vicini al movimento delle Pantere Nere. Con gli Stati Uniti in guerra in Vietnam certi atteggiamenti non erano tollerati. Nel 1967 era finita in castigo la medaglia d’oro dei pesi massimi leggeri di Roma 1960, Cassius Clay. Il futuro Mohammed Ali aveva rifiutato il servizio militare con la frase “I ain’t got no quarrel with those Vietcong” (“non ho motivi di lite con i Vietcong”). Era stato privato del titolo mondiale e condannato in primo grado a cinque anni, rimanendo fuori dal ring per tre anni e mezzo. Ai due sprinter andò peggio. Per un lungo periodo Carlos fece il facchino al porto della sua città, New York, e Smith lavò auto a casa sua, nel Texas della segregazione. “The Jet” Smith oggi ha 72 anni e ha allenato al Santa Monica College. Lo scorso maggio ha partecipato a una manifestazione al Mémorial Acte, il museo dedicato alla tratta degli schiavi alla Guadalupa. Carlos ha lavorato senza grande costrutto finché ha ricevuto una consulenza al liceo di Palm Springs. Il più dimenticato dei tre è il terzo della foto, l’australiano Peter Norman, argento di quei 200 metri. In segno di solidarietà si presentò sul podio con uno stemma dell’Olympic project for Human rights ricevuto da un altro atleta Usa. Norman non fu mai più convocato in squadra, pur essendo il più veloce del suo paese, e rimase a lungo disoccupato. Alla morte di Norman nel 2006, Smith e Carlos presero l’aereo fino a Melbourne per portare il feretro. Nel 2008 un atleta keniano ha stabilito il record olimpico della maratona correndo in 2 ore 6 minuti e 32 secondi, circa due minuti in più del mondiale di Hailé Gebreselassie, nonostante le condizioni ambientali rese proibitive dallo smog di Pechino. Solo i patiti di atletica leggera ricordano il suo nome. Samuel Wanjiru, keniano cresciuto in Giappone, aveva 21 anni ed era alla sua terza maratona. Un predestinato che da Pechino in poi ha continuato a vincere. Fino al 15 maggio 2011. Quella notte il fondista è stato trovato morto dopo un volo dal balcone della sua casa, una villetta a un piano nella sua città natale di Nyahururu. L’altezza dalla quale l’atleta è precipitato è di poco superiore al tettuccio del Suv di Wanjiru. Appena dopo la morte sono state riportate voci di una lite fra il campione, sua moglie e una donna che non avrebbe dovuto trovarsi nel letto coniugale della signora Wanjiru. Il corridore aveva avuto già problemi di ordine pubblico pochi mesi prima. La polizia keniana lo aveva denunciato perché aveva minacciato di morte la moglie e teneva a casa un Ak47, più noto come kalashnikov. L’atleta aveva ribattuto che era una montatura e aveva alluso a tentativi di estorsione nei suoi confronti da quando aveva iniziato a guadagnare i ricchi montepremi delle maratone di Londra e Chicago. Il processo è tuttora in corso. Finora i magistrati hanno escluso una delle tre ipotesi, il suicidio. Anche l’incidente è considerato improbabile. Ma nessuno finora è imputato di omicidio. Mentre a Rio si corre, in Kenya continuano le udienze. La tomba di Wanjiru è in stato di abbandono. Vincere un oro olimpico è un momento di celebrità che può durare un momento o in eterno. Ma vincere una gara ai Giochi e subito dopo ricevere una villa in regalo oltre a un viale e uno stadio intitolati a proprio nome sembra impossibile. A meno che il capo dello Stato si chiami Idi Amin Dada, tiranno dell’Uganda dal 1971 al 1979 passato alla storia per le sue stragi tribali e alla leggenda (forse) per i suoi gusti antropofagi. Villa, viale e stadio sono toccati in sorte a John Akii-Bua, primo vincitore olimpico per lo Stato centrafricano alle Olimpiadi Monaco del 1972 nella gara dei 400 ostacoli. La vittoria e il primo giro di pista con la bandiera nazionale al collo della storia delle Olimpiadi sono i fatti per i quali Akii-Bua è ricordato. I problemi iniziano poco dopo la vittoria ai giochi africani l’anno successivo, il 1973. Amin si rende conto che il corridore è troppo popolare nel paese e rischia di fargli ombra. Applica all’atleta una serie crescente di restrizioni e finisce per vietargli di gareggiare all’estero. Il gruppo tribale di Akii-Bua, l’etnia Lango, subisce l’ira del dittatore. Gli squadroni della morte di Amin uccidono tre fratelli dell’atleta. Solo nel 1978 il tiranno che si era proclamato re di Scozia sospenderà il divieto di uscire dal paese per Akii-Bua. Ma mentre l’atleta è all’estero, sua moglie e i suoi figli verranno tenuti in ostaggio a Kampala. Nel 1979, al momento dell’invasione delle truppe tanzaniane che farà cadere Amin, Akii-Bua scapperà con la sua famiglia nella parte occidentale del Kenya dove vivrà in un campo di rifugiati. Da lì raggiungerà la Germania e riuscirà a mantenersi con il sostegno finanziario della Puma, al tempo la maggiore concorrente dell’Adidas. Akii-Bua tenterà il miracolo sportivo ma sarà eliminato in semifinale a Mosca 1980, i giochi boicottati dagli Stati Uniti per l’invasione sovietica dell’Afganistan. Akii-Bua è morto in Uganda nel 1997 a 47 anni. Il lottatore di greco-romana faentino Vincenzo Maenza era chiamato Pollicino perché combatteva nella categoria dei 48 chili. Memorabili le sue diete per non superare il peso: saune massacranti, digiuni, allenamenti in vista di una gara che poteva essere compromessa da un sorso d’acqua di troppo. I risultati? Oro a Los Angeles (1984), oro a Seul (1988), argento a Barcellona (1992), più i titoli mondiali e le medaglie europee. Fino al 2008 Maenza, diventato allenatore, è stato una garanzia in chiave olimpica. A Pechino, il suo allievo Andrea Minguzzi è primo. Nel gennaio 2013, la catastrofe. Maenza è inquisito per molestie ad atleti al tempo minorenni. La prova sarebbe in un video girato da una telecamera nascosta in una palestra di Faenza nel 2000, oltre dodici anni prima. L’eventuale reato sarà dichiarato prescritto a settembre dello stesso anno. Nel frattempo, Maenza viene escluso dal suo incarico di allenatore federale. Oggi Maenza gira per l’Italia facendo stage nelle palestre che lo invitano. A Rio ci sarà un altro suo allievo, Daigoro Timoncini, già in gara a Pechino e a Londra. I pugili Leon Spinks e il fratello Michael hanno vinto prima l’oro olimpico e poi il titolo mondiale da professionisti, un risultato che poche famiglie dello sport possono vantare. Ma Leon, due anni dopo il trionfo a Montreal 1976, ha battuto per la corona dei massimi the Goat (the greatest of all times), l’acronimo usato da Muhammad Ali per definire se stesso con una notevole dose di esattezza. Per il maggiore dei fratelli Spinks, 63 anni, vincitore di borse per 5,5 milioni di dollari del tempo, tutti sperperati, il declino dopo la boxe è arrivato fino alla povertà estrema. Un po’ come è accaduto con i calciatori George Best o Paul Gascoigne, le cronache si occupano di lui solo in occasione di interventi chirurgici e di resoconti su una salute e una condizione economica sempre più precarie. Il campione del Missouri oggi vive in Nebraska dove si guadagna da vivere facendo il bidello in un Ymca di Columbus. Il cinema si è occupato spesso di sportivi realmente esistiti e dimenticati o malati o in lotta con una popolarità evanescente. Per restare in ambito olimpico ci sono l’inglese “Momenti di Gloria” (Giochi del 1924), “Unbroken” prodotto da Angelina Jolie (Giochi del 1936) sul mezzofondista italo-americano Louis Zamperini o ancora “Atletu”, dedicato ad Abebe Bikila, il maratoneta scalzo vincitore a Roma 1960. Premiato con il riconoscimento per la migliore regia al festival di Cannes, "Foxcather" è il film del regista Bennett Miller, appassionato di storie vere, che dopo "Capote" e "L'arte di vincere" ha scelto di raccontare la vera storia di due fratelli, medaglie d'oro olimpiche nella lotta nel 1984, divisi da un miliardario mecenate, John Du Pont che, affetto da schizofrenia paranoide, trasformò il loro rapporto in tragedia. Du Pont è interpretato da Steve Carell che per questo ruolo è stato candidato all'Oscar. Nel cast anche Sienna Miller e Vanessa Redgrave. Il più recente, e forse il più esemplare, è “Foxcatcher” che ha ottenuto cinque nomination agli Oscar del 2015. È la storia dello statunitense Max Schultz, oro della lotta a Los Angeles 1984, e del fratello Dave, anch’egli lottatore ucciso nel 1996 dal miliardario John du Pont, erede della dinastia farmaceutica du Pont de Nemours. Il film di Bennett Miller ha dato a Max Schultz, 55 anni oggi, una popolarità che lo sportivo non aveva conosciuto né ai tempi dei Giochi né dopo l’uccisione del fratello. E Max Schultz, naturalmente, ha detto che il Max Schultz del film non gli assomiglia per niente, che lui non è uno sfigato, non è mai stato timido, men che meno cripto-gay e, se incontra il regista, lo gonfia. Dimenticare, a volte, è giusto.

Olimpiadi Rio 2016, 41 preservativi a testa forniti dal Cio: “Ai giochi ho visto gente accoppiarsi sui prati”. “Si fa un sacco di sesso durante le Olimpiadi”, ha spiegato il bel ex portiere della nazionale statunitense femminile di soccer, la fanciulla Hope Solo. “Ai giochi di Barcellona si faceva tanto sport quanto sesso”, ha raccontato alcuni anni fa con entusiasmo l’ex campione britannico di ping pong, Matthew Syed. “Ho scopato di più in quelle due settimane che in tutto il resto della mia vita”, scrive Davide Turrini il 3 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". 41 preservativi a persona messi a disposizione dall’organizzazione. No, non siamo di fronte all’annuncio di uncasting per una gang bang californiana, ma alle Olimpiadi di Rio 2016. Il Comitato Olimpico Internazionale ha voluto omaggiare i quasi 11mila atleti provenienti da ogni angolo del pianeta che il 5 agosto inizieranno a gareggiare, con qualcosa come 450mila condom. Non si sa con precisione di quale spessore, materiale e fattura, dato sempre molto importante visto l’obiettivo medico-sanitario preposto. Come non si sa se qualche zelante funzionario del CIO abbia voluto accontentare le singole richieste su colore e profumo, visti i nazionalismi imperanti in ogni giardino del villaggio olimpico. Fatto sta che le notti magiche degli atleti olimpionici, tra un severo salto in lungo e un’emozionante, caldo e sexy match di beach volley durante il giorno, diventano un autentico inferno dantesco con accoppiamenti selvaggi che mostrano il vero significato del tanto decantato multicultiralismo. “Ai giochi di Barcellona si faceva tanto sport quanto sesso”, ha raccontato alcuni anni fa con entusiasmo l’ex campione britannico di ping pong, Matthew Syed. “Ho scopato di più in quelle due settimane che in tutto il resto della mia vita”. Non ricordiamo medaglie e finali all’ultimo net per Syed, ma sappiamo con precisione quanti preservativi inviò il Comitato Olimpico per le gare nella città delle ramblas: 90mila. Una cifretta da nulla, a quanto pare. “Si fa un sacco di sesso durante le Olimpiadi”, ha spiegato il bel ex portiere della nazionale statunitense femminile di soccer, la fanciulla Hope Solo. “Ho visto gente accoppiarsi furiosamente sui prati, nudi sull’erba, o nascosti in mezzo agli edifici”. Per questo incontrollabile desiderio alla maniera dei conigli dagli anni ottanta il CIO ha messo a disposizione una quantità sempre crescente, e alquanto sconcertante, di condom. Nel 1988 alle Olimpiadi di Seul vennero spediti al villaggio degli atleti “solo” 8.500 preservativi. Sedici anni dopo, quando i giochi si sono svolti ad Atene, il numero è salito a 130.000. Le Olimpiadi del 2012 sono arrivate ad una cifra che pareva record – 150.000 – ma con l’aggiornamento di Rio siamo probabilmente ad una vetta insuperabile. La grande novità è anche legata al fatto che sui 450mila condom,300mila saranno maschili, mentre i rimanenti 100mila saranno preservativi femminili (chi non ne ha mai visto uno si faccia una veloce googolata in rete ndr). Il CIO ha comunque pensato a tutto. Perché nel pacchetto sex&sport Rio 2016saranno distribuiti, sia dalle macchinette automatiche che da vere e proprie cabine dell’amore con tanto di hostess e stewart nel villaggio olimpico, ben 175mila confezioni di lubrificante. Non è chiaro, infine, se questo aumento spropositato di condom è legato alla virulenta e invasiva comparsa in Brasile del virus Zika. L’Associated Press ha posto la domanda direttamente agli addetti stampa del Comitato Olimpico ma non ha ricevuto risposta. Il virus Zika viene trasmesso principalmente dalle zanzare, ma può anche trasmettersi sessualmente. Prevenire, si diceva, è meglio che curare. Ma una domanda rimane senza risposta: allora fare sesso prima della finale degli anelli consente comunque di rimanere lassù appesi con i muscoli in tensione e la gambe parallele al corpo per parecchi secondi come nulla fosse? Se qualche atleta, italiano e non, volesse farci da gola profonda sul tema gliene saremmo grati.

Merzario: "Ho salvato la vita a Lauda ma non mi disse mai grazie". A distanza di 40 anni dal tragico incidente che coinvolse Niki Lauda sulla pista del Nurburgring, torna a parlare Arturo Merzario, il pilota italiano che per primo intervenne sul luogo dell'incidente, scrive Angelo Scarano, Sabato 30/07/2016, su "Il Giornale". A distanza di 40 anni dal tragico incidente che coinvolse Niki Lauda sulla pista del Nurburgring, torna a parlare Arturo Merzario, il pilota italiano che per primo intervenne sul luogo dell'incidente. In una intervista a Repubblica, Merzario racconta: "Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina. Voglio dire: non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista, e tutte le altre volte mi sono comportato in maniera diversa, ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt'oggi i piloti. Quel giorno però ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki". Davanti all'incendio si fermarono pure Gui Edwards e Harald Ertl: "Con gli estintori mi aprono un varco in questo enorme falò. Niki cerca di uscire, ma forza la cintura e io non riesco a sbloccare la levetta, poi crolla, perde i sensi, così apro, lo tiro fuori. Le esalazioni di magnesio lo stavano ammazzando". "Tre settimane dopo - ha raccontato ancora Merzario - Niki venne a Monza. Ma non mi disse niente, né 'ciao', né 'grazie', né 'vaffanculo'. Ci rimasi male e lo dissi. Due mesi dopo, stavo gareggiando in Austria, vicino a casa sua. Venne a trovarmi e fece il gesto di togliersi l'orologio per regalarmelo. Io lo presi e lo lanciai via. I meccanici dell'Alfa lo raccolsero, vennero da me e mi fecero un sacco di paternali, forse avevo sbagliato, ma io c'ero rimasto male. Siamo rimasti molto amici, ci sentiamo spesso". Ma sull'orologio c'è ancora un mistero, soprattutto riguardo a chi lo prese: "Abbiamo promesso di non rivelarlo".

Lauda e i misteri del Nurburgring, Merzario ricorda: "Non so perché mi fermai ad aiutarlo". Lunedì ricorre il 40mo anniversario dell'indicente in Germania. Il pilota che salvò Niki e Montezemolo parlano di quel giorno, scrive Marco Mensurati il 30 luglio 2016 su “La Repubblica”. Del rogo del Nurburgring si sa ormai quasi tutto: sui fatti di quel 1 agosto 1976 sono stati scritti libri, realizzati documentari, inchieste; Ron Howard ha persino girato un film, Rush, un fumettone un po' controverso ma tutto sommato fedele ai fatti. E tuttavia, quarant'anni dopo, un mistero, un piccolo mistero, ancora c'è. E si agita da allora nella testa di uno dei protagonisti, Arturio Merzario, il pilota che quel giorno seguiva Lauda sul tracciato tedesco e che per primo arrivò sul luogo dell'incidente. È lui stesso a parlarne: "Ancora non ho capito che cosa mi spinse, quel giorno, a fermare la macchina. Voglio dire: non era il primo incidente drammatico che mi capitava di vedere in pista, e tutte le altre volte mi sono comportato in maniera diversa, ho continuato la mia corsa, come del resto facevano e fanno tutt'oggi i piloti. Quel giorno, però, ci fu qualcosa, e ancora non ho capito cosa, che mi suggerì, anzi mi impose di fare altro, di fermarmi, di scendere dalla macchina e correre verso Niki". Cosa? "Domanda da un milione di dollari. È stato un baleno, un lampo. Non pensai a nulla, sopraggiunsi all'uscita della curva e trovai quella roba lì, lamiere e fiamme. Dentro poteva esserci chiunque, Niki, Clay Regazzoni, Jackie Stewart. Vedo la macchina in mezzo alla pista, scendo e corro verso l'abitacolo. Dopo di me si fermano Guy Edwards, il cui figlio ha fatto la controfigura del papà in Rush ed è morto in un incidente stradale tre anni fa, e Harald Ertl: con gli estintori mi aprono un varco in questo enorme falò, Niki cerca di uscire ma forza la cintura e io non riesco a sbloccare la levetta, poi crolla, perde i sensi, così apro, lo tiro fuori. Le esalazioni di magnesio lo stavano ammazzando. "Per fortuna, nel '65, per guadagnarmi 7 giorni di licenza da militare, feci un corso di primo soccorso: gli feci il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale. Rimase in vita così, finché non arrivarono i soccorsi". Il resto della storia la racconta Luca Montezemolo, allora giovane ds della Ferrari: "Il medico mi disse: "Noi non possiamo fare nulla: il problema non sono le bruciature ma le esalazioni, i gas che ha respirato che l'hanno bruciato dentro. Se vuole vivere, deve farlo lui. Deve cercare di restare sveglio e lottare". Mentre il medico diceva così, Niki, lo raccontò lui stesso in seguito, era cosciente e sentiva tutto. Fu allora che cominciò la sua lotta personale per sopravvivere e tornare in pista. "Dopo andai a trovarlo a casa. Era molto dimagrito. Lì per lì non pensammo che ce l'avrebbe fatta a tornare, così ingaggiammo Reutmann. Invece Niki tornò. E fummo costretti a far correre tre macchine. Ricordo ancora oggi le macchie di sangue che si allargavano piano piano nel sottocasco bianco, prima del via a Monza...". A dire il vero, un altro piccolo mistero, in questa vicenda di quarant'anni fa, c'è. Ed è legato a un Rolex. "Tre settimane dopo il rogo, Niki venne a Monza - racconta ancora Merzario - Ma non mi disse niente, né "ciao", né "grazie", né "vaffanculo". Ci rimasi male e lo dissi. Due mesi dopo stavo gareggiando in Austria, vicino a casa sua. Venne a trovarmi e fece il gesto di togliersi l'orologio per regalarmelo. Io lo presi e lo lanciai via. I meccanici dell'Alfa lo raccolsero, vennero da me e mi fecero un sacco di paternali, forse avevo sbagliato, ma io c'ero rimasto male. Per fortuna poi con Niki siamo rimasti molto amici, ci sentiamo spesso". E l'orologio? Alla fine chi l'ha preso? "Abbiamo promesso di non rivelarlo".

Niki Lauda: "Un miracolo, ma non ho mai ringraziato Merzario". L'ex pilota: "Se fossi pilota oggi avrei ancora il mio orecchio e guadagnerei molti più soldi che nel passato", scrive Stefano Zaino il 30 luglio 2016 su “La Repubblica”.

LAUDA, cosa ricorda dello schianto?

"Niente".

Come niente, è stato tra la vita e la morte.

"Dimenticato tutto dopo 42 giorni, quando sono tornato a correre. Cancellata ogni cosa dalla mia mente. Come se non fosse mai successo".

Si spieghi...

"Più l'incidente è terribile, più un pilota deve sforzarsi di eliminare ogni immagine, ogni sensazione. Se ricordi, entri in macchina e tremi e non puoi permettertelo. In quel caso è meglio smettere, ritirarsi".

Invece continuò, perse tre gare, sfiorò il Mondiale e lo vinse l'anno dopo.

"Avevo fiducia in me, sapevo di essere bravo a guidare, non potevo aver disimparato. Mi dicevo: se vai in macchina per strada, puoi anche tornare in pista. Se corri con la Ferrari a Fiorano, perché non potresti farlo in qualsiasi circuito?".

Così sei settimane dopo si presentò a Monza. Ritorno fulmineo e coraggioso, tutti le diedero del pazzo.

"Mi sentivo al meglio, solo che i medici non erano d'accordo. Mi convocarono, mi fecero un sacco di test, mi dissero di non fare il furbo, davano l'impressione di non fidarsi. Mi misero addosso una pressione enorme, ero confuso, e questo mi fece commettere l'errore più grave della mia vita".

Cioè?

"Non dissi mai grazie a Merzario per avermi salvato la vita, non andai mai da lui a stringergli la mano di persona, ad abbracciarlo. E' una cosa di cui mi pento ancora adesso, una ferita che brucia, più delle cicatrici che ho. Sbaglio imperdonabile, a cui, a distanza di anni, spero di porre rimedio".

Di essersi fermato al Fuji, lasciando il mondiale ad Hunt, invece si è mai pentito?

"No. Lo rifarei anche adesso. E non c'entra niente con il mio incidente al Nurburgring. Non si poteva correre, troppa pioggia. Dopo tanti rinvii il direttore di corsa, alle 5 del pomeriggio, decide: tutti in macchina, si corre. Io, furioso, vado a chiedere e mi risponde: esigenze televisive, è la prima volta che siamo in mondovisione. Gli dico che è matto e che non sarà una telecamera a decidere della mia vita. Mi sono fermato, e lo avrei fatto comunque: anche se non mi fossi schiantato al Nurburgring. Non si gioca con le persone".

Le costò un Mondiale.

"No, ho perso perché dopo il Nurburgring ho saltato tre gare".

Avesse corso oggi?

"Magari fossi un pilota oggi. Avrei ancora il mio orecchio e guadagnerei molti più soldi. Sono salvo per miracolo".

La Fia vuole imporre l'Halo a tutti i piloti, per sicurezza.

"Imporre è sbagliato, ma ridurre i rischi è una buona causa. Salva la vita e non toglie nulla allo spettacolo".

PERCHÉ LO SPORT NON AMA LE DONNE. Trattate economicamente peggio dei maschi, poco rappresentate ai vertici delle federazioni, inseguite dai soliti stereotipi e pregiudizi. La carriera delle sportive italiane è tutta in salita e anche le "star" del nuoto, del tennis o della pallavolo sono costrette a fare i conti con un vecchia legge che impedisce loro di essere professioniste. E poi c'è lo scandalo delle clausole antimaternità: "Molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta", scrive il 20 luglio 2016 “La Repubblica”.

Non si salvano neppure le campionesse, scrive Alice Gussoni. La fotografia che immortala il paradosso forse meglio di qualsiasi altra è quella datata 12 settembre 2015. A conclusione della finale degli Usa Open Flavia Pennetta e Roberta Vinci si abbracciano attraverso la rete del campo di Flushing Meadows. Il mondo del tennis applaude la bravura delle due atlete italiane, ma forse non sa di inchinarsi al cospetto di due dilettanti. Sì, perché se è vero che il conto in banca delle due campionesse non è certo quello di un qualsiasi sportivo amatoriale, formalmente sia Pennetta che Vinci non sono delle professioniste. Colpa di una legge che di fatto vieta alle donne, anche alle più brave e apprezzate dal pubblico, una carriera nello sport. Josefa Idem, ex canoista e campionessa olimpica, ora senatrice e per brevissimo tempo anche a capo del Dipartimento allo sport della presidenza del Consiglio, la spiega così. "Non importa se ti alleni per una o dieci ore al giorno per preparare una gara, la fatica è la stessa dei nostri colleghi uomini ma a differenza di loro restiamo solo delle dilettanti". Secondo la legge 91/81infatti, che in Italia regola il professionismo sportivo, esclusivamente chi pratica calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo viene riconosciuto - e tutelato - come professionista. Ma interessa solo gli uomini, perché nessuna di queste discipline ha una categoria femminile. Non solo, ora anche federazioni di motociclismo e pugilato hanno abolito la categoria "pro". Spesso si attribuisce questa mancanza all'assenza di grandi numeri. Ma non è sempre così. Se consideriamo sport come la pallavolo, dove una categoria pro non esiste affatto, le donne tesserate sono molte più degli uomini: 279.893 contro gli 88.050 maschi (dato Legavolley 2014). Il caso è esemplare. Il campionato femminile infatti è diventato un appuntamento fisso sui canali tematici, con un largo seguito di pubblico: la serie A1 è trasmessa su Rai Sport e la media di audience nella stagione 2014-15 è stata pari a 146mila spettatori, con punte di 240mila in occasione delle finali scudetto. Mentre la semifinale Italia-Cina (Mondiali 2014), trasmessa su Rai 2, registrò addirittura 4 milioni 436mila spettatori, pari al 17,88% di share. Eppure ancora non si parla di professioniste. Nel nuoto il numero di tesserati uomini e donne è quasi pari (su 149.411 atleti il 45% sono donne, dati Fin 2016) senza contare il successo mediatico raggiunto da alcune star come Federica Pellegrini o Tania Cagnotto. Caso a sé, invece, quello della Ginnastica dove su 117mila tesserati l'89% sono donne, anche se qui la storia insegna che non bastano gli ori per guadagnarsi un passaggio in televisione – chi ricorda la vittoria ai World Cup di Pesaro tenutasi questo aprile che ha qualificato ben 12 delle nostre atlete azzurre a Rio 2016? Per gli sport considerati più maschili i numeri sono ancora, ovviamente, favore degli uomini, ma davvero basta? Consideriamo la situazione del calcio in Italia, dove la presenza di giocatrici è esigua: solo 22.564 contro 1.087.244 uomini (dati Figc 2016). Ma dal 2010 il numero delle donne tesserate è in costante crescita, +5% annuo, contro il crescente disamore del dilettantismo maschile, che negli ultimi 6 anni ha perso circa il 17%. "Da quando ho iniziato a lavorare non è cambiato molto e le disparità sono rimaste le stesse", conferma Donatella Scarnati, voce storica della Rai che dal 1978 segue il calcio per la tv pubblica. Nella sua lunga carriera che l'ha portata ai vertici di Rai Sport, dove ora è vice direttore, ha dovuto affrontare spesso la questione del dilettantismo: "Il problema è più ampio direi. Sui campi da calcio, come nelle cabine di regia, le donne sono ancora viste come mosche bianche. Se c'è maschilismo? Purtroppo sì, ma questo è un problema che riguarda un po' tutto il mondo del lavoro". Secondo la senatrice Idem, firmataria di un disegno di legge presentato in Senato per modificare l'attuale 91/81, per superare almeno in parte questa disparità basterebbe aggiungere una parola: "Nel testo si dovrebbe fare riferimento ad atleti ed 'atlete', per aprire la possibilità anche alle donne di accedere alle categorie pro". Una possibilità che finora rimane esclusa. Mancanza attribuibile forse anche al fatto che il governo dello sport nazionale è saldamente in mani maschili. Nonostante negli anni sia cresciuto il numero di campionesse sui podi internazionali, ai vertici delle varie federazioni non si trova traccia di quote rosa. Su 45 sigle infatti non c'è n'è una che sia presieduta da una donna. L'Italia è messa male insomma, ma una volta tanto non è molto distante dal resto del mondo. All'estero la situazione migliora infatti solo leggermente: attualmente il 17% dei dirigenti Cio sono donne, mentre in media su 70 federazioni sportive internazionali sono meno del 10% (dati Uisp 2016). Secondo Evelina Christillin, manager che ha avuto l'onore di presiedere il Comitato Olimpico di Torino 2006, la questione si potrebbe superare proprio attraverso l'inserimento delle famigerate quote rosa: "Posto che non sono il mio ideale, resta il fatto che le federazioni quando si tratta di votare scelgono sempre il criterio della cooptazione. Mentre guarda caso quando si tratta di decidere chi porti avanti un progetto bene e in fretta, come è stato per Torino o adesso per il Comitato Olimpico di Roma, allora si sceglie una donna". Il tema quote rosa al momento non trova però grandi consensi. "Non metto in dubbio la necessità di introdurre dei cambiamenti - spiega il presidente del Coni Giovanni Malagò - ma fino ad oggi le candidature delle donne nei consigli federali sono state pochissime. In ogni caso non siamo noi che legiferiamo. Possiamo solo dare delle indicazioni e in questi anni ci sono state delle evoluzioni, soprattutto in materia di tutela della maternità. Purtroppo c'è ancora molta strada da fare".

Lo scandalo delle clausole anti-mamma, continua Alice GUssoni. In questa vicenda, quello della maternità è in realtà un nervo scoperto, visto che la pratica di pretendere dalle atlete la firma di "clausole anti-gravidanza" non è stata ancora debellata. "Non sono poche le denunce delle atlete a riguardo - dice Luisa Rizzitelli di Assist, il sindacato delle sportive - In molte sono costrette a sottoscrivere scritture private in cui si vieta esplicitamente di rimanere incinta, pena l'espulsione immediata dalla società e il rischio non poter più tornare a gareggiare". Sullo stesso chiodo batte anche la Idem: "Esiste tutto un sommerso di cui veniamo a conoscenza solo quando la gravidanza viene portata avanti. Io ho fatto le Olimpiadi incinta e da puerpera e per non saltare le gare ho messo in piedi un'organizzazione molto articolata, perché c'è un vuoto di norme. Il Coni dà delle direttive per quanto riguarda la maternità delle atlete, ma solo poche federazioni le hanno recepite, ad esempio congelando il ranking nel periodo in cui un'atleta è ferma per gravidanza o maternità". Il caso di cronaca più recente è quello di Nikoleta Stefanova, campionessa italiana di tennis tavolo, che per essersi assentata dai ritiri previsti dalla Federazione italiana tennis tavolo in seguito alla maternità ha subito l'esclusione dalle Olimpiadi di Rio. Con il risultato che l'Italia non avrà atleti in gara per questa disciplina. Risolvere il problema non si presenta però affatto facile. Sono in molti a credere che il sistema sportivo, per come è oggi strutturato, non avrebbe le risorse necessarie per garantire un contratto per tutti. Il professionismo porta con sé oneri a volte insostenibili per le piccole società sportive, che però al momento sono aggirati con pagamenti fuori busta, spesso spacciati per rimborsi spesa. Secondo Luisa Rizzitelli il nodo è proprio quello del non considerare lavoro quello che invece lo è di fatto: "Pagare o meno i contributi non è una questione di genere femminile o maschile. Questo vale per tutti e non può essere lasciato a discrezione di chi gestisce le società".

Compensi "in nero" e inferiori ai maschi, scrive Alice Gussoni. Una questione di genere è invece quella dei compensi. Mediamente i guadagni delle atlete sono inferiori di circa il 30% rispetto a quelli dei loro colleghi uomini. Situazione che non riguarda solo il movimento di base, ma anche l'elite: nella classifica di Forbes fra i cento atleti più pagati al mondo si trovano solo due donne (Serena Williams 28,9 milioni di dollari, 40° posto, e Maria Sharapova, 21,9, 88° posto). Discriminazione favorita spesso da regole federali obsolete. Per il calcio, ad esempio, il tetto massimo per il dilettantismo è di 22mila 500 euro annui. Il che significa che tutte le donne che giocano a calcio, anche in serie A1, non possono guadagnare di più. Resta comunque difficile quantificare gli stipendi medi delle giocatrici, soprattutto perché non trattandosi di una lega professionistica i club non sono tenuti a depositare i contratti e l'abitudine ai pagamenti in nero è nota anche nei corridoi della Figc. L'unica alternativa è quindi quella di trovare degli sponsor, ma per quelli non basta la bravura. "A parità di carriera sportiva alla fine quello che conta è la bellezza", afferma Josefa Idem. Dal calcio alla pallacanestro, il quadro non cambia. "La passione per lo sport si paga cara", dice Silvia Gottardi, ex nazionale di basket femminile: "E pensare che in Turchia la pallacanestro arriva a stipendiare le giocatrici con cifre a sei zeri". All'estero le donne sembrano godere di maggior fortuna. Nel calcio made in Usa la loro carriera sportiva in serie A porta a guadagni oltre i 150mila dollari a stagione. Stesso trattamento in Francia, dove il record lo stabilisce Marta Vieira da Silva, considerata la miglior giocatrice di sempre, con un ingaggio di 220mila euro. Katia Sera, ex campionessa di calcio ora commentatrice di Rai Sport, non usa mezzi termini: "Io sono diventata più famosa ora che lavoro come commentatrice che per le mie 25 presenze in Nazionale e ancora oggi si guarda con sospetto a una donna che parli di calcio. Addirittura è successo che mi dessero deliberatamente le formazioni delle squadre sbagliate per mettermi in difficoltà. La frustrazione deriva da questo continuo essere messe alla prova: si deve lavorare il doppio per avere la metà dei riconoscimenti e comunque non basta mai".

Se iniziare è difficile, smettere è pericoloso, scrive Arianna Di Cori. Breve ma intensa. La carriera sportiva agonistica è imprescindibilmente legata a questi due aspetti e per qualsiasi atleta arriva, molto prima che nelle altre categorie professionali, il momento del ritiro. Certamente appendere gli scarpini al chiodo non sarà stato così traumatizzante per David Beckam, secondo solo a Michael Jordan nella classifica di Forbes degli atleti "in pensione" più pagati del 2016: rispettivamente 65 milioni e 110 milioni di dollari tra sponsor e business a loro legati. Anche in Italia basta accendere la televisione per ritrovare volti noti dello sport prestarsi a spot pubblicitari di ogni tipo, con una netta predominanza di uomini. Ma tolte le eccezioni, il problema legato alle tutele previdenziali per gli atleti e, soprattutto, per le atlete, non è da poco. "Quando si è giovani si pensa solo ad allenarsi e a vincere, nessuno pensa alla pensione", spiega Manuela Di Centa, ex campionessa olimpica di sci di fondo, una delle prime donne a spiccare con la maglia azzurra in uno sport considerato "maschile" ed ex parlamentare del Pdl (dal 2008 al 2013) oltre che membro onorario del Cio. Che il problema esista e sia di una certa rilevanza lo conferma anche la recente presa di posizione del presidente dell'Inps, Tito Boeri, che ha parlato della necessità di estendere il contributo previdenziale obbligatorio a tutti gli sport. La proposta di Boeri muove soprattutto dal caso calcio e dalla piaga dei pagamenti in nero in LegaPro "Il 75% dei calciatori della Lega Pro ha retribuzioni nette di 30.000 euro l’anno e carriere brevi con una durata di circa 12 anni - ha sottolineato Boeri - questo dà diritto a una pensione di vecchiaia di 10.000 euro". Di certo non sono pensioni d'oro. Ma il calcio, ammette Boeri, è il male minore. "Ci sono tantissimi altri sportivi per cui non esistono forme di contribuzione obbligatoria, come nella pallavolo". La pallavolo, come già detto, non rientra tra i sei sport per cui esiste la categoria del professionismo e il conseguente obbligo per le società a versare contributi. Come fanno dunque tutti gli altri sportivi e, soprattutto, il vasto oceano di atlete che, a prescindere dal livello e dai successi raggiunti, restano formalmente delle dilettanti e potrebbero dover anticipare la fine della carriera da un'eventuale maternità? "La risposta è molto semplice: ad oggi non ci sono soluzioni", taglia corto la Di Centa. Le alternative dunque non sono molte: o gli sportivi sono dipendenti pubblici, ad esempio coloro che fanno parte di un corpo militare, e dunque hanno diritto ad una copertura previdenziale indipendentemente dalla carriera sportiva, oppure continuano a lavorare in qualità di tecnici (ma questo sbocco per le donne è fortemente osteggiato). L'ultima opzione, infine, è quella di riciclarsi completamente, trovando un lavoro del tutto diverso. Scelta non facile però di cui dal 2001 si occupa l'Athlete Career Programme, un’iniziativa di carattere internazionale per aiutare gli atleti ritirati nel reinserimento lavorativo. Per tutti gli altri si spalancano invece le porte della povertà. Di sportivi un tempo celebrati e oggi indigenti ne esistono tantissimi. La legge 86 del 15 aprile 2003 ha istituito il fondo "Giulio Onesti", che porta il nome del primo presidente Coni e che rappresenta la "Bacchelli" dello sport. Ogni anno a massimo viene assegnato un vitalizio che si aggira tra i 7 e i 17mila euro ad un massimo di 5 tra gli "sportivi italiani che nel corso della loro carriera agonistica hanno onorato la Patria, anche conseguendo un titolo di rilevanza internazionale in ambito dilettantistico o professionistico [...] qualora sia comprovato che versino in condizioni di grave disagio economico". Dal 2003 su 29 beneficiari solo due donne compaiono nella lista: Nidia Pausich, ex cestista, 136 gare con la Nazionale Italiana, e Bina Colomba Guiducci, campionessa del mondo di tiro al piattello nel 1969, e prima donna a vincere un titolo mondiale. Ma chi dovrebbe farsi carico di queste atlete e atleti? Lo sport è sotto il Dipartimento degli Affari Regionali, in delega dal 2014 al 2015 a Graziano Delrio. Ma oggi non è il ministro Enrico Costa ad occuparsene, bensì il capo dipartimento Antonio Naddeo, un funzionario. A detta di fonti interne al dipartimento "è una situazione nebulosa, perché non si sta facendo politica dello sport". Lo Stato, aggiungono "può fare poco o niente". Fino alla riforma Fornero i contributi degli sportivi professionisti confluivano nelle casse dell'Enpals, dunque sportivi e lavoratori dello spettacolo ricevevano lo stesso trattamento. "Ma certo un attore può lavorare fino agli 80 anni, la situazione per noi sportivi che lavoriamo con il nostro corpo è molto diversa", conclude Di Centa.

Il modello francese e le proposte italiane, continua Arianna Di Cori. Come avviene in molti altri campi, anche il ritardo italiano nelle "pari opportunità sportive" può essere misurato sulle indicazioni che arrivano dall'Europa. Risale infatti al lontano 2003 una risoluzione con cui il Parlamento di Strasburgo chiedeva agli Stati membri; di assicurare alle donne pari accesso alla pratica sportiva; sostenere lo sport femminile, sollecitando a sopprimere la distinzione fra pratiche maschili e femminili nelle discipline ad alto livello; di garantire, da parte delle federazioni sportive nazionali, gli stessi diritti in termini di reddito, di condizioni di supporto e di allenamento, di accesso alle competizioni, di protezione sociale e di formazione professionale, nonché di reinserimento sociale attivo al termine delle carriere sportive. Gli Stati membri e le autorità di tutela venivano sollecitate infine a condizionare la propria autorizzazione e il sovvenzionamento delle associazioni sportive a disposizioni statutarie che garantiscano una rappresentanza equilibrata delle donne e degli uomini a tutti i livelli e per tutte le cariche decisionali. Parole al vento, come abbiamo visto, ma una volta tanto siamo in buona compagnia. Tra i pochi paesi che hanno preso queste raccomandazioni alla lettera c'è la Francia, dove riservare posti per le donne nel sistema dirigenziale dello sport è un sistema consolidato. Le quote sono stabilite nelle regole federali (federazioni, leghe, società sportive), mentre a livello nazionale il numero delle donne nei comitati esecutivi deve essere proporzionale al numero di donne tesserate. Altro modello positivo, stavolta extra Ue, è quello della Norvegia. Nello Stato scandinavo la regolazione sulle pari opportunità di genere dichiara che ogni sesso deve essere rappresentato con almeno il 40% quando un organismo pubblico elegge comitati, direttivi, consigli, ed entrambi i sessi devono essere presenti in comitati sopra le due persone. In Italia siamo fermi invece ad un lungo elenco di proposte di legge bloccate da anni in Parlamento. La più recente è quella presentata nel novembre 2014 dalla deputata del Pd Laura Coccia per modificare gli articoli 2 e 10 della legge 91 del 1981 in materia di applicazione del principio di parità tra i sessi nel settore sportivo professionistico. Prima di lei a cambiare le cose ci aveva provato nel 2011 la collega Manuela Di Centa del Pdl, con la proposta di istituire un contributo obbligatorio per creare una cassa previdenziale dello sport, in grado, tra le altre cose, di tutelare le atlete in maternità.

Le icone artefatte della sinistra. Ali prima di Ali, come nasce un mito. Lo scrittore. Intervista del 4 giugno 2016 su “Il Manifesto” di Guido Caldiron a Alban Lefranc, autore de «Il ring invisibile» sulla vita romanzata del campione da giovane: «Non si può capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva intorno». «Nei momenti di maggiore intensità, la boxe pare contenere un’immagine della vita così completa e potente – la bellezza della vita, la vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso autodistruttivo – che è davvero vita, e nient’affatto gioco», scrive Joyce Carol Oates nel suo saggio Sulla boxe. Un grumo di sentimenti e di emozioni, di forza e di fragilità che Alban Lefranc, scrittore, traduttore e poeta francese, nato a Caen nel 1975, e che vive da tempo tra Parigi e Berlino, già autore di diverse biografie narrative dedicate a personaggi della cultura come dello spettacolo, ha cercato di cogliere ne Il ring invisibile, il suo libro dedicato a Muhammad Ali uscito da qualche anno per la casa editrice romana 66thand2nd. Un volume affascinante dove è il pugile stesso a raccontare la propria biografia, ricostruita in realtà da Lefranc a metà strada tra realtà e finzione narrativa, come un lungo e inesorabile corpo a corpo con la storia.

La sua scomparsa non aggiunge nulla alla figura di un uomo che è divenuto un mito quando era in vita. Lei perché ha scelto di raccontare in forma narrativa una parte della vita di Muhammad Ali?

«Sono partito dall’icona che ha rappresentato, per me come per il resto del mondo, per poi cercare di scoprire le fragilità dell’uomo, la sua anima, se così si può dire, proprio oltre il mito che era diventato, in qualche modo oltre e nonostante la sua maschera pubblica. Frequento una palestra di boxe da alcuni anni e ciononostante continuo a chiedermi perché non sia vietata e cosa ci affascini così tanto nel vedere due persone che si prendono a pugni fino a farsi davvero male. Volevo cercare di ricostruire attraverso la scrittura gli stati d’animo estremi che caratterizzano i campioni del pugilato. Ali è stato questo, elevato all’ennesima potenza, ma è stato anche uno dei simboli più forti e duraturi della comunità afroamericana, amico di Malcom X e dei Black Muslims. Un uomo che ha combattuto, sul ring come fuori, che ha vinto e che a perso ma che si è sempre messo in gioco, a cominciare da quel corpo che lo ha reso celebre ma che da tanto tempo minacciava ogni giorno di abbandonarlo a causa della malattia.

«Il ring invisibile» non parla tanto di Muhammad Ali, del campione ribelle che ha fatto sentire la sua voce ovunque, quanto piuttosto del giovane Cassius Clay, del ragazzo che sceglie la boxe per cercare di cambiare la sua vita, perché?

«Perché il mito di Alì, la sua leggenda dorata, è già stata raccontata, è già nota a tutti noi. Mentre invece il modo in cui tutto è cominciato per il giovane Cassius Clay è praticamente ignoto ai più. Diciamo che sono partito alla scoperta di “Ali prima di Ali” proprio per cercare di decifrare l’origine di quello chi si trasformerà poi in una sorta di icona pop, cogliere le sue contraddizioni, la sua fragilità così ben mascherata da un fisico possente. Volevo comprendere e cercare di raccontare il modo in cui il suo giovane corpo si è definito, plasmato, fino a diventare a un tempo la fortezza e la prigione di quest’uomo.

Nel libro, Cassius Clay, ancora ragazzo, decide di diventare un pugile dopo che un suo coetaneo di 13 anni, Emmett Till, un giovane nero di Chicago in vacanza nel Mississippi viene linciato dai razzisti, che ne sfigurano anche il volto, perché aveva osato guardare una donna bianca, era il 1955. Questa drammatica vicenda fu davvero decisiva?

«Senza dubbio, è quello che lui stesso ha raccontato più volte in seguito. Nello scrivere la sua storia ricordo come fu suo padre, in uno dei rari momenti in cui non era ubriaco, a raccontare l’accaduto a Cassius e come lui avesse reagito con rabbia e disgusto, identificandosi del tutto con la vittima. Così, gli faccio dire: «Ascolta la mia promessa Emmett: a te che non hai più la faccia, io darò la mia. Andrai nel mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni». Credo non si possa capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva visto, e ha continuato a vedere fino ad oggi, intorno a sé.

Alì: libri film e gallerie, mito anche nell'arte. Ispirò premi Oscar e Pulitzer: "Il combattimento" opera storica, scrive "L'Ansa" il 04 giugno 2016. La farfalla non vola più, l'ape non punge. Ma a testimonianza di cos'è stato Cassius Clay/Muhammad Ali, il campione della gente, rimarrà la quantità innumerevole di libri, documentari e anche film che lo hanno celebrato come eroe dei tempi moderni. Una mole di 'documenti' che è stata riservata a pochi grandi personaggi del Ventesimo secolo. Ali è stato scrittore di se stesso, con l'autobiografia "Con l'anima di una farfalla" scritta assieme ad Hana Yasmeen Ali, una delle sue figlie. Il libro più celebre su di lui rimane invece, probabilmente, "Il Combattimento", che il premio Pulitzer Norman Mailer scrisse sul mitico match che oppose Ali e George Foreman a Kinshasa. Lo stesso evento venne immortalato nel memorabile film-documentario "Quando eravamo Re" che vinse un meritato Oscar. Un altro libro che ha decantato il mito dell'ex campione del mondo e' stato "Il Re del Mondo" dell'altro premio Pulitzer David Remnick, emozionante testimonianza della vita e delle idee del Più Grande. Altra perla è sicuramente "Facing Ali", "Affrontare Ali", per scrivere il quale l'autore Stephen Brunt, altro documentatissimo cantore del pugile, è andato a intervistare quindici fra coloro che avevano affrontato il Piu' Grande sul ring. Il concetto che ne emerge è che praticamente tutti, da Hunsaker a Cooper, da Chuvalo a Frazier, da Foreman a quel Wepner che ispirò a Stallone la storia di Rocky, diventarono più noti, e la loro vita cambiò drasticamente, per il semplice fatto di essere entrati in contatto "con la forza che era Muhammad Ali". E per questo ancora oggi gli sono grati. Nel lungo elenco di libri su Ali ci sono poi "His life and times" di Thomas Hauser e l'edizione celebrativa "monumentale", uscita per la prima volta nel 2003 e poi ripubblicata, "Greatest of All Time" della casa editrice Taschen. L'edizione "De Luxe", autografata dall'ex campione del mondo, e la cui prima copia è stata donata allo stesso Ali, costava 3.000 euro. Questo libro, anche nella sua versione meno costosa, ma comunque di notevoli dimensioni, è stato definito un capolavoro assoluto nel campo dei libri fotografici. In copertina c'è la celebre foto del Ko inflitto da Clay a Sonny Liston. Sul sito ufficiale di Ali veniva invece venduto "The Official Treasures of Muhammad Ali", altra chicca da non perdere che conteneva riproduzioni identiche agli originali di contratti firmati dall'ex fuoriclasse, biglietti e volantini dei suoi incontri. Fece epoca anche il fumetto della DC Comics, quelli di molti Supereroi, "Superman vs. Muhammad Ali" in cui i due si affrontavano per salvare il mondo dagli Alieni. Ebbe un successo planetario vendendo milioni di copie e per via delle richieste è stato ristampato anche pochi anni fa, in Italia dalla De Agostini. Una curiosità: nel celebre disegno della copertina, con i due superuomini sul ring, fra il pubblico viene raffigurato anche Pelè. Pure in Italia Clay/Ali ha avuto molti cantori, primo fra tutti l'amico Gianni Minà. Sul grande schermo va invece ricordato il film "Ali" in cui la parte del Più Grande" è stata interpretata da Will Smith, che poi ha più volte ricordato di quanto si sia sentito orgoglioso per essere stato scelto per un ruolo del genere.

Mohammed Alì, un mito ma non "il più grande", scrive Roberto Marchesini il 05-06-2016 su “La Nuova Bussola Quotidiana”. A causa delle conseguenze del morbo di Parkinson, malattia che lo affliggeva dagli anni Ottanta, è morto a settantaquattro anni Mohammed Alì (nato Cassius Marcellus Clay Junior), il pugile autoproclamatosi «il più grande». Se i media hanno accettato di incoronare Alì con questo titolo (the greatest), qualche perplessità resta a chi di pugilato se ne intende. Fisicamente molto dotato (alto, agilissimo, con braccia esageratamente lunghe), l'unico pugno che ci abbia mai fatto vedere in tutta la sua carriera è, sostanzialmente, il jab, con il quale martellava gli avversari per tutta la durata dell'incontro tenendoli a distanza. Quando l'avversario si avvicinava, lo abbracciava impedendogli di boxare e costringendo l'arbitro a fermare l'azione. Ogni tanto, quando l'avversario era poco lucido (per la rabbia di non aver potuto boxare), esausto per i continui attacchi fermati dall'arbitro e con il volto massacrato, si esibiva in una serie di «sventole», schiaffoni dati con l'interno del guantone – proibiti dal regolamento – che solo un profano può scambiare per dei ganci (per un approfondimento sulla boxe di Mohammed Alì e sul suo significato clicca qui). E qui la faccenda si fa interessante. Come mai Alì è stato così protetto e vezzeggiato dai media, dal mainstream e dagli arbitri? Com'è possibile che un nero, nell'America dei conflitti razziali, che si era per di più rifiutato di partecipare alla guerra del Vietnam, sia divenuto quella icona che abbiamo conosciuto? Tutti, probabilmente, abbiamo visto il documentario Quando eravamo re, che racconta lo straordinario incontro tra Muhammed Alì e George Foreman tenutosi nel 1974 in Zaire. In questo documentario compare una intervista al giornalista e scrittore Norman Mailer. In realtà Mailer è più di una comparsa: egli è l'autore del libro The fight, che ha dato il tono epico all'incontro ed è stato sostanzialmente la sceneggiatura del documentario. Si potrebbe addirittura affermare che Norman Mailer sia l'uomo che ha costruito il mito Muhammad Alì. E chi sarebbe questo Mailer? Fu forse uno dei più importanti spin doctor americani, responsabile di molti stati d'animo degli Stati Uniti dell'epoca. Crebbe all'interno della comunità ebraica di Brooklyn, dove rimase fino a quando non divenne il portavoce della beat e della hipster generation, contribuendo ad esempio alla creazione del mito del Greewich Village, la comunità hippy di New York. Nel 1965 scrisse il saggio Il negro bianco, che può essere considerato il punto d'inizio del movimento per i diritti civili delle minoranze nere negli USA. In questo saggio Mailer descrive – non senza una punta di involontario razzismo – il negro come un concentrato di sessualità disordinata e prorompente, emarginazione insolubile, violenza bestiale; e accomuna l'hipster bianco al negro. Da questo momento l'emarginazione del negro americano divenne un punto d'orgoglio, di opposizione all'America tradizionalista e conservatrice. È più o meno nello stesso periodo che a Cassius Clay, vincitore della medaglia d'oro per i pesi mediomassimi alle olimpiadi di Roma nel 1960, viene affiancato l'allenatore (e ghost-writer) nero ma ebreo Drew Bundini Brown. Da quel momento Clay cessa di essere uno sportivo e diventa un simbolo. Nel 1964 divenne campione del mondo battendo Sonny Liston, implicato con la mafia e le scommesse. Il giorno seguente si convertì all'islam, assunse legalmente il nome di Muhammed Alì e aderì alla Nation of Islam di Malcolm X (associazione che si è autodefinita «setta islamica militante»). Fu immediatamente fissata la rivincita con Liston, che Alì mise ko al primo round senza nemmeno averlo colpito (il famoso «pugno fantasma»). Nel 1967 rifiutò l'arruolamento per il Vietnam adducendo motivi religiosi. In seguito a questa presa di posizione fu privato del passaporto e della licenza di pugile professionista ma, sorprendentemente, nel 1971 la Corte Suprema degli Stati Uniti annullò all'unanimità la condanna. Ottenuta nuovamente la licenza, Alì sfidò il campione Joe Frazier. Nonostante Frazier l'avesse sostenuto anche economicamente durante il periodo di sospensione della licenza, nei giorni precedenti l'incontro Alì lo insultò con epiteti razzisti simili a quelli che aveva riservato a Liston: scimmione, gorilla. Frazier vinse l'incontro. Alla ribalta del pugilato mondiale stava però salendo un giovane atleta dal fisico impressionante, George Foreman. Così venne organizzato l'incontro più mediatico della storia del pugilato, The rumble in the jungle, tra Alì e Foreman, che si tenne a Kinshasa il trenta ottobre 1974. Alì, il ricco e famoso nero razzista, convertitosi all'islam, che piaceva all'establishment WASP (white anglo-saxon protestant) statunitense, fu immediatamente identificato come «il buono», «l'eroe» della battaglia che i media avevano trasformato in epica; il giovane, povero e altrettanto nero Foreman era il cattivo che doveva essere sconfitto. Non solo per il mondo bianco occidentale, ma anche per gli zairesi, tra i quali cominciò a diffondersi l'orripilante slogan «Alì, bomaye»: Alì, uccidilo. Slogan ancora più spaventoso se si pensa che lo stadio di Kinshasa, dove si tenne l'evento, era il posto dove il sanguinario dittatore Mobuto eseguiva le condanne a morte dei suoi oppositori...Comunque sia, Alì vinse un incontro che sembra tratto da un copione hollywoodiano. Quello fu l'apice della sua carriera pugilistica e della sua fama. Da allora combatté ancora diversi incontri dal valore e dall'esito piuttosto controverso, e anche il suo status di simbolo della lotta per l'emancipazione nera cominciò a declinare. I media cominciarono a proporre un nuovo modello di nero americano: non più il giovane attivista, comunista e musulmano, orgoglioso della propria origine e del colore della pelle che lotta per i diritti civili; bensì il pappone. Intorno alla metà degli anni Settanta, infatti, Hollywood cominciò a diffondere una serie di film (il filone fu chiamato Blaxplotation) il cui protagonista era un uomo violento, dedito al crimine, al sesso e alla droga, che si fa mantenere dalle donne: Shaft, Superfly eccetera. Alì cessò così di essere il simbolo dei neri americani, sia per i ricchi liberal bianchi che per i giovani neri (con le conseguenze che conosciamo). Nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Nel 1996 commosse il mondo quando, ultimo tedoforo, accese tremante la fiaccola olimpica alle olimpiadi di Atlanta. Ora Muhammed Alì è morto. Dubito che sul ring sia stato davvero «the greatest». Fuori dal ring, per i media e per coloro che li governano, è sicuramente stato molto importante.

Il vero Alì. Per gentile concessione di Edoardo Perazzi, erede di Oriana Fallaci, il 5 giugno 2016 “Libero Quotidiano” pubblica ampi stralci dell’intervista con Mohammed Alì che la scrittrice fiorentina realizzò per L’Europeo. Il testo uscì il 26 maggio 1966, col titolo “Che aspettano a farmi presidente di uno Stato dell’Africa?”. L’intervista è contenuta nel volume antologico “Le redici dell’odio. La mia verità sull’Islam”, uscito per Rizzoli nel 2015 e appena ristampato in edizione economica.

"Un pagliaccio simpatico, allegro, e innocuo. Chi non ricorda con indulgenza le sue sbruffonate, le sue bugie, i suoi paradossi iniziati alle Olimpiadi di Roma quando mise in ginocchio ben quattro avversari, un belga un russo un australiano un polacco, e la medaglia d' oro non se la toglieva neanche per andare a letto, imparò per questo a dormire senza scomporsi, Dio me l'ha data e guai a chi la tocca. Nei ristoranti, nei night-club, entrava avvolto in una cappa di ermellino, in pugno uno scettro: salutate il re, io sono il re. Per le strade girava guidando un autobus coperto di scritte inneggianti alla bellezza, la sua bravura, o una Cadillac color rosa salmone, i cuscini foderati in leopardo. Sul ring combatteva gridando osservate come mi muovo, che eleganza, che grazia, e se lo fischiavano rideva narrando che il primo pugno lo aveva tirato alla mamma a soli quattro mesi, sicché la poveretta cadde knock out mentre i denti schizzavano via come perle di una collana. Un'altra menzogna, s'intende, dovuta al suo primitivo senso dell'humour; non avrebbe fatto torto a una mosca. Da quell' humour e dalla sua vanagloria fiorivano poesie divertenti: «La mia storia è quella di un uomo / nocche di ferro, di bronzo la pelle / Parla e si gloria d' avere / il pugno possente, ribelle / Son bello, son bello, son bello / il più grande di tutti, io / nel duello». La boxe aveva trovato con lui un nuovo astro, un personaggio quasi degno di Rocky Marciano, Joe Luis, Sugar Robinson. Era il simbolo di un'America fanfarona e felice, volgare e coraggiosa, priva di lustro ma piena di energia. Si chiamava, a quel tempo, Cassius Marcellus Clay. Ora si chiama Mohammed Alì ed è il simbolo di tutto ciò che bisogna rifiutare, spezzare: l'odio, l'arroganza, il fanatismo che non conosce barriere geografiche, né differenza di lingue, né colore della pelle. I Mussulmani neri, Neri, una delle sette più pericolose d' America, Ku-Klux-Klan alla rovescia, assassini di Malcom X, lo hanno catechizzato ipnotizzato piegato. E del pagliaccio innocuo non resta che un vanitoso irritante, un fanatico cupo ed ottuso che predica la segregazione razziale, maltratta i bianchi, pretende che un'area degli Stati Uniti gli sia consegnata in nome di Allah. Magari per diventarne capo: il sogno che quei mascalzoni gli hanno messo in testa approfittando del fatto che non capisce nulla, sa menar pugni e basta. Bisognava vederlo, mi dicono, quando a Chicago partecipò al raduno di cinquemila Mussulmani neri e, il pugno alzato, gli occhietti iniettati di sangue, malediceva Lincoln, Washington, Jefferson, altri bravissimi morti, strillava: «Entro il 1960 tutti i neri d' America saranno con noi, pregate per l'anima e il corpo dei nostri nemici, chi non è con noi è nostro nemico». (...) I Mussulmani neri, che hanno bisogno di un martire nella stessa misura in cui cercano pubblicità, lo istigano continuamente al litigio e sarebbero molto contenti di vederlo in prigione. Dove prima o poi finirà se si ostina a non fare il soldato con la scusa che lui appartiene ad Allah, non agli Stati Uniti. E questa sarebbe la patetica fine di un uomo che l'ignoranza e la facile fama distrussero mentre cercava di diventare un uomo. Ciò che segue è la cronaca bulla ed amara di due giorni trascorsi a Miami nell' ombra di Cassius Clay, alias Mohammed Alì, campione mondiale dei pesi massimi, eroe sbagliato dei nostri tempi sbagliati. Con l'aiuto del magnetofono e del taccuino ve la do così come avvenne. Era la vigilia del suo incontro con l'inglese Henry Cooper. La palestra dove si allena il pugile oggi più famoso del mondo è situata a Miami Beach, non lontano dal mare, sopra un negozio per pulire le scarpe. Il pubblico è ammesso per mezzo dollaro quando lui non c'è, un dollaro quando lui c' è. Lui c'è di solito all' una: seguito da una scorta di Mussulmani neri come un torero dalla sua quadrilla. Prima d' essere rinnegato per le sue idee non sufficientemente estremiste, lo seguiva ogni tanto anche Malcom X che nell' estate del 1963 gli donò il suo bastone d' avorio nero. (…)

Non le dispiacque, Mohammed, di cambiar il suo nome?

«Al contrario era duro avere il nome che avevo perché il nome che avevo era il nome di uno schiavo Cassius Marcellus Clay era un bianco che dava il suo nome ai suoi schiavi ora invece ho il nome di Dio. Mohammed Alì è un bel nome Mohammed Alì che bel nome Mohammed vuol dire Degno di Tutte le Lusinghe Alì vuol dire Il più Alto è il minimo che merito e poi gli uomini dovrebbero chiamarsi così mica signor Volpe signor Pesce signor Nonsocché gli uomini dovrebbero avere il nome di Allah. Sicché io mi arrabbio quando la gente mi ferma e mi dice signor Clay posso avere il suo autografo signor Clay io rispondo non Clay, Mohammed Alì. [...]».

Ma se è tanto cambiato, Mohammed, perché continua ad insultare i suoi avversari e ad odiarli?

«Io non li odio come esseri umani li odio come individui perché tentano di farmi del male tentano di mettermi knock out tentano di rubarmi il titolo di campione dell'intero mondo, io sono campione dell'intero mondo e non sta a loro pugili levarmi il titolo di campione dell'intero mondo a me che ho sempre tirato pugni capito? [...] E poi li odio perché hanno i nervi di salire sul ring sapendo che sono bravo come sono, grande come sono questo mi fa imbestialire così li insulto. E poi li insulto perché così perdon la testa e quando un uomo perde la testa diventa più debole e casca giù prima come accadde con Liston al quale Liston dicevo che è brutto, brutto come un orso, bè non lo è? E poi gli dico vigliacco coniglio crepi di paura fai bene ad avere paura perché da questo ring tu esci morto, hai voluto sfidarmi vigliacco vedrai cosa ti tocca. Loro non lo sopportano e vinco [...]

Ma non le prende mai il dubbio che un giorno qualcuno le possa suonare a lei?

«Io non ho dubbi perché non ho paura e non ho paura perché Allah è con me e finché Allah è con me io rimango il campione dell'intero mondo, solo Allah può mettermi knock out ma non lo farà. Io non ho dubbi perché l'uomo che batterà Mohammed Alì non è ancora nato [...]. Io durerò ancora per quindici anni e poi a quarant' anni mi ritirerò nella campagna perché ho trecento acri di terra vicino a Chicago e ho anche comprato due trattori e con quelli ci coltivo i cavoli e i pomodori e le galline  [...] E con quel cibo diventerò molto ricco e comprerò un aereo da seicentomila dollari e poi voglio una limousine in ogni città d' America per ricevermi all'aeroporto e poi voglio uno yacht da duecentomila dollari ancorato a Miami e poi voglio una di quelle case che ho visto sulle colline di Los Angeles a centocinquantamila dollari perché il paradiso io non voglio in cielo da vecchio io lo voglio sulla terra da giovane. [...]

Mohammed, ha mai letto un libro?

«Che libro?»

Un libro.

«Io non leggo libri non ho mai letto libri io non leggo nemmeno i giornali ammenoché i giornali non parlino di me io ho studiato pochissimo perché studiare non mi piaceva non mi piace per niente si dura troppa fatica e non è affatto vero che io volevo diventare dottore ingegnere. Gli ingegneri i dottori devono lavorare ogni giorno ogni notte tutta la vita con la boxe invece uno lavora per modo di dire in quanto si diverte e poi con un pugno si fa un milione di dollari all' anno. [...] Come quando mi chiamarono alle armi e mi fecero l'esame della cultura mi dissero se un uomo ha sette vacche e ogni vacca dà cinque galloni di latte e tre quarti del latte va perduto quanto latte rimane? Io che ne so. [...] E così dicono che sono inabile ma d' un tratto scoprono che non sono inabile affatto per morire nel Vietnam sono abilissimo eccome ma io questo Vietnam non so nemmeno dov' è io so soltanto che ci sono questi vietcong e a me questi vietcong non hanno fatto nulla sicché io non voglio andare a combattere coi fucili che sparano io non appartengo agli Stati Uniti io appartengo ad Allah che prepara per me grandi cose».

Quali, Mohammed?

«[...] Magari divento il capo di un territorio indipendente oppure il capo di qualche Stato in Africa magari di quelli che hanno bisogno di un leader e così pensano abbiamo bisogno di un leader perché non prendiamo Mohammed che è bravo e forte e coraggioso e bello e religioso e mi chiamano perché sia il loro capo. Perché io non so che farmene dell'America degli americani di voi bianchi io sono mussulmano...».

Mohammed, chi le dice queste cose?

«Queste cose me le dice l'onorevole Elijah Mohammed messaggero di Allah ma ora basta perché voglio andare a dormire io vado presto a dormire perché la mattina mi alzo alle quattro per camminare».

N.B. Elijah Mohammed è il capo dei Mussulmani neri. Lo divenne dopo l'assassinio di Malcom X. Abita a Chicago, in una villa di diciotto stanze, viene dalla Georgia. Ha studiato fino alla quarta elementare ed è stato in carcere più volte, per crimini e infrazioni diverse. Suo figlio è il vero manager del Campione e si fa pagare dal Campione, per questo, non so quante centinaia di dollari la settimana.  (...)

Le è dispiaciuto, Mohammed, divorziar dalla moglie?

«Nemmeno un poco è stato come voltare la pagina di un libro le donne non devono andare in giro mostrando le parti nude del corpo come i selvaggi come le vacche come i cani come fa lei è un vero scandalo. Un uomo deve avere una moglie che gliela guardano con ammirazione rispetto lo dice anche Elijah Mohammed apri la TV e cosa vedi, vedi le donne nude che cantano che reclamizzano le sigarette vai nei negozi e che vedi, vedi le donne nude che comprano le cose non è decente le donne hanno perso tutta la morale non è decente non è decente non è decente».

Mohammed, perché non mi guarda negli occhi? È arrabbiato?

«Non sono arrabbiato nella mia religione ci insegnano a non guardare le donne noi le donne le avviciniamo in modo civile parlando prima coi genitori per chiedergli se ci danno il permesso di guardar la ragazza come in Arabia come nel Pakistan come nei paesi dove si crede al Dio giusto che si chiama Allah non si chiama Geova o Gesù. E poi non mi piace questo mischiarsi coi bianchi lei cosa ci fa qui con me cosa vuole da me come prima cosa è una donna come seconda cosa è una bianca io se fossi in Alabama voterei per il governatore Wallace che non mischia i bianchi coi neri, io non voto per quelli che dicono oh io voglio bene ai neri io non voto pei neri come Sammy Davis che si sposan la bionda, cobra, serpenti, la gente dovrebbe sposare la gente della sua razza. Lo dice anche Elijah Mohammed i cani stanno coi cani i pesci stanno coi pesci gli insetti con gli insetti i bianchi coi bianchi è la natura è la legge di Dio è scritto perfin nella Bibbia che a voi piace tanto e questa integrazione cos' è? [...] Io non sono americano io non mi sento americano io non voglio essere americano io sono asiatico nero come la mia gente che voi bianchi avete portato qui come schiavi e si chiamavano Rakman e Assad e Sherif e Shabad e Ahbad e Mohammed e non John e George e Chip e pregavano Allah che è un dio molto più antico del vostro Geova o del vostro Gesù e parlavano arabo che è una lingua assai più vecchia del vostro inglese che ha solo quattrocento anni, ed ora queste cose le so per via di Elijah Mohammed che amo più della mia mamma».

Più della mamma, Mohammed?

«Certo sicuro più della mamma perché la mia mamma è cristiana Elijah Mohammed mussulmano e per lui potrei anche morire per la mia mamma no che a voi bianchi piaccia o non piaccia».

N.B. Eppure v' è qualcosa su cui meditare in questo ignaro al quale fanno credere che la lingua inglese abbia solo quattrocento anni, che Maometto sia nato prima di Cristo, che Elijah Mohammed vada amato più della mamma colpevole d' esser cristiana. V' è qualcosa di commovente, di dignitoso, di nobile in questo ragazzo che vuole sapere chi è, chi fu, da dove venne, e perché, e quali furono le sue radici tagliate. Nel suo fanatismo v' è come una purezza, nella sua passione v' è qualcosa di buono. Vorrei essergli amica. (...) Scrivo questi appunti sull' aereo che mi riporta a New York dove spero di sfuggire ai Mussulmani neri che sono arrabbiati con me. E quando i Mussulmani neri sono arrabbiati con te l'unica cosa è darsela a gambe al più presto e più lontano che puoi. Perbacco che corsa. [...]

Alì, ne hanno fatto un santino...ma era un «bastardo islamico», scrive “Piero Sansonetti” su “Il Dubbio” il 6 giugno 2016. È morto Alì, il più grande pugile di tutti e tempi. Il mondo intero in questi giorni lo sta celebrando, con frasi bellissime e tanta ammirazione. «Era un genio, era un uomo buono». Gli intellettuali in prima linea. I grandi giornali. Non è vero: non era buono. Per usare una espressione che recentemente ha fatto fortuna nel dibattito politico italiano, Alì era un «Bastardo islamico», era un picchiatore selvaggio che infieriva su tutti e soprattutto sul suo paese. Era un nemico dell’America. E l’America lo trattò da nemico. Lo condannò a cinque anni di prigione, lo mandò in esilio, gli tolse il titolo mondiale dei massimi. Muhammad Alì, lo sapete tutti, si chiamava Cassius Clay, e ripudiò il suo nome il 6 marzo del 1964, a 22 anni, un paio di settimane dopo aver spedito al tappeto Sonny Liston, un toro nero di dieci anni più grande, che sembrava invincibile, eterno. Decise di chiamarsi Muhammad Alì e divenne un sostenitore di Malcolm X, rivoluzionario separatista afroamericano, che predicava la religione musulmana, non voleva l’integrazione e chiamava i neri alla lotta violenta. Alì quel giorno, sfoderando il suo ghigno - dolce, certo, ma ferocissimo - disse ai giornalisti: «Sono un guerriero della causa musulmana». Beh, pensate un po’ se oggi un campione sportivo dichiarasse qualcosa del genere, come lo tratterebbero i giornali e i capi della politica! Allora non fu molto diverso. Né lì in America né in Italia. Il ‘68 doveva ancora venire e anche il movimento pacifista americano era agli albori. Alì fu un precursore del movimento pacifista. Era un pacifista violento. I giornali non lo avevano per niente in simpatia. Non potevano ignoralo, certo, perché al mondo non era ancora apparso, né apparirà, un pugile bravo come lui. Combatteva senza mai alzare la guardia, si difendeva schivando, danzava con una grazia incredibile, era uno spettacolo vederlo sul ring, e poi, a un certo momento, vibrava un colpo micidiale e mandava giù l’avversario. Era rarissimo che Alì prendesse lui un colpo, nei primi anni della sua carriera, fin quando, a 25 anni appena, fu costretto a interromperla per via del suo rifiuto di andare a sparare ai vietcong. I giornali ne parlavano, ma continuavano a chiamarlo Cassius Clay. Un po’ perché il nome era più semplice - e più breve nei titoli - un po’ perché erano razzisti. Allora il razzismo contro i neri era davvero molto diffuso. Specie in America, naturalmente. Un po’ come è oggi il razzismo, qui da noi, contro gli immigrati. Era senso comune tra i bianchi e nell’establishment. Alì, che era un ragazzetto che veniva dal Kentucky, da Louisville, trasformò la sua incredibile abilità di boxer in strumento politico. E iniziò una battaglia furibonda, un corpo a corpo contro il razzismo. Parliamo dei primi anni ‘60, quando in Alabama un governatore democratico si rifiutava di far entrare nell’università gli studenti neri. E quando un giovane ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, che si chiamava Colin Powell (ed era destinato dopo qualche anno a diventare il capo delle forze armate) si sentì dire, entrando in un bar: «Non serviamo i negri, ragazzo. Se vuole può accomodarsi alla porta di servizio». E’ in quel clima lì che Alì si unisce a Malcolm X, capo della “Nazione Islamica”, e fonde boxe e politica. Non parte per il Vietnam, come sapete, spiegando che a lui «i vietcong non lo hanno mai chiamato nigger». E paga, paga cara questa sua impuntatura. Milioni e milioni di dollari al vento. E poi la condanna a 5 anni di prigione. E l’esilio. E il titolo perduto. E la più fantastica carriera che mai un pugile abbia avuto, bloccata a 25 anni, quando era ancora un ragazzino. Capite che vuol dire? Voi credete che c’è molta gente disposta a rischiare tutto - patrimonio, fama, successo, agiatezza - per un’idea pacifista? Così fece Alì, che tutti chiamavano Clay. E così costruì la sua fama, creando provocazioni, sfidando i bianchi, e sfidando l’America, perché l’America era guerra, era potere bianco, era conformismo, ipocrisia. Oggi lo commemorano, con tanta retorica, molti di quelli che lui odiava. Se la prendeva anche coi neri, spesso, se erano integrati. Li chiamava zio Tom. Si riferiva al personaggio del celebre romanzo della scrittrice antischiavista Harriet Stowe, il quale era un negro che amava il suo padrone, e si sottometteva. Alì ballava sul ring, sempre con le braccia basse, lungo i fianchi, e gridava all’avversario: «coraggio, zio Tom, vieni avanti!». E quello allora avanzava e provava a colpirlo, ma Alì, con un balzo, non c’era più. Spuntava da un altro angolo del ring e di nuovo ringhiava e rideva: «Avanti, zio Tom, vieni... vieni qui che ti uccido». La Capanna dello zio Tom era un romanzo ambientato in Kentucky. Giusto nella terra di Alì. Cioè nello Stato dove nacquero le leggi del Jim Crow. Le conoscete queste leggi? Erano un pacchetto di norme che - dopo la liberazione degli schiavi e la fine della guerra civile - erano riuscite, in una grande svolta reazionaria, a ristabilire la discriminazione razziale, al Sud, e la sottomissione dei neri. Si chiamavano così per via di uno spettacolino, molto famoso, proprio a Louisville, dove un certo Jim Crow era il ridicolo personaggio, sgrammaticato e da tutti umiliato, che rappresentava la figura del nero-standard. Ne ha parlato anche Bob Dylan di quelle leggi, in una canzone molto nota del 1965, dedicata ad Emmet Till, un ragazzino di 14 anni ucciso a frustate e poi annegato dai razzisti, in Mississippi: «La giuria ha detto che sono innocenti/ che se ne posso andare/ Mentre il corpo di Emmett fluttua nella schiuma orrenda/ del Jim Crow, giù, giù fino al mare... ». A proposito di frustate, ne aveva prese tante anche Sonny Liston, il toro, e cioè il primo grande avversario di Clay - perché si chiamava ancora così - che lo affrontò nel ‘64 e lo rese grande. Clay vinse alla settima ripresa e fece impazzire le scommesse, perché tutti erano convinti che avrebbe vinto Liston. Ne aveva prese tante di frustate, Sonny, quando era un bambino e faceva il raccoglitore di cotone in Missouri. Lo pagavano qualche cents al giorno e se lavorava male il padrone lo frustava, perché si usava ancora così, perché lo schiavismo in alcuni stati del Sud è durato almeno fino agli anni sessanta, o forse anche settanta. Il razzismo se ne è infischiato di Roosevelt e di Kennedy. Quando gli hanno fatto l’autopsia, a Sonny, hanno trovato i segni, indelebili, sulla schiena. Alì disse delle parole di vera ammirazione verso Liston, quando Liston morì. Era così forte, Liston, che da ragazzetto faceva le rapine senza armi: a cazzotti. Lo presero subito e si fece tre anni di galera. Poi uscì e salì sul ring. Vinse tutti gli incontri. Capite che vuol dire tutti? Tutti. Finché non incontrò Clay, e allora perse. Poi lo incontrò di nuovo l’anno dopo, quando già si chiamava Alì, e finì al tappeto alla prima ripresa. Dicono che il pungo di Alì lo avesse appena sfiorato. E che lui si sia buttato giù per fare i soldi con le scommesse. Non credo che sia così. Alì era proprio forte, e quel pugno, che pure non era dinamite, prese Sonny alla tempia e lo tramortì. Poi li conoscete tutti i grandi incontri affrontati dopo l’interruzione di cinque anni. Nel ‘71, in appello, vinse il processo sull’obiezione di coscienza e potè tornare negli Stati Uniti e riprendersi la licenza da boxer. Non era più allenato, e neanche più giovanissimo. Ma era sempre lui, Alì. Tornò a combattere, subito: fu un errore. Sfidò Joe Frazier che si era preso il suo titolo quando lui era all’estero. Alì diceva che era l’usurpato. Però fu sconfitto, per la prima volta nella sua vita, ai punti, dopo 15 riprese da incubo. Si riprese il titolo tre anni dopo, nel ‘74, nella famosa battaglia di Kinshasa contro Foreman che aveva battuto Frazier ed era diventato lui campione dei pesi massimi. Fu grandioso quella volta, Alì. Nessuno scommetteva un dollaro sulla sua vittoria. Lui invece era certo. Foreman lo pestò. Alì tirò un solo pugno vero. Uno solo. Ma così forte che stese Foreman e vinse la partita. Quante frasi feroci, in quei giorni. Contro i bianchi, contro i neri traditori, contro l’America. E la gente, lì in Africa, che gridava impazzita per lui: «Alì, boma ye», cioè Alì, uccidilo. Durante tutto l’incontro gridava: «Uccidilo, uccidilo». E lui riprendeva il grido, gridava pure lui, appena Foreman gli lasciava qualche secondo di respiro: «boma ye, boma ye». Che ipocrisia i santini che scrivono ora i giornali. Era proprio un «bastardo islamico», altroché. Era un gigante del pugno e un gigante della politica, e della lotta dei neri, e dei diritti dei musulmani. Era un moderato, Alì? Ma non dite sciocchezze: era un radicale, era con Malcolm X e con le pantere nere, con Stokley Carmichel, con Huey Newton e con Bobby Seale. Non era del gruppo gandhiano di Luther King. L’orazione funebre la terrà Bill Clinton. E’ giusto così? Bill Clinton nel 1968 aveva 22 anni, studiava legge. Anche a lui arrivò la cartolina e doveva partire per il Vietnam. Una volta ha raccontato di avere passato la notte, insieme a un suo amico, che si chiamava Haller, per decidere che fare. Partire o disobbedire? Alla fine Haller decise di bruciare la cartolina e scappare in Canada. Clinton invece chiamò il suo amico William Fulbright, icona della politica americana, senatore dell’Arkansas e padre putativo, politicamente, di Bill. Chiese il suo aiuto. Fulbright riuscì a farlo riformare. Il giovane Haller visse un pessimo esilio. Per tre anni. Poi si suicidò. Clinton lo seppe mentre stava facendo campagna elettorale per George McGovern, sfidante di Nixon. Per un mese, per via del rimorso, dovette interrompere il suo impegno politico. Clinton ha sempre detto che Haller era un politico molto migliore di lui. E allora, è giusto che parli Clinton ai funerali di Alì? Si forse è giusto. Toni Morrison, che è una delle più importanti scrittrici afroamericane, qualche anno fa – durante il caso Lewinsky, quando Obama ancora non era all’orizzonte – scrisse che Clinton è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti. Nero? Perché nero? Perché dice bugie - rispose la Morrison - suona la tromba, mangia gli hamburger con le patatine fritte e il ketchup, è appassionato, onesto e imbroglione. Come noi negri...

DANZOPOLI.

Giustizia sportiva, si dimette il superprocuratore Coni: «Non si può lottare con la lobby delle federazioni». Enrico Cataldi, ex generale dei Carabinieri, rimette il mandato: «All’interno del Coni c’è una lobby potente contraria al progetto Malagò». L’ultima goccia? Danzopoli, scrive Marco Bonarrigo il 18 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Ha gettato la spugna ieri mattina alle 8 appena arrivato, puntuale come ogni giorno, nel suo ufficio a Palazzo H del Coni, a Roma. Il generale Enrico Cataldi, chiamato tre anni fa da Giovanni Malagò a guidare una riforma storica della giustizia sportiva italiana, ha rassegnato le sue dimissioni da procuratore generale proprio nelle mani del presidente del Coni, che aveva scelto questo alto graduato dell’Arma, in pensione dopo una carriera dedicata alla lotta al terrorismo, per un compito difficile: evitare che la giustizia sportiva restasse affidata a «giudici» scelti, nominati e spesso «orientati» dagli stessi presidenti federali. «Dimissioni irrevocabili» spiega Cataldi, che ha istruito decine di processi davanti al Collegio di Garanzia (con altissima percentuale di condanne) avocandoli a procure federali pigre o inerti che tenevano gli atti chiusi in un cassetto. E affrontando temi forti e scomodi come il match fixing, le molestie sessuali, le compravendite di voti, la vicenda «Paga per correre» nel ciclismo. Cataldi agiva invitando con le buone le procure federali a istituire procedimenti (spesso già trattati sul piano penale) o avocandoli a chi non sentiva ragioni e diventando di fatto «pubblico ministero» nei processi. Il progetto, in sintesi, di trovare un giudice naturale, terzo e imparziale in un sistema in cui, ancora oggi, un presidente federale messo sotto accusa risponde a procuratore e giudici da lui designati. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la sentenza con cui due giorni fa, il tribunale di appello della federazione danza sportiva, ha concesso una grazia/indulto all’ex presidente Ferruccio Galvagno, radiato per la vicenda di «Danzopoli» e di nuovo sotto accusa (sportiva) per aver favorito, secondo la procura generale, l’elezione di un suo uomo proprio per ottenere la cancellazione della sanzione e tornare al vertice. A Galvagno è stata concessa la riduzione dalla pena dalla radiazione a cinque anni ammettendo automaticamente l’indulto. «Una decisione – spiega Cataldi – frutto di un patto scellerato che vanifica il progetto di riforma della giustizia. Ma non me ne vado per questo: all’interno del Coni c’è una lobby potente, contraria al progetto di Malagò, che è arrivata ad ottenere un pronunciamento dell’avvocatura dello stato che giudica il mio ruolo incompatibile con la legge Madia (quella che vieta a chi ha una pensione statale di avere un ruolo dirigenziale retribuito, ndr) pur non essendo io un dirigente e pur godendo della carica da prima dell’applicazione della legge. Malagò mi ha scongiurato di restare, perché sono in ballo procedimenti importanti anche nel calcio, col campionato alle porte. Ma non ci sono le condizioni. Sapevamo, io, il presidente e i miei sostituti, che la riforma avrebbe incontrato resistenze procurandoci molti nemici. Ma qui c’è un muro che si oppone a ogni cambiamento: la giustizia è e deve restare cosa delle federazioni e nessuno super partes deve poter metterci il naso. Ho passato la vita a lottare cercando di fare giustizia e seguendo casi difficilissimi, ora mi rendo conto nello sport l’impresa è superiore alle mie forze».

La danza sportiva va alla sbarra: giudici intimiditi, combine nelle gare, elezioni truccate. Le elezioni per acclamazione contrarie al regolamento. Il dirigente «pentito» che filma le irregolarità e denuncia tutto. Il Coni: azzerare i vertici federali. La replica: siamo autonomi. Su «Danzopoli 2» deciderà l’Alta Corte guidata dall’ex ministro Frattini, scrive Marco Bonarrigo il 2 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". C’è il settantenne (mai indossate scarpette da danza in vita sua) tesserato all’ultimo secondo come ballerino (finto) per poter concorrere alle elezioni federali. C’è l’ex presidente (radiato) che continua a dirigere nell’ombra, pilotando le elezioni del suo successore e il suo operato. C’è un nuovo presidente, eletto per acclamazione ma subito rimosso perché qualcuno denuncia la procedura bulgara. Ci sono maestri di ballo e giudici intimiditi, c’è un dirigente preso dai rimorsi che registra ore di conversazioni telefoniche compromettenti e le consegna ai giudici sportivi. Così, all’inizio di quest’anno, nasce Danzopoli 2. Avvelenata da scandali a ripetizione, «corvi», pentiti, complotti e minacce, la danza sportiva italiana offre un’immagine un po’ diversa da quella delle coppie di leggiadri ballerini che incantano giurie e telespettatori sul parquet degli studi televisivi. Una saga che nel pomeriggio di martedì 7 novembre troverà, forse, una svolta definitiva (o forse no) nell’aula del Collegio di Garanzia del Coni, la «cassazione» del nostro sport. Dietro alla Federazione italiana danza sportiva (Fids) ci sono 120 mila iscritti che amano davvero volteggi e piroette e si allenano con fatica e passione per riuscirci. Ma anche, ai vertici, una serie d’interessi non esattamente olimpici: dalla designazione dei maestri di «Ballando con le Stelle» (proposti proprio dalla Fids, che organizza anche road show in tutta Italia per la trasmissione condotta da Milly Carlucci) a quella dei giudici delle gare nazionali. Scelte che possono fare — o disfare — la fortuna di una delle centinaia di scuole di ballo nazionali o di un maestro preferito a un altro da selezionatori inappellabili. La Fids è già finita nei guai in passato. Le vicende di Danzopoli 1 (era il 2010), una clamorosa serie di combine nella designazione dei vincitori dei concorsi più importanti, portarono alla radiazione dei vertici e al commissariamento federale. Sette anni dopo tutto si ripete. Alla fine del 2016 le nuove elezioni federali sono state annullate: invece di votare a scrutino segreto (secondo le inderogabili norme del Coni, che elargisce alla Fids 750 mila euro l’anno per la sua attività, pure non olimpica) il presidente venne acclamato dai consiglieri, roba che nemmeno in un talent. Altro commissariamento, altro presidente: vince Michele Barbone che come primo atto dispone un’amnistia tombale per i tesserati — recidivi compresi — col nobile scopo di «riconciliare tutte le componenti e rilanciare definitivamente tutto il movimento». Per la Procura Generale del Coni, che ha scavato nel muro di omertà e timori tra giudici e maestri di danza, riconciliazione è restaurazione del vecchio sistema. Barbone, è l’accusa, sarebbe una sorta di prestanome dell’ex presidente radiato Ferruccio Galvagno, che con una lunga serie di riunioni segrete avrebbe ripreso il controllo della federazione. A documentare i casi sono dei «pentiti», tra cui il dirigente uscente Christian Zamblera, che chiede il patteggiamento consegnando ai magistrati sportivi le prove della combine: ore e ore di registrazioni, a dire dei magistrati inequivocabili. La Procura Generale, premettendo che «definire illecita la situazione della danza è riduttivo», prima intima di mandare a processo tutto il Consiglio Federale e poi si sostituisce al procuratore federale, inerte, chiedendo lunghe squalifiche (da due a cinque anni) per l’attuale presidente e dodici dirigenti. Ma il tribunale interno, che di processare i propri dirigenti non se la sente, tira fuori un asso dalla manica: dichiara «incompetente» la Procura Federale, l’organismo super partes voluto dal presidente del Coni Giovanni Malagò per evitare che i panni sporchi le federazioni se li lavino in casa. Se martedì prossimo l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini, presidente del Collegio di Garanzia, non troverà ragioni giuridiche sufficienti per smontare la decisione autoassolutoria del tribunale della danza, tutto il processo di rinnovamento della giustizia sportiva potrebbe entrare in crisi.

Quel pasticciaccio brutto del ballo sportivo italiano Danzopoli. Lo storico presidente radiato per aver truccato competizioni, i tre successori a processo, dodici dirigenti deferiti e gli imbarazzi del Coni, scrive Lorenzo Vendemiale su "Il Fatto Quotidiano" Domenica 14 Maggio 2017. La danza italiana balla alla sbarra. Quella del tribunale, però: uno storico presidente radiato per aver truccato delle competizioni e che ora potrebbe tornare in ballo grazie ad un’amnistia, i suoi tre successori a processo per aver avuto contatti con lui. E ancora: elezioni farsa, rifatte due volte nel giro di un mese con due diversi vincitori, veleni pre e post elettorali, registrazioni segrete, denunce incrociate. Una tarantella che si trascina tra una gara di valzer e due passi di salsa cubana, e di cui anche al Coni si sono stufati come dimostra il maxi-deferimento a 12 dirigenti apicali. Forse qualcuno si chiederà cosa c’entrino la bachata o la mazurka col Comitato olimpico presieduto da Giovanni Malagò, appena riconfermato: ballerini, per lo più in coppia, che si sfidano sulla base di figure prefissate, sotto l’occhio attento di giudici inflessibili che danno voti e decretano i vincitori. Un po’ come nel noto programma televisivo Ballando con le stelle (per altro legato alla Fids da diversi rapporti di collaborazione), solo con meno folklore. Si dà il caso, però, che la Danza sportiva dal 2007 sia anche una delle 44 federazioni riconosciute dal Coni. E pure discretamente finanziate: nel 2017 quasi 750mila euro di contributi pubblici per l’attività sportiva e la preparazione olimpica (pur non essendo presente la danza alle Olimpiadi), che salgono ad oltre un milione e mezzo di euro se aggiungiamo i costi del personale. Soldi preziosi per un movimento sconfinato, che supera i 100mila tesserati, spaziando dall’agonismo ipercompetitivo al dilettantismo più amatoriale.

LA STORIA della Fids, però, è stata quantomeno travagliata. Nel 2010 scoppiò lo scandalo ribattezzato “danzopoli”, versione danzerina della più nota “calciopoli”: un sistema volto a “predeterminare o quantomeno fortemente condizionare” i campionati nazionali di ballo, scoperto dalle indagini che portarono alla radiazione a vita dell’allora presidente federale, Ferruccio Galvagno. Il suo nome ritorna anche nell’ultima vicenda giudiziaria che sta investendo il movimento: la procura del Coni ha deferito 12 dirigenti, fra cui l’attuale numero uno Michele Barbone e i suoi predecessori Giovanni Costantino e Cristian Zamblera, per aver avuto dei contatti illeciti con l’ex presidente radiato, che continuerebbe a spostare voti e decidere le sorti della Federazione. Uno dei primi atti della nuova gestione è stato concedere una grande amnistia per tutte le infrazioni commesse prima del 31 dicembre 2016. Un provvedimento che avrebbe dovuto pacificare il movimento ma ha finito per spaccarlo ulteriormente, visto che tra i beneficiari potrebbe esserci proprio Galvagno.

LA STRANEZZE, del resto, non sono mai mancate in questa Federazione, che a lungo ha confuso maestri e giudici: per anni chi allenava gli atleti era anche chi li giudicava, in barba ad ogni principio di terzietà sportiva. Una sovrapposizione di ruoli da cui non potevano che derivare guai. Ora il nuovo presidente Barbone ha finalmente approvato un regolamento che separerà le carriera. Ma potrebbe non fare a tempo a godersi la riforma, travolto dai veleni delle ultime (doppie) elezioni: a ottobre alle urne Costantino aveva sconfitto il presidente uscente Zamblera, il Coni ha disposto la ripetizione per alcune irregolarità nell’assemblea e quando si è tornati al voto dopo qualche settimana a sorpresa c’è stato un altro vincitore ancora. Il tutti contro tutti che ne è derivato (e che è finito sul tavolo della Procura, tra registrazioni nascoste e delazioni) rischia di non risparmiare nessuno. Nemmeno la Federazione: qualcuno vuole fare pulizia, qualcun altro forse spera in un “repulisti” generale per togliere di mezzo buona parte della classe dirigente presente e passata. Ma a rimetterci potrebbe essere proprio la Danza sportiva. Barbone ha negato le accuse, sostenendo che i pochi contatti con Galvagno non possono considerarsi come “attività federale”. Ma se la vicenda dovesse concludersi con una condanna e un altro commissariamento (il terzo in cinque anni), al Coni potrebbero anche decidere di sbarazzarsi della Fids. Al Foro Italico cominciano a interrogarsi sulla scelta di aver concesso lo status di Federazione, che in futuro potrebbe addirittura essere revocato. Finirebbero benefici e contributi. E allora ci sarebbe davvero poco per cui ballare.

Dopo lo scandalo “Danzopoli 2010”, nella Danza Sportiva il cosiddetto “Sistema” è riapparso con Michele Barbone? Scrive Foglio Verde Fonte Prima Pagina News. Anche la danza sportiva sotto la lente distorta della corruzione iniziata da un passato lontano e profondo. L’inchiesta attuale (avviatasi in gennaio) è della Procura Generale dello Sport guidata dal dottor Enrico Cataldi, ex-generale dell’Alto Comando dei Carabinieri, e ha portato al deferimento del Presidente Federale Michele Barbone e di 9 fra consiglieri e dirigenti. La vicenda è anche oggetto di due distinte interrogazioni parlamentari al Ministro dello Sport Lotti, una a firma di Paolo Grimoldi della Lega Nord e l’altra da Lara Ricciatti di Sinistra Ecologia Libertà. Le due interrogazioni concordano sulle «gravi irregolarità accertate dalla Procura» e puntano entrambe sulla necessità di comprendere «quali iniziative si intendano adottare da parte del Ministero e del CONI». Una storia che parte da lontano, che accusa in particolare Michele Barbone – attuale Presidente Federale eletto il 15 dicembre 2016 – di aver consentito a una persona radiata a vita nel 2012, Ferruccio Galvagno, di svolgere attività nella Federazione Italiana Danza Sportiva, condividendo con lui “iniziative, interessi e strategie”. Nei confronti di Barbone, si legge in dettaglio nell’interrogazione (qui sotto riportata integralmente), la Procura Generale dello Sport presso il CONI, concluse le attività di indagine, muove accusa di falsa testimonianza (art. 372 cp) anche per “aver dichiarato il falso in sede di audizione alla Procura Generale dello Sport, negando a più riprese di aver espressamente mai avuto contatti, incontri o rapporti con il Signor Ferruccio Galvagno”. Questo il punto focale. Ma chi è Ferruccio Galvagno? Facciamo alcuni passi a ritroso; in occasione dei Campionati Italiani del 2010 partì una denuncia/esposto alla Procura della Repubblica di Rimini, circostanziata con tanto di prove rappresentate da intercettazioni ambientali, che portò alla ricostruzione di un meccanismo ben congeniato che creava un vero e proprio business: favoritismi e piazzamenti garantiti in pista a favore degli atleti delle società sportive “amiche” che erano tenuti a lezioni ben pagate, una vera e propria “frode organizzata”, appunto il “Sistema”. L’inchiesta della magistratura ha visto infine i suoi effetti con la sentenza che ha provveduto e disposto sulla negativa e triste vicenda denominata “Danzopoli”: Tra i vari protagonisti condannati, con la radiazione a vita per alcuni, tra questi troviamo, appunto, l’ex Presidente Federale Ferruccio Galvagno, lui insieme ad altri radiati a vita per illecito sportivo, mentre alcuni altri protagonisti sono stati inibiti dalle attività federali da uno a cinque anni (ora però con Barbone, guarda caso, alcuni sono già riapparsi nella scena federale con incarichi tecnici all’interno dell’organigramma federalenazionale). A “Danzopoli” si accompagnarono poi una serie di irregolarità/omissioni amministrative e gestionali della FIDS e in febbraio 2011 arriva il commissariamento da parte del CONI con la nomina a commissario dell’Avv. Pancalli (già Presidente del CIP). Il commissariamento termina in luglio 2012, con l’elezione a Presidente Federale del Cav. Christian Zamblera di Bergamo, per il mandato 2012-2016. Con l’avvicinarsi della scadenza di tale mandato – emerge dall’inchiesta guidata da Cataldi – il Galvagno riappare sulla scena federale, grazie alla compiacenza di alcuni dirigenti federali e non – ora deferiti con gravi accuse appunto dalla Procura Generale dello Sport – avviando un’intesa campagna politica contro Zamblera e sostenendo l’amico di lunga data, già proprio Vice Presidente FIDS nel mandato 2004-2008 e 2009-2011, Michele Barbone di Bari. Il copioso materiale a sostegno dell’accusa conferma che le interferenze e le imposizioni “guida” del Galvagno sono continuate anche dopo l’elezione del 15 dicembre e quindi in pieno mandato olimpico. Una storia che si presterebbe ad una lunga serie televisiva, che è nata a Rimini nel 2010 con l’esposto denuncia sopra riportato e che trova oggi un nuovo capitolo (seconda stagione si direbbe?) anche grazie all’interesse della politica con le citate interrogazioni parlamentari (riportiamo quella del deputato Grimoldi della Lega Nord presentata il 28 aprile  2017).D’altronde non potrebbe essere altrimenti, visto che la FIDS conta ben 120.000 tesserati e oltre 2.000 società affiliate (dati dal sito federale). Nelle more del procedimento dianzi agli organi di giustizia, restano ora da comprendere le iniziative cautelari del CONI e, segnatamente, della nuova Giunta Nazionale che sarà eletta l’11 maggio prossimo, nell’ambito delle proprie funzioni di controllo e vigilanza, per riportare a normalità una situazione che Cataldi ritiene che “definire illecita è riduttivo”.

L’interrogazione è qui riprodotta: “si apprende che, in data 31 marzo 2017, la procura generale dello Sport presso il CONI ha concluso le attività di indagine in ordine ai procedimenti disciplinari rubricati ai nn. 3/2017 e 6/2017 nei confronti del Dottor Michele Barbone, dal 15 dicembre 2016 presidente federale della Federazione italiana danza sportiva, Federazione sportiva nazionale (FSN) riconosciuta dal Coni, e di altri tesserati meglio identificati negli atti menzionati, con l’accusa di (si cita testualmente):

1) aver consentito ad un soggetto radiato (segnatamente l’ex presidente federale Signor Ferruccio Galvagno) di continuare a svolgere attività federale, condividendo con lui iniziative, interessi e strategie;

2) aver convocato e preso parte a una o più riunioni e incontri nei quali, in presenza e con l’attiva partecipazione del Galvagno, sono state assunte decisioni di fondamentale importanza per il futuro della Federazione sportiva in previsione e nell’imminenza delle elezioni federali per il rinnovo delle cariche che si sarebbero poi tenute il 22 ottobre 2016 e, successivamente rifatte il 15 dicembre 2016;

3) aver dato esecuzione, in qualità di presidente federale neo eletto, agli accordi presi nel corso delle riunioni alle quali Ferruccio Galvagno ha preso parte e, in particolare, aver condiviso nel consiglio federale del 22 gennaio 2017 l’intenzione di concedere provvedimenti di clemenza sportiva (amnistia), incluso al Galvagno, come pattuito nelle riunioni/incontri pre-elettorali svolti;

4) aver, dopo l’elezione a presidente federale del 15 dicembre 2016, omesso di riferire e denunciare al Procuratore Federale le interferenze esercitate da Ferruccio Galvagno;

5) aver dichiarato il falso in sede di audizione alla procura generale dello sport, negando a più riprese di aver espressamente mai avuto contatti, incontri o rapporti con il Signor Ferruccio Galvagno, inerenti attività, strategie e programmi federali;

in pari data, 31 marzo 2017, alle ore 19,02, è stata resa nota la deliberazione del consiglio federale (delibera n. 2017/48) con la quale si concede l’amnistia per tutte le infrazioni disciplinari commesse fino al 31 dicembre 2016;

questo provvedimento si applica anche ai provvedimenti di radiazione, quindi a favore del Galvagno, e a tutti gli attuali indagati – componenti il consiglio federale presieduto dal Dottor Michele Barbone – per le infrazioni disciplinari contestate dalla procura generale dello sport sopra elencate – :

se siano a conoscenza di eventuali iniziative adottate dal Coni (Comitato olimpico nazionale italiano), nell’ambito delle funzioni di controllo e vigilanza di cui al decreto legislativo 8 gennaio 2004, n. 15, per un immediato commissariamento della federazione italiana danza sportiva, accertate le gravi irregolarità nella gestione e le gravi violazioni dell’ordinamento sportivo da parte dell’attuale consiglio federale, già compiutamente documentate dalla procura generale del Coni all’esito dell’attività inquirente (Protocollo 1967 del 31 marzo 2017). (4-16425)

Testo INTERROGAZIONE A RISPOSTA IN COMMISSIONE

Atto a cui si riferisce: C.5/02211 la danza sportiva italiana comprende oggi oltre 100.000 iscritti, 5.000 maestri e 1.000 scuole di ballo con un fatturato che si aggira intorno ai 2 milioni di euro l'anno; la Federazione...

Atto Camera. Interrogazione a risposta in commissione 5-02211 presentato da VALENTE Simone testo di Giovedì 20 febbraio 2014, seduta n. 177

SIMONE VALENTE, BATTELLI e BRESCIA. — Al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. — Per sapere – premesso che: 

la danza sportiva italiana comprende oggi oltre 100.000 iscritti, 5.000 maestri e 1.000 scuole di ballo con un fatturato che si aggira intorno ai 2 milioni di euro l'anno; la Federazione italiana danza sportiva (FIDS) è l'unica Federazione riconosciuta dal CONI per organizzare e disciplinare lo sport della danza; tale riconoscimento è stato ottenuto con delibera 1355 del 26 giugno 2007, ai sensi dell'articolo 6, comma 4, punto c dello Statuto del Coni nonché in applicazione a quanto previsto dall'articolo 15 comma 3 e 4 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242 e successive modifiche e integrazioni; 

nel febbraio 2011 la Fids viene commissariata dalla Giunta nazionale del Coni a causa di una serie di inchieste avviate in seguito ad una denuncia con la quale veniva segnalata una serie di irregolarità avvenute in una competizione di danza sportiva svolta a Rimini tra il maggio e il giugno 2010; le persone coinvolte (tra queste si segnalano l'ex presidente federale della Fids, un consigliere federale, giudici e tecnici di gara) furono accusate di associazione a delinquere finalizzata ad alterare in maniera fraudolenta le competizioni di danza agonistica su tutto il territorio nazionale attraverso la manipolazione delle gare federali. Si trattava di un vero e proprio sistema criminoso (definito danzopoli) perfettamente strutturato e basato su competizioni truccate, risultati manipolati e giudici corrotti che tendeva a favorire determinati atleti a svantaggio di altri; 

a seguito di quanto accaduto, la federazione è stata protagonista secondo gli interrogati di una condotta omissiva e dilatoria che si è manifestata, in particolare, in un mancato adempimento delle normative contenute negli articoli 79 e 66 dello Statuto federale i quali contemplano rispettivamente l'incompatibilità al contestuale esercizio di insegnante tecnico e ufficiale di gara e le modalità nonché i criteri di nomina del personale arbitrale sia nelle gare federali che in quelle autorizzate; 

ma ciò che desta maggiore preoccupazione è quella che agli interroganti appare un'inspiegabile inerzia da parte del Coni che in simili evenienze avrebbe dovuto applicare l'articolo 23, comma 3, del proprio statuto che disciplina l'attività di indirizzo e controllo sulle federazioni sportive nazionali; 

si rileva che durante la gestione commissariale della Fids, avvenuta dall'8 febbraio 2011 al 14 luglio 2012, i rappresentanti degli organi di gestione hanno continuato a regolamentare la nomina degli ufficiali di gara designando giudici ad libitum, nonostante l'allora commissario straordinario Luca Pancalli avesse invitato gli ufficiali di gara a sottoscrivere una «dichiarazione d'impegno etico deontologico», sottoponendo gli stessi al rispetto degli articoli 75 e 76 del decreto del Presidente della Repubblica n. 445 del 2000 relativamente al rilascio di false attestazioni e dichiarazioni mendaci. Sulla stessa linea, Pancalli si è adoperato al fine di favorire la corretta composizione delle giurie per ogni singola categoria e classe di gara, stilando una serie di principi comportamentali cui erano sottoposte le giurie; al fine di assicurare, infatti, la massima trasparenza nelle procedure relative alle competizioni veniva previsto, tra le altre cose, l'impegno dei giudici a non giudicare propri allievi ed effettuare, ove possibile, la rotazione delle giurie nei diversi turni di gara; 

tuttavia, nonostante la predisposizione di questi atti ad opera del commissario straordinario ben poco è cambiato;

durante il suo periodo di amministrazione, il commissario ha preso in considerazione solo la separazione delle carriere (disposta nella delibera del commissariamento per risolvere il problema del conflitto di interessi di cui all'articolo 80 dello statuto) senza considerare la regolamentazione della designazione del personale arbitrale, che invece era all'epoca ed è ancora oggi la chiave di volta per abbattere le irregolarità esistenti e conseguentemente risolvere il problema fondamentale della correttezza e genuinità dei risultati di ogni gara; 

nel mese di ottobre 2013 è stata, inoltre, costituita una Commissione paritetica composta da due membri consulenti del Coni e due membri rappresentanti del Fids con lo scopo di verificare la conformità dello statuto e dei regolamenti Fids ai princìpi fondamentali del Coni e di valutare complessivamente l'attuale normativa statutaria e regolamentare della Fids: ad oggi non risulta che l'operato della Commissione abbia generato dei particolari benefici; 

la grave condotta dilatoria ed omissiva di Fids e Coni di non aver voluto sanare la situazione esistente in tutte le gare ha leso e continua a ledere l'interesse giuridicamente tutelato di tutti gli atleti; ed il Coni che avrebbe dovuto vigilare rigorosamente, (ignorando le ripetute contestazioni e denunce) ha espresso invece parere di conformità del nuovo Rasf (Regolamento attività sportiva federale) alla normativa Coni dando il via al Regolamento Gare Fids per la stagione sportiva 2013-2014 che proroga per l'ennesima volta la regolamentazione della nomina del personale arbitrale di cui all'articolo 66 dello Statuto federale, al 31 dicembre 2015 per le gare federali e al 31 dicembre 2018 per le gare autorizzate; 

al fine di pervenire, pertanto, al riassetto dell'intero sistema attraverso l'emanazione da parte della Fids e l'approvazione del Coni di una serie organica di provvedimenti, tra i quali quelli relativi al regolamento tecnico, al regolamento arbitrale e alla separazione delle carriere di cui rispettivamente agli articoli 65, 66 e 79 dello statuto, è necessario non ricadere negli stessi errori di valutazione; 

posta l'importanza nonché il ruolo che riveste tale disciplina sportiva è necessario assicurare un sistema sano di garanzie, privo di condizionamenti e idoneo a tutelare tutti gli atleti che in ogni competizione sportiva hanno il diritto di essere giudicati secondo criteri di responsabilità, trasparenza ed imparzialità; 

per abbattere tale gravissima situazione (che si protrae ormai da anni pur in presenza di provvedimenti disciplinari, di radiazione, di un procedimento penale e di un commissariamento durato 18 mesi) occorre un intervento forte e risolutivo. Coni e Fids in questi anni sono stati sommersi da richieste di ottemperanza, denunce e diffide e da ultimo anche i loro rispettivi presidenti, Malagò e Zanblera sono stati investiti della questione da più atleti che reiteratamente gli hanno rappresentato la grave situazione di illegalità di tutte le gare –: 

in che maniera intendano i Ministri interrogati richiamare il Coni, nella persona del suo Presidente Giovanni Malagò, al rispetto rigoroso dell'articolo 23, comma terzo, dello stesso statuto Coni in situazioni come quella descritta in premessa. (5-02211)

A PROPOSITO DI SCHWAZER E PANTANI.

"Le urine di Schwazer furono manipolate". Una rivelazione riapre il giallo doping. Nei due campioni ri-analizzati trovate differenze abnormi nella quantità di dna, scrive Benny Casadei Lucchi, Sabato 28/07/2018, su "Il Giornale". «Io marcio» ha detto un giorno, «io marcio per me stesso» ha concluso la frase dopo aver ripreso fiato. Una pausa in mezzo. Come a separare volutamente l'«io marcio» che sa di confessione ed evoca il giallo, i dubbi, lo sporco che ne hanno accompagnato a tratti la carriera, dall'«io marcio per me stesso» che rappresenta invece l'amore con cui ha comunque affrontato quella carriera. Anche se l'amore, si sa, talvolta distrugge. Alex Schwazer è questo. È una frase spezzata in due come la sua vita agonistica e non solo agonistica. Prima l'oro olimpico di Rio e la gloria, poi la vergogna grande e la confessione di Londra 2012. Prima la vita da reietto dello sport seguita alla squalifica, poi il ritorno vincente del 2016 alla vigilia dei Giochi di Rio accudito dal professor Sandro Donati, simbolo della lotta al doping e diventato per Alex patente e certificato di pulizia. Prima la vittoria al rientro, seguita da redenzione e applausi, poi il nuovo sprofondo alla vigilia delle olimpiadi brasiliane. E ancora: prima la nuova squalifica a otto anni e la fine della carriera, poi la voglia di vederci chiaro, i dubbi su quel controllo delle urine effettuato dagli ispettori su incarico Iaaf e deciso proprio nel giorno in cui l'atleta aveva testimoniato contro un medico della Federazione internazionale. Una provetta rimasta troppe ore in mano agli ispettori prima di arrivare al laboratorio di Colonia e mai veramente anonima come invece dovrebbe, fecero subito notare i difensori di Schwazer. Un campione di urina che al primo controllo era risultato a posto e al secondo con una concentrazione di valori dopanti talmente minimi da non poter aiutare la prestazione atletica. Un giallo. O Schwazer stupido all'inverosimile da doparsi per non aver alcun beneficio o Schwazer al centro di un qualche complotto. Anche per questo l'atleta, che nel primo caso di doping, a Londra, aveva subito confessato, la seconda volta aveva urlato la propria innocenza chiedendo di vederci chiaro «perché credo che lì dentro ci siano anche le urine di altri» aveva detto, «e allora voglio l'esame del dna, non servirà per la mia carriera ormai finita, ma per il mio onore sì...». Ed è proprio dell'esame del dna che si è saputo ieri. Ultimo e più importante tentativo di ricomporre i cocci dell'esistenza di questo altotesino di 34 anni. La notizia è stata data dal quotidiano altotesino Tageszeitung e da Nando Sanvito sul il sussidiario.net, giornalista che non ha mai smesso di voler far luce sulla vicenda: «L'esame delle urine ha rivelato che le urine di Alex Schwazer sono state manipolate» ha scritto dopo essere venuto a conoscenza del risultato delle analisi svolte, su richiesta del tribunale di Bolzano, sul campione di urine. Ovviamente non sono state trovate le tracce di altri dna, ma di quello dello stesso Schwazer in quantità così abnormi da far sospettare il tentativo di nasconderne altri. Il dna col tempo va infatti riducendosi in modo vistoso, per cui è anomalo che nel primo campione, quello negativo, ci fosse un quantitativo inferiore al secondo. Da qui la decisione del Ris di Parma e del suo comandante Giampietro Lago (anche perito del tribunale di Bolzano) di monitorare il dna separato in due campioni di un centinaio di volontari. Per capire se difformità simili siano possibili. I risultati definitivi a settembre. Per ricominciare di nuovo a ricomporre i cocci di un uomo discusso. O per buttarne via l'ultimo e dimenticarlo per sempre.

Doping Schwazer, anomalie nelle analisi: ora un test su 100 dna. Le analisi sui campioni A e B risultati positivi alla vigilia di Rio de Janeiro effettuate dal Ris rilevano discrepanze «abnormi» nella concentrazione di dna nelle due provette, scrive Giuseppe Toti il 27 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Se non siamo di fronte al passo decisivo, poco ci manca. La vicenda di Alex Schwazer, secondo le clamorose rivelazioni di giovedì scorso di Tageszeitung, quotidiano altoatesino in lingua tedesca, è giunta a un momento cruciale grazie al lavoro che da molti mesi sta portando avanti il Ris di Parma del colonnello Giampietro Lago, su incarico del gip di Bolzano, titolare dell’inchiesta penale, Walter Pelino. Per prima cosa, le analisi di laboratorio sui campioni A e B di urina del marciatore azzurro — fermato per doping nel 2016, alla vigilia dei Giochi olimpici di Rio de Janeiro, in seguito al controllo a sorpresa di gennaio di quell’anno, dopo essersi affidato alle cure del professor Sandro Donati, memoria storica dell’antidoping italiano — hanno evidenziato un’anomalia incredibile: la concentrazione di dna di Schwazer nel campione B è tre volte superiore a quella presente nel flacone A: 1.187 nanogrammi contro 437. Una discrepanza «inspiegabile» scientificamente, che potrebbe nascondere ciò che l’entourage di Schwazer ha sempre sostenuto con forza: la manomissione delle provette (faticosamente ottenute dopo una battaglia durissima dal laboratorio di Colonia, che il 7 febbraio scorso aveva addirittura consegnato un campione aperto) per incastrare l’atleta e realizzare il «delitto perfetto». La Iaaf si è già affrettata a dichiarare che quella differenza abnorme non ha valore, il Ris invece continua spedito: il comandante Lago ha infatti ordinato una maxi test sul dna di 100 individui, scelti tra sportivi e persone comuni, che hanno dato l’assenso. Le conclusioni del Ris saranno presentate entro il 5 settembre sul tavolo del gip Pelino: se la «discrepanza» dovesse rimanere solo per Schwazer e non riguardare nessuno di quei cento, allora molti altri dubbi verrebbero spazzati via.

CASO SCHWAZER. L'esame del Dna rivela la manipolazione delle urine (esclusiva). Le urine di Schwazer sono state manipolate. Così si evince dall'analisi del Dna che il Ris di Parma ha effettuato sui campioni di Colonia. Una novità che cambia tutto, scrive Nando Sanvito il 27 luglio 2018 su "Il Sussidiario". La ostinata e disperata resistenza della Iaaf e del Laboratorio di Colonia a non cedere le urine di Schwazer al Tribunale di Bolzano aveva una ragione più che valida: quelle provette erano state manipolate. Così almeno si evince dall'analisi del Dna che il Laboratorio del Ris di Parma ha effettuato su quei campioni nelle scorse settimane. Cosa è stato trovato in quelle urine? Un Dna estraneo a quello di Schwazer? No, non siamo più ai tempi del caffè messo nella provetta della Di Terlizzi allenata da Sandro Donati, roba casereccia da peracottari anni 90. Nel caso Schwazer invece si è dato per scontato che se mai tarocco ci fosse stato, sarebbe stato fatto a regola d'arte, da professionisti del ramo e che tracce di Dna esogeno non ne avrebbero lasciate. Allora cos'ha trovato il colonnello Lago? Una concentrazione spaventosamente anomala del Dna di Schwazer. Bastano pochi numeri: 437 picogrammi microlitro nel campione A, addirittura 1187 nel campione B. Se la letteratura scientifica – prodotta dagli stessi laboratori accreditati presso la Wada – dice che le urine conservate a -20 gradi dopo una settimana riducono a 1/7 il valore quantitativo del Dna, dobbiamo pensare che dopo 26 mesi debbano contenere ancora al massimo qualche picogrammo, che si possa contare su qualche dita di una mano. Il Dna di Schwazer presenta invece una concentrazione centinaia (campione A) o migliaia (campione B) di volte superiore alla norma. Di fronte a questi valori assolutamente fuori-scala, i casi sono due: o Schwazer è un alieno oppure qualcuno ci ha messo mano. E qui sta il punto. Cosa vuol dire che ci ha messo mano? Vuol dire che ha "pompato" nelle urine di Schwazer una quantità sproporzionata di Dna dello stesso marciatore altoatesino. Che bisogno aveva di farlo? Questa operazione di solito la si fa quando si vuole nascondere un altro Dna presente nelle urine, perché se è vero che centrifugando urina contaminata da doping e congelandola e riscaldandola (coi raggi Uv) più volte, il Dna scompare al 99,9%, in realtà quello 0,1% inquieta il manipolatore e dunque il metodo più sicuro per non lasciare traccia è pompare altro Dna del proprietario delle urine da inquinare. Così si elimina ogni rischio di essere scoperti. Colpisce poi quella discrepanza tra campione A e campione B: 437 contro 1187. La Iaaf ha incaricato a Ginevra uno studio scientifico per dimostrare che questa discrepanza non ha alcun valore, ma se così fosse perché allora il laboratorio di Colonia e l'avvocato della Iaaf a febbraio tentarono di spacciare per campione B il liquido contenuto in una provetta di plastica non sigillata? Su questa discrepanza, da parte sua il colonnello Lago (carabiniere del Ris e perito del tribunale di Bolzano) invece sta monitorando il Dna di un centinaio di volontari a cui è stata prelevata urina, separata in due campioni: daranno differenze? E nelle proporzioni di quella di Schwazer? Lo sapremo ai primi di settembre quando presenterà il risultato completo della sua perizia al Gip di Bolzano Walter Pelino. Ma queste anticipazioni suggeriscono doverose riflessioni. Chi, come e dove ha operato la manomissione delle urine di Schwazer? A chi potrebbero toccare gli avvisi di garanzia che il Gip di Bolzano presumibilmente invierà una volta letta la perizia? Di questo ne parleremo nella puntata di domani.  

Atletica, doping; caso Schwazer: condannati i medici Fidal. Il tribunale di Bolzano ha condannato a due anni ciascuno Pierluigi Fiorella e Giuseppe Fischetto, nove mesi per Rita Bottiglieri. Per tutti e tre l'accusa è di essere a conoscenza dell'uso di sostanze da parte dell'ex marciatore e di non aver denunciato i fatti. Una sentenza storica, scrive Eugenio Capodacqua il 25 gennaio 2018 su "La Repubblica". Sapevano ed hanno taciuto. E non hanno fatto nulla per impedire che Alex Schwazer si dopasse prima delle Olimpiadi di Londra 2012. E adesso, a sei anni dai fatti, il tribunale di Bolzano per bocca della giudice Carla Scheide, ha stabilito che il loro comportamento era colpevole quanto il doping dell'atleta. Favoreggiamento del doping: così i due medici della Fidal (federazione atletica italiana), Pierluigi Fiorella e Giuseppe Fischetto sono stati condannati rispettivamente, a due anni di reclusione e ad una multa di 10.000 euro ciascuno. Una sentenza storica. La prima in cui vengono sanzionati due massimi dirigenti sportivi italiani. Per i due c'è anche l'interdizione dalla pratica della professione medica per due anni e l'inibizione perpetua da incarichi direttivi al Coni e in società sportive. Per Rita Bottiglieri, all'epoca impiegata nella segreteria federale, invece, la condanna è stata di 9 mesi di reclusione e 4.000 euro di multa. Anche per lei l'inibizione perpetua da incarichi direttivi al Coni e in società sportive. Secondo la sentenza tutti e tre erano a conoscenza dell'uso di sostanze dopanti da parte di Alex Schwazer, prima dei Giochi 2012 ma non hanno denunciato i fatti. Inoltre, è stato stabilito un risarcimento di complessivi 15.000 euro nei confronti della Wada: 12.000 euro dovranno essere pagati da Fiorella e Fischetto (6.000 a testa), e i restanti 3.000 sono a carico della dirigente Bottiglieri. I tre, infine, sono stati condannati al risarcimento delle spese legali sostenute dalla Wada. La sentenza contro cui, ovviamente gli interessati hanno già detto di voler ricorrere in appello, è stata più severa delle richieste del pm che per la Bottiglieri aveva chiesto l'assoluzione. Era attesa anche perché costituisce una anteprima assoluta. E' la prima volta che due medici sportivi, inseriti nella dirigenza di una federazione, vengono condannati per favoreggiamento nel doping. "La prima volta in cui per questo reato vengono sanzionate persone diverse dall'atleta ed è molto importante, perché l'atleta spesso è l'ultimo anello della catena", dice Sandro Donati, da sempre in prima fila nella lotta alla farmacia proibita, che Schwazer ha seguito come tecnico quando, scontata la prima squalifica, si è ripresentato per gareggiare. "Cosa farà adesso la Iaaf, la federazione internazionale? Ignorerà la sentenza?". Fischetto è ancora medico del settore sanitario ed ora si trova interdetto a frequentare ambienti sportivi. "Ricordo - aggiunge Donati - che fui proprio io a indicare alla Wada l'11 e 12 luglio del 2012 la necessità di un controllo su Alex. Lui era colpevole per quel doping. Ed ha pagato con la squalifica (tre anni e nove mesi in tutto, n.d.r.).  Ora questa sentenza mette in luce anche le responsabilità dell'ambiente e fa inquadrare in una prospettiva ben chiara la presunta seconda positività dell'atleta riscontrata il 1° gennaio 2012".

Una storiaccia. Con coincidenze talmente assurde da far pensare ad un complotto, come lamentano da mesi Schwazer e il suo staff difensivo capeggiato dall'avvocato Brandstaetter. Come, ad esempio, l'incarico dato dalla Iaaf alla ditta tedesca che poi ha svolto il test del 1° gennaio a Racines, avvenuto, secondo le tesi dei difensori di Alex, immediatamente dopo la testimonianza di Schwazer a Bolzano nella quale, svelando tutti i retroscena chiamava in causa proprio i medici federali. Una intercettazione durante l'inchiesta, rivelò tutta la rabbia di Fischetto: "Ha da morì ammazzato questo crucco di merda": la frase, resa pubblica nel docufilm di Repubblica di qualche mese addietro, dice tanto dell'atmosfera che circondava Schwazer all'epoca. Una storiaccia che ancora non si è chiusa. E ancora una volta mentre lo sport assolve (i protagonisti erano stati scagionati dalla Procura antidoping del Coni) la magistratura condanna. Il che deve far riflettere sul ruolo e le capacità di organismi che non hanno alcuna credibilità, perché assolutamente autoreferenziali. Lo sport che controlla se stesso non può funzionare con gli interessi in ballo. "Bella giustizia! - commenta Donati - C'è sempre stata ostilità nei confronti di Schwazer al quale il Tribunale Nazione Antidoping non ha mai dato la possibilita', per il presunto secondo caso (quello del gennaio 2016 per cui il marciatore altoatesino sta scontando una condanna a otto anni, n.d.r.), di un'udienza sportiva in Italia davanti al TNA. Nessuna autorità italiana dell'antidoping italiana è mai intervenuta per difendere Schwazer rispetto alle vessazioni imposte dalla Iaaf e che il Tribunale Arbitrale Sportivo ha subito passivamente come quando ha costretto Alex all'udienza a Rio in piene Olimpiadi e non a Losanna. E' stata colpita vigliaccamente la persona a terra".

Alex Schwazer, il laboratorio antidoping di Colonia nega i campioni di urina al Ris di Parma, scrive Eugenio Capodacqua il 24 Dicembre 2017 su "Libero Quotidiano". Dalla Germania le stanno provando tutte per rinviare un nuovo esame che potrebbe portare una nuova svolta sul caso controverso di doping sul marciatore azzurro Alex Schwazer. Da un anno i campioni di urina prelevati dall'atleta a Vipiteno il 1 gennaio 2016 sono sotto sequestro, conservati e sigillati a 20 gradi sottozero nel Manfred Donike Institut di Colonia. Lo scorso ottobre, come ricorda il Corriere della sera, il Ris di Parma per mano del colonnello GiampieroLago ha chiesto ai responsabili del laboratorio di accertare che in quelle provette ci fosse davvero l'urina di Schwazer, dopo che la rogatoria internazionale del magistrato ri Bolzano, Walter Pellino, era stata trasformata in ordinanza da un giudice tedesco. Con quella comunicazione, il colonnello Lago aveva formalizzato la richiesta di consegna, negata solo tre giorni fa dal direttore del laboratorio di Colonia perché dal punto di vista tecnico quella richiesta è risultata "troppo vaga". La lettera del colonnello dei carabinieri è tutt'altro che vaga, la procedura per l'esame del campione è ben descritta nella disciplina internazionale, quindi ci sono pochi margini di interpretazione da parte dei tecnici tedeschi. La vicenda del marciatore azzurro vira sempre di più verso il mistero dalle torbide venature di politica sportiva. Il laboratorio di Colonia è sotto la Wada, l'agenzia internazionale antidoping, non dovrebbe temere nulla da un nuovo esame di quei campioni e potrebbe dimostrare ancora una volta la propria imparzialità. La stessa Wada però da mesi si è opposta alla richiesta della magistratura italiana e sulla stessa linea si è schierata anche la Iaaf, la federazione mondiale di atletica. Gli interrogativi trovano una risposta tanto chiara quanto amara nella parole dell'allenatore di Schwazer, Sandro Donati: "Il laboratorio di Colonia ha ricevuto l'ordinanza due mesi fa. Perché non ha manifestato subito i suoi dubbi? Perché questo muro di gomma contro una richiesta che non dovrebbe suscitare nessun problema? Cosa nascondono le autorità sportive?". Le domande retoriche di Donati insinuano l'ennesimo dubbio sulla trasparenza degli organi internazionali, c'è qualcuno che teme quelle nuove analisi. E qualche indizio su nomi e cognomi comincia emergere. Come un'email dello scorso febbraio del capo dell'ufficio legale Iaaf, Ross Wenzel, diretta al presidente della commissione medica federale, Thomas Capdevielle, grande accusatore di Schwazer, che confessa la sua preoccupazione per l'eventuale spostamento di quei campioni e spera di riuscire a convincere i responsabili del laboratorio di Colonia a tenerli dove sono. Già la scorsa estate la Wada e la Iaaf impedirono il sequestro di tutte le provette, ma non il prelievo di due campioni. Di norma è una procedura concessa a tanti atleti che tentano un ricorso, in questo caso invece per opporsi alla richiesta dei magistrati italiani sono stati spesi migliaia di euro in cause legali. La faccenda deve stare loro particolarmente a cuore, qualcuno che non ha nessuna intenzione di far emergere la verità contro ogni ragionevole dubbio.

Caso Schwazer, 17 mesi di melina: il test Dna ancora rimandato, scrive il 20 dicembre 2017 “La Repubblica". Diciassette mesi di melina e ancora non si vede giorno. Il test sul dna da cui dipende tanto del futuro di Alex Schwazer non viene ancora fatto, nonostante ci sia un verdetto chiarissimo della Corte di appello di Colonia. E il caso della discussa seconda positività del marciatore altoatesino, (squalificato prima dei Giochi 2016) resta ancora senza soluzione definitiva. Tutto rimandato all’anno prossimo, se non verranno posti altri incomprensibili intoppi. Cosa pensare? Che l’evidente strategia dilatoria della Iaaf, la federazione atletica internazionale, stia producendo i suoi effetti?La misero in evidenza mesi addietro alcune email svelate dagli hacker di Fancy Bear, riprese da molti “media”. Si trattava di 23 messaggi di posta telematica scambiati tra il manager dei controlli antidoping della Iaaf Thomas Capdeville e il consulente legale Ross Wenzel, oltre avvocati e altri dirigenti. Il tema era evidente: identificare la strategia difensiva nei confronti del sequestro richiesto ed ottenuto da parte del Tribunale di Bolzano delle provette del test del 1° gennaio 2016, la cui positività è stata contestata dalla difesa dell’atleta azzurro, che ha apertamente parlato di complotto. Per dirimere la questione si sarebbe già dovuto procedere al test del dna, risolutivo per entrambe le parti. Colpevole o innocente. Definitivamente. Ma le provette sono ancora bloccate in Germania presso il laboratorio di Colonia. In Italia tutto sarebbe pronto, ma quei “benedetti” 6 millilitri del campione B e 9 di quello A ancora non arrivano nel laboratorio dei Ris di Parma. Nonostante il Gip Walter Pelino abbia fatto tutti i passi necessari, nominando il colonnello Giampiero Lago, responsabile del Ris di Parma come perito super partes. Questa volta c’è un evidente ritardo nel coordinamento con Iaaf e Wada che dovrebbero essere presenti a tutte le operazioni di prelievo, sigillatura e trasporto del liquido da analizzare. Così siamo arrivati a Natale tra ricorsi, appelli e sentenze della magistratura tedesca che ha stabilito alla fine la legittimità delle procedura nel rispetto dei diritti della difesa. Ma difficilmente la vicenda vedrà una soluzione prima di gennaio-febbraio prossimi. Eppure sarebbe interesse delle parti risolvere il prima possibile per mettere fine alle ovvie e scandalose polemiche che hanno coinvolto fin qui l’atletica mondiale. Dall’analisi dei fatti emerge come Iaaf e Wada abbiano più o meno seguito la stessa strada. Ma è una circostanza sconcertante. Infatti, se da una parte la Iaaf risulta controparte dell’atleta e di fatto si è opposta ferocemente alle nuove analisi sulle provette; la Wada, almeno, dovrebbe essere “neutra”. Cioè esercitare quella terzietà che è l’elemento più discusso e mancante nel sistema antidoping mondiale. E questo sconsolante quadro, che mina i fondamentali della giustizia, è complicato da fatto che la Corte d’appello di Colonia non ha fissato, nella sua ordinanza, una data precisa per la consegna delle urine da parte del laboratorio. Favorendo così chi la vuole tirare per le lunghe. Ora si attendono ulteriori contromosse da parte della Procura di Bolzano.

Quelle strane mail del caso Schwazer. (Un articolo importante di Sarah Franzosini, per Salto.bz del 6 luglio 2017). Il vento fa il suo giro. La parabola discendente di Alex Schwazer potrebbe ora subire una svolta. I fatti: il 29 giugno scorso il colpo di scena, gli hacker russi di “Fancy Bear” si impossessano di 23 e-mail sottratte alla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica leggera. Le mail vengono scambiate nel corso di tre mesi (da gennaio a marzo 2017) fra l’antidoping senior manager della Iaaf Thomas Capdevielle e il consulente legale Ross Wenzel, membro dello studio di Losanna Kellerhals Carrard (che insieme a Huw Roberts, dello studio londinese Bird & Bird, si occupa del caso Schwazer), con il coinvolgimento di altri avvocati e dirigenti della Iaaf e del laboratorio di Colonia, dove ancora si trovano le provette “incriminate” con i campioni di urina. Occorre infatti ancora accertare se l’urina dell’esame sia effettivamente quella di Schwazer e se non ci sia stato un inquinamento “esterno” o altri tipi di alterazione. Il marciatore, infatti, sostiene che qualcuno gli abbia dato la sostanza di nascosto o modificato la provetta. Le e-mail in questione avvalorerebbero l’ipotesi di un complotto ordito per mettere fuori dai giochi l’atleta, come da tempo denuncia il suo ex tecnico Sandro Donati. Il 10 agosto 2016 Alex Schwazer viene squalificato per 8 anni dal Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) di Losanna – dopo aver scontato tre anni e nove mesi per il doping all’epo (abbreviazione di eritropoietina, un ormone che controlla la produzione di globuli rossi nel sangue) del luglio 2012 -, una sentenza che gli impedirà di partecipare alle due discipline della marcia previste alle Olimpiadi di Rio, e cioè i 20 e i 50 chilometri; e che porrà di fatto fine alla sua carriera agonistica. Sono i contorni di una storia lacunosa che sfumano ulteriormente alla luce delle ultime rivelazioni.

La prima e-mail è datata 17 gennaio 2017, giorno in cui il giudice per le indagini preliminari di Bolzano, Walter Pelino, stabilisce che l’esame del DNA di Schwazer si farà, complice una rogatoria internazionale, presso il laboratorio dei Ris dei carabinieri di Parma. L’incarico viene conferito al colonnello Giampietro Lago e al professor Marco Vincenti, chimico dell’università di Torino e presidente del laboratorio antidoping piemontese. Katherine Brown, legale della WADA (l’Agenzia mondiale antidoping) di Losanna, scrive ai vertici del laboratorio di Colonia, Wilhelm Schänzer e Hans Geyer, inviando loro una lettera del direttore antidoping della WADA Julien Sieveking e il verbale dell’incidente probatorio chiesto dalla difesa di Schwazer. Schänzer e Geyer prendono tempo – suscitando una certa insofferenza da parte di Losanna – e dopo 10 giorni rispondono che contatteranno il loro avvocato, il dottor Sartorius. Scattano i primi dubbi sulla neutralità della WADA: l’Agenzia starebbe tentando di condizionare il laboratorio di Colonia, accreditato peraltro dalla stessa WADA, al fine di accontentare la Iaaf che vuole impedire l’esame del DNA di Schwazer in un circuito neutro, a Parma, ovvero in un laboratorio che non sia controllato dalla WADA. Come evitare allora che le analisi vengano svolte in Italia? L’idea è quella di procedere rivolgendosi al tribunale di Colonia ma sorge un problema. La sede della Iaaf è a Montecarlo e il Principato di Monaco non fa parte dell’Unione europea e perciò non può intercedere presso i giudici di Colonia. Dopo diverse ipotesi vagliate nel successivo febbrile scambio di e-mail fra i legali della Iaaf, Wada e Colonia per cercare una soluzione, si alza bandiera bianca.

Un primo, clamoroso, espediente emerge nell’e-mail del 9 febbraio.Ulrich Leimenstoll, avvocato della Iaaf di Colonia che si occupa del caso Schwazer insieme al collega Björn Gercke, scrive a Ross Wenzel: “Se sei d’accordo darei il testo della memoria al Dr. Sartorius, cosicché il laboratorio possa lavorare su una dichiarazione ‘armonizzata’ [con la nostra]”. In sostanza il laboratorio della città della Renania viene “imbeccato” allo scopo di sottoscrivere una linea quanto più possibile coincidente con quella della Iaaf. Se non è collusione questa. Il 10 febbraio Ross Wenzel contatta Thomas Capdevielle e cita i punti principali della memoria che sarà inviata al tribunale di Colonia. Per la Iaaf l’analisi della provetta deve avvenire nell’ambito sportivo e dunque per evitare l’entrata in scena del Reparto Investigazioni Scientifiche (Ris) dei carabinieri di Parma ecco il colpo di genio: fare riferimento al fatto che Schwazer sia stato un ex carabiniere e abbia gareggiato per l’Arma in diverse occasioni, insinuando dunque un presunto conflitto di interessi e la minaccia di eventuali manipolazioni dei campioni. Nel passaggio successivo della mail, tuttavia, la stessa Iaaf arriva a ritenere difficile la condanna di Schwazer per doping intenzionale in sede penale, in quanto “tutti gli esperti del caso concordano che non è possibile distinguere fra uso volontario e involontario” di certe sostanze.

Ma ce n’è per tutti. Il prossimo malcapitato finito sulla lista nera della Iaaf è il professor Donati. Ancora un botta e risposta fra Leimenstoll e Wenzel Ross: un altro motivo per allontanare l’incubo Ris di Parma è alludere al fatto che l’allenatore di Schwazer abbia uno stretto contatto con la polizia italiana definita uno “sponsor”, tanto che “la scritta ‘Carabinieri’ appare regolarmente sulla maglia dell’atleta”. Qualcosa scricchiola in casa Iaaf. Il tentativo di dimostrare una oscura connessione fra i carabinieri, Schwazer e Donati suona quasi disperato, tanto che il legale Huw Roberts sconsiglierà di seguire questa strategia. E infatti il passaggio in cui si fa riferimento al presunto legame fra l’ex coach Donati e i carabinieri verrà tolto dal testo della memoria presentato dalla Federazione per il ricorso presso la Corte d’Appello di Colonia. Non solo. L’avvocato Sergio Spagnolo (per la Iaaf di Milano) mette in guardia, in una mail del 14 febbraio, il nostro Ross Wenzel: se la Iaaf continua a fare ostruzionismo circa lo spostamento delle provette la magistratura, oltre che la stampa, potrebbe giudicare “negativamente questo tipo di approccio”, e concludere che “i sospetti di Schwazer possano essere in qualche modo confermati o che la Iaaf stia cercando di ‘nascondere qualcosa’”. Ross Wenzel risponde prontamente: “Invierò senz’altro la vostra e-mail alla Iaaf ma è escluso che la Federazione non faccia tutto quanto è in suo potere per evitare che i campioni non sigillati vengano consegnati al laboratorio dei carabinieri”. Poco dopo il consulente legale avverte Capdevielle: “Comincio a chiedermi se [gli avvocati italiani] siano dalla nostra parte…”.

Nel cast dell’ingarbugliata pièce fa la sua comparsa Luciano Barra, ex segretario della Fidal ed ex membro del Coni già noto alle cronache, come noto è il suo risentimento nei confronti di Schwazer e Donati. Nell’aprile 2016 Barra manda una lettera aperta al numero uno della Fidal Alfio Giomi implorandolo di non iscrivere l’atleta altoatesino alla Coppa del Mondo di Marcia che si sarebbe tenuta a Roma l’8 maggio successivo. In quell’occasione Schwazer vince la 50 chilometri con un tempo di 3 ore e 39 minuti qualificandosi per i Giochi di Rio. Un trionfo effimero, visto che a giugno verrà ancora sospeso dalla Iaaf dopo essere risultato positivo a un nuovo test antidoping. In una e-mail di Capdevielle del 14 febbraio indirizzata al suo interlocutore preferito, Ross Wenzel, si prospetta l’eventualità di inviare il testo della memoria presentata ai giudici di Colonia, guarda caso, a Barra. Il motivo? Non pervenuto, ma non è difficile intuirlo data la sua avversione per il duo Donati-Schwazer. Il 20 febbraio l’ennesimo, significativo, “carteggio” fra il consulente legale e Capdevielle: “Il laboratorio di Colonia sta cercando di restare neutrale, ma sarebbe utile se fosse disposto a sostenere in una certa misura la nostra posizione”, afferma il consulente svizzero. La replica di Capdevielle: “Non si rendono conto di essere parte della trama contro AS [Alex Schwazer, ndr] e delle potenziali conseguenze per loro? Hans [Geyer] ha probabilmente bisogno di ulteriori informazioni base”. E infine il cliffhanger. Scrive Ross Wenzel: “Credo di essere riuscito a convincerli”.

“L’antidoping e l’arroganza del potere”. L’ex allenatore di Schwazer Sandro Donati sulle e-mail hackerate dai russi, il plausibile complotto, l’impudenza della IAAF, le colpe dei media e i conti che non tornano. L'intervista di Sarah Franzosini del 7.07.2017 su salto.bz: 

Professor Donati, le e-mail hackerate dai russi di “Fancy Bear” che sembrano aver svelato il cosiddetto trappolone in cui è caduto il suo protetto, Alex Schwazer, danno nuova linfa alla vostra instancabile ricerca della verità, qual è stata la sua reazione quando ha letto il contenuto di questa corrispondenza?

«Mi piacerebbe innanzitutto capire quanto è stato difficile per i media reperire queste e-mail».

Non lo è stato affatto.

«Ecco, sono sicuro che i giornali che le hanno ricevute si siano autocensurati perché è piuttosto singolare che non siano state ancora pubblicate su larga scala. Ma ciò non mi stupisce».

Che intende?

«Il giornalismo sportivo è del tutto satellitare alle istituzioni sportive. Ricordo che la Gazzetta dello Sport fu invece la prima a dare la notizia della sentenza del TAS di Losanna che comminò a Schwazer 8 anni di squalifica, trattando quella sentenza come l’oro colato mentre sul Corriere della Sera, lo stesso giorno, venne pubblicato un articolo che quantomeno evidenziava i punti oscuri della vicenda ai quali la sentenza non aveva dato risposta. Il punto è che chi questa manipolazione l’ha attuata la difende, mentre le Istituzioni sportive che non l’hanno messa in pratica difendono la IAAF, per tutelare loro stessi e il sistema sportivo, e qui sta la perversione».

Cosa rappresentano queste e-mail in termini di strategia difensiva, a questo punto?

«Senza dubbio un contributo nuovo. Intanto mettono in evidenza questo affannoso assemblaggio delle forze che la IAAF ha attuato - probabilmente anche con un forte intervento della WADA - per poter fare pressione sul laboratorio di Colonia perché le provette con l’urina di Schwazer rimanessero dov’erano, e credo che questo genererà nei giudici una pessima impressione su tali organismi. È chiaro che se verrà fuori che c’è stata una manipolazione dei campioni, l’intero sistema antidoping andrà in crisi. Il punto è che chi questa manipolazione l’ha attuata la difende, mentre le Istituzioni sportive che non l’hanno messa in pratica difendono la IAAF, per tutelare loro stessi e il sistema sportivo, e qui sta la perversione. Quando gli stessi avvocati della IAAF riconoscono nelle email che con quelle prove a disposizione non è possibile dimostrare il doping volontario siamo già di fronte a un’ammissione che stride in maniera incredibile con quegli 8 anni di squalifica che sono stati dati a Schwazer. E poi c’è quel nome, che non è un nome qualunque»

Si riferisce a Luciano Barra, presumo. Ma che ruolo ha avuto lui in tutta questa storia?

«Barra è stato il segretario generale della Federazione di atletica negli anni ’70-’80, fino al 1987, quando venne sollevato dal suo incarico proprio in seguito alla mia denuncia riguardo la manipolazione della gara di salto in lungo di Giovanni Evangelisti nel campionato del mondo di atletica del 1987 di Roma. In quella circostanza la Federazione di atletica decise che bisognava, come dire, rimpinguare il bottino dei trofei inventandosi delle medaglie. Evangelisti (peraltro all’oscuro della trama) era un grande campione ma quel giorno non era nelle condizioni fisiche di offrire una prestazione di alto livello. La competizione venne quindi truccata, con i giudici che decisero la misura da assegnare a Evangelisti in modo che vincesse la medaglia di bronzo senza disturbare il primo posto, che fu conquistato dall’americano Carl Lewis, e il secondo, agguantato dal sovietico Robert Emmyan. Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, dunque, non erano state toccate e l’Italia si era “accontentata” di occupare il terzo posto. Io denunciai e dimostrai l’avvenuta manipolazione della gara e ne nacque uno scandalo internazionale di gigantesche proporzioni. La Federazione internazionale fu costretta ad annullare il risultato, il Coni nominò una commissione d’inchiesta e Barra perse il suo incarico e quindi anche la sua posizione di potere all’interno della Federazione. Anche se è passato molto tempo da allora, è evidente dai fatti che questo signore nutre ancora risentimenti e motivi di rivalsa nei miei confronti»

Ritiene che l’ex segretario della Fidal sia stato un interlocutore abituale nella vicenda Schwazer?

«Sì, è chiaro dalla serie di atti ostili diretti a Schwazer che ha esplicitato dal settembre 2015 fino all’aprile 2016 e credo che la sua opinione sia stata tenuta in grande considerazione in determinati ambienti. Il suo nome nella e-mail, se non sarà smentito o spiegato adeguatamente, diventa inquietante perché, come detto, Barra si era speso molto per impedire in tutti i modi possibili il ritorno alle gare di Schwazer. All’inizio aveva parlato di un’operazione di marketing, successivamente, una volta fatto fare ad Alex un test di allenamento in cui era andato fortissimo, vestì i panni del tecnico e divulgò urbi et orbi alcuni fotogrammi per dimostrare che Schwazer non marciava ma correva, salvo poi essere smentito dai fatti, quando Alex tornò da dominatore nelle gare con una tecnica di marcia valutata dai giudici come perfetta. E poi ancora Barra è intervenuto il 28 aprile 2016 presso il presidente della Fidal supplicandolo di non mettere l’atleta in squadra per i campionati del mondo. Quali elementi a sua conoscenza gli consentivano di attuare una simile pressione?» 

Come commenta questa insinuazione, poi di fatto depennata dalle carte ufficiali, della sua presunta connessione con i carabinieri?

«È grottesco e gli stessi avvocati della IAAF hanno avuto poi il buonsenso di ometterla nella loro memoria indirizzata al giudice. Quanto all’altra insinuazione secondo la quale i Carabinieri sarebbero pronti ad aiutarlo in quanto ex carabiniere è piuttosto penosa e dimostra anche un’ignoranza crassa dei fatti. Ricordiamoci che Schwazer è stato immediatamente allontanato dall’Arma dopo la positività all’epo del 2012. Mentre altri atleti che hanno avuto problemi di doping, come per esempio il maratoneta Alberico Di Cecco, sono rimasti carabinieri. Se questa è una dimostrazione di favoritismo… L’impressione è quella di un’istituzione sportiva autoreferenziale, abituata a decidere per conto proprio con i cosiddetti organi di giustizia sportiva che in molti casi è assolutamente sommaria e che quando si deve misurare con la giustizia ordinaria mostra insofferenza, volontà di sottrarsi al giudizio, ritenendosi al di sopra o al di fuori di quel circuito».

Come se ne esce, allora?

«Credo che su questi organismi sia il caso di riflettere anche perché, muovendosi su scala internazionale, rischiano di porsi al di sopra degli ordinamenti giudiziari degli Stati. È indicativo che nel presentare le loro argomentazioni la IAAF abbia scritto qualcosa come “le provette sono di nostra proprietà, inoltre è il sistema sportivo che ha le competenze per fare le valutazioni del caso”, omettendo di precisare che quelle competenze se le sono auto-attribuite. Sarò ancora più chiaro: i laboratori antidoping, che sono 25 in tutto il mondo, hanno competenza specifica per ricercare le sostanze doping. Ma nel caso Schwazer si tratta di analizzare il DNA, che è un’altra cosa. E il DNA non è compreso nelle ricerche dei controlli antidoping, salvo rarissimi casi, perciò vantare la competenza esclusiva anche su questo aspetto è un’affermazione autoreferenziale che non ha alcun riscontro con la realtà. Al contrario, nei laboratori delle forze di polizia impegnati come sono nelle analisi relative a fatti criminali, l’esame del DNA è una consuetudine consolidata. È chiaro dunque che il gip di Bolzano si sia rivolto al Ris di Parma che è il principale laboratorio italiano per l’accertamento di fatti criminali. Tornerò prima o poi sul mio passato rapporto con la WADA, perché se pensano che sia finita qui si sbagliano di grosso».

Ma il laboratorio di Colonia non aveva nessuno motivo per opporsi all’esame del DNA delle provette in Italia, non è così?

«Non ne aveva. E di fatto inizialmente Colonia non si è espressa contro un eventuale prelevamento dei campioni. Ciò significa, a mio parere, che il laboratorio di Colonia è estraneo a qualsiasi manipolazione ma nel contempo è diventata sciaguratamente allarmante questa pressione eseguita dalla IAAF. Va anche precisato che il laboratorio non è in una posizione di autonomia finanziaria sia perché dipende dal lavoro che gli viene commissionato proprio dalle federazioni internazionali, sia perché è coordinato e finanziato dalla WADA. Quella di Schwazer è una storia emblematica che fa capire che l’antidoping non è ormai più un’attività da portare avanti per il senso dell’etica e delle regole, ma è potere, e a seconda di come questo potere viene gestito si favorisce l’uno o l’altro, e si ‘eliminano’ a piacimento gli avversari scomodi. In ogni caso, vede, io tornerò prima o poi sul mio passato rapporto con la WADA, perché se pensano che sia finita qui si sbagliano di grosso»

Cioè?

«Fornirò tutti i dettagli su ciò che io ho fatto in 13 anni per la WADA e sul fatto che improvvisamente l’Agenzia abbia preso le distanze da me e allora la storia la racconteremo tutta, ma adesso non è il momento perché dobbiamo portare avanti la nostra battaglia per la verità»

Come ha vissuto quest’ultimo anno?

«In modo terribile, essere vittime di un atto infame come questo è orrendo. Molti dimenticano che è la seconda volta che vengo coinvolto in uno “strano” caso di doping. Nel 1998 una mia atleta, Anna Maria Di Terlizzi, fu dichiarata positiva alla caffeina, positività che venne contraddetta nelle controanalisi. E fu smentita solo perché alcuni tecnici di laboratorio mi avvertirono di una possibile manomissione del campione di urina e mi dissero di nominare per la controanalisi un chimico che non si allontanasse mai dalle apparecchiature. Il risultato che emerse fu clamoroso: non c’era caffeina nel campione B dell’atleta».

Basta avere un po’ di memoria storica per collegare i fatti, dice.

«Esatto. Non è strano che l’unico caso, nella storia dell’antidoping, in cui ci si è trovati di fronte a un campione B risultato diverso dal campione A perché manipolato, abbia riguardato me? E che per la seconda volta, con l’oscuro caso Schwazer, capiti di nuovo proprio a me? Pensi che il caso di Anna Maria Di Terlizzi vorrebbero derubricarlo a un incidente, cercando di accreditare la tesi secondo la quale il medico durante il prelievo abbia involontariamente contaminato un campione. Guarda caso il campione di un’atleta allenata dalla persona che aveva denunciato la scellerata collaborazione tra il CONI, le Federazioni sportive e il professor Conconi. Questa è l’arroganza della gestione del potere da parte dell’antidoping. Mi viene da pensare che ormai da tempo o forse da sempre i media non facciano il loro lavoro di osservazione critica delle istituzioni».

Non ha più allenato nessuno dopo Schwazer, come aveva annunciato lo scorso anno?

«No, per me non è possibile mettere a repentaglio la carriera sportiva di un altro atleta per il fatto che io sono stato preso di mira. Ma è chiaro che se la vicenda Schwazer si concluderà con l’emersione della verità cambieranno molte cose nel sistema antidoping».

Per esempio?

«Farò capire a tutti gli atleti che devono tutelarsi, hanno diritto ad avere una terza provetta che poi potranno consegnare a un laboratorio di loro fiducia, perché ora è tutto nelle mani di questo potere dell’antidoping che evidentemente non dà alcuna garanzia assoluta di correttezza una volta prelevati i campioni. Quella della IAAF è la storia recente di un presidente e di un responsabile antidoping a libro paga dei russi e anche da questo punto di vista i media dello sport hanno fatto una figura penosa».

Per quale motivo?

«Perché hanno omesso di raccontare o hanno minimizzato la descrizione di questo sistema di corruttela e le sue conseguenze. Hanno disgiunto il caso Schwazer dallo scandalo dell’alta dirigenza della IAAF corrotta dai russi e allora mi chiedo, il problema sono i russi o le istituzioni corrotte? Questo è il punto di vista sul quale ho fatto ruotare tutta la mia vita, perché fin dall’inizio mi sono reso conto del marcio che c’era nel sistema. Ma anche di questo parlerò in futuro. Mi viene da pensare che ormai da tempo o forse da sempre i media non facciano il loro lavoro di osservazione critica delle istituzioni, e se questo cerca di farlo una singola persona succede che viene bersagliata e si tenta di distruggerla anche sul piano della credibilità, come dimostra la vicenda Schwazer. Ma hanno sottovalutato il fatto che io non avrei mollato la presa. Del resto avevo in mano tutti gli elementi chiave per essere certo che Alex non si era dopato, non ne aveva bisogno, perché è un fuoriclasse e perché era ben allenato. È uscito sempre pulito da quella miriade di controlli a sorpresa che gli hanno fatto da ottobre 2015 a giugno 2016; perché mai avrebbe preso micro-dosi di testosterone, ininfluenti ai fini della prestazione, solo durante le vacanze di Natale? Chiunque avrebbe dovuto capire dall’inizio che questa storia non reggeva. Alex per me non è stato una gallina dalle uova d’oro, è un ragazzo che mi ha chiesto aiuto e io gliel’ho fornito e continuerò a fornirglielo in futuro se ne avrà necessità».

Vede finalmente una possibilità di riscatto per Schwazer?

«Me lo auguro. Alex è un ragazzo meraviglioso che nel 2012 ha commesso un errore e questo gli rimane come responsabilità. Ma c’erano anche molte persone intorno a lui che sapevano e hanno fatto finta di non vedere, tant’è vero che a Bolzano è in corso un procedimento giudiziario in cui due medici sono imputati per favoreggiamento. Schwazer si è dopato in un periodo in cui era sotto cura con degli anti-depressivi e invece di preoccuparsi di capire le cause di questo suo disagio chi gli stava attorno ha continuato a vederlo soltanto come un produttore di risultati e medaglie. Ho scoperto poi, seguendolo come allenatore, che era stato allenato in maniera ridicola ed era peggiorato al punto da perdere ogni speranza. Nel momento in cui ho iniziato a seguire questo atleta ho capito che aveva un potenziale e delle doti fuori dal comune. Alex per me non è stato una gallina dalle uova d’oro, è un ragazzo che mi ha chiesto aiuto e io gliel’ho fornito e continuerò a fornirglielo in futuro se ne avrà necessità. Il colmo è che io stesso ho segnalato alla WADA i miei sospetti su di lui prima di Londra 2012 con due precise email che sono in grado di esibire in qualsiasi momento. E grazie a queste due mail è scattato il controllo che ha portato alla sua positività. Non bastava questa credenziale per ascoltare almeno un poco le mie parole quando, dopo l’ultimo scandalo, ho affermato con forza che era pulito e che in questa putrida storia si sarebbe dovuto scavare molto più a fondo?»

Io mi schiero con Alex. Schwazer ha avuto il coraggio di cadere e di risorgere con le proprie forze. Ecco perché non crederò mai alla sua nuova colpevolezza, scrive Susanna Tamaro il 15 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sono stata una praticante di atletica e l’atletica, fra tutti gli sport, è forse quello che seguo con maggiore passione, per questo la vicenda di Alex Schwazer mi ha colpito in modo particolare. Ricordo ancora le sue lacrime durante la conferenza stampa del 2012, mentre ammetteva pubblicamente la sua colpevolezza. Vedendole avevo pensato subito che quelle lacrime non avevano nulla di mediatico, c’era una vera disperazione in quei singhiozzi fuori controllo, la disperazione di chi si rende conto di aver tradito la parte più profonda e vera di se stesso. La parabola di Alex era quella di un ragazzo onestamente fragile. Aveva vinto l’oro olimpico a ventiquattro anni, con il conseguente peso di un’improvvisa fama mondiale. Non è facile reggere la fama, bisogna essere molto forti, molto distaccati, circondati da persone che ti amano e sono in grado di proteggerti, ed è molto difficile esserlo a ventiquattro anni. La tensione dei media, gli sponsor, la continua attesa di un risultato sempre eclatante possono provocare in una persona sensibile uno stato di enorme stress. E con lo stress cresce l’ansia. L’ansia di non farcela, di non essere all’altezza. Ed è su quest’ansia che facilmente si insinuano i cattivi consiglieri. Quattro anni fa Alex Schwazer dunque ha sbagliato per ragioni umanissime. Ammesso il suo errore, si è ritirato con dignità dalla scena pubblica. In quel silenzio, in quell’ombra deve aver sceso tutti i gradini della dannazione; toccato l’ultimo, ha preso la decisione che solo i grandi sono capaci di prendere: la sfida di risalire contando solo sulle proprie forze. Sono stata felice quando ho saputo che si allenava anonimamente per le strade di Roma, in solitaria, senza sponsor, carico solo del grande furore che alimenta le sfide con se stessi. E sono stata ancora più felice quando, ai Mondiali a squadra di marcia del 2016, ha vinto la 50 chilometri, ottenendo la qualificazione per i giochi olimpici di Rio.  In questi tempi proni al cinismo, al menefreghismo, alle continue scorciatoie dell’opportunismo, in questi tempi che sbeffeggiano ormai anche il minimo barlume di coscienza e che ritengono la nobiltà d’animo nient’altro che un antico orpello, la parabola di Alex Schwazer era un meraviglioso esempio di come una persona degna di questo nome potesse essere in grado di cadere e di risorgere facendo leva soltanto sulla sua forza d’animo. Per questa ragione, quando è stata sventolata sotto gli occhi avidi dei media quella anomala provetta giramondo — che vorrebbe ributtare l’atleta nell’arena del lerciume — ho avuto una reazione di assoluto rifiuto. Non per Schwazer, ma per il mondo sordidamente sinistro che sta cercando di fagocitarlo, un mondo senza scrupoli legato evidentemente a una complessità di interessi molto lontani dall’appassionato candore dell’atleta. E i media ci si sono tuffati con la potenza degli avvoltoi, il becco uncinato già pronto a dilaniare le carni. Avete visto? Anche questo non era altro che un bluff, fumo negli occhi per coprire tutto il marcio che c’era sotto. Vi eravate illusi che ci fossero le persone per bene? Ricredetevi! Non c’è altro che finzione sotto il sole! Grazie alle provette, grazie alle intercettazioni, tutti prima o poi sono costretti a mostrare il loro vero volto, che altro non è che quello della corruzione. Vite distrutte, carriere rovinate, con il conseguente dilagare ormai inarrestabile dell’impoverimento delle competenze in ogni campo. Nel nostro Paese, l’essere appassionati alla propria vocazione è una condizione estremamente rischiosa. Più energia uno mette nella propria attività infatti, meno ne mette negli intrallazzi, e quando si accorge di questa grave carenza è spesso troppo tardi perché, intanto, coloro che appassionati e talentuosi non sono hanno lavorato alacremente con un unico scopo, quello di fare cadere l’incauto distratto. Questa consorteria comprende in sé un’estesissima varietà che va dal mediocre vicino di scrivania fino alle grandi organizzazioni opache che ormai controllano capillarmente tutto ciò che succede nel mondo. Penso, tanto per citare qualche esempio recente, al vergognoso caso della virologa Ilaria Capua, accusata di essere una trafficante di virus per biechi motivi commerciali, vituperata, insultata sui giornali, per poi venire, dopo due lunghi anni, totalmente assolta. Naturalmente la lista di vittime è lunga e nei tempi a venire — in questo mondo che non sa che cosa sia la giustizia ma è sempre più giustizialista — diventerà lunghissima. I forni manzoniani mediatici forniranno sempre nuovo e più attraente materiale da gettare in pasto agli affamati cultori del disgusto. Perché Alex avrebbe dovuto fare una cosa così idiota? Personalmente non crederò alla nuova colpevolezza di Schwazer neanche se mi si sventolasse sotto il naso un ettolitro di sangue in provetta sfavillante di testosterone. Per quale ragione una persona come lui, che avuto il coraggio di cadere e di risorgere, avrebbe dovuto fare una cosa così totalmente idiota? So che ormai è una cosa piuttosto fastidiosa da dire, ma esiste una complessità della persona e dunque, se vogliamo usare una parola grossa, dell’anima, che non è piegabile all’onnipotente forza del rendiconto, della doppiezza, della manipolazione. Da questa complessità nascono la poesia, la letteratura, l’arte. Da questa stessa complessità nascono gli eroi. E gli atleti — quando sono tali — appartengono nel nostro immaginario proprio a questa categoria. Di solito non twitto, se non con i miei canarini, ma per gli appassionati del genere sono pronta a lanciare un hashtag: #IostoconAlex.

Atletica e doping, quelle telefonate per fermare Schwazer. "Lasci vincere i cinesi". Verso Rio 2016. Prima delle gare, pressioni sul marciatore poi sospeso. Sandro Donati registrò tutto: "Era un giudice vicino ai Damilano". La procura di Roma ha aperto un fascicolo, scrive Attilio Bolzoni il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". I Misteri del "caso Schwazer" non si inseguono solo lungo i tortuosi percorsi che portano una provetta nei laboratori di Colonia. Alla vigilia delle Olimpiadi di Riosi scopre che qualcuno ha tentato di "aggiustare" due gare molto importanti, la Coppa del Mondo di Roma dell'8 maggio e il Gran Premio di La Coruna di venti giorni dopo. Quel qualcuno è un giudice internazionale di marcia. Le paure denunciate due settimane fa dal maestro dello sport Sandro Donati ("Sono minacciato, temo per me e anche per la mia famiglia") intorno alla nuova e assai sospetta "positività" di Alex Schwazer e alle manovre di "consorterie criminali " legate ad alcuni dirigenti della Federazione Internazionale di Atletica, prendono forma in alcune telefonate che sono state segnalate all'autorità giudiziaria e alla commissione parlamentare antimafia. Sono due conversazioni in particolare, ricevute da Donati e nelle quali il suo interlocutore - un personaggio molto noto nel mondo dello sport - lo "consigliava" di tenere a freno il suo atleta nelle competizioni dove sarebbe ricomparso dopo la lunga squalifica per il doping all'Epo del 2012. La prima è del 7 maggio scorso, a poche ore dalla Coppa del mondo di marcia di Roma sui 50 chilometri. Sono le 6,05 del mattino. Donati sta dormendo, lo squillo del telefono lo sveglia. Sente la voce di un giudice internazionale di marcia "molto vicino a Sandro Damilano". L'uomo si scusa per l'ora, parla della serata precedente passata "con tutte le vecchie glorie" poi gli sussurra: "La prego, glielo dica (ad Alex Schwazer, ndr) ancora una volta fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?". Jared Tallent è il marciatore australiano che appena un paio di settimane prima - il 28 aprile, giorno della fine della squalifica di Schwazer, aveva dichiarato: "Lui è la vergogna d'Italia, ora rientra lui e poi i russi: così è come ridere in faccia agli atleti puliti". Il giorno dopo la telefonata mattutina - e dopo 3 anni e 9 mesi di squalifica - Alex Schwazer trionfa alle Terme di Caracalla. Seconda prestazione mondiale stagionale con 3h39'00, dietro di lui Tallent a più di tre minuti e mezzo. La seconda telefonata ricevuta da Sandro Donati è del 23 maggio, cinque giorni prima della gara di La Coruna sui 20 chilometri. È sempre lo stesso giudice internazionale di marcia che richiama l'allenatore di Schwazer. Questa volta gli suggerisce di non rispondere agli attacchi di alcuni atleti, "e di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 minuti...". A La Coruna il marciatore altoatesino arriverà secondo dietro il cinese Whang Zhen. Avvertimenti e pressioni. C'era molta agitazione intorno al rientro alle gare di Schwazer e ce n'è ancora di più oggi dopo la scoperta - comunicata solo il 21 giugno - di una nuova positività a "lievi tracce di testosterone". Un campione di urina partito il 1° gennaio 2016 da Racines - a pochi chilometri da Vipiteno, dove l'atleta abita - e arrivato 26 ore dopo in un laboratorio di Colonia. Un itinerario fantasma della provetta, una documentazione approssimativa, un ritardo estremo nella notifica del risultato. E una difesa incomprensibilmente negata ad oltranza dalla Federazione internazionale di atletica. Alex Schwazer e i suoi avvocati non hanno mai potuto discolparsi davanti ai giudici, fornire controprove, rappresentare le proprie ragioni. Lo faranno soltanto il 4 agosto prossimo a Rio, luogo e data imposti dalla stessa Federazione Internazionale di Atletica che si è sottratta all'udienza che si sarebbe dovuta svolgere a Losanna proprio oggi. Un processo senza processo. Un vero intrigo, per i tempi e le modalità di esecuzione. Che ha convinto la presidente della commissione antimafia Rosi Bindi a convocare il 14 luglio scorso Sandro Donati a Palazzo San Macuto - audizione integralmente secretata - e che ha portato lo stesso allenatore di Schwazer a presentarsi qualche ora dopo nelle stanze del procuratore capo Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Lucia Lotti. Aperto un fascicolo. Ma non sono soltanto quelle due telefonate a rendere maleodorante questa vicenda di sport che si presenta ogni giorno di più come una storia di malaffare, incrocio fra interessi economici e criminali tenuti insieme da una piccola grande Cupola di burocrati e faccendieri. È lo spaccato di un mondo che alla vigilia delle Olimpiadi di Rio vi racconterà Repubblica in un documentario dal titolo Operazione Schwazer, le trame dei signori del doping, 20 minuti che ricostruiscono tutte le stranezze del controllo di Capodanno effettuato a Racines, il fondo melmoso dove si muovono alcuni personaggi dell'atletica italiana, i clamorosi casi di corruzione che coinvolgono i loro amici che erano ai vertici della federazione internazionale. E poi medici "supervisori" per l'antidoping sotto processo per avere favorito il doping, data-base con i nomi di tutti quelli in fila alla farmacia proibita, clan familiari dove spudoratamente si ritrovano controllori e controllati. Maurizio Damilano, presidente della commissione marcia della Iaaf. Sandro Damilano, allenatore della nazionale cinese. Due fratelli.

Atletica, caso Schwazer; Donati: "Dal mondo dello sport un silenzio assordante". L'allenatore del marciatore altoatesino è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera. Il precedente: "Diciannove anni fa seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Tas: "L'atleta ha il 20% di chance di andare a Rio", scrive "La Repubblica" il 14 luglio 2016. Sandro Donati va all'attacco. Il tecnico di Alex Schwazer, coinvolto nel noto caso di doping e sospeso dalla Federazione internazionale di atletica leggera, è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera dei Deputati. Al termine le sue parole sono dure: "Il sostegno è venuto dalle procure della Repubblica e dalla Commissione parlamentare antimafia, ma sul caso Schwazer dalle istituzioni sportive ho sentito un silenzio assordante o ironie di pessimo gusto. Schwazer è stato descritto come un bipolare, un uomo dalla doppia personalità. Io lo conosco da oltre un anno e chi lo frequenta lo trova un ragazzo semplice, coerente, che non ha nulla di strano, eppure è stato creato un quadretto: 'Se lo ha fatto in passato lo avrà fatto di nuovo'. In questo modo si cerca di coprire l'enormità di questo controllo antidoping assurdo, con una tempistica che da sola rappresenta la firma dell'agguato". Donati ha poi replicato a chi gli chiedeva perché le istituzioni sportive italiane non difendano Schwazer: "Perché non vogliono mettersi contro la Iaaf -ha spiegato- una istituzione internazionale. Mi sono rivolto pubblicamente a Sebastian Coe affinché dia una spallata per il cambiamento: non può lasciare all'interno gente compromessa, gente che ha preso dei soldi per nascondere i casi di doping. Io con questa schifezza non ho niente a che vedere e invece mi ritrovo mail intimidatorie: non mi rendevo conto che allenare Schwazer, un fenomeno assoluto, farlo andare così forte senza doping sarebbe diventata una esperienza esplosiva, destabilizzante. Una iniziativa rivoluzionaria che è stata stroncata". L'iniziativa parlamentare nasce da un vasto gruppo di deputati e senatori che vogliono appurare "la veridicità delle affermazioni rese a mezzo stampa dal professor Donati circa la sequela di minacce, intimidazioni e diffamazioni ricevute telefonicamente, via mail e attraverso alcuni media, prima e dopo la gara di Schwazer del 9 maggio scorso, e successivamente all'avvio della segnalazione alla Wada". In merito anche i Ros hanno aperto un'indagine. "Credo ci sia un interesse di più procure sull'argomento - ha aggiunto Donati - Tutti hanno ormai capito il fatto inusitato su una positività a un controllo fatto a gennaio, una sorta di bomba a orologeria riscossa a giugno. Tutto ciò è assurdo. Per me è il secondo agguato perché ne ho subito un altro 19 anni fa quando seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Schwazer spera ancora di partecipare all'Olimpiade di Rio ma è una corsa contro il tempo vista la sospensione inflittagli dalla Iaaf. "Abbiamo incaricato un avvocato svizzero per il ricorso al Tas di Losanna, ci ritroveremo con un dossier nostro che arriva stamattina - ha concluso Donati - e verrà esaminato tra oggi e domani da qualcuno in fretta e furia. Quello sarà il giudizio sul quale si deciderà la sorte di un grande campione". "Il professore Donati ci ha raccontato il lavoro fatto in questi anni ed è emerso un quadro abbastanza imbarazzante. Ci ha parlato molto marginalmente della vicenda Schwazer: il punto non è la nuova squalifica ma il modo in cui questa vicenda si inserisce in un contesto assai opaco, ambiguo, vischioso. Di questo è bene farsi carico". Queste le parole del vicepresidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava, al termine dell'audizione. "Ci sono molti elementi di opacità in questa vicenda - ha aggiunto Fava - Non solo in Italia. Curvature strane che sfuggono alla nostra comprensione. Oltretutto ci sembra che la vicenda Schwazer possa essere un pedaggio che sta pagando Donati per il lavoro e le denunce fatte nel tempo. Oggi abbiamo ascoltato Alessandro Donati, ora parleremo della vicenda doping in ufficio di presidenza e ragioneremo su quanto può essere fatto - aggiunge Fava - Penso ci siano funzioni e cariche che possono occuparsene: dal ministro della Giustizia a quello della Cultura e delle attività sportive, alla Sanità. E' una questione trasversale che attraversa più campi di interesse, funzioni e responsabilità: occorre uno sguardo più attento e vigile". "Non sembra ci sia criminalità organizzata dietro tutto questo - ha aggiunto Fava - Sembra ci siano invece poteri forti, interessi e menzogne nel modo con cui le inchieste di doping vengono usate per premiare o per colpire: questo è un sospetto più che legittimo e sul quale occorre muoversi sul piano istituzionale. Il problema del doping è un tema che pesa come una cappa, che ricatta, costringe, occlude e condiziona il mondo dello sport, non soltanto nel nostro Paese. Ci sono organismi internazionali che possono farsene carico, ma per quanto riguarda il Coni, la Procura antidoping e la vicenda degli atleti italiani c'è una responsabilità e un dovere di vigilanza". "Io penso che per Schwazer ci siano poche possibilità che il Tas decida di bloccare la sospensione della Iaaf e lo faccia gareggiare a Rio. Se devo dare una percentuale direi non più del 20%". Lo ha dichiarato l'avvocato Guido Valori, membro del Tas. "Il giudice - spiega Valori - dovrà decidere tra due pesi differenti. Da una parte c'è una positività che ha un peso enorme e dall'altra ci sono una serie di irregolarità procedurali. Penso sia difficile che il Tas ritenga che i vizi di procedura abbiano invalidato il controllo risultato positivo, onestamente è una ricostruzione difficile da fare anche per il poco tempo a disposizione. La difesa ha qualche punto a suo favore e tra questi c'è sicuramente il mancato rispetto dell'anonimato ma mi sembrano pochi per far gareggiare un atleta positivo e che oltretutto ha anche grandi possibilità di vittoria. C'è poi il forte rischio di dovergli togliere la medaglia. Per essere chiari per bloccare la sospensiva decisa dalla Iaaf, Schwazer dovrebbe avere buone possibilità di vincere poi il processo che ci sarà dopo l'estate" conclude il membro Tas. 

Caso Schwazer, quelle strane provette e il 5 luglio è vicino. In cinque punti, tutti i misteri sul caso in attesa delle risposte della Iaaf. Fra 7 giorni le controanalisi, l'11 luglio scade il termine di iscrizione per i Giochi, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 28 Giugno 2016. Quello che si sta muovendo attorno alla Procura di Bolzano comincia a dare qualche elemento in più sulla vicenda Schwazer e i dubbi invece di scemare purtroppo aumentano. Riepiloghiamo alcuni di questi elementi.

1 - Un prelievo di urina da parte di due Doping Control Officers tedeschi il 1° gennaio finito alle 8.35 di mattina a Calice di Racines finisce con le provette portate a destinazione quando il laboratorio antidoping di Colonia è chiuso per festività e dunque rimangono nell'ufficio degli ispettori dalle ore 15 fino alle 6 di mattina del giorno seguente. Che succede in quelle 15 ore? Come mai, inoltre, contrariamente alla prassi quel giorno Schwazer è l'unico atleta controllato?

2 - Correttamente viene indicato il nome del luogo del prelievo sul formulario, ma perché tale dato arriva al laboratorio di Colonia? Come si può garantire l’anonimato in queste condizioni, dato che a Racines abita un solo atleta? 

3 - La negatività del test viene pubblicizzata sul sistema Adams e dopo due ulteriori prelievi (24 gennaio e 1 febbraio) il profilo ormonale è completato, eppure per un paio di mesi nulla si muove e solo il 14 aprile arriva l’ordine al laboratorio di Colonia di effettuare il test IRMS. Il 13 maggio viene comunicato alla IAAF che il test ha dato esito positivo stabilendo la presenza di 2 metaboliti del testosterone sintetico. Perché la IAAF aspetta fino al 21 giugno a dare la notizia della positività e perché rifiuta di anticipare le controanalisi previste per il 5 luglio sapendo che l’11 si chiudono le iscrizioni per le Olimpiadi? 

4 - Alla obiezione che un paio di metaboliti del testosterone sintetico non bastano a giustificare un’attività dopante l'accusa potrebbe rispondere tirando in ballo le cosiddette microdosi, ma allora perché negli altri 14 test antidoping non c'è traccia della sostanza? 

5 - Si può escludere che un set di provette possa essere preventivamente contaminato di metaboliti del testosterone sintetico se la stessa Azienda che li produce (Berlinger) in un comunicato del mese scorso riconosce (a proposito della denuncia di Grigory Rodchenkov della Rusada sulla manipolazione di provette alle Olimpiadi di Sochi) che “il caso è la prova di un atto criminale condotto da professionisti, pianificato dietro le quinte, con un coinvolgimento dei Servizi Segreti Russi, che ha implicazioni non solo sulle provette, ma anche sull'intera catena di custodia e procedure collegate”? 

Vedremo se la risposta della IAAF alla memoria difensiva dei legali di Schwazer darà risposte a queste domande. La beffa finale sarebbero delle scuse per un test antidoping invalido per vizio procedurale, riconosciuto tale quando i termini di iscrizione alle Olimpiadi saranno già scaduti. Alla buona fede della IAAF non crederebbe nessuno e dopo essere stata decapitata dei vertici che mercanteggiavano sull’antidoping non potrebbe sopportare un altro colpo mortale alla sua credibilità.

Caso Schwazer: la Iaaf, i sospetti e i chiarimenti attesi. Procedure insolite e un accanimento anomalo sul marciatore altoatesino, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 24 Giugno 2016. Schierati e divisi: i media italiani -a volte anche testate dello stesso gruppo editoriale- hanno posizioni molto diverse sul caso Schwazer. C'è chi ipotizza un disturbo bipolare della personalità del marciatore altoatesino, dando per scontata la trasparenza della procedura antidoping utilizzata nei suoi confronti. C’è chi invece ha seri dubbi su quest’ultima. Se infatti, come trapela dalla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica, il ricontrollo della provetta incriminata di urina è avvenuto per un automatismo del sistema informatico antidoping, perché allora -si chiedono costoro- a differenza di ogni altro campione d’urina testato in pochi minuti al momento del prelievo quello del marciatore viene invece lavorato per tre giorni? E perché viene di nuovo analizzato quattro mesi dopo senza la presenza di un prelievo fatto in competizione da incrociare? Ad aprile infatti Schwazer non era ancora tornato a gareggiare. Dunque il minimo che si può dire è che la procedura sia stata oggettivamente anomala. Tanto accanimento poi autorizza sospetti se la Iaaf è la stessa che delega il controllo antidoping della gara dell'altoatesino a Roma proprio al medico indagato dalla Procura di Bolzano per il caso Schwazer. Insomma sia in caso di innocenza che di colpevolezza la Iaaf deve comunque spiegare perché Alex sia stato trattato in modo anomalo rispetto alla procedura standard. Senza chiarimenti ogni sospetto è autorizzato, specie per una Iaaf già pesantemente screditata in questi mesi da corruzioni e scandali anche sull'antidoping.

La conferenza stampa, scrive Ezio Azzollini il 22 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. La Conferenza Stampa di Alex Schwazer e del suo avvocato e di Sandro Donati in merito al nuovo scandalo legato al doping che ha coinvolto il marciatore italiano.

PER IL LEGALE NON C’E’ COINVOLGIMENTO – Ecco le parole dell’Avvocato di Alex Schwazer: “Notizia incredibile, impossibile, devastante, che non possiamo accettare. Alex con questa vicenda non ha nulla a che vedere, nessuna responsabilità. Noi adesso cercheremo di acclarare la verità anche per un interesse di giustizia. Per noi inconcepibile tutta la vicenda, strano che una prova che a gennaio era negativa, 5 giorni dopo che Alex vince a Roma, venga riaperta e classificata positiva a sostanze anabolizzanti che nulla hanno a che vedere con uno sport di resistenza. C’era una pressione enorme, a causa di chi ostacolava il rientro di Alex alle competizioni: vicenda brutta e sporca, faremo una denuncia penale contro ignoti. Alex spera ancora e confida di poter andare alle olimpiadi, e Donati spiegherà quale è stato negli ultimi due anni il percorso olimpico trasparente. Alex ha segnalato alla Wada di essere disponibile ai controlli 24 ore su 24, e i controlli sono stati tantissimi. Vedere a 4 mesi dal 1 gennaio, dopo un controllo negativo, vedersi confutato un test positivo agli anabolizzanti ci lascia furiosi. Alex ha fatto un percorso esemplare, non può accettare di essere rimesso in discussione. Combatteremo con tutte le nostre forze. Ha sbagliato Alex, ma ha fatto un percorso di umiltà, di riabilitazione, non se lo merita, non pensavo che ci fossero tali prove di cattiveria umana.

LE DICHIARAZIONI DI SCHWAZER – “Sarò sintetico per non essere accusato di nuovo di fare teatro. Sono di nuovo qua a metterci la faccia per rispetto a chi mi è stato vicino. Ma stavolta non devo scusarmi perchè non ho fatto nessun errore. Da un anno e mezzo ho fatto il contrario dello sbagliare, allenandomi con Donati, per fare l’impossibile per dimostrare che il mio ritorno è pulito. Oggi non ci sarà nessuna scusa perchè non c’è nessun errore. Informato ieri di questa positività, è un incubo per me perchè è la peggiore cosa che poteva succedere, ma posso giurare che si andrà in fondo, perchè ho investito troppo in questo ritorno. So che molti non mi volevano alle Olimpiadi, così come non volevano che vincessi a Roma. Io so benissimo che un atleta già trovato positivo ha poca credibilità, so che per qualcuno le mie parole lasciano il tempo che trovano, ma a fianco a me c’è Donati, che ha impegnato una vita contro il doping, io spero che ci pensiate due volte prima di attaccare lui e altre persone che mi sono state di fianco.

LE PAROLE DI SANDRO DONATI – “Considerando il passato, Alex è l’identikit perfetto di chi disillude, tradisce, si dopa all’insaputa dell’allenatore. Quale pretesto migliore avrei avuto per lasciarlo adesso, per chiamarmene fuori? Ma io non lo farò mai. Con Alex abbiamo intrapreso un progetto unico al mondo. Abbiamo messo a disposizione delle istituzioni sportive più di trenta controlli presso la sanità pubblica, non abbiamo mai ricevuto risposta. La mancata risposta non è una volontà di mantenere l’ambiente pulito, ma una provocazione. Mi sono reso conto che l’atleta positivo per doping diventa la preda su cui il sistema sportivo può dimostrare la propria durezza e inflessibilità. Peccato che avvenga solo sui soggetti più deboli. Passava il tempo e mi rendevo conto che attiravo su Alex l’odio che hanno nei miei confronti per le mie battaglie. Ci vuole un bel fegato per far passare Alex come un soggetto anabolizzato, che avrebbe un braccio quanto due delle cosce di Schwazer. Se quell’urina avesse destato sospetti, avrebbero provveduto a fare immediatamente quello che invece hanno fatto mesi dopo. Forse aveva a che vedere con il risultato di Roma. Non serve che vi dica quanti dirigenti della Iaaf in passato sono stati sospesi per faccende legate alla compravendita di positività e negatività. Olimpiade? I tempi della giustizia sportiva appaiono rapidi rispetto alla giustizia ordinaria, ma sono tremendamente lenti per una preparazione che già sarà condizionata in maniera pesante. La settimana che ha preceduto i campionati del mondo è stata un calvario, hanno tentato di dimostrare che anzichè allenarsi Alex avesse sostenuto una gara, cosa contraria alla squalifica. E’ stata una settimana passata nell’angoscia che venisse fermato, anzi di vedersi reiterare la squalifica, una specie di profezia”.

I lati oscuri, scrive Andrea Corti il 24 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. Sono passate poco più di 24 ore dalla deflagrazione del caso riguardante Alex Schwazer: il marciatore altoatesino, rientrato trionfalmente alle gare a maggio dopo la squalifica per 3 anni e 9 mesi in seguito a una positività all’Epo nel 2012, non ha superato un controllo antidoping effettuato lo scorso 1 gennaio in seguito ad una nuova analisi di un campione che era stato inizialmente classificato come negativo. L’allenatore di Schwazer, da più di un anno a questa parte, è il Professor Alessandro Donati, il guru dell’antidoping italiano, che ha accettato di fare da garante nel percorso di Alex verso l’obiettivo dichiarato, quelle Olimpiadi di Rio per le quali un mese fa il marciatore aveva strappato il pass. Donati ha spiegato la sua opinione su questa spinosa vicenda a ‘Io gioco pulito’: “Il lato più oscuro è senza dubbio la tempistica, e la decisione di rianalizzare il campione. E’ un qualcosa di incredibile, perché il primo campione è stato analizzato dal più importante laboratorio antidoping, quello di Colonia. Ho studiato il report e il campione è stato sotto analisi per tre giorni: non parliamo dunque di un’analisi superficiale. Quel campione è stato giudicato negativo, al punto che la Iaaf lo ha inserito tra i vari documenti che le hanno poi permesso di dare l’ok al rientro di Schwazer alla Federatletica. A questo punto è subentrata una volontà esterna, che ha fatto riaprire questo campione e andare a cercare il pelo nell’uovo, ammesso che ci fosse visto che ciò che è emerso è un valore di testosterone bassissimo, di pochissimo superiore alla norma. Bisognerà chiarire anche altri lati oscuri, come anche la tempistica della fine delle analisi, avvenuta cinque giorni dopo la vittoria di Alex a Roma. Poi mi chiedo: perché questa analisi non è stata resa nota? Perché Fidal e federazione internazionale di atletica non sono state informate? Perché l’atleta continuava a gareggiare? Non posso poi parlare di altri lati oscuri, che saranno inseriti in una denuncia penale, per ora contro ignoti”. Poi Donati ha raccontato un retroscena relativo alle due gare a cui Schwazer ha partecipato nel mese di maggio, che gli hanno consentito di ottenere la qualificazione per le Olimpiadi: “Personaggi molto importanti con un ruolo importante mi hanno suggerito che sarebbe stato un bene che Schwazer a Roma avesse fatto vincere Tallent. Poi a La Coruna mi è stato detto che sarebbe stato bene non seguire l’attacco di due atleti cinesi. La persona che mi ha dato questi consigli la conosco: può darsi che abbia captato il clima dell’ambiente e giudicato inopportuno e pericoloso battere Tallent e il cinese. Nella peggiore delle ipotesi, invece, questa persona è stato un messaggero degli interessi di altri. Si tratta di una persona interna all’organizzazione italiana, ma tutti i particolari verranno inseriti nella denuncia. Interessi legati al mondo delle scommesse? Non credo nella maniera più assoluta. Ma un atleta come Schwazer, con un potenziale atletico enorme che ne farebbe l’uomo da battere a Rio e non solo nei 50 km, che subentra quando nessuno se lo aspettava sposta degli equilibri. E’ logico che ci siano interessi economici: dietro gli atleti ci sono contratti, allenatori e interi Paesi che investono dei soldi”. Ma Donati non vuole parlare di complotto: “Come carattere non faccio riferimento a complotti, anche quando subii un’imboscata ad Anna Maria Di Terlizzi nel 1997, quando l’urina di questa atleta fu manipolata in un controllo antidoping. Anche in questo caso non parlo di complotto, ma di una successione di avvenimenti inquietanti. Con queste tempistiche ci ritroviamo alla vigilia delle Olimpiadi con un atleta bombardato psicologicamente. Sono assolutamente convinto che Alex non sia colpevole: perché ce lo avevo sempre davanti e perché non aveva assolutamente nessun interesse ad assumere un dosaggio così ridicolo e minimo di un anabolizzante. Se si sceglie di prenderlo lo si fa in quantità decisamente superiori. Questo dosaggio minimo può derivare da varie situazioni. Non capisco perché ci sia stata questa grande attenzione, questo sforzo fatto all’esterno del laboratorio di Colonia. Dico che Colonia non ha lavorato da sola, c’è stata una ‘manina’, una volontà esterna che ha chiesto al laboratorio tedesco di rianalizzare un campione. Non so nemmeno se a Colonia sapessero che si trattativa di un campione precedentemente classificato come negativo”. Al termine dei mondiali di 50 km di marcia vinti da Schwazer a Roma l’8 maggio scorso Donati si era sfogato con i giornalisti presenti a Caracalla, assicurando di essere stato protagonista con l’atleta di una vera lotta contro l’odio: “Non parlavo a vanvera. Non si tratta di odio personale, ma di contrapposizione di interessi. Io da nostalgico vorrei delle istituzioni sportive che difendano la correttezza e le regole e che non facessero solo finta. D’altra parte si desidera che non venga disturbato il manovratore. E’ un odio che non ha nulla a che vedere con l’emotività di noi esseri umani”. Infine Donati ha voluto evidenziare un qualcosa che non si aspettava: “Con sorpresa ho notato che dei giornalisti che in passato hanno attaccato me e Schwazer anche pesantemente e in maniera cattiva hanno scritto manifestando la loro perplessità di fronte alla positività di Alex. Ciò mi ha fatto enormemente piacere e dimostra come in questa vicenda ci siano tanti, troppi, lati oscuri”.

Atletica, doping: Donati, un uomo contro tra polemiche e molti nemici. Sullo sfondo del caso Schwazer i rapporti tempestosi con la Iaaf e la Wada. Ieri il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, scrive il 23 giugno 2016 “La Gazzetta dello Sport”. Lo scontro fra Sandro Donati, la Wada e la Iaaf non nasce ora con la positività di Alex Schwazer al testosterone. Viene da lontano. Ieri, il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, citando il caso dell'ex presidente Lamine Diack e della sua famiglia, impegnati nella "truffa e compravendita di positività, insieme con l'ex capo dell'antidoping", alludendo a Gabriel Dollè, coinvolto anche lui nello scandalo russo su cui indaga anche la giustizia francese, mentre altri tre funzionari Iaaf sono stati di recente sospesi per aver avuto un ruolo nella corruzione. Sulla Wada, ha invece sottolineato i "suoi meriti per molte iniziative", ricordando però l'articolo del New York Times che ha rivelato una denuncia rivolta all'Agenzia Mondiale Antidoping da una discobola russa, Darya Poshchalnikova, medaglia d'argento a Londra, che fu lasciata cadere. Prima dello scoppio dello scandalo dovuto all'inchiesta giornalistica della tv tedesca ARD. Un'inchiesta, quella guidata dal giornalista Hajo Seppelt, che è stata la madre della vera e propria rivoluzione antidoping di questi mesi, con le istituzioni sportive costrette a dare risposte finalmente categoriche al problema, fino alla clamorosa esclusione dell'atletica russa, confermata negli ultimi giorni, dall'Olimpiade di Rio de Janeiro. Ma dove tutto è cominciato? Non va dimenticato che le denunce di Donati non si sono concentrate soltanto sull'Italia dai tempi del salto allungato di Evangelisti e del doping degli anni '80, ma hanno guardato anche all'estero, ai tempi in cui la Federatletica internazionale era diretta da Primo Nebiolo. Più recentemente, nei suoi rapporti con la Iaaf, è chiaro che l'inchiesta di Bolzano ha avuto un ruolo importante. La federazione internazionale, sin dal primo momento successivo all'epo di Schwazer, è sempre stata solidale con il suo medico Giuseppe Fischetto, finito sotto processo per favoreggiamento nell'inchiesta condotta dal pm Giancarlo Bramante. Un processo in cui Donati è stato citato come teste dell'accusa e della stessa Wada, costituitasi parte civile. Fischetto si è autosospeso, all'inizio dell'inchiesta giudiziaria, da medico della Fidal, ma ha continuato a esercitare il suo ruolo di delegato antidoping in grandi manifestazioni internazionali, Mondiali a squadre di marcia di Roma compresa, senza però far parte della struttura di intelligence che ha lavorato in queste ultime settimane su alcuni casa scottanti, e sull'analisi bis del campione di Alex Schwazer, che ha portato alla nuova positività. Diverso è il discorso che riguarda la Wada. Sandro Donati ha collaborato con l'agenzia mondiale antidoping per anni con una numerosa serie di lavori che sono tuttora rintracciabili sul sito ufficiale. Ma negli ultimi mesi si è acceso uno scontro sulla sua qualifica di "consulente", negata dal nuovo direttore generale Olivier Niggli, che ha sostituito proprio in questi giorni nella carica David Howman. Sulla vicenda si è trovata poi una composizione con un comunicato condiviso. Ma che non ha riempito la distanza fra Donati e la "nuova" Wada, che, in particolare, non ha gradito l'impegno del tecnico a fianco di Schwazer, accusato, in maniera neanche troppo nascosta, di non aver detto tutta la verità sui suoi rapporti con Michele Ferrari. La stessa Wada, insieme con la Iaaf, si è poi opposta allo sconto di pena per Schwazer in base alla sua collaborazione. Un no che ha lasciato quindi la squalifica intatta fino al 29 aprile scorso. Prima che il caso testosterone riaprisse per l'ennesima volta la storia.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera”. «Il laboratorio di Colonia ha lavorato bene. Non contestiamo il suo operato. E non ricorriamo alla fantapolitica: non c' è nessun complotto, nessuno ha messo questa o quella polverina nelle bevande o nel cibo di Alex per incastrarlo. La sua positività all' antidoping è il frutto di un accanimento mirato sui campioni biologici che ha deformato il risultato delle analisi. L' obiettivo era colpire lui per colpire me. Ci sono dei mandanti. Lo dimostreremo». A 48 ore dall' esplosione del caso Schwazer, Sandro Donati tiene fede alla promessa e resta a fianco del suo atleta in Alto Adige: «Alex è provato ma vivo. Abbiamo parlato a lungo. Adesso è a fare una sgambata di una decina di chilometri nei prati dietro casa». La difesa del marciatore prepara le prime scadenze: a fine giugno il deposito delle memorie, il 5 luglio le controanalisi. L' obiettivo è più che ambizioso: far valere l'articolo 5.1 del Codice Wada, l'unico in grado di annullare la squalifica. Il solo modo per farlo è invalidare la procedura con cui il laboratorio di Colonia ha trovato testosterone sintetico nelle urine del marciatore. Lo staff di Schwazer mostra i referti del controllo che smentirebbero le tesi procedurali fatte trapelare dalla Iaaf: la positività come primo clamoroso successo del passaporto steroideo (adottato solo nel 2015) su un atleta di vertice. Si sarebbe trattato di un ricontrollo mirato, lo scorso maggio, del campione prelevato il 1° gennaio. Questo sulla base di un allarme automatico lanciato dal sistema informatico. Caro recidivo hai cercato di fregarci: ma noi ti abbiamo beccato. I referti in mano a Schwazer indicano però una verità diversa: il suo campione di urine di Capodanno sarebbe stato invece «torturato» per tre giorni subito dopo il prelievo (dal 2 al 4 gennaio) quando il test ormonale standard dura pochi minuti. Alla fine dei tre giorni, sulla base del referto di Colonia («Nulla da segnalare: atleta rieleggibile»), la Iaaf ha dato il via libera alle competizioni. Poi l'altra anomalia: lo stesso campione di urine viene rimesso sotto torchio il 10 aprile, quando il passaporto biologico ancora non era validabile per l'assenza dal primo controllo in competizione. Perché? E perché la procedura, anormalmente lunga, resta aperta fino al 13 maggio, quando viene accertata la positività. E perché a Schwazer viene permesso di gareggiare a La Coruña a fine maggio notificandogli la squalifica solo il 21 giugno? Che tesi utilizzerà la difesa? Alcune sono ipotizzabili. Le apparecchiature per la spettrometria di massa avrebbero una potenza così elevata da rilevare anche tracce infinitesimali di steroidi. Quelli dovuti a una banale contaminazione alimentare, ad esempio. O quelli, sostengono altri, rimasti «fissati» nell' organismo a lunghissimo termine: Schwazer ammise di aver assunto testosterone nel 2010. Quante probabilità ci sono di vincere una battaglia del genere, scardinando l'antidoping mondiale?

STAVOLTA NIENTE SCUSE di Benny Casadei Lucchi per “il Giornale” il 23 giugno 2016. Maglietta bianca. Sguardo a pezzi. Nessuna lacrima. Ore 18 e una manciata di minuti. Alex ancora lì. Dietro una scrivania a Bolzano. Quattro anni dopo. A parlare di doping. Il suo doping. O siamo di fronte a un grande coglione o siamo di fronte a un grande complotto. Stavolta non ci sono vie di mezzo. Alex Schwazer positivo a uno steroide anabolizzante dopo aver chiesto e ottenuto, unico al mondo, di poter essere controllato a sorpresa 24 ore su 24. Per dire. Trentacinque test in pochi mesi, uno su due dedicato agli anabolizzanti, controllato anche ieri mattina a Vipiteno, ore sette, dopo notte insonne seguita alla cartella ricevuta con l'esito degli esami, toc toc, sono un ispettore della Iaaf, prego pipì. Ci sarebbe da ridere, c' è solo da piangere. Ma Alex non piange. «Stavolta non devo chiedere scusa di niente, perché non ho fatto niente. Se sono qui a metterci la faccia è per rispetto di me stesso e di chi mi è vicino». Con lui la manager Giulia Mancini, con lui l'allenatore e paladino della lotta antidoping Sandro Donati, con lui i legali che annunciano battaglia e denuncia penale contro ignoti «perché qui c' è stata cattiveria, è una vicenda profondamente ingiusta e vogliamo la verità». Contro di lui, invece, c' è il mondo. Martedì 21 giugno, ore 18 e 50, gli ispettori antidoping della Iaaf notificano tutto ad atleta e allenatore. L' esame sangue e urine effettuato a Vipiteno la mattina del primo gennaio, negativo all' epoca, riesaminato in maggio, il 12, è diventato positivo. La Gazzetta dello Sport pubblica tutto. È un risveglio traumatico. Per i sognatori e quelli del partito diamogli un'altra chance, per gli scettici e quelli del via per sempre dallo sport. Visibilmente scosso appare anche il presidente del Coni Giovanni Malagò che nel giorno della consegna della bandiera a Federica Pellegrini, si ritrova nel mezzo di una bufera, col cerino acceso, «certo che c'è qualcosa di molto particolare sulla tempistica...» dirà. La sequenza è infatti sotto gli occhi di tutti: la bomba che scoppia nel giorno del Quirinale, la bomba che deflagra al secondo controllo, il 12 maggio, quattro giorni dopo la bella vittoria di Schwazer nella 50 km mondiale di marcia e pass per Rio conquistato, la bomba che scheggia i buoni sentimenti tredici giorni dopo la fine della squalifica per doping di tre anni e mezzo. Alex è positivo a scoppio ritardato. A un anabolizzante sintetico che serve a chi vuole muscoli e non contro la fatica dei marciatori. Questo spiega Donati, questo sottolineano i legali, questo racconta il ragazzo a cui non dobbiamo credere perché, come dice lo stesso Alex levandoci dall' imbarazzo, «capisco che credere a un ex dopato sia difficile, però Sandro Donati che ha dedicato la vita contro il doping è ancora qui accanto a me... E poi io quella stessa sostanza l'ho anche provata, prima dei Giochi di Londra, in quell' anno in cui ho provato di tutto e l'avevo messa da parte, non mi dava effetti. E allora ditemi voi, perché mai dovrei da una parte rendermi disponibile a controlli a sorpresa 24 ore su 24 e poi doparmi con qualcosa che non mi serve e che non mi aveva dato effetti?». Un grande coglione o un grande complotto. Non se ne esce. Perché «tra l'altro la quantità rilevata è minima» precisa Donati, e perché «sarebbe stato facile presentarmi qui davanti a tutti voi e fare la figura di quello che si leva di torno e che non sapeva niente. Invece io non lo lascio, Schwazer paga le mie lotte, l'odio nei miei confronti per quanto fatto contro il doping doveva trovare una vendetta. Eccola». Ancora: «E le incongruenze sono tante, la tempistica è anomala e ci era stato chiesto da persone importanti di non vincere a Roma e La Coruña (2° nella 20 km), forse questo ha dato fastidio. E ricordo la settimana prima della 50 km, la Procura Antidoping aveva cercato di dimostrare che una prova su strada era stata una gara e non un allenamento e Alex ha rischiato che la squalifica s'allungasse... Abbiamo toccato molti interessi...l'indagine sul doping russo è partita anche da Bolzano». Parole pesanti, che più pesanti diventano e più, incredibilmente, lasciano aperto uno spiraglio: che davvero ci sia del losco, un complotto, roba brutta e alla fine Rio non salti. «È un incubo per me, è la peggior cosa che mi potesse succedere - confida Alex -, ma andrò fino in fondo. Probabilmente qualcuno non vuole che vada alle Olimpiadi, a Roma c' erano state pressioni perché non vincessi. Però credo ancora di potercela fare, darò il 100% per chiarire e farcela» e se poi vogliono, fa capire, mi levo di torno.

LA PIPÌ AL QUIRINALE E IL WATERBOARDING DELL' ANTIDOPING di Maurizio Crippa per “il Foglio” il 23 giugno 2016. Visto come ragionano gli organi di giustizia, ci aspettiamo che prima o poi qualcuno incrimini la marciatrice Elisa Rigaudo - come quel famoso professore di Bergamo - per essere stata sorpresa a fare pipì nei giardini del Quirinale. Paradosso, ma neanche troppo. Ieri gli ispettori dell'Associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera, in pratica la spectre delle Olimpiadi, si sono presentati a casa Mattarella per effettuare un controllo antidoping a sorpresa sulla Rigaudo, mentre partecipava alla consegna del tricolore ai portabandiera italiani in partenza per Rio 2016. I corazzieri li hanno gentilmente mandati a cagare, e il test su sangue e urine rimandato a quando l'Elisa è rientrata con gli altri alla Casa delle armi al Foro Italico. Ma il vulnus resta. E va bene che con gli olimpionici non si sa mai, e che Alex Schwazer dopo le lacrime e la riabilitazione l'hanno beccato (l'avrebbero) positivo un'altra volta. E va bene che le squalifiche per doping sono rimaste l'unico tipo di sanzioni che l'occidente riesca ad applicare a chicchessia, ad esempio alla Russia di Putin. Ma al Quirinale? Durante una cerimonia ufficiale? Gli energumeni della Iaaf affermano di essersi mossi in base al whereabout, il protocollo che impone agli atleti di essere sempre reperibili per i controlli a sorpresa (provassero un po' con le centrali iraniane). Ma detta così, sembra il waterboarding applicato allo spirito olimpico. A meno che sia il nuovo protocollo -trasparenza della luminosa epoca Raggi.

L’ANTIDOPING AL QUIRINALE LA FA FUORI DAL VASO di Filippo Facci per il “Libero Quotidiano” il 23 giugno 2016. Drogarsi prima di parlare con Mattarella, o subito dopo averlo fatto: c' è una logica, proprio volendo. Ma l'idea di fare un controllo antidoping proprio al Quirinale, come ha cercato di fare ieri la Federazione internazionale di atletica, beh, andrà giustamente archiviata come una gaffe o come una smaliziata prova di stupidità: roba che l'antidoping andrebbe fatto a loro, quelli della Federazione internazionale. Forse la notizia già la conoscete: ieri, giorno in cui iniziava ufficialmente la spedizione italiana di Rio, giorno in cui appunto era prevista la cerimonia di consegna del tricolore da parte del Presidente della Repubblica, giorno in cui peraltro scoppiava un altro caso di doping legato ad Alex Schwazer, ieri, insomma, la International Association of Athletics Federation (Iaaf) ha pensato di presentarsi al Quirinale per controllare le urine di una marciatrice presente alla cerimonia, Elisa Rigaudo. Al Quirinale, sì. E li hanno messi alla porta, ovvio, anzi, non li hanno neanche fatti entrare. Nota: l'estate scorsa, durante una spedizione sul Monte Bianco, il campione del mondo di karate Stefano Maniscalco continuava a dire allo scrivente che, anche a 4000 metri, doveva sempre rendersi disponibile alla Federazione in base al "whereabout", cioè una sorta di indicazione che gli atleti devono lasciare per essere reperibili per eventuali controlli antidoping; a me e agli altri pareva una pazzia, ma probabilmente aveva ragione. Gli ispettori non andarono sul Monte Bianco, ma sul Colle ieri ci sono andati. Fine della nota. E, ieri, era bellissima l'espressione del presidente del Coni, Giovanni Malagò, mentre un corazziere lo avvertiva: ci sono i commissari con le provette, sì, proprio qui nei giardini del Quirinale, sì, proprio mentre c'è la cerimonia che precede la partenza per le Olimpiadi. Va da sé: agli ispettori hanno risposto che la raccolta di sangue e urine, forse, potevano andarsela a fare da un'altra parte, per esempio al Foro Italico dove più tardi hanno intercettato la povera Rigaudo. La quale, intervistata da Repubblica online, più tardi ha detto: «L' ispettore non sapeva che il Quirinale era un posto molto importante». Era un tedesco: l'orgoglio di Mattarella ne avrà avuto nocumento. La Rigaudo, invece, pare abbia detto al tizio della Federazione: «Scusi, ma è come se lei volesse fare il test a degli atleti mentre sono a casa della Merkel». Incidente diplomatico? Ma no, niente, figurarsi: the sport must go on, il Doping controller officer (Dco) successivamente ha potuto officiare in una sala igienicamente idonea negli uffici del Coni. Così, nella giornata di ieri, si sono registrate tre notizie. La prima: Alex Schwazer è risultato positivo al controllo antidoping. La seconda: Elisa Rigaudo è risultata negativa al controllo antidoping. La terza: Sergio Mattarella è risultato.

DUE TECNICI SPECIALIZZATI, 48 ORE DI LAVORO, UNA PROCEDURA COSTOSA E SPECIALIZZATA: LA ... di Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2016. Due tecnici specializzati, 48 ore di lavoro, una procedura costosa e specializzata: la spettrometria di massa per rapporto isotopico. Lo scorso 13 maggio, per dichiarare positive le urine di Alex Schwazer, i biologi del laboratorio Wada di Colonia hanno utilizzato lo stesso metodo che smaschera chi adultera il whisky per vendere al prezzo dei pregiati «single malt» i banali «blended». Hanno ionizzato la pipì del marciatore bombardandola con un fascio di elettroni per poi spararla all' interno di un analizzatore di massa. Il risultato? La percentuale di carbonio-13 ha dimostrato la presenza di precursori del testosterone sintetico estranei all' organismo. Per i tedeschi è il risultato esemplare dell'efficacia della più avanzata arma contro il doping: il passaporto steroideo, complementare a quello sanguigno per accerchiare i bari. In vigore dal 1° gennaio 2015 (quando Alex era fermo per squalifica) il passaporto di Schwazer è nato con il primo controllo a sorpresa fuori competizione, lo scorso dicembre a Roma. Per validarlo servivano dai tre ai sei test, di cui uno in competizione: quello della vittoria in Coppa del Mondo a Roma dello scorso 8 maggio. In ogni esame si valutavano parametri diretti e indiretti (testosterone assoluto, rapporto con epitestosterone) per costruire una «curva di normalità» sempre più raffinata. L'aggiunta del tassello dell'8 maggio ha messo fuori range il controllo dell'1 gennaio a Vipiteno: i test a sorpresa nei giorni festivi non sono rari, perché chi si dopa li considera strategici. L' ipotesi di complotto durante la procedura di esame sarebbe smentita dal rigoroso protocollo operativo. L' analisi di gennaio è stata fatta a Colonia su campioni «ciechi». Accertata la negatività, i parametri steroidei sono stati trasferiti alla Iaaf per costruire un profilo ormonale anonimo. Il 13 maggio, ricevuto l'ultimo esame, il sistema Iaaf ha segnalato in automatico l'anomalia a Colonia, che con Roma e Montreal è la struttura più avanzata al mondo sul fronte ormonale. Allarme rosso. A quel punto è scattato il bombardamento ionico che ha isolato (in quello che restava della provetta A) il testosterone sintetico su un'urina sempre anonima: positività netta - non massiccia - e impossibile da contestare. Ok, ma cosa ha fatto Alex Schwazer per risultare positivo? Nessun tecnico o dirigente di laboratorio si sbilancia. Ma le possibilità sono sostanzialmente tre. La prima è la più drammatica per chi in Alex ha creduto. Quantità e qualità dei precursori del testosterone sono compatibili con un micro dosaggio continuativo: un piano organizzato di doping. Steroidi in un atleta di endurance, con masse muscolari ridotte? Farsi di testosterone aumenta la resistenza agli allenamenti duri e migliora il recupero. L'ipotesi è agghiacciante perché presuppone un tradimento totale dell'allenatore Donati e dello staff medico e un supporto medico e farmacologico parallelo. La seconda ipotesi, non meno agghiacciante per ragioni opposte, è la contaminazione dolosa: i tecnici ammettono che le quantità ritrovate sono compatibili con un'assunzione unica anche involontaria - avvenuta in un range temporale di alcuni giorni prima del controllo - di testosterone per via orale. Insomma, qualcuno potrebbe aver piazzato il farmaco in un alimento o una bevanda per incastrare Alex. La terza ipotesi è la contaminazione. Non alimentare (ci sarebbero altri precursori) ma piuttosto da integratori, che però Schwazer ha sempre detto di non utilizzare. Ora la palla passa alla giustizia sportiva. Analisi del campione B entro il 5 luglio o prima, se la difesa riuscirà a chiedere un anticipo. Se la positività fosse confermata, come accade sempre nella giustizia sportiva tocca all' atleta l'onere di provare con fatti concreti la sua innocenza. Una sfida al cui confronto la 50 chilometri olimpica è una passeggiata.

Doping Schwazer, perché serve essere garantisti. Se si è dopato va radiato. Ma il test che lo inchioda è sospetto. E va chiarito, scrive Gabriele Lippi su “Lettera 43” il 22 Giugno 2016. Déjà vu. A pochi metri dal traguardo più ambito, il marciatore si ferma. A colpirlo non è una crisi di fame o la disidratazione dopo quasi 50 chilometri sotto il sole, ma un test antidoping che fa piombare su di lui la più infamante delle accuse che possano esistere per un atleta. Ad Alex Schwazer era già successo prima di Londra 2012, ed è ricapitato a 45 giorni dalla cerimonia di inaugurazione di Rio 2016. Epo, allora, anabolizzanti adesso. Sembra di vedere un film già visto, eppure le differenze tra le due situazioni sono più delle analogie. Allora, scoperto, Alex si presentò in conferenza stampa, da solo, senza un solo membro della Fidal a fargli compagnia. Pianse lacrime amare, ammise ogni responsabilità, raccontò di essere andato a spese proprie fino in Turchia per acquistare 1.500 euro di eritropoietina e assumerla poi a casa sua per mesi, ingannando anche la fidanzata Carolina Kostner, che per quel peccato di ingenuità/negligenza/amore avrebbe pagato con una squalifica di 16 mesi (poi ridotti a 12). Spiegò di averlo fatto perché «tutti lo facevano, e mi sentivo impotente». Apparì come un uomo solo, schiacciato dalla pressione, un atleta che si sentiva costretto a vincere e unico baluardo di un'atletica italiana con poco talento e un livello di programmazione inferiore agli altri. Qualcuno provò compassione, altri no, ma sulla sua colpevolezza non potevano esserci dubbi. Oggi è tutto diverso. La provetta che incastra Schwazer è stata prelevata a gennaio e, la prima volta, ha dato esito negativo. A maggio, poco dopo la sua vittoria nella 50 km del Mondiale a squadre di Roma, a pass olimpico strappato, un nuovo test sullo stesso campione. Positivo, stavolta, con valori di testosterone 11 volte superiori alla media. Non uno scarto minimo, ma qualcosa di enorme, passato inosservato al primo controllo e trovato solo con le contro-analisi. In mezzo, tra quei due esami, Schwazer ha ricevuto 15 visite degli ispettori Iaaf (la federazione internazionale di atletica leggera), Wada (l'agenzia mondiale antidoping) e Nado (l'agenzia italiana antidoping). Tutti rigorosamente negativi. In un anno, da quando nel maggio 2015 ha deciso di tornare a gareggiare, affidandosi alle cure di Sandro Donati, ha subito 47 controlli antidoping, senza risultare mai positivo. Ora è facile cadere nella tentazione della gogna mediatica e invocare la radiazione. Chi scrive ha sempre sostenuto la tesi della 'seconda chance', l'ideologia della redenzione. Eppure, la prima tentazione nella notte del 22 giugno, è stata quella di fare mea culpa, scagliarsi contro Schwazer, chiedere scusa a Gianmarco Tamberi e a chi, come lui, aveva espresso pareri durissimi sulla sua possibile partecipazione a Rio. Perché chi gli aveva concesso un'apertura di credito si sente ancora più tradito di chi, al contrario, non l'ha mai perdonato e mai lo perdonerà. Ci si sente persino un po' sciocchi ad averci creduto. Ma in un mondo giusto, Schwazer merita la sospensione di un giudizio che stavolta potrebbe essere quello finale. La merita non per le lacrime versate nel 2012, non per l'oro di Pechino 2008, non perché a lui ci si aggrappa per una medaglia in più in un'Olimpiade destinata a dare poche gioie all'Italia. La merita in quanto essere umano. La storia dello sport è tristemente piena di truffatori dopati, ma conta anche drammi umani legati a giudizi sommari e vittime innocenti di casi tuttora irrisolti. La fine di Marco Pantani, morto da solo in una camera d'albergo dopo esser stato trattato come un paria per un ematocrito sopra il limite che ancora oggi è velato dall'ombra del complotto, dovrebbe far riflettere. Così come quella, fortunatamente con esito diverso, di Andrea Baldini, fiorettista italiano costretto a fermarsi mentre si preparava all'Olimpiade di Pechino 2008 da favorito assoluto perché nelle sue urine fu trovato del furosemide, un diuretico non dopante ma usato anche come coprente di altri farmaci. Baldini sostenne di non aver mai assunto quella sostanza, gli esami approfonditi non trovarono traccia di doping, e pochi mesi dopo fu riabilitato. Tornò e si laureò campione del mondo, ma quei Giochi di Pechino, nessuno glieli ha mai potuti restituire. Schwazer, a differenza di Pantani e Baldini, ha già sbagliato una volta, è vero, ma quel conto l'ha già pagato. Ora va giudicato per questo nuovo caso, e la lezione migliore, in queste ore, nel mucchio di chi lo chiama «stupido» e invoca la sua radiazione, arriva dal silenzio di Tamberi, dal richiamo al garantismo di Filippo Magnini, o dalle parole dello spadista Paolo Pizzo, un altro che non è mai stato soft nei giudizi sul marciatore e su chiunque si dopi. «Se fosse vero, sarebbe molto molto grave». Se fosse vero, appunto. Occorre andarci piano, ascoltare le spiegazioni del marciatore, che ha convocato una conferenza stampa per le 18 del 22 giugno, e del suo avvocato Gerhard Brandstaetter, che parla di «accuse false e mostruose». In gioco non c'è solo la carriera di un atleta, ma la vita di un ragazzo di 31 anni e la credibilità di un allenatore come Sandro Donati, che su Schwazer si è giocato tutto. Se non volete farlo per Alex, fatelo almeno per lui. Aspettate. Poi, se tutto sarà confermato, radiazione a vita sia. Altrimenti chiederemo conto alla Iaaf di come un test negativo a gennaio possa risultare con valori 11 volte più alti della norma a maggio.

Donati: “Ho combattuto la mafia del doping sono minacciato e vivo nella paura”. L’allenatore di Schwazer: “Racconterò tutto ai pm”, scrive Attilio Bolzoni l'11 luglio 2016 su "La Repubblica". Sempre più solo e sempre più accerchiato, questa mattina ha parlato con "qualcuno che gli sta intorno" e l'inquietudine che l'ha accompagnato nei suoi ultimi drammatici giorni è diventata paura. Confessa Sandro Donati: "Sì, ho paura che possa accadere qualcosa di molto brutto a me o alla mia famiglia". Paura di cosa, professore? "Anche di perdere la vita". Non è soltanto una storia di qualificazioni olimpiche e di record, di allori e di medaglie. Una vicenda che è stata rappresentata come uno scandalo dello sport in realtà fa tanto odore di mafia, di clan, di soldi. E mistero dopo mistero si sta trasformando in un affaire internazionale dove le provette di urina s'intrecciano con grandi affari e grandi interessi, appetiti di consorterie criminali, intrighi e vendette. Sandro Donati esce allo scoperto, non si arrende, attacca. E denuncia: "Non mi sono piegato ed ecco perché adesso temo il peggio. Già la mia carriera di allenatore è stata stroncata 29 anni fa quando feci le prime denunce sul doping, ma oggi le contiguità fra alcune istituzioni sportive e ambienti malavitosi sono ricorrenti e dimostrabili". Da Vipiteno, il ritiro scelto per allenare Alex Schwazer per le Olimpiadi di Rio e suo quartiere generale anche dopo l'assai sospetta positività al doping del marciatore che è finito in un gorgo fangoso, svela i suoi timori e annuncia: "Andrò al più presto alla procura della repubblica di Roma a rappresentare certe situazioni, ho molte cose da dire ma nei dettagli preferisco informare prima i magistrati. Per colpire me è stato macellato un atleta innocente che in passato ha sbagliato, ma che è un campione immenso che avrebbe sicuramente vinto a Rio la medaglia d'oro sia sui 20 chilometri che sui 50".

Chi l'ha voluto fermare?

"Questa storia porta con sé un messaggio molto chiaro: chiunque parla va messo fuori gioco, chi rompe il muro dell'omertà che c'è sul doping deve comunque pagarla cara".

Ci spieghi meglio: da dove provengono queste minacce per la sua vita?

"Più persone mi hanno sottolineato come sia stato un grande azzardo da parte di Alex Schwazer accusare gli atleti russi di doping. Ed è evidente il rapporto di corruttela reciproco che ha contrassegnato la relazione fra alcuni dirigenti della Iaaf (la Federazione internazionale di atletica) e le autorità sportive russe, finalizzato ad insabbiare o a gestire in maniera addomesticata i casi di doping".

E cosa c'entra tutto questo con la sua paura?

"Io ho avuto un ruolo fondamentale, collaborando con la procura della repubblica di Bolzano e con il Ros dei carabinieri, nell'individuazione di un gigantesco date base che era nelle mani di un medico italiano che collaborava e collabora ancora con la Iaaf. Nel date base c'erano centinaia di casi di atleti internazionali con valori ematici particolarmente elevati. E, tra questi, un gran numero di russi. Ho portato all'attenzione della Wada (l'agenzia mondiale antidoping) quel data base e nel frattempo la magistratura francese ha aperto un'indagine per riciclaggio e corruzione nei confronti del vecchio presidente della Iaaf Amine Diack che è stato arrestato ".

Lei sta dicendo quindi che la sua azione contro il doping ha provocato una rappresaglia?

"Ne sono sicuro. E ho cominciato a ricevere strane telefonate e anche strane mail che ho già consegnato alla magistratura. Una mi diceva: "Ho da comunicarti informazioni che ti riguardano, un accademico tedesco possiede documenti che dimostrano il tuo coinvolgimento nella vicenda del doping dei russi". Era firmata da una certa Maria Zamora, un nome e una persona che non conosce nessuno. Ho fatto le mie ricerche e sono arrivato alle conclusioni che la parte corrotta della Iaaf e i russi sono un tutt'uno".

Ma perché questo accanimento contro di lei?

"Perché c'è un sistema che non tollera che l'antidoping venga fatto da soggetti esterni alla sua organizzazione, in questo caso la Iaaf. La vicenda è stata in questo senso un'operazione quasi "geometricamente perfetta". Che lancia un avviso a tutti: di doping non si deve parlare, ce ne dobbiamo occupare solo noi istituzioni sportive e chi ne parla fuori fa sempre una brutta fine".

È una legge molto mafiosa, quella del silenzio.

"Il silenzio è la legge in quel mondo. C'è anche una complicità politica, ma non solo in Italia, in tutti i Paesi. Le manovre di isolamento nei miei confronti sono iniziate fra marzo e aprile di quest'anno quando hanno messo in circolo alcune informazioni false, secondo le quali io avrei avuto un ruolo marginale nella Wada. Un tentativo di delegittimarmi, il mio rapporto con la Wada è sempre stato intensissimo fin dal 2003. Eppure qualcuno ha scritto che io ero "un millantatore". Poi è arrivato il resto. L'8 maggio - il giorno prima che Alex vincesse a Roma la gara dei 50 chilometri per la qualificazione a Rio - qualcuno mi ha telefonato dicendomi "che sarebbe stato meglio che Alex arrivasse secondo". Una ventina di giorni dopo lo stesso personaggio mi ha ritelefonato consigliandomi di "non rispondere all'attacco dei marciatori cinesi" nella 20 chilometri. C'è gente che vuole condizionare i risultati, gente che ha interessi altri. Io, dopo 35 anni di attività, posso dire che non ho mai visto tanta coalizione di forze e tanti segnali inquietanti come in questa vicenda di Alex".

Professor Donati, lei è da una vita che combatte contro il doping. Ma davvero l'hanno lasciato sempre solo?

"Qualche mese fa alcuni deputati della Commissione Cultura della camera mi avevano invitato per un'audizione. Mi sono preparato, poi le istituzioni sportive hanno lavorato per depennare il mio nome. Silenzio. Vogliono solo il silenzio".

Come sta Alex Schwazer?

"È un ragazzo serio. È aggrappato a una piccola speranza che vede in me. Ma è così sereno che l'altro giorno mi ha detto: " Prof, se non mi vogliono, io farò altro". Io però non mi arrendo anche se vivo nel terrore. Ho paura ma non piego". 

"Cosa ho visto in quella stanza...": Lo sfregio, l'avvocato spiega come hanno umiliato Schwazer, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Una notte da incubo, per Alex Schwazer, volato a Rio de Janeiro per l'incontro con il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che dovrà decidere se concedergli la possibilità di partecipare ai giochi dopo il - controverso - caso di doping che lo ha coinvolto. Il Tas ha deciso di non decidere: il verdetto slitta a venerdì, il giorno in cui Alex dovrebbe affrontare la sua prima gara, la 20 chilometri. Un nuovo sfregio contro l'azzurro, arrivato al culmine di un tesissimo incontro, durante il quale l'allenatore, Sandro Donati, avrebbe dato in escandescenza, urlando, abbandonando la stanza sbattendo la porta, per poi tornare, sempre più scorato. "Il verdetto pare già scritto", hanno detto da ambienti vicini ad Alex. E a tratteggiare il clima che si respira, ci ha pensato l'avvocato dell'atleta, Gerhard Brandstaetter, che spiega che cosa ha visto nella stanzetta dove hanno "processato" il suo assistito: "Il clima è un po' da santa inquisizione, ma noi siamo convinti di aver ragione. Adesso speriamo di trovare un giudice che ce la dia". L'udienza è durata quasi 10 ore, un'eternità. "Alex era molto stanco e provato, ha preferito tornare in hotel. Domani si allenerà e aspetterà fiducioso". Ma la fiducia, purtroppo, è pochissima: la Iaaf, la federazione internazionale di atletica, avrebbe chiesto otto anni di squalifica per il marciatore. Un piano perfetto per farlo fuori. Tanto che la difesa di Schwazer al Tas, si è appreso, ha assunto i contorni di un attacco totale proprio alla Iaaf. Nel mirino della difesa i macroscopici vizi procedurali relativi ai controlli del campione positivo, prelevato lo scorso primo gennaio. Inoltre, per dimostrare che la sostanza trovata nelle urine di Alex fosse stata piazzata, la difesa ha presentato un modello logico-matematico che si basa sui tempi di dimezzamento del testosterone sintetico nella quantità rilevata. L'obiettivo è dimostrare che i controlli subiti da Schwazer subito dopo il primo gennaio avrebbero dovuto rilevare sostanze dopanti. Ma in un clima da "santa inquizione", giusto per ripetere le parole dell'avvocato, ogni dimostrazione potrebbe rivelarsi inutile.

Il campione che l'Italia ha abbandonato. "Libero Quotidiano" per Schwazer: "Preso per il culo", scrive di Fabrizio Biasin

il 10 agosto 2016. Noi ancora non lo sappiamo, ma Alex Schwazer ha ammazzato qualcuno. Non c’è altra spiegazione. Tra l’altro non deve avere ucciso «uno qualunque», un povero cristo, semmai il parente di qualcuno che conta: un bis-nipote del presidente Iaaf (federazione internazionale di atletica leggera), lo zio di un capoccione della Wada (l’agenzia mondiale antidoping). Viceversa non si spiega l’accanimento, il trattamento ai limiti della presa per il culo (e perdonateci il «culo», ma quando ci vuole ci vuole) che il mondo dell’atletica sta riservando al nostro marciatore e, di riflesso, anche a noi italiani. Schwazer conoscerà il suo destino - ovvero la decisione sul farlo o non farlo gareggiare a Rio - «entro venerdì», che poi è il giorno della 20 km, una delle due gare alle quali vorrebbe partecipare (per provare a vincerle, tra l’altro). L’ha deciso il Tas (Tribunale Arbitrale dello Sport), chiamato a trovare una risposta al seguente domandone: è Alex un dopato recidivo e quindi figlio di buona donna? Si è effettivamente «strafatto» di anabolizzanti l’1 gennaio scorso e merita quindi pernacchie e radiazione (8 anni, richiesta della Iaaf)? Avremmo dovuto scoprirlo nella notte italiana di lunedì ma, «chi comanda», ha scelto di rimandare ulteriormente ogni decisione (il primo rinvio senza senso è del 27 luglio, firmato dai «soliti» responsabili Iaaf). Non vi sentite parte in causa? Son fattacci del marciatore e peggio per lui? Forse avete ragione, ma perdete due minuti dietro a questa vicenda allucinante e vediamo se cambiate idea. Alex Schwazer - 31 anni, altoatesino, faccia da sberle - è uno sculettatore con i fiocchi e, infatti, marcia che è una meraviglia. La «povera» atletica leggera italiana se ne accorge ben presto, si attacca alla gallina dalle uova (e dalle medaglie) d’oro e ben fa. Non stiamo ad annoiarvi con l’elenco dei trionfi, ci limitiamo a citare il 1° posto di Pechino 2008, conquistato triturando gli avversari. Quattro anni dopo, alla vigilia dei Giochi di Londra, il «patinato» fidanzato della pattinatrice Carolina Kostner, viene giustamente sputtanato sulla pubblica piazza: è dopato, si fa di Epo, deve essere fermato. Così accade: Schwazer si becca, tra una cosa e l’altra, 45 mesi di squalifica, gli amici gli girano le spalle, la fidanzata lo molla. Praticamente è solo come un cane. Solo un tale gli tende la mano, Sandro Donati, paladino della lotta al doping, tecnico capace, uomo di sport che non piace al mondo dello sport per la sua petulante denuncia contro un sistema sporco e corrotto. «Ti alleno io», gli dice. «Grazie», risponde Alex. I due si fanno un mazzo così marciando lungo le strade provinciali, ben lontano dai campi di gara a loro preclusi. Schwazer viene guardato dagli altri come «sozzo e imperdonabile», ma se ne frega, ritrova forma e tempi, quindi alla prima occasione dopo la riabilitazione (Roma, Mondiale a squadre dell’8 maggio scorso) conquista vittoria e crono utile per volare a Rio. Una favola straordinaria? Neanche per idea. Il 21 giugno salta fuori una provetta, quella relativa alle analisi a sorpresa dell’1 gennaio scorso: il test che a suo tempo diede esito negativo, improvvisamente si trasforma in positivo. Alex viene sospeso. E fa niente se gli altri 19 controlli a cui si è sottoposto negli ultimi due anni hanno certificato la sua «purezza»: Alex, per chi comanda, è come il lupo che perde il pelo e bla bla bla. In conferenza stampa il marciatore, Donati e l’avvocato Brandstaetter sono incazzati come iene e gridano la loro innocenza. Spuntano telefonate registrate in cui si «consiglia» a Schwazer di non vincere «perché è meglio così». Come se non bastasse, l’ennesimo test (quello del 22 giugno) è negativo: Alex chiede e ottiene udienza al Tas. Il resto è storia di oggi: il-rinvio-del-rinvio-della-sentenza-sulla-vera-o-presunta-positività-relativa-a-un-test-che-era-negativo-ma-poi-è-risultato-positivo. Una situazione grottesca, un trattamento indegno. Il tutto condito da un silenzio bestiale: non tanto quello dei tifosi (c’è chi grida al complotto, chi semplicemente denuncia «l’indecenza» del trattamento riservato al nostro marciatore), quanto quello dei nostri «comandanti», dei capi-spedizione, dei responsabili del Coni. Nessuno tra quelli «che contano» che alzi un dito e dica: «Squalificarlo è vostra facoltà, umiliarlo proprio no». Niente di niente: vince l’indifferenza, il mutismo rotto solo da Donati che, lunedì, dopo 7 ore di udienza, se n’è andato dall’aula di Rio sbattendo la porta. «Hanno già deciso», ha detto a mezza bocca. Sul volto la smorfia di chi inseguiva un sogno. Fabrizio Biasin

Doping, Schwazer: il Tas ha deciso otto anni di squalifica: «Sono distrutto, chiedo più rispetto per me». La sentenza ai danni del marciatore azzurro notificata alle parti, accolta la richiesta della Federazione internazionale per la positività di inizio gennaio, scrive Gaia Piccardi, inviata a Rio de Janeiro, il 10 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. La lunga marcia finisce qui, sul lungomare scintillante di Copacabana dove Alex Schwazer sparisce nel buio pesto della notte brasiliana con il morale a pezzi («Sono distrutto»), inseguito dai fantasmi di un verdetto impietoso: otto anni di squalifica per doping-bis. Ha gli occhi scavati, le labbra serrate, nessuna voglia di parlare: «Dovreste avere più rispetto per me come persona». Sale in taxi, destinazione sconosciuta. In mattinata si era allenato sotto la pioggia, 40 km inseguito da Sandro Donati in bicicletta e aggrappato alla certezza che il Tas lo avrebbe riammesso ai Giochi di Rio, che avrebbe potuto indossare una maglia della nazionale italiana ed entrare in una stanza del villaggio, parte integrante della spedizione olimpica, di nuovo atleta e non più reietto. L’udienza fiume (9 ore) di lunedì, dopo due giorni di camera di consiglio, invece ha prodotto il verdetto più scontato in presenza di positività al testosterone. La fine della carriera. La fine di tutti i sogni. Gliel’ha detto la manager storica, Giulia Mancini. Alex si è seduto e ha fissato il pavimento per un’ora, livido. Poi ha rotto il silenzio: «Potete andare?». Si è fatto una doccia, ha indossato pantaloncini e maglietta. È uscito per correre. Non è più tornato. Solo nella notte raggiunto dall’agenzia di stampa Agi ha detto: «Non mi sembrava che l’udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici». Il miracolo di ribaltare il risultato già scritto di una partita in trasferta, contro avversari enormi - la Iaaf con il direttore del suo laboratorio antidoping, Thomas Capdeville, presenza del tutto irrituale in una procedimento che di rituale non ha avuto nulla sin dall’inizio, a partire dallo spostamento dell’udienza da Losanna a Rio -, è fallito. Le spiegazioni di coach Sandro Donati, argomentate con dati/tabelle/istogrammi relativi al monitoraggio antidoping a cui Alex è stato sottoposto ogni 15 giorni dall’anno scorso («Un’iniziativa destabilizzante per un ambiente corrotto e una federazione, la Iaaf, priva di credibilità»), non sono state accolte. La veemenza con cui sono state esposte, forse scambiate per la furia iconoclasta con cui questo professore di Monte Porzio Catone da tutta la vita sta cercando di combattere un sistema che è convinto sia malato nel midollo, respinte al mittente. La tesi della Federatletica internazionale è accolta in toto: Alex Schwazer si è dopato per la seconda volta dopo la positività all’epo del 2012, nelle sue urine il primo gennaio scorso c’era il testosterone sintetico che gli costa otto anni di squalifica, la pena applicata di default a un recidivo. Le incongruenze sulla conservazione del campione, la comunicazione tardiva, l’accanimento con cui è stato esaminato più volte? Inesistenti. La tesi del complotto ipotizzata a gran voce da Donati in questo ultimo, drammatico, mese? Fantasia. La marcia s’interrompe, questa volta per sempre, nel luogo che più stride con la costernazione profonda della coppia di fatto Alex&Sandro, saldati dalle circostanze e abbattuti all’ultimo assalto alla diligenza. Dietro l’hotel Best Western dove si consuma il dramma sportivo e umano di Schwazer e Donati, le mille luci del lungomare più glamour di Rio e dell’Olimpiade, il luogo dei tanga, delle infradito e delle caipirinhe. Dentro, nella stanzetta che atleta e allenatore dividono in questa trasferta per risparmiare le spese, solo rabbia, lacrime e tristezza. Se Alex, a 30 anni, può inventarsi un’esistenza tra Calice e Vipiteno («È scioccato ma adulto, affronterà la vita fuori dall’atletica» dice il prof, stravolto), magari puntellandosi all’affetto della nuova fidanzata (Carolina Kostner tace, sullo sfondo), non c’è dubbio che Donati non si darà pace fino all’ultimo dei suoi giorni: «È una vicenda grottesca, umiliante per Alex e chi gli sta accanto. La battaglia ora passa sul piano giudiziario: ci sono già due Procure, Bolzano e Roma, che indagano». Doveva finire sul traguardo dell’Olimpiade, magari già nella 20 km di marcia di domani. E invece il sipario cala così, come una pietra tombale su questa tragedia shakespeariana. Mai finita anche adesso che è finita.

Doping, il Tas ha deciso: Schwazer condannato a 8 anni. "Sono distrutto". Il Tribunale di arbitrato sportivo ha emesso il proprio verdetto: non correrà la marcia 50km venerdì 19 agosto. La sentenza arriva dopo la positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Donati: "Gli hanno stroncato la vita". Tamberi lo attacca di nuovo, scrive il 10 agosto 2016 “La Repubblica”. Il Tas demolisce la carriera di Alex Schwazer. Il Tribunale di arbitrato sportivo ha condannato il marciatore altoatesino a una squalifica di 8 anni per la nuova positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Il verdetto arriva dopo l'udienza fiume di due giorni fa in cui Schwazer aveva esposto le proprie ragioni, chiedendo l'audizione di alcuni testimoni via skype e producendo una importante documentazione attraverso schede powerpoint e test. Il Tas ha accolto tutte le richieste che la Iaaf aveva fatto e quindi non ha concesso alcuna attenuante al marciatore altoatesino che sognava le Olimpiadi di Rio de Janeiro, obiettivo che si era prefissato da oltre un anno, quando aveva iniziato la collaborazione con Sandro Donati, il paladino della lotta al doping. "Sono distrutto", è la prima frase con cui Schwazer commenta il verdetto. Per poi aggiungere: "Non mi sembrava che l'udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Di quelle dieci ore che abbiamo parlato dove Donati ha presentato il suo power point, non è rimasto nulla, solo una grande amarezza. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici". Il tecnico Sandro Donati, in conferenza, lo difende con convinzione: "E' evidente un fine persecutorio nei confronti si Alex. Di riffa o di raffa dovevano eliminare Schwazer. Non parlerò della mia persona, ho una certa età. Ad Alex hanno stroncato la vita. Stamattina ha marciato per una quarantina di km a una velocità che tolti uno o due marciatori nessuno saprebbe tenere nemmeno in gara. E' evidente che era facile incolpare uno con un precedente. Poi avete visto con quale tecnica, anche medici interessati da procedimenti giudiziario, si siano affrettati a definirlo persino "bipolare". Alex è lineare, coerente, semplice, affidabile. Ha sbagliato una volta, con sua quota di responsabilità coinvolgendo anche la Kostner in una cosa in cui non entrava niente. Ma in quel periodo è stato abbandonato a sé stesso. Non gli è stato dato un allenatore adeguato. Qualcuno gli ha prescritto un antidepressivo per email. Sapevano che aveva incontrato il dott. Michele Ferrari e nessuno è intervenuto. Gli hanno permesso di andare in Germania per un mese. Tutti si sono sottratti, il Coni e la federazione". Ora cosa sarà di voi? "Alex è cresciuto tanto in questi anni e ha l'equilibrio per affrontare la vita anche fuori dall'atletica. Lui dopo Rio l'avrebbe abbandonata comunque dopo Rio. C'è stata un'opera di delegittimazione di Schwazer appena ha iniziato a lavorare con me, con foto mandate in giro. Ex miracolati di Conconi. Alex marcia alla grande, non gli è mai stato alzato un cartellino rosso. Si è pagato tutto di tasca sua, e lo hanno accusato di fare marketing". Chi invece è tornato ad attaccare Schwazer è Gianmarco Tamberi, a Rio per seguire le gare nonostante l'infortunio che gli ha impedito di essere tra i protagonisti del salto in alto: "Mi chiedete se 8 anni sono giusti? Non sono io a dovermi esprimere, ma Schwazer è stato trovato positivo due volte, e questo non sono io a dirlo...". L'atleta azzurro ribadisce la sua posizione: "Mi ero espresso prima di questa nuova positività, ho sempre pensato che un'atleta pizzicato per doping non debba più vestire la maglia azzurra perché non rappresenta più i valori della nazionale". Anche Elisa Di Francisca, argento nel fioretto a Rio, non è tenera con l'altoatesino: "Non ho mai barato, non ho mai pagato nessuno per farmi vincere. Ho la coscienza pulita perché non mi sono mai dopata in vita mia. Questa è la mia linea e lo sarà sempre, i risultati li voglio ottenere solo attraverso i miei sacrifici. Sta a ognuno di noi comportarsi bene". L'ultima chance, ma ormai i Giochi saranno passati, sarà quella di andare fino all'ultimo grado di giudizio che è la Corte Federale svizzera. Il 31enne marciatore di Calice di Racines farà richiesta di esame del Dna. Alex Schwazer era stato trovato positivo all'esame antidoping del primo gennaio 2016 solamente a seguito di un test di laboratorio effettuato oltre tre mesi dopo l'esame che inizialmente aveva dato esito negativo. Gravi - secondo la difesa - sono stati i ritardi nella comunicazione all'atleta da parte della Iaaf. Infatti, sono trascorsi oltre 40 giorni dal momento della positività riscontrata, il 13 maggio, alla notifica, avvenuta il 21 giugno.  "Siamo delusi ma andremo avanti a trovare la verità con l'esame del Dna e quant'altro. Otto anni perché è recidivo. Non sappiamo ancora le motivazioni". Così all'Agi l'avvocato Thomas Tiefenbrunner, legale di Alex Schwazer, alla notizia della squalifica di otto anni inflitta al marciatore altoatesino.

LO HANNO FOTTUTO. "Sotto shock", paura per Schwazer: nella notte, la sua tragica reazione, scrive “Libero Quotidiano” l’11 agosto 2016. Carriera e Olimpiadi cancellate, con un metaforico tratto di penna. Fottuto. Fregato. Massacrato. Otto anni di squalifica per Alex Schwazer, che era volato a Rio de Janeiro per il ricorso al Tas e per sperare in queste Olimpiadi. La situazione in cui lo avevano cacciato era disperata, ma lui ci credeva ancora. Ancora un pochino. Ma niente da fare. La caccia alle streghe si è conclusa così, con una punizione esemplare che lo uccide sportivamente e che arriva per un caso molto, troppo sospetto. E Alex ha reagito male. Nel peggiore dei modi, rinchiudendosi in se stesso. L'unica frase pubblica che gli è uscita dalla bocca è stata: "Sono distrutto". È un ragazzo fragile, Schwazer, lo dimostra quella sua tragica e indimenticabile conferenza stampa in cui, nel 2012, ammise tutte le porcherie di doping che aveva fatto. Porcherie che oggi, probabilmente, non ha fatto. Per nulla. Sono in pochi a credere che si sia dopato ancora, sotto lo sguardo attento di mister Sandro Donati, per giunta, l'uomo che ha lottato tutta la vita contro il doping e che proprio per questo, forse, oggi ha pagato. Nella notte italiana, Schwazer ha anche disertato la conferenza stampa convocata nella terrazza dell'albergo dopo lo squalifica. Se ne è andato via da solo, cercando il mare, un luogo in cui nessuno lo guardasse. Secondo il racconto della Gazzetta dello Sport si è seduto a un tavolo alla Casa dos Marujos, senza consumare nulla, guardando fisso la tv che proiettava Svizzera-Usa di beach volley. Solo, per più di un'ora, con la maglietta azzurro indosso, come se dovesse iniziare ad allenarsi, da un momento all'altro. Poi si è alzato e si è infilato in un taxi insieme alla sua manager, Giulia Mancini. Poi c'è mister Donati, che racconta: "Ho informato io Alex della squalifica, è rimasto in silenzio per venti minuti, senza parlare". Dunque una nuova rivelazione, che aggiunge ulteriore puzza di marcio al marcio di questa storia: "Nell'udienza del Tas, abbiamo scoperto che il famoso controllo antidoping a sorpresa era stato pianificato e comunicato agli ispettori del prelievo 15 giorni prima. Una situazione incredibile, mettendo a rischio la riservatezza del controllo. Perché controllarlo il primo gennaio e non il 28 dicembre? Perché l'obiettivo era quello di effettuare tutto il primo gennaio, con il laboratorio chiuso, e con la possibilità di tenere la provetta un giorno intero prima di portarla a Colonia". Un complotto, appunto. Gli indizi sono tanti, troppi. Una carriera bruciata, finita, calpestata, umiliata. Schwazer aveva pagato tutto quello che doveva pagare. Ora dovrà pagare anche un conto che forse non gli spetta. Gli resta solo la giustizia penale, dove dovrà dimostrare che ci sia stato un sabotaggio o una sottomissione. Impresa ardua. Si inizierà col test del Dna. Ma sarà sempre troppo tardi. Per le Olimpiadi di sicuro, e forse anche per tutto il resto.

Schwazer senza scampo: 8 anni di squalifica. Accolta la richiesta della Iaaf, l'azzurro chiude con la marcia. Ma i sospetti restano, scrive Benny Casadei Lucchi, Giovedì 11/08/2016, su "Il Giornale". Il Tas, nel tardo pomeriggio di Rio, ha comunicato la propria decisione e, anche se prevista, è choc. Alex Schwazer è fuori da tutto. Otto anni di squalifica. Senza se, senza ma, uno schiaffo all'uomo e ai suoi uomini, in primis Sandro Donati, paladino della lotta al doping finito anche lui in queste sabbie mobili del sospetto. Ricaduto, coinvolto, fregato, gli estremi del giallo e del due pesi e due misure resteranno per sempre perché questa seconda positività di Alex, fin dalla tardiva comunicazione a giugno, dopo mesi a rimpallarsi provette e controlli, è e resterà tinta di giallo. Il controllo del 1° gennaio, la presenza minima di anabolizzanti riscontrata, la provetta non anonima, con indicato il paese di Alex, Racines, unico atleta al mondo a vivere lì, per cui persino negato l'anonimato nei controlli. E poi l'incredibile tempistica che ha portato la Iaaf a comunicare la positività solo a fine giugno, quando ormai i tempi per appelli, difese, tentativi di far valere le proprie posizioni erano, e infatti si sono rivelati, vani. Inutile il viaggio a Rio, inutile la presenza dei suoi legali, di specialisti, di video che avevano monitorato giorno per giorno l'assenza di doping nel suo sangue. Inutile allenarsi con tristezza e la pena nel cuore lungo le vie di Copacabana. Schwazer torna a casa, ma questo è solo l'inizio di una lunga marcia verso altro. Domani avrebbe potuto correre la 20 km, la settimana dopo giocarsi tutto nella sua 50. Ora dovrà iniziare ben altro allenamento: reggere il peso di un simile epilogo. Perché la vicenda ha dell'incredibile. Squalificato alla vigilia della marcia di Londra 2012, risqualificato definitivamente alla vigilia di quella di Rio. Quattro anni più tardi, dopo averne scontati tre di fermo, dopo essere tornato alle competizioni lo scorso 8 maggio, dopo aver vinto la marcia mondiale di Roma, dopo aver fatto capire al mondo che avrebbe ipotecato la medaglia d'oro ai Giochi. Niente Giochi, invece. Vicenda surreale perché non ci si può sbilanciare da una e dall'altra parte. Perché Alex era stato trovato positivo e in più aveva mentito la prima volta. E perché la positività agli anabolizzanti riscontrata il 1° gennaio dai controllori della Iaaf è emersa solo dopo un secondo controllo il 12 maggio, quattro giorni dopo la marcia vittoriosa di Roma, ma comunicata a fine giugno. Per cui c'è tanto di cui sospettare. Da una parte e dall'altra.

Però poi, nonostante i dubbi, ci sono loro. Quelli che, comunque, stanno dalla parte della ragione. Posti esauriti, dato il gran numero.

Rio 2016, la russa Efimova in lacrime: vince l'argento ma piovono insulti, scrive Mario di Ciommo il 9 agosto 2016 su “La Repubblica”. Yulia Efimova ha vinto la medaglia d'argento nei 100 metri rana, ma ad attenderla fuori dalla vasca non c'erano applausi e complimenti: solo fischi e insulti. La nuotatrice russa, riammessa in extremis ai Giochi dopo il ricorso al Tas, ha vissuto una serata surreale dopo la conquista della sua seconda medaglia olimpica. "Non c'è medaglia che possa cancellare l'amarezza del vedere che tutto il pubblico è contro di te, - ha dichiarato tra le lacrime la Efimova - ho commesso degli errori nella mia vita e la prima volta ho pagato con la squalifica di sedici mesi, ma la seconda volta non è stata colpa mia. Sono pulita". Anche Lily King, medaglia d'oro nella specialità, non è stata molto indulgente con la russa e durante la semifinale le ha mostrato il dito medio in vasca. "Che giorno triste per lo sport. Permettere ai dopati di gareggiare è una cosa che mi spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare", è stato invece il commento di Michael Phelps alla medaglia della Efimova, diventata un vero e proprio caso. Il clima di tensione ha richiesto l'intervento del Cio. Il Comitato Olimpico Internazionale ha chiesto agli atleti di rispettare gli avversari non solo con i comportamenti sui campi di gara, ma anche nelle loro dichiarazioni.

Pubblica gogna (dei perdenti) per i dopati. Altro che tregua olimpica. Rivolta di tifosi e atleti con i riabilitati dal doping. Dotto duro: "Li guardi e vorresti dargli un pugno", scrive Benny Casadei Lucchi, Mercoledì 10/08/2016, su "Il Giornale". Per la città olimpica, per il parco olimpico, nei palazzetti olimpici, ovunque si aggira uno spettro che non è solo il doping, ma anche il modo in cui atleti puliti e pubblico lo stanno vivendo. Monta l'amarezza, c'è tensione, e siamo ai fischi, agli insulti. Nel nuoto i casi Sun Yang ed Efimova e Morozov, ieri in batteria e semifinale nei 100 stile con il nostro Luca Dotto, hanno trasformato il bordo vasca in un'arena di cose brutte. S'insultano fra loro gli atleti divisi tra puri o al momento puri e sporchi o al momento ex sporchi. Caricando a pallettoni i tifosi sugli spalti. Per dire. Luca Dotto dopo le batterie dei 100 ha detto: "Le Federazioni che dovevano prendere delle decisioni stanno perdendo la faccia e hanno stancato noi e il pubblico. E poi quando ci sono un paio di ex dopati che tolgono un posto in semifinale o finale a persone pulite, che lottano tutta la vita per quel posto... ecco... quando li guardo in camera di chiamata, mi viene da prenderli a ceffoni. Però sono ormai qui, non gli si può sparare alle gambe altrimenti l'avremmo già fatto, per cui cerchiamo di batterli perché vale doppia soddisfazione". Per dire: il Cio ieri ha saputo solo uscirsene con un inutile e ovviamente inascoltato "gli avversari vanno rispettati". Luca infatti non fa nomi, ma è ovvio che si riferisca a Sun Yang argento davanti a Detti nei 400, o al russo Morozov, finito nel rapporto Wada e però riammesso dal Tas e ieri in batteria con lui nei 100 stile. Per dire: con cruda schiettezza australiana, Mack Horton, l'altro giorno ha vinto l'oro dei 400 davanti al cinese misterioso e sospetto e "non stringo la mano a un ex dopato". O come il caso Efimova, trovata positiva al meldonium e poi riammessa dal Tas e ieri notte seconda tra i fischi e gli insulti nei 100 rana. E il morso di Phelps l'ha accolta appena uscita dalla vasca: "Triste che i positivi siano stati autorizzati a gareggiare di nuovo. Mi si spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare". E il francese Lacourt sul cinese Sun Yang: "Ma se fa la pipì viola...". Questo nel nuoto. L'atletica si prepara ad ugual cosa perché lo sport più rappresentativo della rassegna a cinque stelle è anche e purtroppo il più rappresentativo del doping. Per dire: Justin Gatlin velocista duro a invecchiare e soprattutto duro a darsi per vinto dopo i malanni del doping, è l'uomo che più di tutti, sulla carta e crono alla mano, può rendere difficile la vita a re Usain Bolt. E non a caso il re, un giorno sì e l'altro pure, se ne esce con frasi contro i dopati. Ieri ha detto "stiamo estirpando l'erba cattiva". Per cui anche qui ci si chiede come atleti e spalti accoglieranno l'americano trovato positivo due volte. Ugual cosa ci si domanda per Asafa Powell, anche lui finito nelle maglie dell'antidoping per uso di stimolanti. E che dire di Sandra Perkovic, fuoriclasse del disco, dopata nel 2011 e campionessa olimpica nel 2012 e oggi qui a difendere quella medaglia? O della cinese Li Yong che a Roma, tre mesi fa, ha stravinto la 20 km di marcia e poi l'ha persa perché squalificata un mese per positività e tutto è stato fatto di fretta ed eccola qui mentre Schwazer si sta dannando l'anima per essere riammesso? Già, la triste e lunga e logorante vicenda del marciatore. Ieri notte, appena usciti dall'interminabile audizione con Alex davanti al Tribunale di arbitrato sportivo in trasferta a Rio, i suoi legali hanno detto sconsolati "Alex proseguirà con gli allenamenti, la sentenza verrà comunicata entro venerdì, termine massimo per consentirgli di prendere parte alla 20 km di marcia". Il suo allenatore, Sandro Donati, si è lasciato scappare un preoccupante "pronti a una sentenza già scritta". Gli avvocati hanno comunque fornito tutte le evidenze a sostegno della tesi difensiva: vizi di forma, la provetta etichettata con il nome del paese, Racines, dove vive un solo atleta al mondo, cioè Alex, per cui diritto all'anonimato violato. Quindi prove video che illustrano l'andamento ormonale monitorato spontaneamente per mesi, anche nel periodo in questione (il test del 1 gennaio scorso). Il problema, visto lo spettro che s'aggira per l'olimpiade, è però un altro. Comunque vada a finire, Alex ha perso. Perché se i giudici confermeranno la decisione Iaaf, addio olimpiade e carriera. Dovessero invece dargli ragione e riammetterlo in tempo utile per la 20 km e, soprattutto, per la sua 50, andrà scortato mentre marcia. Il pubblico di Rio ha scelto: la squadra degli ex dopati non ha bandiera e non ha casa.

Ricostruiti in un docufilm tutti i misteri dell'incredibile marcia di Alex Schwazer. Un instant movie firmato da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello con la regia di Alberto Mascia che contiene inedite intercettazioni telefoniche. Su tentativi di pilotare gare internazionali di atletica e sui segreti del doping russo.

I signori del doping alla prova di una vera inchiesta, scrive il 4 agosto 2016 Elisa Marincola su "Articolo 21". Il docufilm pubblicato oggi sul sito di Repubblica aiuta a capire meglio non solo la vicenda del marciatore Alex Schwazer, ma anche il funzionamento, o non funzionamento, della macchina dell’antidoping nazionale e mondiale. Che alla fine sembra ora rivedere anche i propri stessi risultati, ridimensionati dal risultato pubblicato sempre oggi del test a sorpresa sull’atleta effettuato lo scorso 22 giugno, che dimostra ancora una volta l’assoluta assenza di sostanze nel suo fisico. Il ventesimo esame in poco più di un anno, con uno solo, curiosamente, risultato positivo. La cronaca è nota ai più, ci limitiamo a ricordare che Alex Schwazer era stato già sospeso per tre anni e nove mesi complessivi dopo essere stato trovato positivo a un test alla vigilia dei giochi di Londra. Colpa ammessa pubblicamente e scontata in silenzio e in solitudine. Ma non del tutto abbandonato, perché presto accanto a lui si è schierato una figura indiscussa dello sport pulito: l’allenatore Sandro Donati che proprio per la sua inflessibile battaglia contro le pratiche di doping diffuse molto oltre l’immaginabile ha sacrificato la sua carriera, messo praticamente al bando da incarichi prestigiosi che pure proprio per le grandi capacità tecniche avrebbe meritato. E proprio grazie al sostegno tecnico e umano di Donati, Alex ha ripreso ad allenarsi fuori dai circuiti ufficiali che gli erano vietati, ha ricostruito il suo fisico ma soprattutto la sua anima e la sua autostima, sempre sotto stretto controllo del suo mister, che lo ha costretto a marce forzate e analisi continue. Fino all’8 maggio, quando, finita la squalifica, corre sui 50 km alla Coppa del mondo di Roma e vince indiscutibilmente. E poi, all’improvviso, a un mese e mezzo da quella bella medaglia d’oro, la rivelazione di quel famoso prelievo la mattina di capodanno, con due risultati contrastanti usciti a distanza di mesi, con percorsi sospetti, ma in tempo per fermare la sua partecipazione a Rio. Fino a far arrivare avvertimenti che sanno anche di criminalità organizzata a Donati, tanto da muovere la commissione parlamentare antimafia a convocarlo per raccogliere la sua denuncia. Firmata da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello (già autori insieme del docufilm Silencio sulla mattanza di giornalisti in Messico), “Operazione Schwazer. Le trame dei signori del doping” è un’inchiesta giornalistica che rivela una serie di falle, incongruenze, intrecci d’interessi macroscopici nel sistema dell’antidoping nazionale e mondiale, ma anche nella gestione occulta di risultati di gara forse non sempre così limpidi e meritati. Non vogliamo dare giudizi su settori e vicende che non conosciamo e su cui la magistratura italiana ha da tempo aperto diversi fascicoli d’indagine. Notiamo semplicemente che non sono serviti mesi e mesi di polemiche, inchieste interne alle autorità sportive internazionali, scandali pubblici e privati, denunce e scontri persino tra governi, a mettere in fila i pezzi di una realtà malata (se anche criminale lo dimostreranno gli inquirenti) come è riuscito a fare in appena 20 minuti di video un bel prodotto giornalistico realizzato praticamente a costo zero, con il lavoro da inviato di Bolzoni, i rimborsi spese per trasferte e poco altro coperti dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, e l’impegno a titolo praticamente volontario dello stesso Massimo Cappello e del regista Alberto Mascia e di quanti in questi mesi sono stati al fianco di Schwazer e di Donati e da anni denunciano con loro la marea incontrastata del doping, che sta avvelenando un mondo che per sua natura dovrebbe esaltare lo stato fisico più sano. Sembra un ossimoro, ma lo sport, vissuto sotto i riflettori in ogni momento della giornata e delle carriere di chi lo pratica soprattutto da professionista, lussuosamente finanziato da sponsor che tutto sanno e nulla dicono, raccontato fin nelle alcove da giornali, tv, siti web che pagano miliardi di diritti per pochi secondi o anche solo per un solo scatto, si rivela oggi forse la periferia più oscura e volutamente dimenticata, dai media, dalle istituzioni internazionali, e anche dalla politica che tanto severa invece appare verso chi si fuma in santa pace una cannetta senza far male a nessun altro se non a se stesso (meno comunque dei milioni di fumatori di sigarette che inquinano anche noi). Ora, dopo aver sentito le intercettazioni e visto documentazioni e testimonianze messe in fila da Bolzoni e Cappello, resta da chiedersi: i giudici sportivi che faranno? La Iaaf avrà qualcosa da dire? E tutti quei colleghi di Schwazer pronti a crocifiggerlo? Senza voler giudicare nessuno, ma qualche dubbio su intrecci di conflitti d’interesse e dossier già noti da almeno tre anni (sempre ascoltando gli intercettati) e insabbiati fino ad oggi dovrebbe averlo chiunque. L’udienza finale del Tas (il Tribunale arbitrale sportivo) sul caso Schwazer, decisiva per la sua partecipazione alle competizioni delle Olimpiadi di Rio, è ora spostata all’8 agosto nella città brasiliana, ad appena quattro giorni dalla 20 km di marcia, prima gara a cui il marciatore potrebbe partecipare se fosse riconosciuta la sua innocenza. Per chi non lo sa, il ricorso di Schwazer ha un costo: 40mila euro tra spese legali, controanalisi e viaggi. Naturalmente senza sponsor. Cercare la verità è cosa per ricchi, ma né Alex e né il suo allenatore Sandro Donati lo sono.

Caso Schwazer: le intercettazioni delle telefonate del giudice Maggio a Donati, scrive il 4/08/2016 Luca Landoni. Oggi è uscito l’atteso docufilm di Repubblica a cura di Attilio Bolzoni. Una ricostruzione minuziosa del caso legato ad Alex Schwazer a partire dalle irregolarità del modulo del controllo antidoping del 1° gennaio 2016 (quello da cui risultò l’ultima positività) e che riportava la scritta Racines (luogo di residenza di Schwazer, NdR) rendendolo di fatto non anonimo, fino alle famose intercettazioni che per la prima volta possiamo anche ascoltare. Potete vedere il docufilm in versione integrale subito sotto. Intanto però vi trascriviamo il contenuto delle intercettazioni di quello che Donati aveva definito “un giudice internazionale di marcia vicino al Damilano” e che da oggi ha il nome che molti immaginavano ma non potevamo ancora mettere nero su bianco per ovvi motivi: Nicola Maggio, già al centro di un caso clamoroso di sospette decisioni secondo le accuse del collega Robert Bowman. Ecco il testo. Telefonata Uno: ore 6 di mattina giorno della gara di Roma (7 maggio), rintracciabile al minuto 7:30 del docufilm: «Buongiorno sono Maggio. Disturbo, immagino, a quest’ora.Ieri sera stavamo qui alla cena con tutte le vecchie glorie. Allora lei per cortesia stia calmo. L’unica cosa, la prego, glielo dica ancora una volta (immaginiamo ci fosse stato un precedente contatto a voce, NdR) fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?» Telefonata Due, 23 maggio, 20 giorni prima della gara di La Coruna, minuto 8:38 del docufilm: “Gli dica di fare una gara bella tecnicamente, di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 perché non ha senso”. Dunque alla fine Donati i nomi li ha fatti. Passiamo ora alle intercettazioni del dottor Giuseppe Fischetto, medico della Federazione Italiana, che parla “con un amico”. Fischetto, grande accusato da Schwazer nel processo di Bolzano, cionondimeno è stato responsabile antidoping alla Coppa del Mondo di Marcia di Roma, e secondo le parole di Donati gestiva e aggiornava il database gigantesco con tanti nomi dei russi, e sempre in Russia veniva inviato a svolgere una grande quantità di missioni.

Ecco il testo. Telefonata Uno, 18 giugno 2013, ore 21:40, al minuto 10:55 del docufilm. Interlocutore un amico.

– Sono Giuseppe Fischetto, come stai?

– O Giuseppe ciao come stai?

– Un po’ incazzato con la giustizia, avrai sentito che sono venuti a sequestrarci i computer, di tutto di più. Son venuti da me, da Rita (Bottiglieri, NdR), prima a casa da Fiorella (l’altro medico al centro del caso, NdR) sempre per la vicenda Schwazer. Hanno fatto un sequestro di tutto il materiale informatico che abbiamo a casa e in Fidal alla ricerca dell’idea che qualcuno possa aver sostenuto Schwazer

– Ma questo su iniziativa di chi, Giuse’?

-Del giudice di Bolzano, Va be’ so’ una rottura di palle perché m’han tolto tutti gli hard disk e ci sono anche tante cose confidenziali internazionali eh… che io spero non ci siano fughe di notizie perché succede un casino internazionale: sai metti che vengon fuori dei dati dei russi più che non dei turchi più che non degli altri, perché io sono nella commissione mondiale, tu lo sai, della Iaaf.

L’ex procuratore capo di Bolzano Guido Rispoli spiega che il database cui si accenna conteneva dati ematici sospetti di molti atleti russi ed è stato poi usato come materiale probatorio centrale nelle indagini seguenti che hanno portato ai noti fatti culminati nell’esclusione paventata della Russia dai prossimi Giochi Olimpici.

Telefonata Due, 18 giugno 2013, minuto 13:32 del docufilm, interlocutore Rita Bottiglieri:

GF: Ciao, ‘ndo stai?

RB: Sono a (?). Ora evidentemente la Procura di Bolzano vuole cercare riscontri riguardo alle (ambizioni?) del marciatore.

GF: Io son preoccupato del materiale informatico di tutta un’attività internazionale riservata, capito?

RB: E va be’, Giuseppe…

GF: Questo crucco comunque addamorì ammazzato, devono incularsi la Kostner.

Da segnalare che nel video segue la telefonata del giornalista Bolzoni a Fischetto che però non risponde dicendo di essere all’estero. Gli si chiedeva se gli sembrava normale che lui fosse giudice nella gara di Schwazer, dopo che il marciatore lo aveva accusato. 

Telefonata Tre, 27 giugno 2013, minuto 15:15 del docufilm, interlocutore un impiegato della Fidal:

GF: La sai l’Ultima? Ho appena chiuso il telefono, sai chi ma ha chiamato? Lamine Diack(ex-Presidente della Iaaf che nel 2015 sarebbe stato arrestato per corruzione, NdR) dandomi il massimo supporto, dicendomi di andare avanti.

Impiegato Fidal: Anche qui c’è la solidarietà di tutti, di chiunque.

Donati chiosa: “E questo è l’ambiente da cui è partito l’ordine di rifare il controllo antidoping a Schwazer.

"Forse non ci vedremo più" Schwazer saluta l'allenatore. Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana, scrive Claudio Torre, Venerdì 12/08/2016, su "Il Giornale". Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana e di rientrare in Italia. Ma dietro le spalle si lascia amarezza e quella sensazione di impotenza di chi voleva gareggiare e adesso si ritrova a dover restare fermo e probabilmente a rinunciare alla sua carriera. E così ha salutato il suo allenatore Sandro Donati, l'uomo che lo aveva fatto rinascere. Lo ha guardato in aeroporto e gli ha detto: "Mi sa che è l'ultima volte che ci vediamo...". Una frase che, forse, più della sentenza del tas lascia intender quanto sia ormai definitiva la decisione di Schwazer di mollare tutto. "Alex è cresciuto, saprà cosa fare", ha affermato Donati. "Al momento - spiega Schwazer dopo il suo arrivo in Italia - non ho ancora le idee chiare su cosa farò, fino a mercoledì speravo, perché sono innocente. Ho dato tutto per essere qui sperando di gareggiare. Sinceramente non pensavo alla conferma della squalifica. Adesso tornerò a casa e farò i miei dovuti ragionamenti, ma è ancora presto".

Doping, Alex Schwazer sfida la paura del vuoto: «Con Kathia cambio vita». Il marciatore dopo la mega squalifica: «Non so cosa farò, ma lei è il mio esempio. Appena arrivato a Vipiteno scalerò il passo Giovo in bici: non so stare fermo», scrive Marco Bonarrigo il 11 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il taxi per l’aeroporto è arrivato, Alex no. È uscito presto a camminare sulla spiaggia di Copacabana, quella dove mercoledì mattina ha svolto l’ultimo allenamento della carriera: 36 chilometri sotto il diluvio con Sandro Donati a ruota in bici. Dodici ore dopo la sentenza di squalifica Alex Schwazer ha ancora occhiaie profonde e viso scavato, ma è più sereno.

Come sta?

«Come uno che deve chiudere un capitolo della sua vita in fretta per non farsi male. Non voglio scappare, devo cambiare. Spero di essere capace».

Lei ha un precedente, una lunga squalifica per doping. Non le ha indicato delle vie di uscita?

«È diverso. Nel 2012 è stato faticoso ma più facile: ero colpevole, imbroglione, dopato. Mi sono salvato tornando nel mio mondo, che adesso non esiste più. Ora sono una vittima. Dopo la positività ho passato una settimana allucinante. Mi ha salvato la lotta per la verità che abbiamo iniziato con Sandro Donati. Ma abbiamo perso. Lui continuerà a lottare, con tutto il mio appoggio. Io devo cambiare vita. Subito».

Non era preparato? Come poteva pensare di sconfiggere la federazione internazionale?

«Sono — anzi ero — un atleta, mica un avvocato. Quando affronti una gara lo fa sempre per vincere, anche se hai poche speranze».

Cosa farà adesso?

«Non lo so. Durante la squalifica ho provato col ristorante, gli anziani, l’università. Ho sempre fallito e mi spaventa fallire ancora. Allenamento è massacrarsi di fatica per un obiettivo altissimo. La maggior parte dei lavori è routine, allenamento di scarico. Non riesco a immaginarlo».

Ci sarà un progetto che aveva in mente per il fine carriera.

«Un lavoro nello sport. Ma mi viene da ridere: che mestiere può fare un dopato nel mondo dello sport? Allena i ragazzi?».

Nel 2012 il doping le costò anche la fine del rapporto con Carolina Kostner. Oggi al suo fianco c’è Kathia.

«In questi mesi di allenamento a Roma e poi in queste settimane di angoscia lei è stata un riferimento fondamentale. È una relazione importante, vorrei fosse quella della vita. Amore a parte, ammiro la sua indipendenza: si è costruita un’attività e l’ha portata avanti da sola fin da ragazza. Vorrei essere capace di fare così: inventarmi un mestiere normale con l’entusiasmo che ci mette lei ogni mattina. Kathia non sa nulla di sport, di controlli, di doping. Con Carolina era tutto in comune. Solo vivendo in mondi diversi riesci a non impazzire».

Continuerà a marciare?

«Continuerò a correre e pedalare. Non posso stare fermo, mi viene troppo da pensare. Quando Sandro mi ha detto che avevamo perso, sono andato a camminare sulla spiaggia. Non sono scappato dalle telecamere, io posso dominare i pensieri solo muovendomi. Marciare no: mai più, nemmeno per un metro. La marcia non è libertà, ma controllo maniacale dei movimenti del corpo: le gambe, le braccia, le spalle. La marcia è dolore e agonismo. Non sarò mai più un marciatore».

Scrittori e intellettuali la sostengono, la maggior parte dei suoi colleghi la odia.

«Non ricambio il loro odio, anzi lo capisco. L’atletica è tutti contro tutti. Dare del dopato a un collega è il miglior modo per giustificare che vai più piano di lui o sei meno popolare. Non odio Tamberi: lui non sa chi sono, cosa ho vissuto. Non può capire, per lui e per gli altri sono solo un dopato. Pazienza».

La prima cosa che farà arrivato in Italia?

«Prenderò un treno per Bolzano e il bus fino a Vipiteno. Poi salirò in bici e scalerò il Passo Giovo».

Resterà a Vipiteno?

«È la mia terra, ci sono i miei genitori. Non potrei mai lasciarla».

Guarderà le gare olimpiche di marcia?

«Le ho cancellate dalla mente».

Alex Schwazer è innocente (ma non ho le prove). Dubbi, perplessità e qualche riflessione sulle accuse che hanno portato alla squalifica del marciatore italiano, scrive Gianluca Ferraris l'11 agosto 2016 su "Panorama".

Io so, ma non ho le prove.

Io so che Alex Schwazer è innocente.

Io so che Alex non prendeva più nemmeno un’aspirina, terrorizzato com’era da qualsiasi traccia di farmaci nel suo sangue.

Io so che Alex una notte ha urlato per un banale ascesso, perché l’oppiaceo con cui noi comuni mortali sediamo il nostro mal di denti lui non volle vederlo nemmeno da lontano.

Io so che Alex, dopo l’annuncio di voler tornare in attività, ha passato indenne oltre 40 controlli, la maggior parte dei quali a sorpresa.

Io so che non ha senso assumere «una lieve quantità» di testosterone il 31 dicembre senza esserti dopato né prima né dopo, e con il ritorno in pista lontano più di quattro mesi.

Io so che prelevare un campione di urina l’unico giorno in cui i laboratori dell’antidoping sono chiusi (permettendo così a mani ignote di trattenere la provetta con sé per 24 ore) è quantomeno strano.

Io so che mancano alcuni documenti di viaggio della fialetta. E che quando questa ricompare in un laboratorio di Colonia, invece di un codice numerico che dovrebbe rendere anonimo l’atleta, sopra c’è scritto Racines, Italia. Maschio che gareggia su lunghe distanze, superiori a 3 km. A Racines ci sono 400 abitanti. E un solo marciatore.

Io so che il primo controllo su quella fialetta fu negativo.

Io so che qualcuno, mesi dopo, suggerì al laboratorio una seconda analisi, che risultò lievemente positiva.

Io so che la Wada, l’agenzia mondiale antidoping che ha stanato Lance Armstrong e gli olimpionici russi, la più alta autorità del pianeta in materia, non ha partecipato ai controlli e alle analisi su Alex, interamente gestiti dalla Federazione internazionale di atletica.

Io so che i vertici vecchi e nuovi della Federazione internazionale di atletica sono stati a lungo chiacchierati per aver chiuso un occhio nei confronti dei tesserati russi, gli stessi che Alex e il suo coach Sandro Donati hanno contribuito a denunciare.

Io so che Donati è un mago delle tabelle di allenamento e un eroe della lotta al doping.

Io so che negli anni Novanta, quando Donati scoperchiò il cosiddetto sistema Epo, due degli atleti che allenava furono vittima di un caso di provette manipolate.

Io so che Alex, nonostante tre anni e mezzo di lontananza dalle piste, marciava ancora più veloce di tutti.

Io so che alla vigilia di una gara a La Coruna Donati ricevette pressioni perché Alex non infastidisse i marciatori cinesi candidati alla vittoria.

Io so che Alex in quella gara arrivò secondo, e che gli ispettori controllavano da vicino ogni suo passo per cogliere una qualsiasi irregolarità stilistica che lo avrebbe fatto squalificare.

Io so che l’allenatore dei cinesi è Sandro Damilano, fratello dell’ex marciatore Maurizio. E che prima della 50 chilometri di Roma, lo scorso maggio, qualcuno a lui vicino chiese a Donati di «lasciare vincere Tallent», l’atleta australiano che più aveva contestato il ritorno in pista di Alex.

Io so che Liu Hong, altra marciatrice cinese allenata da Damilano, dopo quella stessa gara fu trovata positiva all’higenamine, un vasodilatatore naturale, ma venne squalificata solo per un mese. Adesso lei è a Rio per gareggiare mentre Alex no.

Io so che subito dopo questa imbarazzante fila di coincidenze saltò fuori la presunta positività di Alex. Che però gli venne comunicata oltre un mese dopo, in piena preparazione preolimpica e con un margine davvero ristretto per organizzare una difesa tecnico-legale decente.

Io so che non assistevo a una simile solerzia investigativa, e a un simile tentativo di sobillare i media, dai tempi dell’incendio del Reichstag o dell’arresto di Lee Harvey Oswald. O per restare in ambito sportivo, da quel mattino cupo a Madonna di Campiglio che spezzò per sempre la carriera di Marco Pantani.

Io so che colpire Pantani e Schwazer, sportivi amati dal pubblico ma ragazzi fragili dentro, è facile. Troppo.

Io so che in molti avevano bisogno di punire in maniera esemplare chi ha avuto il coraggio di sfidare il sistema. Quello stesso sistema che poi si ripulisce la coscienza in favor di telecamera con il Refugee Team e i palloni regalati alle favelas.

Io so che Alex si è pagato da solo la preparazione, le divise, gli scarpini, il viaggio per Rio. Che ha finito i risparmi e che ha lavorato come cameriere per mantenersi gli allenamenti. Che dormiva in un tre stelle dietro al raccordo anulare e si faceva testare i tempi su una pista comunale, accanto a runner della domenica e anziani che portavano a passeggio il cane.

Io so che ha confessato i suoi errori del passato, e li ha pagati tutti.

Io so che si stava rialzando senza chiedere aiuti o riguardi, ma solo una seconda possibilità.

Io so che a Rio 2016 quella seconda possibilità è stata data ad atleti dal curriculum sportivo molto più «stupefacente» del suo.

Io so che nessuno di quelli che contano, dal Coni alla Fidal passando per i buonisti a gettone del mondo politico e degli editoriali qualunquisti, ha ancora speso una parola se non di difesa almeno di umana solidarietà per Alex.

Io so che Alex non ha la forza misurata per disperarsi restando saggio. Come non la ebbe Pantani.

Io so che a Rio 2016 Alex sarebbe arrivato sul podio nella 50 km e forse anche nella 20 km.

Io so che su quel podio Alex avrebbe pianto di gioia. Che sarebbe stato disposto a dimenticare.

Io so che invece oggi piange di rabbia in un bar fuori dal villaggio olimpico, come un emarginato. E che sarà condannato a ricordare.

Io so che qualcuno dovrebbe vergognarsi per aver rovinato una vita.

Le Iene show. Puntata del 3 ottobre 2018, ore 21,00 in diretta Alessia Marcuzzi e Nicola Savino, tra informazione ed intrattenimento, tornano con lo storico programma di Italia 1, scrive Simone Lucidi Mercoledì, 3 Ottobre 2018 su maridacaterini.it. Si parla della morte di Marco Pantani. Ci sono molte incongruenze nella ricostruzione della scomparsa del ciclista, prima tra tutte le pallina di cocaina presente per terra accanto al cadavere. La madre di Pantani sostiene che sia stato ucciso. Già prima di morire, Pantani aveva denunciato di essere stato incastrato e di non essersi mai dopato. Qualcuno avrebbe scambiato o modificato le fialette di sangue analizzate. La morte di Pantani fu archiviata come “overdose”, ma la stanza del campione era totalmente in subbuglio. Cosa è successo davvero? La pallina di cocaina e le varie dosi trovate nella stanza non erano presenti, secondo i testimoni ascoltati, ma sono visibili nel filmato della polizia. Le cose erano spostate, non lanciate. Persino il lavandino era stato smontato e posizionato all’ingresso, mentre nel video risulta integro ed al suo posto. Pantani quel giorno aveva telefonato alla reception dell’albergo per chiedere di chiamare i carabinieri perchè c’erano “alcune persone che gli davano fastidio”. La cocaina rilevata nel corpo di Pantani è 10-20 volte superiore rispetto alla dose letale. Marco avrebbe dovuto mangiare diversi boli di droga o berli. Si sospetta dunque che qualcuno gli abbia sciolto la cocaina nell’acqua senza che lui se ne accorgesse. Secondo il medico intervistato dalle Iene il corpo sarebbe stato spostato ed i segni e le ferite presenti in faccia, sulla schiena e sulle braccia sarebbero stati provocati da qualcun altro. L’inviato Alessandro De Giuseppe intervista Pietro Buccellato, usciere che aprì la porta della stanza di Pantani con la forza e trovò il corpo. Anche lui conferma di non aver trovato la pallina di cocaina e che il lavandino era stato divelto. C’era un secondo ingresso nell’albergo e qualcuno poteva essersi introdotto ed essere andato via da lì. Le telecamere non funzionavano e la porta era aperta ed agibile. L’Ispettore di polizia, Daniele Laghi, interrogato non risponde. La scomparsa di Pantani rimane avvolta nel mistero.

Marco Pantani, come è morto veramente? Video Iene, infermiere 118: “Non c'erano tracce di cocaina”. Nella puntata de Le Iene Show, Alessandro De Giuseppe si occupa della morte di Marco Pantani, avvenuta la sera del 14 febbraio 2004 in un residence di Rimini, scrive il 4 ottobre 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". A tredici anni dalla morte di Marco Pantani restano i dubbi sull'ipotesi di suicidio accreditata dai vari processi sul caso. Sono molti i punti oscuri della vicenda. A dare voce ai dubbi della famiglia del ciclista è stato il programma “Le Iene” che ha intervistato il titolare dell'albergo in cui Pantani è stato trovato morto, oltre a uno degli operatori del 118 che per primi hanno trovato il corpo del campione di ciclismo nella camera di albergo, Anselmo Torri. Quest'ultimo ad esempio ha smentito la presenza di una pallina di cocaina che è presente nei filmati della polizia. «Ero in servizio quella notte, ci hanno detto di un'urgenza. Abbiamo trovato tutto in disordine, siamo saliti sul soppalco e abbiamo trovato il corpo di Pantani riverso per terra. Abbiamo trovato dei farmaci, intorno al cadavere non c'era niente, neppure la pallina di coca. Mi sono confrontato anche con i miei colleghi». Nelle riprese della polizia ci sono tante tracce di cocaina, non trovate invece dagli infermieri. I sanitari del 118 presenti quando fu trovato il corpo affermano di non averla vista. Anche per questo la madre di Pantani sostiene: «Marco è stato ucciso». Clicca qui per visualizzare il video del servizio delle Iene sulla morte di Pantani. (agg. di Silvana Palazzo)

Marco Pantani e lo scandalo doping. Che cosa è davvero avvenuto al campione di ciclismo, che ancora oggi occupa un posto d'onore nel cuore degli italiani? Nel corso di questi numerosi anni di distanza dalla sua morte, ancora si indaga su quanto avvenuto davvero quel giorno. I familiari del Pirata non hanno mai creduto alla tesi di suicidio, individuata invece dalle autorità nazionali. Secondo la famiglia ed alcuni amici infatti ci sarebbero dei punti oscuri tutti ancora da chiarire. Lo scorso maggio infatti i Pantani si sono rivolti all'avvocato Sabrina Rondinelli per fare luce sul caso, per risalire a quanto avvenuto anche il 5 giugno del '99. Si tratta del penultimo giorno del Giro d'Italia, data in cui il sangue di Pantani avrebbe dimostrato la presenza di sostanze dopanti. Le Iene ripercorrono ancora una volta il caso di Marco Pantani nella puntata in onda questa sera, mercoledì 3 ottobre 2018. Non si tratta della prima volta che il programma di Italia 1 si fa carico della vicenda, dato che lo scorso maggio ha affrontato alcuni punti chiave legati alla presunta positività del ciclista. Secondo l'ex massaggiatore del campione, Roberto Pregnolato, la sera precedente alla tappa di Madonna di Campiglio il valore dell'ematocrito di Pantani sarebbe stato di 48, ovvero due punti al di sotto del valore massimo previsto dalla legge. "Uno che è primo in classifica e viene controllato in ogni momento, si prepara in tempo se è fuori norma, ma Marco non lo era", ha sottolineato infatti ai microfoni delle Iene. Alcune ore più tardi invece il valore è schizzato fino a 53, ma a danneggiare ulteriormente lo stato d'animo del Pirata è stato il processo in diretta subito all'istante dai giornalisti, che lo avrebbero aspettato all'esterno dell'hotel. 

La battaglia legale della famiglia Pantani. Il sangue delle provette di Marco Pantani è stato alterato. Ne è convinta la famiglia del ciclista, che a vent'anni di distanza dalla sua morte cerca ancora di riabilitare il suo nome. Un'ipotesi confermata da Renato Vallanzasca, che ha riferito alle autorità come la camorra avrebbe minacciato un medico perché alterasse il test del sangue. L'avvocato Sabrina Rondinelli, incaricato quest'anno di svolgere le pratiche per la riapertura del caso, ha infatti sottolineato come in realtà la morte di Pantani risalga a Madonna di Campigno ed all'anno 1999. Si parla di un decesso morale, dato che la scomparsa del Pirata è avvenuta solo cinque anni più tardi. Secondo il legale tra l'altro all'epoca dei fatti non sarebbero stati fatti gli accertamenti utili per appurare l'omicidio volontario, mentre alcuni rilievi sulla scena del crimine escluderebbero l'ipotesi di suicidio. Al centro delle indagini anche quel viaggio misterioso proposto ai genitori di Marco Pantani, il giorno precedente al ritrovamento del corpo del ciclista. "La nostra famiglia non si è mai fermata", afferma Tonina, la mamma di Pantani, a Panorama. "Sono convinta che con l'avvocato Rondinelli riusciremo, finalmente, a portare all'attenzione della magistratura le troppe stranezze che circondano la morte di mio figlio", ha aggiunto.

GIALLO PANTANI: 200 ANOMALIE, IL J’ACCUSE DI DE RENSIS. Scrive il 31 luglio 2016 Andrea Cinquegrani su “La Voce delle Voci”. “Un caso che presenta almeno 200 anomalie, la morte di Marco Pantani. Un’archiviazione costruita su macroscopiche illogicità. Come credere alla storia dei poliziotti che mangiano un cono Algida durante il sopralluogo e inconsapevolmente gettano la carta nel cestino? O dei tre giubbotti che qualcuno ha a sua insaputa lasciato nel residence? Poi le analisi di Marco a Madonna di Campiglio: come può un gip non trasferire gli atti a Napoli quando ci sono le verbalizzazioni di camorristi che parlano espressamente di corruzione per taroccare quelle provette? Ma si sa, la camorra non corrompe, minaccia di morte…”. Un fiume in piena, l’avvocato Antonio De Rensis, ai microfoni di Colors Radio per puntare l’indice contro un mare – è il caso di dirlo – di anomalie nella tragica vicenda del campione, scippato di quel Giro già stravinto nel 1999, per via delle scommesse di camorra che avevano puntato una montagna di soldi sulla sua sconfitta (e quindi il Pirata “doveva perdere”, a tutti i costi); e poi “suicidato” nel residence “Le Rose” di Rimini, perchè, con ogni probabilità, dava fastidio, “non doveva parlare”, su quel mondo nel quale non dettano legge solo le scommesse della malavita organizzata (capace, a fine anni ’80, di “far perdere” uno scudetto già vinto al Napoli di Maradona), ma anche quella del doping, come dimostra il fresco “caso Schwazer”, con il suo manager, Sergio Donati, minacciato di morte per il timore che possa alzare il sipario su colossali traffici e affari innominabili che costellano il “dorato” mondo sportivo. E’ attesa in questi giorni – la previsione era per fine luglio, prima settimana di agosto – la decisione del gip di Forlì circa il destino dell’inchiesta sul giro d’Italia ’99 taroccato e la sconfitta del Pirata decisa “a tavolino” dalla camorra per via dell’enorme giro di scommesse, come hanno descritto prima Renato Vallanzasca, poi svariati “uomini di rispetto” dei clan campani, a cominciare dal collaboratore di giustizia Augusto La Torre, leader delle cosche di Mondragone abituate a grossi affari esteri (già ad inizio anni ’90 investivano in alberghi e ristoranti scozzesi, epicentro Aberdeen: i “deen don”, come scriveva già allora la stampa britannica) e in vena di riciclaggi spinti. Il legale del pentito La Torre – che ha raccontato per filo e per segno i colloqui con altri tre big boss – è Antonino Ingroia, l’ex magistrato di punta del pool di Palermo, poi passato, con poca fortuna, in politica (quindi avvocato e consulente per la Regione Sicilia targata Rosario Crocetta). Una decisione, quella del gip di Forlì, che a non pochi addetti ai lavori pare scontata: la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli per competenza, visto che sono in ballo i clan di camorra, la regia del giro taroccato è made in Campania, non pochi boss hanno già verbalizzato su quelle storie e ancora possono farlo (insieme ad altri collaboratori). C’è tutto un bagaglio di conoscenze & competenze, quindi, alla Dda di Napoli, per poter agire al meglio e far luce sul giallo Pantani. Un’archiviazione “tombale”, a questo punto, suonerebbe non solo come una schiaffo alla famiglia Pantani, ma a tutti gli italiani e a quel minimo di Giustizia che – pur ridotta a brandelli – ancora esiste. E soprattutto affinchè non venga un’altra volta calpestata, come è già capitato e continua a capitare in tanti misteri e buchi neri della nostra “democrazia” altrettanto taroccata, proprio al pari di quel maledetto Giro. L’intervista con l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, è stata rilasciata a Colors Radio, l’emittente romana diretta da David Gramiccioli, in vita da un anno ma già con indici d’ascolto molto elevati, con solo in Italia, ma anche all’estero. Impegnata soprattutto sul fronte dei diritti civili, dei diritti spesso e volentieri negati e calpestati nel nostro Paese, per dar voce a chi è in attesa di giustizia, o di quella salute portata via dagli interessi di baronie e case farmaceutiche. Uno stupendo spettacolo, diretto e interpretato da Gramiccioli, “Vorrei avere un amico come Rino Gaetano”, dedicato alla musica e all’arte civile di un artista al quale l’allora mainstream dichiarò guerra (in tutti i sensi, fino ad ammutolirlo nel senso letterale del termine), è appena andato in scena a Napoli, nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, altro avamposto che lotta non solo per la sua sopravvivenza, ma per fare cultura nel deserto partenopeo, sempre più cloroformizzato dal neomelodismo “arancione”. Uno spettacolo che seguendo il fil rouge di poteri, mafie & massonerie, legava storie e misteri d’Italia, dal caso Montesi al giallo Moro, passando per il Vajont, con una serie di rivelazioni da novanta, autentico regalo per la memoria collettiva: una risorsa da coltivare come pianta sempre più rara. Ecco, di seguito, l’intervista a De Rensis, che potete ascoltare direttamente dal sito di Colors Radio, cliccando fra i programmi sulla casella Voce on Air.

PARLA L’AVVOCATO DELLA FAMIGLIA PANTANI:

“Marco Pantani non era forse il più forte. Ma certo il più amato, mai uno più di lui nella storia del ciclismo. Ogni pomeriggio 10 milioni di italiani davanti alla tivvù a vedere il Giro o il Tour. Forse ha cominciato ad essere un problema anche allora. Il ciclismo forse non era abituato a digerire un fenomeno del genere. Paradossalmente anche questo può essere stato un problema…”.

“Stiamo aspettando le decisioni del gip di Forlì, per fine mese, primi di agosto. Ma è una vicenda che si descrive da sola, nel suo percorso giudiziario”.

“Qui ci sono dichiarazioni scritte, nero su bianco, in cui boss della camorra, come Augusto La Torre, citato da Roberto Saviano nel suo Gomorra, dice espressamente che i medici incaricati delle analisi, quella mattina, furono corrotti. Specifica, non minacciati, ma corrotti. Come se non ci fosse intimidazione, quindi estorsione. Lo sanno tutti, tu non puoi difenderti, dalle richieste della camorra, se non rischiando la vita. La camorra vive di intimidazioni: o lo fai o ti ammazzo”.

“Queste carte, queste verbalizzazioni non sono le uniche. C’erano anche quelle di Rosario Tolomelli, che fu intercettato, dichiarazioni riportate anche in tivvù, e poi quelle di Renato Vallanzasca. E adesso noi, di fronte a questi elementi così chiari, siamo in attesa di capire se il procedimento potrà essere trasmesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Se il suo vicino di casa dice di lei appena un decimo di quello che è stato detto, lei viene ovviamente indagato. Qui abbiamo un capoclan che dice che chi ha fatto i controlli quella mattina a Madonna di Campiglio è stato corrotto, e noi stiamo ancora a chiederci se dobbiamo archiviare o andare avanti! Io mi chiedo, non tanto come avvocato quanto come cittadino: ma noi cittadini possiamo andare avanti così?”.

“Ci sono dei camorristi che dicono questa roba? Tu, Forlì, mandi le carte a Napoli e poi vediamo che cosa succede. Stiamo scherzando? Ma si può sapere in che Stato viviamo? E’ proprio qui che la vicenda di Pantani ci fa capire a che punto siamo arrivati. Fa capire che tutto ciò che dovrebbe essere normale, da noi diventa difficile, quasi impossibile”.

“Domanda. Perchè? Perchè io ho dovuto leggere nell’archiviazione per i fatti di Rimini (la “morte” di Marco nel residence “Le Rose” di Rimini, ndr), nero su bianco, che un gip della procura dice ‘può darsi che la carta del gelato Algida è stata gettata inconsapevolmente da un poliziotto nel corso del sopralluogo’? Ma è possibile pensare che quel 14 febbraio il poliziotto fosse impegnato a mangiare un cornetto durante il sopralluogo? Ecco, io mi chiedo: questa roba qui è normale?”.

“Possibile leggere, nell’archiviazione del gip, ‘può darsi che i tre giubbotti siano stati portati inconsapevolmente nel residence dal marito della manager di Pantani’, il quale ha negato di aver mai visto quei giubbotti in vita sua? E’ una roba normale? Siccome secondo me non lo è, la vicenda Pantani si descrive da sola”.

“Quello che posso dire è una sorta di promessa che ho fatto e che ora rinnovo. Io mi sento un uomo libero, non ho scheletri nell’armadio, quel poco che ho fatto come avvocato me lo sono sudato, per questo posso fare una promessa: che farò tutto quello che è umanamente possibile per raggiungere la verità. Non ho poteri speciali perchè non solo un avvocato, ma tutto quello che sarà possibile io lo farò. E sa perchè? Non perchè sono fanaticamente convinto di avere ragione io. Ma perchè se mi si dice che facendo l’ispezione il poliziotto ha buttato nel cestino la carta del gelato, allora vuol dire che ho ragione io!”.

“Se mi avessero confutato con ragioni logiche, io avrei detto a me stesso ‘amico mio, ti sei sbagliato'; ma se uno mi vuol confutare dicendo che uno ha portato i giubbotti inconsapevolmente – come quelli che pagavano le case a loro insaputa – che la carta gelato l’hanno buttata inconsapevolmente nel cestino mentre facevano il sopralluogo, allora vuol dire che ho ragione io! E vado avanti. Perchè quando una spiegazione non è logica, e tale spiegazione viene data da una persona che deve per forza usare la logica nel suo lavoro, vuol dire che le tue argomentazioni l’hanno messa in difficoltà. Se lei mi mette in difficoltà e io le rispondo fischi per fiaschi… La questione è tutta lì”.

“La gente è tutta con noi. Tutti ricordano Marco con enorme affetto. Il ciclismo forse non era preparato per un impatto così forte, una tale passione anche per chi non seguiva quello sport. E forse tutto ciò ha creato problemi collaterali. Ci sono tante sfaccettature, nella vicenda di Marco, che con ogni probabilità non lo hanno aiutato”.

“Ma chi lavora per la giustizia deve estraniarsi da tutti questi condizionamenti ed esaminare esclusivamente i fatti. I fatti ci dicono che verosimilmente quel giorno a Madonna di Campiglio le provette delle analisi vennero alterate. E che nella vicenda della morte di Marco a Rimini molti fatti devono ancora essere approfonditi”.

“Probabilmente quella mattina nel residence la situazione è sfuggita di mano a quelli che erano con Pantani. Non mi voglio addentrare ora in dettagli, ma può darsi che l’evento morte non fosse previsto. Ma l’intera vicenda giudiziaria è stracolma di anomalie. Una per tutte. Alle 10 e 30 Marco telefona alla reception e dice ‘in camera ci sono delle persone che mi danno fastidio, per favore chiamate i carabinieri’. Che poi arrivano alle 20 e 30. Mi chiedo: se io vado in un qualunque albergo a Roma, telefono alla reception e chiedo l’intervento dei carabinieri, scommetto che arrivano prima delle 20 e 30!”. “Questa è solo una delle oltre 200 anomalie del caso Pantani”. “Le risposte a tutti i quesiti? Sono solo e unicamente nei fatti”. 

5 GIUGNO 1999. Pantani e il mistero di Campiglio. L’Antimafia sentirà i pm di Forlì. Una commissione d’inchiesta sul Giro 1999? Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare: «Sentiremo i magistrati e faremo le nostre valutazioni». Il procuratore Sottani: al corridore «minacce credibili», scrive Alessandro Fulloni il 31 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Pantani è un simbolo dello sport italiano che merita verità e giustizia. Sentiremo i magistrati di Forlì e faremo le nostre valutazioni. Del resto si sa che le mafie hanno sempre avuto grande interesse per il mondo dello sport e la gran mole di denaro che ruota intorno alle scommesse clandestine». Non si sbilancia, la presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi: ma non è improbabile né lontano il via a una commissione d’inchiesta mirata a fare luce su ciò che accadde il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando Marco Pantani venne fermato prima del via della tappa del Giro perché trovato con un ematocrito più alto di quello consentito. Che la camorra lo abbia stoppato, con «reiterate condotte minacciose e intimidatorie» nei confronti «di svariati soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda del prelievo ematico» del corridore, è uno scenario che al procuratore di Forlì Sergio Sottani e al pm Lucia Spirito che hanno coordinato l’inchiesta -la seconda, avviata nel settembre 2014 dopo che una prima era stata archiviata a Trento nel 2001 - «appare credibile». Ma il movente di queste minacce resta «avvolto nel mistero, anche se qualche squarcio, nonostante il tempo trascorso, si intravede». «Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei a identificare gli autori dei reati ipotizzati». Quelli di truffa ed estorsione e non la corruzione - di cui ha parlato un pentito - cancellata dalla mannaia della prescrizione che ha indotto la procura a chiedere l’archiviazione di un procedimento pur condotto con scrupolo dai due pm, dal loro nucleo di polizia giudiziaria e dai carabinieri della tutela della salute di Roma. A stabilire che destino avrà l’inchiesta - i cui atti sono stati trasmessi da Sottani alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna - sarà la decisione, attesa a giorni, del gip di Forlì Monica Calassi. Che potrebbe percorrere tre strade: accogliere la richiesta d’archiviazione, fissare un’udienza per la raccolta di nuovi elementi, o chiedere un’indagine della Procura antimafia. Intervento, questo, rilanciato dalle novità investigative presenti nelle carte firmate da Sottani. Su tutte, le dichiarazioni di un pentito di camorra, Augusto La Torre, in passato braccio destro di «mammasantissima» campani come Antonio Bardellino, prima, e Francesco «Sandokan» Schiavone, poi. Agli inquirenti il collaboratore di giustizia racconta di una conversazione avuta nel carcere di Secondigliano con altri capi clan detenuti al 41 bis, vale a dire il carcere duro. Il pentito parla del caso Pantani - ma non ricorda se prima o dopo i fatti di Campiglio - con Francesco Bidognetti (al vertice dei Casalesi), Angelo Moccia (a capo dell’omonimo clan di Afragola) e Luigi Vollero (detto il Califfo, numero uno a Portici). Dal terzetto arriva la conferma che Pantani è stato fatto fuori dal Giro per volere dei clan operanti su Napoli. Punta il dito sui Mallardo di Giugliano: solo loro «possono averlo fatto. I tre mi dissero che il banco, se Pantani vinceva, saltava e la camorra avrebbe dovuto pagare diversi miliardi in scommesse clandestine. Come quando si verificò con Maradona e il Napoli degli anni Ottanta». La Torre ricorda quella sua delusione dopo la squalifica al Giro: ma come, pure lui «aveva preso la bumbazza»... E gli altri, di rimando: «Ma quale bumbazza e bumbazza... L’hanno fatto fuori sennò buttava in mezzo alla via quelli che gestivano le scommesse...». A verbale usa peraltro parole che avvicinano chirurgicamente la prescrizione: «Escludo nella maniera più assoluta che i medici siano stati minacciati: si tratta unicamente di corruzione». In quelle carte (leggi il documento della procura di Forlì) c’è pure quanto ribadito da Rosario Tomaselli, affiliato ai clan recluso nel 1999 a Novara con Renato Vallanzasca - il primo a parlare di interessi della camorra sul Giro - che al telefono con la figlia, senza sapere di essere intercettato nell’ambito di un’altra indagine dei carabinieri di Napoli, sostiene che «la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani, cambiando le provette e facendolo risultare dopato». E quando la ragazza insiste - «ma è vera questa cosa?» - lui ribadisce: «Sì, sì, sì, sì, sì». Un sì categorico, ripetuto cinque volte. Quanto al prelievo ematico vero e proprio, i carabinieri del Nas parlano, in un’informativa, di condotta «tutt’altro che trasparente e lineare» dei tre medici che fecero l’accertamento. Non ci sono solo quelle discrepanze sugli orari i cui tempi renderebbero possibile - sono le tesi degli ematologi ascoltati dagli investigatori - l’alterazione dei risultati. Piuttosto, quelle parole sono motivate dal fatto che gli investigatori hanno accertato la presenza, nella stanzetta in cui venne fatto il prelievo, di una quarta persona, il responsabile del team medico: l’olandese Wim Jeremiasse, commissario Uci e istituzione al Tour, alla Vuelta e alla corsa rosa. Che l’olandese facesse parte del gruppo - circostanza mai emersa nella prima indagine su Campiglio - lo rivela il suo autista, Simone Cantù, mai sentito prima del 2014. Ma i tre medici ascoltati dagli investigatori e direttamente coinvolti nel prelievo o non ricordano la sua presenza o addirittura non lo conoscono. Circostanza che insospettisce i carabinieri. Che chiedono al gip di intercettarli in vista dell’interrogatorio. Richiesta però bocciata dal gip che «non ravvisa la sussistenza dei gravi indizi» del reato su cui si indaga: appunto l’estorsione. Ma torniamo al 5 giugno. Ore 9 e 15. Cantù avvicina l’olandese nella hall dell’hotel in cui sonno stati fatti i prelievi per ricordargli l’imminente avvio della tappa. Jeremiasse si volta in lacrime: «... oggi il ciclismo è morto...». E poi prosegue: «Marco Pantani ha valori non regolari». Impossibile che il commissario Uci possa spiegare altro: sei mesi dopo morirà - «in circostanze non proprio chiare», scrivono i carabinieri - in un incidente in Austria. Dov’era andato per fare da giudice in una gara di pattinatori su ghiaccio. Sprofondò con l’auto in un lago ghiacciato, il Weissensee, su cui stava spostandosi alla testa di un piccolo corteo di macchine. La sua auto giù per 35 metri nell’acqua gelida, inghiottita dal cedimento improvviso della superficie: Wim venne trovato cadavere dai sommozzatori che lo recuperarono circa un’ora dopo. La donna che era con lui, Rommy van der Wal, sopravvisse miracolosamente dopo avere cercato invano di estrarlo dall’abitacolo. Nel frattempo sono le Camere a interessarsi di ciò che accadde a Madonna di Campiglio. Se l’approfondimento parlamentare dovesse decollare, avrebbe certo un passo differente da quello giudiziario. «È opportuno che venga chiarito se, effettivamente, le indagini devono fermarsi per la prescrizione oppure se ci sia modo di appurare i fatti anche a distanza di tanti anni. Se la magistratura non può andare avanti, è opportuno - riflette Ernesto Magorno, deputato Pd - che il parlamento verifichi l’esistenza di altri percorsi giudiziari da seguire». «Altrettanto inquietante è il ruolo della criminalità organizzata - osserva un altro parlamentare pd, Tiziano Arlotti - che emergerebbe nell’ambito delle scommesse sportive: un quadro già confermato in molte altre inchieste, che però merita di essere approfondito dalla commissione». Daniela Sbrollini, responsabile nazionale Sport del Pd, incalza: «bisogna fare di tutto perché emerga la verità». Non sono solo queste sollecitazioni ad aver indotto Bindi a chiedere l’audizione dei pm forlivesi: la presidente dell’Antimafia da tempo sta pensando ad approfondimenti su sport, criminalità organizzata e doping. Intrecci attorno ai quali ruota, appunto, «una gran mole di denaro». A opporsi all’archiviazione è Tonina Pantani, la mamma del Pirata. Che attraverso Antonio De Rensis, il battagliero legale della famiglia, ha depositato l’opposizione alla richiesta della procura di Forlì. Lo stesso atto che pende davanti al gip di Rimini, chiamato a decidere sul destino dell’indagine bis sulla morte del vincitore di Giro e Tour 1998: archiviazione o supplemento di indagini.

Pantani, il caso doping e il mistero dei valori del sangue. Al di là dell’ipotetico complotto, una certezza: per 10 anni i dati del corridore presentano anomalie, scrive Marco Bonarrigo il 29 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". La parola fine a quel romanzo tragico che è la vita di Marco Pantani è questione di giorni. I tribunali di Rimini e Forlì stanno per archiviare (su richiesta dei piemme) le inchieste sugli episodi chiave della vicenda del ciclista: la morte (14 febbraio 2004) e l’espulsione dal Giro d’Italia del 5 giugno 1999. E se il procuratore di Rimini Giovagnoli non ha dubbi (overdose di cocaina), quello di Forlì Sottani si arrende a un «movente avvolto nel mistero con elementi acquisiti non idonei a identificare eventuali colpevoli». Ma ritiene «credibile» che qualcuno abbia minacciato chi eseguì il controllo del sangue di Campiglio inducendolo a truccare le provette per incassare i soldi delle scommesse. Questo qualcuno sarebbe la Camorra. Nelle 30 pagine di motivazioni l’ipotesi è costruita da alcuni ex fedelissimi del Pirata (massaggiatore, fisioterapista), da due tifosi che avevano orecchiato minacce in una pizzeria, da Renato Vallanzasca e da quattro camorristi piuttosto confusi. Quanto basta però a risollevare l’eterna ipotesi del complotto. Intanto dagli archivi dei tribunali di Trento e Forlì escono i faldoni dei due processi penali subiti dal Pirata: per l’ematocrito alto alla Milano-Torino e per Madonna di Campiglio. In entrambi i casi Marco fu assolto in appello perché il reato ipotizzato (frode sportiva) non era sostenibile. Ma le carte dimostrano come il sangue di Pantani sia stato un profondo, costante mistero in 10 anni di carriera. Lo dicono i file dell’Università di Ferrara (dominus Francesco Conconi) dove Pantani si recò regolarmente dal 1992 al 1996. Conservati a suo nome o con curiosi pseudonimi (Panzani, Panti, Ponti, Padovani...) mostrano oscillazioni impressionanti: l’ematocrito passava dal 41-42% al 52-56% con una coincidenza perfetta tra qualità dei risultati ottenuti e valori alti. E quando Pantani viene ricoverato alle Molinette dopo lo spaventoso incidente alla Milano-Torino, il suo 60,1%, fisiologicamente inspiegabile per i periti, costringe i medici a somministrargli litri di diluente per scongiurare una trombosi. Del controllo di Campiglio ora a tutti vengono in mente dettagli inediti. Ma, interrogato dagli inquirenti, il medico di Pantani, Roberto Rempi, ammise che l’atleta si controllava da solo il sangue, che l’ematocrito la sera prima era altissimo (tra 48 e 49) e Marco totalmente fuori controllo dal punto di vista sanitario. Su Campiglio rispunta l’accurata e documentata perizia dell’Università di Parma: il Dna del sangue era di Pantani, il diluente nella provetta non ebbe effetto sul risultato mentre «l’assunzione esogena di eritropoietina artificiale» spiegava «virtualmente i parametri modificati nel campione di sangue 11.440». A completare il quadro, ecco la lettera «personale e non protocollata» che nel settembre 2000 Pasquale Bellotti, responsabile Commissione Scientifica Antidoping, inviò al segretario generale del Coni e alla Federciclismo alla vigilia dei Giochi di Sydney, dove Pantani fu convocato a dispetto di una salute non buona e di un percorso inadatto. Scriveva Bellotti: «Il quadro ematologico di Pantani, verificato ieri a Salice Terme, è estremamente preoccupante. Il regolamento attuale non ci consente di bloccarlo, ma 3 dei 5 parametri sono fortemente alterati e pongono a rischio la sua salute». Pantani aveva ematocrito al 49% e ferritina da malato: 1.019 ng/mL. La federazione rispose affermando che l’atleta aveva superato tutti i controlli antidoping. Il Coni, risentito, invitò Bellotti a occuparsi di altro. Marco Pantani, lui, mentalmente era forse già un ex atleta.

Campiglio 1999, la svolta. Il p.m.: “La camorra fermò Pantani? E’ credibile”, scrive Luca Gialanella il 14 marzo 2016 su “La Gazzetta.it" Confermate le anticipazioni, dalle parole di Vallanzasca in poi: fu un clan camorristico a intervenire per arrivare all’alterazione del controllo del sangue del Pirata la mattina del 5 giugno 1999. E’ tutto scritto nelle pagine dell’inchiesta della Procura di Forlì, che l’ha chiusa con la richiesta di archiviazione: gli autori dei reati non possono essere identificati. Ma la storia dello sport? Una “cimice” nell’abitazione di un camorrista, le indagini della polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Forlì, guidata dal procuratore Sergio Sottani. Le intercettazioni ambientali e finalmente i riscontri, nomi e cognomi, che svelano, secondo la ricostruzione degli inquirenti, quanto avvenne la mattina del 5 giugno 1999 nell’hotel Touring di Madonna di Campiglio, alla vigilia della penultima tappa con Gavia, Mortirolo e arrivo all’Aprica. Il controllo del livello di ematocrito di Marco Pantani in maglia rosa. L’esclusione del Pirata dal Giro d’Italia per ematocrito alto, 51,9% contro il 50% consentito allora dalle norme dell’Uci, la federciclismo mondiale. L’inizio della fine sportiva e umana dello scalatore di Cesenatico. “Un clan camorristico intervenne per far alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”: è l’ipotesi che segue il pm di Forlì. Parole che in questi anni avevamo sentito più volte, dalla famosa frase del bandito Renato Vallanzasca in carcere (“Un membro di un clan camorristico in carcere mi consigliò fin dalle prime tappe di puntare tutti i soldi che avevo sulla vittoria dei rivali di Pantani. ‘Non so come, ma il pelatino non arriva a Milano. Fidati’) al lavoro di indagine della Procura di Forlì, che il 16 ottobre 2014 riaprì l’inchiesta sull’esclusione di Pantani da Campiglio con l’ipotesi di reato “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Indagine già svolta nel 1999 a Trento dal pm Giardina, e archiviata. Scommesse contro Pantani, scommesse miliardarie (in lire) che la camorra non poteva perdere. Da qui il piano di alterare il controllo del sangue. La Procura di Forlì ha ricostruito tutti i passaggi, ha sentito decine di persone, in carcere e fuori. Ha avuto la prova-regina da cui partire, con l’intercettazione ambientale di un affiliato a un clan che per cinque volte ripete la parola “sì”, alla domanda se il test fosse stato alterato. Ma i magistrati sono andati oltre, hanno ricostruito la catena di comando, sono arrivati ai livelli più alti dell’associazione criminale. “Sono emersi elementi dai quali appare credibile che reiterate condotte minacciose ed intimidatorie siano state effettivamente poste in essere nel corso degli anni e nei confronti di svariati soggetti che, a vario titolo, sono stati coinvolti nella vicenda del prelievo ematico”, scrive il pm Sottani. “Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei ad identificare gli autori dei reati ipotizzati”. Ecco la richiesta di archiviazione. Eppure forse uno dei più grandi misteri dello sport mondiale ha trovato una verità, almeno parziale. A distanza di 17 anni. E i legali della famiglia Pantani stanno lavorando per capire se possano esserci spiragli per qualche azione in campo civile e sportivo.

"Fu la Camorra a far perdere il Giro a Pantani". Esclusiva di Davide Dezan per Premium Sport del 14 Marzo 2016. Un detenuto vicino alla Camorra e a Vallanzasca, una telefonata intercettata e l'indiscrezione esclusiva raccolta per Premium Sport dal nostro Davide Dezan. Sono i nuovi ingredienti del "caso Pantani" e di quanto, mano a mano, sta uscendo sul Giro perso dal Pirata nel '99, quando fu fermato per doping a Madonna di Campiglio. Riportiamo qui sotto il testo dell'intercettazione. L’uomo intercettato è lo stesso che, secondo Renato Vallanzasca, confidò in prigione al criminale milanese quale sarebbe stato l’esito del Giro d’Italia del ’99, ovvero che Pantani, che fino a quel momento era stato dominatore assoluto, non avrebbe finito la corsa. Dopo le dichiarazioni di Vallanzasca, e grazie al lavoro della Procura di Forlì e di quella di Napoli, l’uomo è stato identificato e interrogato e subito dopo ha telefonato a un parente. Telefonata che la Procura ha intercettato e che Premium Sport diffonde oggi per la prima volta, in esclusiva assoluta. 

Uomo: “Mi hanno interrogato sulla morte di Pantani.”

Parente: “Noooo!!! Va buò, e che c’entri tu?”

U: “E che c’azzecca. Allora, Vallanzasca ha fatto delle dichiarazioni.”

P: “Noooo.”

U: “All’epoca dei fatti, nel ’99, loro (i Carabinieri, ndr) sono andati a prendere la lista di tutti i napoletani che erano...”

P: “In galera.”

U: “Insieme a Vallanzasca. E mi hanno trovato pure a me. Io gli davo a mangià. Nel senso che, non è che gli davo da mangiare: io gli preparavo da mangiare tutti i giorni perché è una persona che merita. È da tanti anni in galera, mangiavamo assieme, facevamo società insieme.”

P: “E che c’entrava Vallanzasca con sto Pantani?”

U: “Vallanzasca poche sere fa ha fatto delle dichiarazioni.”

P: “Una dichiarazione...”

U: “Dicendo che un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: ‘Guarda che il Giro d’Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine. Perché sbanca tutte ‘e cose perché si sono giocati tutti quanti a isso. E quindi praticamente la Camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato. Questa cosa ci tiene a saperla anche la mamma.”

P: “Ma è vera questa cosa?”

U: “Sì, sì, sì… sì, sì.”

Tonina Pantani: «È stata ridata la dignità a Marco». La madre parla dell'intercettazione secondo la quale la Camorra avrebbe fatto risultare positivo il ciclista di Cesenatico al controllo antidoping: «Finalmente tutti sapranno che l’avevano fregato», scrive “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. «Non mi ridanno Marco, logicamente, ma penso gli ridiano la dignità, anche se per me non l’ha mai persa». Tonina Pantani parla dell'intercettazione di un detenuto che sostiene che la Camorra abbia fatto perdere il giro al figlio, Marco. «Le parole di questa intercettazione fanno male, è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l’avevano fregato. Io mio figlio lo conoscevo molto bene: Marco, se non era a posto quella mattina, faceva come tutti gli altri. Si sarebbe preso quei 15 giorni a casa e poi sarebbe rientrato, calmo. Però non l’ha mai accettato, non l’ha mai accettato perché non era vero. Finalmente la gente ora potrà dirlo, anche se tanta gente sapeva che l’avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose».

Legale famiglia Pantani: «A Madonna di Campiglio non doveva essere fermato». Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico: «Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata». Scrive “Tutto Sport” martedì 26 gennaio 2016. Marco Pantani a Madonna di Campiglio, al Giro d'Italia, nel giugno del 1999, non doveva essere fermato. Lo ribadisce l'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico, in una intervista andata in onda stamane durante la trasmissione Rai della Tgr Emilia-Romagna 'Buon Giorno Regione'. "Credo - sottolinea il legale - che siano emersi dei fatti che in ogni caso disegnano gli avvenimenti di quel giorno a Campiglio in maniera diversa. Ricordo che Marco nel pomeriggio tornando a casa si fermò all'Ospedale Civile di Imola. L'ematocrito era tornato a 48.2 ma soprattutto le piastrine che a Campiglio (dove il pirata venne sottoposto ad un controllo Uci, ndr) erano 100.000, all'Ospedale di Imola erano 170.000. I due esami sono totalmente incompatibili, dobbiamo solo capire se è più attendibile quello fatto in una stanzetta di un hotel a Campiglio o in un Ospedale Civile della Repubblica italiana". La Procura di Forlì sta ancora indagando su quello che è accaduto a Madonna di Campiglio, indagine della quale anche la Direzione distrettuale antimafia di Bologna si occupa per la presunta interferenza della Camorra e di un giro illegale di scommesse nell'esclusione di Marco Pantani nel Giro d'Italia. "Credo anche con grandissimo impegno - sottolinea De Rensis - lo dico da spettatore esterno. La sensazione che noi abbiamo sempre avuto quando abbiamo colloquiato con il Procuratore Capo e il Sostituto, è stata sempre quella di essere ascoltati, non siamo mai stati un elemento di fastidio per loro e questo ci ha dato una grande soddisfazione". Da questa indagine ribadisce l'avvocato della famiglia Pantani "noi ci aspettiamo che il Procuratore Capo e il Sostituto con il loro lavoro intenso e molto serio, ridisegnino i fatti. Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata perché Marco Pantani, noi sosteniamo e ne siamo fermamente convinti, non doveva essere fermato". Nel filone di indagini che riguarda la Procura di Rimini sulla morte di Marco Pantani, riaperto un anno e mezzo fa, il legale della famiglia Antonio De Rensis, nell'intervista Rai ribadisce che "l'indagine non è chiusa, anzi - aggiunge - devo dire che dopo la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero sulla quale deciderà il Giudice delle indagini preliminari, che dovrà fissare un'udienza, abbiamo avuto ancora più conforto, perché leggendo le carte di quell'indagine abbiamo capito che forse abbiamo ragione noi". Sul caso, il legale ha ricordato che "non soltanto qualche giorno dopo la riapertura, il Pubblico Ministero incaricato si è chiamato fuori (il 9 settembre ha chiesto di astenersi da quell'indagine) ma anche il Gip che era stato nominato per decidere sulla richiesta di archiviazione, ha chiesto di astenersi per cui adesso è stato nominato un altro Gip che mi risulta essere arrivato a Rimini da poco e che speriamo abbia la forza di fare chiarezza su questa indagine che ha decine di punti da chiarire: uno per tutti, ricordo che il consulente del Pubblico Ministero ha detto nella sua relazione, ma addirittura anche a un quotidiano nazionale, che le sue conclusioni potrebbero essere completamente smentite facendo ulteriori esami e dice anche quali, e che si può fare molto di più. Davanti a queste cose faccio fatica a pensare che si possa archiviare questa indagine". "Ho molta fiducia nelle indagini - ha concluso De Rensis riferendosi a entrambi i filoni di indagini - in particolar modo ho grande fiducia sul fatto che la Procura di Forlì possa ridisegnare gli avvenimenti di quella mattina".

Caso Pantani, il legale: «Ora assegnino a Marco il Giro d’Italia 1999». L’avvocato Antonio De Rensis: «Ci opporremo alla richiesta di archiviazione e cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro», scrive “Tutto sport” martedì 15 marzo 2016. Come l'inchiesta riaperta sulla sua morte a dieci anni di distanza, anche quella sulla fine sportiva di Marco Pantani si è conclusa con una richiesta di archiviazione. Come i colleghi di Rimini, i Pm di Forlì hanno definito gli accertamenti ritenendo di non aver elementi per sostenere un processo. L'ombra di un intervento della camorra sul Giro d'Italia del 1999 è rimasta tale, un sospetto, forse anche credibile, ma non percorribile, né perseguibile penalmente. Come avvenuto a Rimini, anche a Forlì la famiglia potrà opporsi alla decisione, che spetterà infine ad un Gip. L'inchiesta bis sul complotto nella corsa rosa era nata dall'idea che Pantani il 5 giugno a Madonna di Campiglio fosse stato incastrato dalla criminalità organizzata: bisognava, secondo questa ipotesi, eliminare chi stava dominando il Giro e per farlo si sarebbe alterato il valore dell'ematocrito nel sangue del ciclista di Cesenatico, favorito nelle puntate degli scommettitori. E' su questo che ha insistito l'avvocato Antonio De Rensis, il legale della madre di Pantani, Tonina Belletti. Ha ottenuto prima la riapertura in Romagna dell'indagine archiviata dalla Procura di Trento, quindi che della vicenda si interessasse anche la Dda di Bologna con il Pm Enrico Cieri, tenuto informato periodicamente dai magistrati forlivesi, il capo Sergio Sottani e la sostituta Lucia Spirito, sugli sviluppi degli accertamenti. E' lo stesso legale a spiegare che i Pm hanno "sì ritenuto credibile" che ci sia stata un'alterazione dei test, "ma forse non si può andare oltre". Risultato, richiesta di archiviazione nel merito, conferma il legale. Sul punto la procura non ha fatto commenti. A quanto si è appreso, nell'atto si farebbe riferimento ai reati di estorsione e minacce a carico di ignoti e di questi però non è stato possibile individuare gli eventuali responsabili e pertanto se ne è chiesta l'archiviazione, nel merito. La procura nella richiesta aggiunge che, rispetto ad altri reati teoricamente ipotizzabili, essi sarebbero comunque prescritti. Nell'indagine sono state sentite varie persone, tra cui la mamma del Pirata, giornalisti e medici. Uno snodo poteva arrivare a ottobre 2014, quando fu convocato Renato Vallanzasca. Agli inquirenti l'ex 'bel René' riferì che nel 1999 fu avvicinato in carcere da un esponente della camorra che, visto il ruolo di prestigio di Vallanzasca all'interno della mala italiana, era desideroso di fargli un 'regalo', e cioè di non farlo scommettere, come stavano facendo tutti, sulla vittoria di Pantani, perché il Pirata quel Giro "non lo avrebbe finito". Anche questa persona è stata sentita dagli investigatori. E c'è, agli atti dell'inchiesta, una telefonata intercettata in cui il detenuto, dopo l'interrogatorio, parla con un parente. Racconta di Vallanzasca e di quando dichiarò che "un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: guarda che il Giro d'Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine" e che "quindi praticamente la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato". E quando il parente domanda, "Ma è vera questa cosa?", la risposta è un sì, ripetuto cinque volte. Parole che "fanno male", a Tonina Pantani, secondo cui "è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l'avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose". Ma non è bastato. L'uomo sarebbe stato riconvocato per chiarire, ma quel poco che ha detto non avrebbe convinto chi indagava sulla possibilità concreta di fare passi in avanti. Sulla richiesta di archiviazione, l'avvocato della famiglia Pantani Antonio De Rensis ha commentato: «È una grande sconfitta - spiega a Sportface.it - per chi all’epoca non è riuscito a capire che ci fosse qualcosa di strano, che i controlli antidoping fossero alterati. E poi questa seconda richiesta di archiviazione rappresenta comunque un atto di accusa, perché conferma la presenza dell’infiltrazione camorristica. Non ci sono più dubbi. Futuro? Ci opporremo alla richiesta di archiviazione. In secondo luogo cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro d’Italia 1999, perché Marco Pantani non l’aveva vinto, l’aveva stravinto. Possibilità che a Marco venga assegnato quel Giro? Io penso di sì, o almeno noi combatteremo per avere almeno una co-assegnazione ad honorem postuma (dopo la squalifica di Pantani fu Ivan Gotti a vincere quell’edizione maledetta della Corsa Rosa, ndr). D’altronde, i fatti sono chiari. Non c’è solo l’intercettazione che sta girando in queste ore, ma una serie di dichiarazione univoche di altre persone informate sui fatti. Novità sull'indagine relativa alla morte di Pantani? Anche qui siamo in fiduciosa attesa: stiamo aspettando la decisione del Gip e anche su questa indagine attendiamo risposte che ad oggi non sono ancora arrivate».

Pantani: 17 anni per avere giustizia, è grama la vita degli avvoltoi. Onore ai giudici di Forlì e un abbraccio fortissimo a Tonina e Paolo Pantani: non hanno mai smesso di difendere Marco dalle palate di fango piovutegli addosso da chi non gli chiederà mai abbastanza scusa, scrive Xavier Jacobelli su “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. Ci sono voluti diciassette anni, perché la verità su quel giorno a Madonna di Campiglio venisse a galla ed è merito dei magistrati della Procura di Forlì se, finalmente, è venuta a galla. Così come le parole di Tonina Pantani non hanno bisogno di nessun commento, tanto ammirevoli sono stati la tenacia e il coraggio con i quali la mamma di Marco e Paolo, il papà, in tutto questo tempo, per tutto questo tempo, hanno gridato al mondo che Pantani non avesse mai barato in quel Giro che stava dominando. Diciassette anni aspettando giustizia. E, se riascoltate Marco parlare durante la conferenza-stampa susseguente l’esclusione dalla corsa, leggete nella sua voce tutto lo choc che ha provato, il dolore immenso che l’ha squassato, infilandolo nel tunnel della depressione che l’ha portato alla morte il 14 febbraio 2004, a Rimini, Hotel delle Rose. In attesa di avere giustizia anche per questa vicenda, il pensiero corre a tutti quelli che il giorno dopo Campiglio e nel tempo che è venuto dopo, hanno sputato fango su Marco. Quelli che il giorno prima Marco pedalava nella leggenda e il giorno dopo veniva scaricato come un pacco postale. Dovunque siano, non chiederanno mai abbastanza scusa. E’ grama, la vita degli avvoltoi.

Ciclismo. «Paga e corri», trema il mondo del pedale italiano. Rischiano la radiazione 3 team manager che chiedevano soldi agli atleti: Viviani testimone chiave, scrive Marco Bonarrigo il 16 settembre 2016. Il 6 novembre 2015 l’inchiesta del Corriere ha raccontato la realtà di ciclisti e calciatori che pagano per lavorare. Da qui parte il lavoro della Procura del Coni. Se lo stipendio te lo devi pagare da solo, che mestiere diventa il ciclista (o il calciatore)? Sono passati dieci mesi da quando un’inchiesta del Corriere della Sera ha dato alcune risposte inquietanti a questa domanda. Nel calcio l’omertà è ancora più forte di tutto, anche se i casi di giocatori di Lega Pro che accusano questa pratica non mancano. Il muro nel ciclismo è crollato grazie al lavoro della nuova Procura generale del Coni (potenziata dal presidente Malagò) che ha approfondito il tema, archiviato due volte dalla disciplinare della Fci. E il risultato di testimonianze e interrogatori fa tremare l’ambiente: sono arrivati i deferimenti ai team manager delle tre principali squadre Professional italiane, ovvero Bardiani (Bruno Reverberi), Androni (Gianni Savio) e Southeast (Angelo Citracca). Rischiano da un anno di squalifica fino alla radiazione. La picconata definitiva a un sistema vergognoso che dura da anni è d’autore: a darla è stato Elia Viviani, due mesi prima di diventare campione olimpico nell’Omnium a Rio. L’azzurro non ha certo dovuto pagare per correre, ma ha confermato con la sua testimonianza del 14 giugno che la Bardiani ha chiesto soldi a Marco Coledan, suo amico e da lui «scelto» per seguirlo alla Liquigas. Coledan, che di primo acchito aveva negato l’episodio (confermato anche dall’agente), è stato a sua volta deferito. Almeno altri 6 corridori invece hanno ammesso di aver pagato o di aver procurato sponsor che pagassero per il loro ingaggio. Se non è l’azienda di famiglia, a tirare fuori i soldi necessari è il nonno che sogna un nipote forte come Moser o magari il papà del compagno più debole, in una sorta di trattativa «2 al prezzo di 1», documentata per due atleti veneti. Nell’inchiesta «Paga e corri» spicca il ruolo anche di alcuni procuratori di ciclismo. O presunti tali, dato che percepire una percentuale sui soldi pagati dal proprio assistito per lavorare è solo uno dei risvolti grotteschi dell’intera vicenda, che dà un quadro sconfortante del movimento. Il capo d’accusa per i tre manager deferiti — violazione dell’articolo 1 del Regolamento della Giustizia sportiva della Federciclismo — è chiarissimo e in poche righe fa capire anche il risvolto tecnico, niente affatto secondario, della vicenda. Citracca, Savio e Reverberi rischiano grosso «per aver condizionato il passaggio al professionismo di atleti non sulla base di meriti sportivi acquisiti, bensì al reperimento di uno sponsor che garantisse un utile per la società ed in particolare per aver richiesto, per tramite del procuratore x al corridore y un importo in denaro a titolo di sponsorizzazione, quale condizione per il suo ingresso in squadra». «Ricordo — dice Viviani davanti al Procuratore del Coni — che per Coledan fu una sorpresa sapere che per svincolarsi dalla Bardiani si sarebbe dovuta versare una penale. Anche perché mi disse che percepiva il minimo dello stipendio e nessuno gli aveva detto che per svincolarsi avrebbe dovuto versare una somma di denaro. L’aspetto anomalo era che non risultava indicato in maniera certa e numericamente precisa l’importo di questa cosiddetta penale (…)». Così, nel discusso contratto 2+1, i soldi per liberarsi erano passati dai 10/15 mila euro iniziali, fino a 35/40 mila. Chi ci perde alla fine è soprattutto il ciclismo.

Ciclismo: scarsi, ma coi soldi di papà Così cala il livello e l’arrivo è miraggio. La difesa: abbiamo ingaggiato in passato corridori che portavano sponsor, ma l’Uci non ha mai contestato il valore sportivo dei nostri atleti, scrivono Marco Bonarrigo e Paolo Tomaselli il 15 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «In passato abbiamo ingaggiato corridori che avevano lo sponsor e non mi vergogno a dirlo. Ramon Carretero? Certo che l’avevo preso per i soldi, c’era un progetto con Panama e la Cina che mi salvava la squadra. Ha fatto una str… si è dopato. Ma che c’entra col fatto che era sponsorizzato dal padre?». Così parlò al Corriere Angelo Citracca, team manager del Team Southeast, uno dei tre deferiti dalla Procura del Coni al Tribunale della Federciclismo. Carretero, figlio di un facoltoso imprenditore panamense, arrivò in Italia nel 2014 con palmares ciclistico nullo ma accompagnato dal cospicuo assegno di papà che lo voleva professionista a tutti i costi. Maglia nera fin dal primo metro al Giro 2015, si ritirò prima di farsi beccare dall’antidoping. Anche per arrivare ultimo aveva bisogno di Epo. Nella memoria difensiva depositata al Coni per difendersi dalle contestazioni, Angelo Citracca spiega: «Il valore sportivo di una squadra è condizione sine qua non per ottenere la licenza internazionale e fino ad oggi l’Uci non ha contestato alcuna carenza di valore ai nostri atleti». Ha ragione: per la Federazione internazionale quando ci sono i soldi il merito passa in secondo piano. Puoi ingaggiare chi credi e anche se perdi tutte le partite non retrocedi mai. Nel professionismo delle due ruote non c’è la serie C. E a fronte di un Carretero «pagante» capita che il toscano Matteo Mammini, dilettante di gran valore, non passi professionista perché, stando alle sue dichiarazioni, avrebbe respinto la richiesta del manager Androni Gianni Savio di raccogliere 50 mila euro per sponsorizzarsi da solo. Indebolito da atleti non all’altezza del compito, il ciclismo italiano di seconda fascia vince poco o nulla. Nel palmares 2016 dei quattro team Professional azzurri (75 corridori stipendiati, almeno formalmente) i terreni di conquista sono Albania, Romania, Turchia, Malesia. Da gennaio ad oggi — in oltre duemila giorni di gara individuali — totalizziamo la miseria di 40 vittorie, quasi tutte in Asia o Europa orientale. Battuti spesso da dilettanti però selezionati per meriti sportivi. Già, ma come si determina il valore atletico in uno sport dove tempi e misure hanno valore relativo? Uno degli indici è la percentuale di ritiri durante le corse che in alcuni team Professional italiani è la più alta del mondo: tolti i capitani (spesso gli unici pagati decorosamente) molti altri si fermano a metà strada in una corsa su tre: ritirati cronici. Appena la testa del gruppo apre un po’ il gas o la strada si impenna, salgono in ammiraglia e tornano a casa. Per poter fare bella figura vengono spediti a correre in Cina o Azerbaigian. 

Diritti tv: Infront e i soldi alle squadre. Brescia, «Nel cda uno di fede giurata». Nelle intercettazioni gli scambi e i favori con mezza serie A. Il sospetto è che la compagnia abbia giocato contro Sky, ma anche contro la Lega Calcio, scrive Giuseppe Guastella il 31 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un torneo virtuale di calcio si gioca nell’inchiesta della Procura di Milano sui diritti tv, ed anche se tutti farebbero volentieri a meno di partecipare, il numero delle squadre aumenta. Per gli investigatori esiste un ristretto giro di società e persone in grado di condizionare il mondo del calcio. A partire dalla Infront di Marco Bogarelli, advisor Lega calcio di serie A nell’assegnazione dei diritti, che gestisce anche le sponsorizzazioni di molte squadre. Come il pericolante Cagliari, con il quale a marzo, però, decide di rescindere il contratto pagando ben 10 milioni. La Gdf non dà interpretazioni, si limita a riportare una telefonata, in cui si parla di un incontro tra Bogarelli e il presidente Tommaso Giulini, tra Giuseppe Ciocchetti (socio di Bogarelli) e il legale di Infront Antonio D’Addio che pensa che ci sia «qualcosa che noi non sappiamo con Lotito» (Claudio, presidente Lazio e consigliere federale Lega) perché «un club che sta andando in serie B conta il due di picche». Sotto indagine anche un finanziamento da due milioni andato dal Gruppo di Antonio Percassi, proprietario dell’Atalanta, a Infront, che ha problemi perché non raggiunge i ricavi previsti, e che torna all’Atalanta. Tra Infront e le società ci sono legami e scambi di favori. La Gdf annota che Bogarelli vuole un suo uomo nel cda del Brescia, ma l’ad Rinaldo Sagramola ne cerca uno «non facilmente riconducibile a voi, ma di fede giurata». Soccorsi anche per l’Hellas Verona. «Gli servivano 700 più iva», dice Bogarelli. «Orca trota! Gli ho pagato sette… seicento e qualcosa. Va bene, allora gli metto in pagamento anche l’altra», risponde il socio. Lo stesso avviene con il Bari che non può pagare i calciatori e per il quale interviene Lotito che a Ciocchetti dice: «Me devi risolve quel ca… de problema del Bari, porca…», che «questo pija la penalizzazione». Analoghi problemi nel Genoa, che deve anche iscriversi alla Uefa ma mancano 5 milioni. Interviene Riccardo Silva, presidente della Mp& Silva Group, che detiene i diritti tv del calcio italiano per l’estero, e le Fiamme gialle intercettano un vortice di telefonate con il presidente Enrico Preziosi preoccupato: «Ho perso tutto, anche l’iscrizione Uefa» perché «non ho ricevuto niente, porca pu…..!». Quando i soldi arrivano, Preziosi, secondo quanto dice Ciocchetti, è così contento da proporre il 3% della Giochi preziosi per 10mila euro che quando la società sarà quotata ad Hong Kong, varrà 10milioni. «A noi non costa un c…. È un regalo che ci fa», commenta Ciocchetti. Nella partita dei diritti tv, i pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini sono convinti che Infront abbia giocato contro Sky, che oltre al satellite doveva avere anche il digitale terrestre, andato a Rti-Mediaset. Si gareggia anche per il pacchetto «C» (interviste a fine partita) con Galliani che vorrebbe «fare pressione sulle altre squadre...che abbiamo noi... come diritto di marketing», mentre Ciocchetti è preoccupato per l’intera asta: «Ci mettono tutti in galera», «in un’asta pubblica ti ingabbiano». Infine i diritti sulla Serie B. Bogarelli è attento alle esigenze di Rti che, anche qui, è in concorrenza con Sky. Parla con Andrea Abodi, presidente Lega B, che sottolinea le «criticità» avvertendo: «A me interessa che nessuno abbia da dire», anche se la Gdf è convinta che Lega A e B siano «assoggettate alla volontà dell’advisor». Ultima grana, le scommesse online durante le partite. La Juventus protesta perché Silva avrebbe ceduto i diritti a siti stranieri, ma la preoccupazione di Infront è che se ci sono soldi da recuperare non devono tornare alla Lega. Sarebbe «uno spreco».

Diritti tv, intercettazioni e Guardia di Finanza: “Ecco il sistema Infront per favorire Mediaset”. Secondo gli investigatori nel 2014 è stata truccata l'asta per l'assegnazione delle dirette televisive del triennio 2015-2018 dove l'offerta migliore era stata fatta da Sky: "Non c'era trasparenza ed equità". Adriano Galliani al telefono: "Bisogna fare pressione sulle altre squadre", scrive Andrea Tundo il 30 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Centinaia di intercettazioni telefoniche, alcune inequivocabili, a supporto di un’indagine che va avanti dalla primavera dello scorso anno, disegnano quello che gli investigatori non esistano a definire “un vero e proprio sistema” imperniato sul ruolo diInfront nel calcio italiano. Due relazioni della Guardia di finanza, anticipate da La Repubblica, descrivono in maniera limpida quanto l’advisor della Lega Serie A pesi nelle decisioni prese dalla Confindustria del calcio italiano, grazie alle numerose attività svolte per conto dei club e alla vicinanza dei suoi manager, Marco Bogarelli in primis, con il mondo Mediaset e in particolare con Adriano Galliani, ad del Milan e vice presidente della Lega. Nei primi mesi dell’inchiesta – che ha subito una nuova accelerazione negli scorsi giorni con il sequestro di tutti i contratti che legano Infront ai club di A per i quali cura il marketing – gli inquirenti si sono imbattuti nell’ultima trance di assegnazione dell’asta dei diritti tv del giugno 2014. La Lega era infatti chiamata a piazzare il pacchetto C, quello che dà la priorità per le interviste nel pre e post partita, oltre all’accesso delle telecamere negli spogliatoi e ai commenti dei bordocampisti accanto a entrambe le panchine. Un ramo apparentemente insignificante ma comunque appetitoso per le emittenti per fornire un’esperienza completa ai loro clienti. Tanto che – stando alle relazioni delle fiamme gialle – Mediaset prova a forzare la mano per vincere la gara. La proposta del Biscione è infatti più vantaggiosa, ma sarebbe “assolutamente non valida” perché legata a un accordo di sub licenza, secondo quanto riportato da Repubblica. Di conseguenza il reale vincitore sarebbe Sky, che ha imbustato un’offerta più bassa. Ma le intercettazioni telefoniche ci sono alcuni passaggi che chiarirebbero come in quelle ore sia stata indirizzato l’esito. Da Rti infatti chiamano subito Bogarelli: “Adesso devi convincerli tua eseguire la sub licenza”, ordinano. E il presidente di Infront Italy risponde: “Va bene, va bene, va bene, va benissimo (…) date un colpo anche ad Adriano Galliani”. E l’amministratore delegato rossonero, sempre in un’intercettazione riportata da Repubblica, a riguardo dice: “Bisogna fare pressione sulle altre squadre… che abbiamo noi come diritto di marketing”. Un passaggio chiave perché i soldi che arrivano da Infront alle squadre per la gestione del marketing sono un tesoretto importante per la loro sopravvivenza e verrebbero usati come leva per convincere i club a votare ciò che interessa a Infront. E le società sono tante, praticamente tutte tranne Juventus e Roma. Che spesso si mettono di traverso, provocando apprensione all’advisor. Riporta ancora La Repubblica un’intercettazione tra il direttore generale dell’azienda Giuseppe Ciocchetti e il legale della stessa, Antonio D’Addio: “Dopo il precedente dello scorso luglio, che abbiamo molto forzato la mano, io sconsiglierei di forzarla ancora”. Un’opinione condivisa da Ciocchetti, eppure quel pacchetto finisce Mediaset. Gli investigatori allora annotano: “Atteso il ruolo di advisor, Infront dovrebbe agire garantendo ai partecipanti assoluta equità, trasparenza e non discriminazione, garanzia che, dalla lettura delle intercettazioni, non è ravvisabile non solo per il pacchetto C ma anche per i pacchetti A, B, D, E”. Aggiungendo che “risulta significativo che nello stesso periodo non ci sono stati contatti con Sky”. Uno strapotere al quale, come anticipato giovedì da IlFattoQuotidiano.it, ora anche la politica vuole mettere un freno con una revisione della legge Melandri-Gentiloniche impedisca a Infront di occupare più settori, scardinando così il suo grado di influenza. Che arriva, e questo è un altro filone d’indagine già noto, al ‘salvataggio’ di società in difficoltà. Sarebbe accaduto, ipotizzano i pm, con il Genoa di Enrico Preziosi.  Illuminante un dialogo tra Ciocchetti e Bogarelli: “Gli abbiamo salvato la vita perché non ha preso sei punti di penalizzazione, per quello che abbiamo fatto, ricordatelo”. “Quello” sarebbe un prestito da 15 milioni di euro arrivato dallo stesso Bogarelli e da Riccardo Silva, numero uno di Mp&Silva, tra i leader mondiali nella commercializzazione dei diritti tv, compresa la Serie A all’estero. Secondo gli inquirenti i soldi arrivati a Preziosi sarebbero provenienti “dalle disponibilità di Silva” accreditate “presso un rapporto bancario estero riferibile a un veicolo Infront”. Una ricostruzione smentita da Mp&Silva che definisce Infront “un competitor con cui capita spesso di intrattenere normali rapporti economici”, specificando che “cosa poi loro facciano dei soldi che prendono da noi, non ci riguarda”.

Diritti tv, le intercettazioni. Il numero due di Infront: “Finiamo tutti in galera”. In una conversazione con l’avvocato della Lega, il manager Giuseppe Ciocchetti si mostra spaventato. E Bogarelli tira in ballo un possibile turno di Tim Cup in Qatar: “Metterebbero un sacco di soldi...”, scrive la “La Gazzetta dello Sport" il 31 gennaio 2016. Grazie ad alcune intercettazioni, emergono novità nell’inchiesta sui diritti tv del calcio, origina dall’arresto per riciclaggio, lo scorso ottobre, del fiscalista Andrea Baroni in un cui filone parallelo i pm di Milano hanno iscritto nel registro degl indagati Marco Bogarelli, presidente di Infront, con l’ipotesi di turbativa d’asta e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Per i presunti finanziamenti ai club sono indagati anche i presidenti di Genoa, Bari e Lazio, Preziosi, Paparesta e Lotito. Ecco il testo di alcune intercettazioni. La prima è quella tra l’avvocato della Lega Calcio Ghirardi e il manager di Infront Ciocchetti. I due parlano di trattativa privata.

G.: «Ma domani il primo, cioè, voglio dire, il legale della Juve, che evidentemente spinge da un’altra parte, solleva il problema e io a questo punto devo rispondere. Allora, io rispondo in coscienza, ma anche nell’interesse di tutti…».

C.: «Però, scusami, si può andare per via privata… Non è che la tesi può essere nulla quella di Mediaset, e deve essere accettata quella di Sky?».

G.: «No, assolutamente, no. Allora, io vado a trattativa privata. Allora, le due offerte che ho ricevuto non sono per me accettabili: una perché comunque, in ogni modo, non mi dà una soddisfazione economica che io mi aspettavo, e quindi ho tutto il diritto del mondo di poterla rifiutare, l’altra perché magari mi dava un’aspettativa economica che a me poteva anche piacere, però purtroppo è condizionata. Allora a questo punto andiamo a trattativa privata, nell’ambito della trattativa privata rimuoviamo quelli che sono i problemi. Ma così io non posso andare a dire: “Allora, l’accetto a condizione che tu la tolga”, cioè io sto modificando un’offerta eh?».

C.: «Facciamo la trattativa privata, così rimuoviamo gli ostacoli, riformulino le offerte, ma che siano loro a riformulare…».

C. osserva: «Ci mettono tutti in galera».

BOGARELLI-GALLIANI — Colloquio tra Bogarelli e Galliani. Per commentare gli esiti delle offerte considerati i quali gli esprime il suo orientamento.

B.: «Senti… invece lì… il pacchetto C lo aggiudicherei…».

G.: «Uh! Tre mi… Cos’è? Più di 3 milioni, assolutamente!».

B.: «Sì, via… Alla grande…».

G.: «Perché tu pensi che il secondo giro si porta a casa ancora qualcosa di più?».

B.: «No, no, no, no… ma poi, dammi retta… andiamo così».

G.: «No, ma non nel C, no, sto parlando diritti esteri».

B.: «Ah, sì, quelli sì, sì, secondo me sì, perché sono tempestato… poi in Qatar, Aspire è interessatissimo a fare la partita del turno di Tim Cup a gennaio…».

B.: «…Metterebbero un sacco di soldi...sono».

G.: «Dai, dai, dai, dai va bene».

CIOCCHETTI-SILVA — Ciocchetti parla con Silva (presidente della MP&Silva Group) del 3% della Giochi Preziosi offerto dal presidente del Genoa.

C.: «e diceva: guarda siccome siete stati gli unici che mi avete dato retta che ogni volta che chiamavo...voglio ricompensarvi di questo vostro sacrificio, quindi ora la società vale 300 milioni, però lui è convinto, poi non so se è così, in quotazione varrà almeno il doppio, se non ancora di più... quindi io sono disposto a darvi il 3% della GIOCHI PREZIOSI, facciamo un contratto di opzione, io l’ho già visto tutto, un contratto d’opzione che voi potete esercitare a 10mila euro, una cagata...5 mila euro, che voi potete esercitare quando volete, quando si sa che la quotazione certa ha un valore di 300 milioni, per il 100%, fino.. che quindi vale 10 milioni... cioè, voi lo esercitate, acquistate 10 milioni, lo fate soltanto se la società vale di più, fino a 25 milioni di guadagno... scusa fino a 25 milioni di valore se ve li tenete tutti voi, quindi più 15, dopodichè dividiamo fifty fifty...».

LA REPLICA — In serata la replica di Infront affidata all'Ansa: l'advisor della Lega calcio per i diritti tv parla di «Gravi e fantasiose illazioni frutto di un'analisi incompleta con effetti suggestivi».

Diritti tv, Infront: "Gravi e fantasiose illazioni". L'advisor della Lega calcio interviene dopo la pubblicazione delle intercettazioni della Guardia di Finanza, oggetto dell'inchiesta della Procura di Milano. "Quanto contenuto negli articoli sono frutto di un'opera di analisi incompleta con effetti suggestivi", scrive "La Repubblica" il 31 gennaio 2016. "Gravi e fantasiose illazioni frutto di un'analisi incompleta con effetti suggestivi". E' la dichiarazione all'Ansa di Infront, l'advisor della Lega calcio per i diritti tv e del marketing di molti club di serie A, dopo la pubblicazione su alcuni giornali delle intercettazioni della Guardia di Finanza, oggetto dell'inchiesta della Procura di Milano. "Con riferimento agli articoli di stampa recentemente divulgati in particolare dal quotidiano La Repubblica e da La Gazzetta dello Sport, Infront - sottolinea la nota - nella sua qualità di advisor della Lega Serie A, ritiene imprescindibile precisare alcuni dei gravi errori di fatto in cui sono incorsi i giornalisti nella ricostruzione e interpretazione degli accadimenti. Non è infatti vero che l'invito a presentare offerte per il Pacchetto C fosse stato "truccato" per agevolare la società Mediaset, come sostiene alcuna stampa. Anzi basta esaminare il reale svolgimento dei fatti per rendersi conto che Sky ha avuto un anno di tempo per aggiudicarsi il pacchetto C, avendo concorso senza la partecipazione di Mediaset, per ben tre volte alla sua assegnazione. Senonché, in ciascuna di queste occasioni, Sky offrì importi o inferiori al prezzo minimo, oppure sempre inferiori al prezzo precedentemente già ritenuto incongruo e per ciò rifiutato dalla Lega". Per l'advisor della Lega calcio "le gravi e fantasiose illazioni contenute negli articoli di stampa, liberamente evinte da stralci di brogliacci di intercettazioni telefoniche, sono frutto di un'opera di analisi incompleta con effetti suggestivi. Non hanno peraltro tenuto in nessun conto - prosegue Infront - come si potrà agevolmente dimostrare nelle sedi a ciò deputate, la circostanza che i regolamenti, i ruoli e il reale andamento dei fatti sono rimasti indenni da ogni tentativo di influenza diretta o indiretta, da chiunque proveniente, sull'esito dell'assegnazione, e semmai intesi a favorire la libera concorrenza tra gli operatori. Negli articoli di stampa - prosegue la nota - si travisa anche il ruolo di Infront, che è un mero advisor della Lega e, come tale, non assume le delibere in capo all'Assemblea di Lega Serie A. Nella sua qualità di advisor si limita dunque a effettuare ricognizioni di mercato, intrattenendo rapporti direttamente con gli operatori del settore, al fine di calibrare in favore della Lega la propria attività di consulenza, che la stampa ha frainteso come attività di interferenza". Infront elenca poi "i fatti". Il pacchetto 'C' - i diritti di trasmissione di interviste della serie A - "è stato oggetto di 3 inviti a presentare offerte sin dal 19 maggio 2014", occasioni in cui partecipò sempre e solo Sky, Mediaset non formulò mai offerte"; dopo che la prima gara  non fu aggiudicata perchè "Sky non aveva superato il prezzo minimo, la Lega operò un ribasso del prezzo minimo" per agevolare la rapida assegnazione del pacchetto "accessorio rispetto a quelli principali già aggiudicati, circostanza che - ricorda Infront - lo rendeva assegnabile solo ai soggetti già aggiudicatari dei pacchetti A e B". Sky - ricostruisce Infront - dopo aver offerto zero arrivo a 6 milioni senza mai modificare la cifra, anche in assenza di offerte Mediaset". Il quarto invito fu del 17 marzo 2015, e la Lega vi specificava che l'offerta doveva essere congrua al contenuto, o non sarebbe stata accettata. Il 9 aprile di quell'anno, sottolinea Infront, Sky offrì 6,6 mln euro per 3 anni, Mediaset 8,55 mln per lo stesso periodo ma con la condizione di poter di poter "sub-licenziare i diritti all'aggiudicatario del pacchetto A, ovvero Sky. Condizione, sottolinea Infront, "strumentale a sopportare insieme i relativi costi, non a sottrarli a Sky". Ma il giorno dopo le offerte, "a differenza da quanto lasciato intendere dai giornalisti, veniva deciso di non assegnare il pacchetto nè a Sky nè a Mediaset" perchè la prima non aveva cambiato l'offerta, mentre RTI aveva presentato offerta più alta ma "con la condizione di sub-licenziare, proposta irricevibile". Si proseguì con una trattativa privata, sottolinea ancora l'advisor, e l'8 maggio Sky offrì 7.2 mln per i tre anni, Mediaset 9.34: "nessuno dei due offerenti, pur conoscendo le precedenti offerte del competitor, modificò di fatto la propria. In particolare Sky non aumentò l'offerta per superare quella, a loro già nota, formulata precedentemente da Mediaset (8,55 mln euro). Il pacchetto C venne aggiudicato a Mediaset/RTI il 10 maggio 2015 in quanto miglior offerente". "Non è dunque conforme al vero che siano giunte a segno le ipotizzate pressioni su rappresentanti di Infront o della Lega, finalizzate a sottrarre il Pacchetto C a Sky e assegnarlo a RTI/Mediaset - è la conclusione della nota - E' invece vero che Sky, avendo avuto molteplici occasioni per aggiudicarsi il pacchetto ha nei fatti rifiutato tale opportunità, che non ha dunque colto come conseguenza di una sua autonoma e libera decisione. Si ribadisce pertanto la correttezza dell'operato dell'Advisor Infront e il pieno rispetto delle regole previste dalle procedure di invito e di trattativa privata".

Perché la Bbc e Buzzfeed scrivono che il tennis è uno sport truccato, scrive il 19 gennaio 2016 “Bergamo Post. È un calcio malato. No, aspettate. È un tennis truccato. Nemmeno i belli&dannati della racchetta se la cavano, stavolta. Anche loro sono finiti in mezzo a uno scandalo torbido. Secondo la Bbc eBuzzfeed news, il sito americano di informazione, i tennisti ci truffano dal 2003. Match di Wimbledon, del Roland Garros, e di tutti gli altri tornei del Grande Slam, un sacco di partite truccate da 16 campioni, addirittura dai primi 50 del mondo, e se nemmeno il tennis è al sicuro allora vuole dire che corriamo il rischio di sporcizia in ogni sport. E quel che è peggio è che ci saremmo di mezzo anche noi italiani. «I documenti che abbiamo ottenuto – afferma la Bbc – mostrano come le indagini abbiano trovato cartelli di scommettitori in Russia, Italia settentrionale e Sicilia che hanno guadagnato centinaia di migliaia di sterline con scommesse su partite truccate, tre delle quali giocate a Wimbledon». L’indagine fu avviata nel 2007 in seguito a sospetti sull’incontro tra Nikolay Davydenko e Martin Vassallo Arguello. Il report del 2008. Fu un match non troppo combattuto, oggi lo definiremmo sospetto. I due tennisti non risultarono colpevoli di alcuna violazione, ma l’inchiesta si sviluppò rilevando una rete di scommesse illegale. Il lungo braccio della legge che fa il suo corso. E ci è voluto un bel po’ per arrivare qui. In un report confidenziale del 2008, il gruppo che investigava sul caso affermò che 28 giocatori erano stati monitorati, ma che non era emersa alcuna prova a loro carico. Perché? Il mondo del tennis ha introdotto un nuovo codice anti-corruzione nel 2009, ma è stato deciso che non potessero essere perseguiti i reati compiuti precedentemente. E se non lo avessero fatto da un’altra parte, giureremmo che il finale è il tipico tarallucci e vino. A segnalare i reati è la Tennis Integrity Unit (Tiu), un’agenzia che si occupa di monitorare i match e verificare quelli in modo sospetto. Come? Con tutta una serie di dettagli che fanno scattare degli allarmi (troppi doppi falli, troppe palline gettate al vento eccetera). Questo sistema esiste anche nel calcio.

Tutta colpa di Federer (o quasi). Il tennis delle disuguaglianze dove si scommette per vivere. Oltre ai campi prestigiosi di Wimbledon e Roland Garros, dove una ristrettissima cerchia di giocatori si divide una torta in costante espansione, il tennis vive anche sui campi spelacchiati di tornei con montepremi bassissimi. Ed è lì, tra quei giocatori che non vanno in pari a fine anno, che la tentazione di aggiustare le partite si fa quasi irresistibile, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera” del 19 gennaio 2016. Il paradiso delle scommesse esiste, e si chiama tennis. Lo disse bene Richard Ings, ex giudice di sedia: era quel signore vagamente somigliante all’attore Richard Harris che arbitrava le finali di Wimbledon degli anni Novanta, oggi dirigente affermato, responsabile anche del settore antidoping della Federazione internazionale. «Se volessimo inventare uno sport fatto apposta per truccare gli incontri, questo si chiamerebbe tennis». Era già tutto nero su bianco, ben prima dell’inchiesta di Bbc e Buzzfeed — la trovate sfiorando l’icona blu — che senza rivelare nulla di nuovo ha il merito indiscusso di sollevare il velo su una realtà troppo spesso taciuta per convenienza e in omaggio al Dio denaro che tutto muove e decide nello sport professionistico. A questo paradiso dell’azzardo non manca nulla, davvero. A cominciare da un microclima ideale, reso possibile dalla fame dei comprimari e dall’egoismo delle stelle. Tutta colpa di Federer. Sarebbe un bel titolo, contenente una parte di verità, magari non direttamente addebitabile al campione svizzero, ma di certo al sistema che anche lui ha contribuito a creare. Nel nome dello star system, oggi il tennis è una piramide dove chi sta in vetta gode di privilegi da sogno, e si può dividere il 95 per cento del montepremi dei principali tornei. Agli altri, briciole (sfiorando l’icona blu, l’articolo di Forbes sui tennisti più pagati al mondo: in testa c’è proprio Roger Federer). È un sistema paragonabile a quello dei diritti televisivi delle squadre di calcio: la gente paga per vedere Federer, Nadal, Djokovic, non i loro avversari, i numero 50-60 della classifica. E quindi la torta appartiene quasi per intero ai più forti, che custodiscono gelosamente il loro privilegio. In questa specie di casta sportiva i posti sono limitati. Cinquanta, al massimo settanta. Ci sono giocatori così forti da entrare direttamente in tabellone degli Slam, ma così «poveri» da non riuscire e essere in pari alla fine di ogni stagione. Per loro, i soldi delle scommesse non sono solo una tentazione, ma possono anche essere una necessità. Quale Futures? Ad alzare lo sguardo oltre i cancelli del circolo esclusivo, c’è una realtà fatta di oltre duemila sopravvissuti e sopravviventi che affollano il gradino più basso del circuito Atp, quello dei Futures, i tornei con montepremi collettivi da diecimila dollari al massimo. Dimenticate il Roland Garros, Wimbledon e le lounge eleganti popolate da modelle e industriali di vaglia, con annesso buffet a tre stelle. L’altro tennis, quello dei peones della racchetta, va in scena in località del globo improbabili e neppure troppo esotiche, difficili da raggiungere, dove l’ospitalità è a carico del giocatore, dove spesso manca tutto, dagli spogliatoi alle palline, a campi di gioco decenti. Il montepremi dei Futures è fermo dal 1998, quando già appariva ai più troppo basso. Nello stesso periodo, la cifra scritta sull’assegno destinato al vincitore degli Australian Open, la prima prova degli Slam, si è moltiplicata per 5, arrivando fino a 2,4 milioni di euro. Nei Futures, una vittoria dopo cinque turni viene pagata nei casi migliori 1.400 dollari, ai quali vanno sottratte le tasse. Chi ha la sventura di perdere al primo turno ne incassa soltanto 100-110, di dollari. E per tornei che si disputano in posti sperduti dell’Africa centrale o nel cuore dell’Amazzoni, con quella cifra è impossibile rientrare delle spese di viaggio e di soggiorno. In questa specie di Cayenna con racchette dove la tentazione è più forte e sempre più conveniente della retta via, si aggirano i diavoli tentatori delle scommesse, gli aggiustatori di incontri sempre con computer in mano, pronti a tessere tele e costruire rapporti che resteranno anche in caso di passaggio di categoria del malcapitato giocatore. Si limitano a sfruttare una disuguaglianza divenuta ormai sistema anche a causa dell’ingordigia dei giocatori più forti che fa del tennis un caso unico di oligarchia sportiva. D’accordo, non ci sono le classifiche individuali negli sport di squadra. Ma è certo che il cinquecentesimo calciatore o cestista del mondo non fa certo la fame e una volta finiti gli anni d’oro non dovrà certo preoccuparsi di come tirare a campare, a differenza del suo corrispettivo tennistico. Infine c’è il dettaglio più importante, quello che rende questo scenario ancora più ideale per chi vuole guadagnarci sopra in maniera illecita. Perdere apposta a tennis è facile, mentre invece è ben difficile vederlo a occhio nudo, al netto di qualche svarione terrificante e non casuale filmato appunto a livello Futures e rintracciabile su Youtube, ma lì siamo davvero ai Fantozzi e Filini della scommessa. Nessuno potrà mai dimostrare che quel rovescio tirato fuori di tre centimetri sia davvero indizio di una combine. E davanti a questo, neppure la rivelazione dei nomi coinvolti nell’inchiesta può nulla. La prova è proprio nella pietra dello scandalo dalla quale origina l’inchiesta dellaBbc, quel match Davydenko-Vassallo Arguello che gli aficionados ormai conoscono a memoria, manco fosse un Borg-McEnroe d’annata. Non ci sono colpi che fanno saltare sulla sedia, non si vede la pistola fumante. La partita divenne famosa per l’incredibile quantità di puntate, che all’improvviso raggiunse i quattro milioni di euro, e per la pessima fama di Davydenko. Ma pochi sanno che al termine dell’inchiesta il tennista russo non solo fu assolto, ma chiese e ottenne anche le scuse dell’Atp. Nel tennis le scommesse sono imparabili. Nel circuito Atp è ben nota la lista dei 140 spettatori indesiderati che non possono mettere piede nei palazzetti dove si giocano tornei importanti. Sono i campioni della scommessa in tempo reale, che puntano sul singolo game del primo turno del torneino dei bassifondi, che fanno incetta di informazioni sullo stato di salute dei giocatori. Sono un male incurabile e quindi tollerato nel silenzio generale, come testimonia il non lavoro delle Tennis Integrity Unit, che in questi giorni di rivelazioni si straccia le vesti, ma finora non si era mai lamentata dei poteri meramente simbolici che le sono stati assegnati. Chi invoca come unica panacea possibile l’intervento della magistratura ordinaria fa bene. Con una sola avvertenza: il tennis è il più internazionale degli sport. Mettersi sulle tracce di un illecito per cinque diversi continenti è faccenda complicata. Ci sono problemi di competenza, di tempi soprattutto. Decidere di perdere un game, o un set, o un match, è molto più semplice. Basta far scommettere l’amico o il semplice conoscente, o il vicino di casa. E poi prendimi, o dimostra la frode, se puoi.

Chi dirigeva l’atletica è sotto inchiesta in Francia, Platini e Blatter sono squalificati, la Russia dell’atletica è sospesa e non si sa se andrà ai Giochi di Rio, su calcio e tennis c’è l’ombra delle scommesse. Si sono ammalate le discipline più polari e quelle più redditizie. Va bene, il paradiso non esiste. Ma questo è ancora sport?..., scrive Emanuela Audisio per “la Repubblica” del 19 gennaio 2016. Ma che razza di roba è diventata lo sport? Un giallo, un romanzo criminale, horror, un road-movie poliziesco mondiale. Con Fbi, Dea, Interpol in azione. Da calciopoli a racchettopoli, per dirla alla banda Bassotti. Era il caro vecchio romantico sport, magliette sudate e fango vero, ora è un susseguirsi di irruzioni, di intercettazioni, di agenti, di polizie che indagano su illeciti e riciclaggio. Era malato lo sport, si sapeva. Ma questa non è malattia, è un’infezione all’osso. Si può ancora voler bene a un quasi cadavere portatore insano di malavita, malaffare, scommesse? Cosa devi pensare quando un tennista russo perde un torneo in Polonia (Sopot) con un giocatore che in classifica è 82 posizioni sotto, in una finale con 7 milioni di dollari di scommesse? Cosa devi intuire quando alla maratoneta russa Lylia Choboukhova, vincitrice di Londra 2012, viene estorta una mazzetta di 450 mila euro per tacere sulla sua positività, e dopo le vengono rimborsati 300 mila da una società fantasma con sede a Singapore? Ciclismo, calcio, atletica, tennis. Si sono ammalati tutti. I giochi più romantici, quelli più popolari, quelli più universali, quelli più elitari. Ma anche quelli più redditizi. E soprattutto sono mancati i dottori, quelli che intervengono subito e non dicono: aspettiamo. Quando la velocista tedesca Katrin Krabbe, oggi commessa, nel ’92 risultò dopata, le circostanze erano già da giallo: si era fatta prestare l’urina dalla moglie (incinta a sua insaputa) del suo allenatore, l’aveva messa in un profilattico, che si era introdotta in vagina prima del controllo. Però che stratagemma, pensarono tutti. Il ciclismo spostò quei confini e si arrivò alle sacche di sangue congelato, all’operacion Puerto, ai sequestri, alle irruzioni all’alba. E si disse: ma c’è proprio bisogno di questi golpe? Poi arrivarono i 7 Tour dell’amerikano Lance. Prima magici, poi misteriosi. Non a caso nello sport il titolo «L.A. Confidential» non si riferisce al libro di James Ellroy ma a quello sul ciclista Lance Armstrong. Grande bandito su due ruote. I malviventi erano gli sportivi. Loro prestavano le vene alla grande truffa. Quando l’americano Jeff Novitzky, agente speciale delle tasse (Irs) che lavora in collaborazione con Fbi e Dea su riciclaggio e narcotraffico, indaga su un’azienda appena fuori San Francisco che si chiama Balco, scopre che tanti campioni la frequentano (in segreto), comprando i prodotti (steroidi e altro) sempre in contanti, anche diecimila dollari a volta. Decide per il blitz e piomba sulla sede con gli elicotteri in una riedizione di Apocalypse Now. C’è la fuga, l’inseguimento, ma le poste elettroniche, le siringhe, conti e fatturati ci sono. Stavolta il bandito è uno che non è nemmeno dottore, si chiama Victor Conte, è lui che rifornisce i grandi campioni dello sport a stelle e strisce. Marion Jones compresa, che finisce in galera. Non paga le tasse per dieci anni nemmeno Chuck Blazer, membro dell’esecutivo Fifa dal ’96 al 2013 e vicepresidente della federazione americana di calcio. Così l’agente Berryman a Los Angeles inizia a indagare e incrocia i report di altri due signori che lavorano all’Fbi e che dal 2010 si stanno occupando di mafia russa. E guarda caso c’entra anche l’assegnazione dei mondiali di calcio a quel paese. L’inchiesta diventa una, con diramazioni in 33 paesi. E porta allo scandalo Fifa. Stavolta i cattivi sono in alto. Quelli in doppiopetto, non in tuta. Si scopre che Blazer ha in affitto due appartamenti al 49esimo piano della Trump Tower per 18 mila dollari al mese. E uno più piccolo solo per i suoi gatti. Chi paga? Lui no, ma il calcio sì. Nel 2005 Blazer si compra anche per 49 mila dollari il carrarmato da strada Hummer (utilissimo a New York) e ne spende 21.600 per il garage. Lo incastrano, lui decide di collaborare, e a Londra 2012 va con il registratore appiccicato sotto la camicia, come nei film, per raccogliere prove sui colleghi. Un altro dirigente Fifa, Jeffrey Webb, nel suo paese, Isole Cayman, ha fatto costruire un nuovo quartier generale per la sua federazione calcio da oltre 2 milioni di dollari. Peccato che le Cayman, una popolazione di appena 58 mila persone, nel football siano al 191esimo posto e non abbiano mai partecipato ad un mondiale. Chi dirigeva l’atletica è sotto inchiesta in Francia, il figlio di Diack, ex presidente Iaaf, è ricercato dall’Interpol, Platini e Blatter sono squalificati, la Russia dell’atletica è sospesa e non si sa se andrà ai Giochi di Rio, su calcio e tennis c’è l’ombra delle scommesse. Giustificazione: sui court ai bravi non conviene vendersi. Ma che bella notizia: e a tutti gli altri invece sì? Va bene, il paradiso non esiste. Ma questo è ancora sport?

TENNISGATE: GLI ALTRI SETTE SPORT CHE HANNO FATTO SCANDALO NEGLI ULTIMI TEMPI, scrive Rai News il 18 gennaio 2016. Tennisgate, i numeri dello scandalo Scandalo Fifa, Blatter: "Ho chiuso con il calcio, la mia è una squalifica senza senso". Fifa: Platini si ritira dalla corsa alla presidenza Lo scandalo che scuote il tennis mondiale. Bbc e Buzzfeed: "Match di alto livello truccati da anni". Calcioscommesse, Montezemolo: "Molta gente deve andare a casa". Calcioscommesse. Mattarella: "Fa indignare, ora severità". Calcioscommesse, 50 arresti: "Truccate partite in Lega Pro e Serie D". Calcioscommesse, Tavecchio: "La delinquenza è un fatto aritmetico". Sfiduciato Belloli. Calcioscommesse, 17 arresti in Calabria Calcioscommesse: 5 indagati per la gara Savona-Teramo di Lega Pro che è valsa la promozione in B 18 gennaio 2016. Il tennis è l'ultimo sport a essere coinvolto in pesanti polemiche in seguito a un'inchiesta della BBC e di Buzzfeed che sostengono di avere le prove del fatto che in occasione di eventi di alto livello alcune partite siano state truccate. Vediamo quali sono gli altri ambiti sportivi che nei tempi recenti hanno dato scandalo. Calcio La crisi del mondo del calcio, con lo scandalo Fifa, ha raggiunto il suo apice lo scorso anno.  A maggio 2015, funzionari della federazione internazionale sono stati arrestati dalle autorità americane con l'accusa di racket, frode telematica e riciclaggio di denaro. Le autorità svizzere hanno fatto irruzione nella sede Fifa per una indagine indipendente riguardanti accuse di gestione criminale e riciclaggio di denaro in relazione all'assegnazione dei Mondiali del 2018 e del 2022. Sepp Blatter ha quindi annunciato le sue dimissioni da presidente Fifa e a settembre i procuratori svizzeri hanno aperto un procedimento penale contro di lui su un accordo sui diritti televisivi firmato con l'ex presidente della federazione calcio dei Caraibi, Jack Warner, e per un pagamento fatto al presidente Uefa, Michel Platini. Nel mese di dicembre, Blatter e Platini sono stati sospesi per otto anni da tutte le attività legate al calcio. Il segretario generale della Fifa, Jérôme Valcke, è stato licenziato pochi giorni fa. Il francese era comunque già stato sollevato dal proprio incarico il 17 settembre scorso a seguito dello scandalo relativo alla vendita in nero di biglietti. Inoltre, la Commissione etica aveva aperto formalmente un procedimento in cui raccomandava una sospensione di nove anni da ogni attività legata al mondo del calcio. Il 55enne era in carica dal 2007. Atletica L'atletica leggera è stata travolta dallo scandalo dopo un rapporto della commissione indipendente della Anti-Doping Agency pubblicato all'inizio di gennaio 2016, che ha rivelato il doping sistematico tra gli atleti russi. Uno scandalo considerato soltanto la punta di un iceberg di un movimento molto più grande, scoperto dalla stessa IAAF, con la compiacenza delle cariche più elevate, accusate di corruzione. Il britannico Sebastian Coe è diventato presidente della IAAF lo scorso agosto dopo 8 anni in cui ha ricoperto la carica di vice-presidente, sostituendo il senegalese Lamine Diack, sospeso proprio in seguito a un’inchiesta che lo vede accusato di corruzione per aver coperto i problemi di doping di diversi atleti russi. Da quel momento sono emersi risvolti sempre più inquietanti sul modus operandi tenuto dalla IAAF negli ultimi anni. Ciclismo Marzo ha visto la pubblicazione di una relazione della Circ, la commissione indipendente istituita dall' attuale presidente dell'UCI, Brian Cookson, che ha accusato gli ex leader del mondo dello sport di minare gli sforzi contro il doping e denuncia un trattamento preferenziale all' ex vincitore del Tour de France Lance Armstrong, caduto in disgrazia.. Cookson ha invitato il suo predecessore Hein Verbruggen a dimettersi dal suo incarico di presidente onorario dell'organizzazione. Cricket Lo scandalo ha riguardato la partita del Pakistan contro l'Inghilterra a Lord nell'agosto del 2010.  Un anno dopo, tre giocatori della nazionale pakistana sono stati condannati a pene detentive. L'ex capitano Salman Butt è stato in carcere per due anni e mezzo anni per il suo ruolo di "orchestratore" dei "no-balls", l'ex numero due del mondo Mohammad Asif ha ricevuto una pena detentiva di 12 mesi per la consegna delle no-balls fraudolente, e il 19enne Mohammad Amir, considerato il bowler potenzialmente più veloce di tutti i tempi, ha invece passato in un carcere giovanile sei mesi dopo aver ammesso due no-balls intenzionali. Nel settembre 2013, l'ex numero cinque del mondo Stephen Lee è stato squalificato per 12 anni dopo essere stato riconosciuto colpevole di avere truccato sette partite. La pena è stata inflitta con effetto retroattivo, a partire da ottobre 2012. Significa che Lee - ora 41 anni - non potrà giocare fino al 2024. Nel 2014, dopo aver perso in appello, è stato condannato a pagare 125.000 sterline di spese processuali. Rugby Nell'agosto 2009, l'ex direttore della federazione rugby Dean Richards è stato condannato a tre anni di esonero da allenatore per aver architettato lo scandalo Bloodgate, che vide l'ala Tom Williams incorrere in un finto grave infortunio durante un incontro della Heineken Cup a Leinster nell'aprile di quell'anno . Williams aveva in bocca una sacchetta contenente sangue finto, uguale a quelle usate nai film. Inscenò l'infortunio per consentire allo specialista in drop-goal Nick Evans di rientrare in campo con i Quins e portare il risultato finale a 6-5. Si è poi scoperto che Richards ha orchestrato tutto. Ha anche pensato di procurare un vero taglio in bocca a Williams per coprire l'inganno della sacchetta. E che lo stesso allenatore, in combutta con il fisioterapista dei Quins, Steph Brennan con la stessa tecnica aveva messo in scena finte lesioni in altre quattro occasioni. Williams è stato condannato a 12 mesi di sospensione, pena ridotta a quattro mesi dopo che ha rivelato che agiva agli ordini di Richards e Brennan. Corse di cavalli Nell'aprile 2013, Mahmood Al Zarooni, allenatore del purosangue Godolphin, è stato squalificato per otto anni dopo aver ammesso di aver utilizzato steroidi anabolizzanti per cavalli a lui affidati. La British Horseracing ha vietato anche escluso dalle competizioni per sei mesi 15 cavalli addestrati da Al Zarooni.

Meglio il tennis truccato della serie A di Holly e Benji. Cartoni poco animati. Per sconfiggere la noia di un campionato in cui le squadre si scansano e i giocatori non esultano, la si butta su “Holly e Benji”, scrive Jack O'Malley il 18 Gennaio 2016 su "Il Foglio". Liverpool. Avendo probabilmente finito le minorenni da importunare, alla Bbc hanno messo a segno uno scoop che ieri apriva gran parte dei siti di notizie, e che mi ha fatto andare di traverso il rum di metà mattinata. Non si tratta di calcio, ma di un altro degli sport che noi abbiamo inventato e fatto diventare grandi senza trasformarlo in pagliacciata come avrebbero fatto gli americani: il tennis. Secondo le carte lette dai giornalisti della Bbc 28 giocatori di alto livello avrebbero truccato alcune partite, anche di tornei importanti (“Wimbledon!”, shame) per favorire alcuni scommettitori russi, siciliani e del nord Italia. A quel punto sono passato alla vodka. Naturalmente non c’è nulla di certo, a parte un paio di nomi di ex tennisti. C’è molta indignazione, molto scetticismo e molto menefreghismo. Anche se non è sport di contatto, il tennis non è gioco per verginelle: tra l’altro è molto più semplice da truccare di una partita di calcio, per cui è assolutamente normale che succeda. Certo, il fatto che a guadagnarci siano dei russi e degli italiani mi scoccia un po’. Il Blue Monday sarà una bufala, ma noi interisti per non sbagliare l'abbiamo iniziato sabato Male la prima Perché Spalletti, Boateng e Immobile devono stare attenti alla "depressione da ritorno" Quella "bestia" di Ranocchia. Per fortuna c’è la Premier League, che magari è pure truccata, ma in modo ottimo. Domenica pomeriggio mi sono goduto l’ennesima caduta del Liverpool di Klopp (la cui parabola insegna due cose almeno: 1) non basta avere azzeccato un paio di stagioni in Bundesliga per essere un grande allenatore; 2) non basta cambiare allenatore se la squadra fa cagare) per mano del bolso Manchester United di Van Gaal, che ormai sta seduto in panchina come una vecchia zia intirizzita dal freddo che lavora a maglia. Il gol di Rooney è stato un gran bel gol, e confesso che è stato bello vedere esplodere di gioia quel ragazzo di Liverpool tifoso dell’Everton che non segnava ad Anfield da dieci anni. Poche ore prima in Italia mi dicono che Quagliarella è andato a chiedere scusa ai tifosi del Torino per avere chiesto scusa ai tifosi del Napoli. Assurdo, ma forse in questo modo si chiude un cerchio: alla prossima partita forse avrebbe esultato per i gol subiti dalla sua squadra. Chloe Goodman, fidanzata di Jordan Clarke dello Scunthorpe, è una bambinona. Qui la vediamo mentre gioca spensierata a “1,2,3, stella!” Non serviva l’ultima farsa politicamente corretta per dimostrare che la Fifa è lo sgabuzzino della modernità occidentale. Alla cerimonia del Pallone d’oro hanno malamente cancellato dalla fronte di Neymar la scritta 100% Jesus che aveva esibito dopo la vittoria della Champions, ennesima censura dell’elemento religioso che dev’essere espunto dalla laicité calcistica. Già ai brasiliani in passato era stato intimato di non riunirsi al centro del campo per pregare, usanza che disturbava la burocratica divinità della Fifa e il suo poco ieratico profeta, Sepp Blatter, e alla premiazione i conduttori erano visibilmente in imbarazzo quando un atleta di Dio ringraziava il cielo: “Ma parliamo di calcio adesso…”, sembravano dire. La miopia della Fifa in questo caso è duplice. Non solo con fare nordcoreano lavora di Photoshop, ma non si accorge che l’esibizione del religioso al modo degli atleti di Dio è fondamentalmente un pezzo di folclore, una manifestazione culturale, è il segno della croce all’ingresso del campo, gesto che di rado segnala la presenza di un “culture warrior” o di un pericoloso portatore di una visione del mondo effettivamente cristiana. La censura è un eccesso di zelo. A proposito di eccessi. Quando un telecronista paragona un atleta a un cartone animato significa che la fine è vicina: se poi accenna in diretta anche la sigla del suddetto cartone per chiarire il concetto allora vuol dire che qualcuno ha fatto qualcosa per meritarsi tutto questo. E così la fantastica parata di Handanovic su Cigarini è diventata una cosa da Holly & Benji, che è un po’ come quando una volta, in era pre-digitale, di fronte a un bel panorama si pronunciava la scemenza suprema: “Sembra una cartolina”. Handanovic, piuttosto, sembra un portiere estremamente dotato, di quelli da cui traggono spunto i creatori di cartoni animati per fare i loro personaggi. La sua squadra, invece, sembra anche meno in forma dei telecronisti che la raccontano. Per fortuna Giancarlo Marocchi ci ricorda che anche in televisione è possibile scansare le banalità rituali e dire qualcosa. Lui ha detto che quando giocava alla Juve le altre squadre avevano il coltello fra i denti, ora sembra quasi che si scansino. Non come nei cartoni animati.

Scandalo doping, Adidas abbandona l’atletica. Per la Iaaf colpo da 32 milioni di dollari. La rottura era attesa e potrebbe aprire un baratro economico per la Federazione, spingendo al fuggi-fuggi gli altri grandi nomi che sostengono lo sport mondiale proprio nell'anno delle Olimpiadi di Rio, scrive Andrea Tundo, il 25 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Si chiuderà a breve il rapporto tra la Federazione internazionale dell’Atletica e l’Adidas. La rottura è una diretta conseguenza dello scandalo doping che ha travolto la Federazione, i cui vertici erano a conoscenza di diversi casi e hanno insabbiato tutto, anche in cambio di soldi. Il divorzio dal colosso tedesco dell’abbigliamento sportivo, uno dei più importanti sponsor della Iaaf, peserà sulle casse federali per poco più di 32 milioni di dollari, tra soldi e forniture. Una mazzata. Che rischia di innescare un effetto a catena e avrà con ogni probabilità strascichi legali. La notizia diffusa nella notte tra domenica e lunedì dalla BBC è la prima grande conseguenza a livello commerciale per la Iaaf, che finora era riuscita a parare il colpo con gli sponsor. L’addio dell’Adidas potrebbe ora spingere anche altri marchi – Canon, Toyota, TDK, Mondo e Seiko – alla fuga dando il la a un fuggi-fuggi generale, oltre a rappresentare un altro duro colpo alla credibilità della governance di Sebastian Coe, minata da più fronti negli ultimi mesi. L’azione era pianificata da tempo, ma è stata ufficializzata da poco. Già a fine novembre infatti l’Adidas aveva comunicato alla Iaaf di essere molto perplessa sull’opportunità di continuare la sponsorizzazione, firmata otto anni fa e in scadenza nel 2019. La lettera ufficiale, secondo quanto ricostruito dalla tv inglese, sarebbe poi arrivata alla Iaaf due settimane fa. Si spiegherebbe così la breve nota stampa rilasciata dalla federazione lo scorso lunedì. Poche righe per ribadire d’essere “in stretto contatto con tutti gli sponsor e i partner dal momento in cui ci siamo imbarcati nel nostro processo di riforma”. A sei mesi dalle Olimpiadi di Rio, dov’è la regina delle discipline, si concretizza per l’atletica mondiale lo spettro di ingenti danni economici provocati dallo scandalo doping. La situazione della Iaaf è precipitata lo scorso 14 gennaio, quando la Wada ha presentato il secondo capitolo dell’indagine condotta dalla Commissione indipendente presieduta da Dick Pound. Secondo i risultati dell’investigazione c’era una “cultura della corruzione radicata ai vertici della Iaaf”, la cui responsabilità “non può ricadere su un numero limitato di persone”. Inoltre la commissione non ritiene plausibile che “il Consiglio (di cui Coe, poi eletto presidente, faceva parte) potesse non essere a conoscenza del sistema e dell’esteso programma di doping della Russia”. E proprio la prima parte del dossier, quella riguardante Mosca, aveva già messo in guardia l’Adidas: il ruolo dei servizi segreti, l’uso sistematico di sostanze dopanti da parte dei marciatori, i laboratori antidoping paralleli e le richieste di denaro per coprire le positività rappresentavano già una base sufficiente per meditare l’addio, assieme alla richiesta di un segnale forte degli sponsor giunta anche da alcuni atleti. Le conferme fornite dalla seconda puntata dell’inchiesta della Wada riguardo una cultura radicata del doping e della corruzione per coprirlo hanno spinto il gigante tedesco a formalizzare il suo addio all’atletica. Un passo avanti rispetto alle semplici parole di dispiacere espresse di fronte allo scandalo Fifa. Nonostante anche lì tangenti e corruzione siano arrivate a toccare i vertici, Adidas resta il più solido partner commerciale del calcio mondiale.

Blatter, Platini e l’ombra del doping: l’anno di scandali nello sport, scrive Sport Sky il 31 dicembre 2015.  Il 2015 che si è appena chiuso, può essere ricordato tra i peggiori per la politica sportiva, a causa del terremoto che ha sconvolto la Fifa, detronizzando i vertici e affossando anche le Roi Michel. Ma anche l’atletica ha avuto i suoi guai, tra corruzione e l'insabbiamento del caso Russia. Il 2015 che si è appena concluso, è stato senza dubbio l’annus horribilis della politica sportiva, soprattutto calcistica e dell’atletica leggera. Vi riproponiamo tutti gli scandali, con la speranza che il 2016 possa essere un anno decisamente più tranquillo da questo punto di vista.

Il calcio italiano vive in primavera l’onta del fallimento del Parma. Il club, sommerso dai debiti, non trova un acquirente e, dopo diversi cambi di proprietà e punti di penalizzazione per il mancato pagamento degli stipendi, è costretto a ripartire dalla Serie D. La squadra, guidata da Roberto Donadoni, retrocede con grande dignità e viene smantellata a fine stagione.

Il 27 maggio, alla vigilia delle elezioni per la presidenza della Fifa, un’operazione della polizia svizzera appoggiata dall’Fbi, smaschera un sistema fatto di corruzione, riciclaggio di denaro e tangenti che porta all’arresto di sette membri della Federazione mondiale. Tra loro non risulta il numero 1, Sepp Blatter. La talpa che ha permesso di scoperchiare il vaso si chiama Chuck Blazer, per anni presidente della Federcalcio nordamericana. Si ravvisa un sistema corrotto di compravendita di diritti tv e marketing per centinaia di milioni di euro, in vigore da quasi un quarto di secolo.

l 29 maggio, si tengono in un clima tesissimo le elezioni per la Fifa. Nonostante tutto, Sepp Blatter viene rieletto presidente. Ma lo svizzero, al quinto mandato, darà le proprie dimissioni appena quattro giorni dopo, annunciando nuove elezioni nel 2016. Subito emerge la candidatura di Michel Platini, attuale numero 1 della Uefa.

In Italia non ce la passiamo certo bene. A giugno, esplode l’ennesimo scandalo. A seguito delle inchieste Dirty Soccer e Treni del gol, vengono arrestate importanti personalità del calcio professionistico e dilettantistico, colpevoli di aver truccato diversi match di Serie B, Lega Pro e Serie D. Coinvolte società come Savona, Teramo, Barletta, Brindisi e soprattutto il Catania del presidente Pulvirenti, che viene immediatamente retrocesso in Lega Pro.

L’8 ottobre, il Comitato etico della Fifa sospende per 90 giorni i tre uomini più potenti del calcio mondiale: Sepp Blatter, Michel Platini e il segretario generale, Jerome Valcke. Le Roi è invischiato in un pagamento di due milioni di franchi svizzeri ricevuti dalla Fifa nel 2011, per una consulenza svolta tra il 1999 e il 2002.

Il primo novembre, l’ennesima bufera mediatica si scaglia contro Carlo Tavecchio. In una registrazione privata, il presidente della Figc, parla in maniera offensiva di ebrei e omosessuali, cadendo ancora una volta in fallo dopo le frasi razziste e sessiste pronunciate nei mesi precedenti.

A novembre, esplode lo scandalo doping nell’atletica leggera. Le autorità francesi mettono sotto accusa l’ex presidente della Iaaf, Lamine Diack, sospettato di riciclaggio di denaro e corruzione: avrebbe incassato somme di denaro dalla federazione russa di atletica leggera in cambio del silenzio su più casi di positività al doping.

Il 13 novembre, la Iaaf prende una clamorosa decisione, sospendendo la tempo indeterminato la Russia da tutte le competizioni internazionali. Si parla di decine di casi di doping nascosti alle autorità e di un sistema dopante “di stato” che ha drogato i risultati degli ultimi anni, specialmente dei Mondiali di Mosca 2013.

Sempre nel mese di novembre, cade anche il gigante Germania. La Federcalcio tedesca viene accusata di aver comprato voti nell’assegnazione del Mondiale 2006. Per “responsabilità politica”, si dimette il presidente federale Wolfgang Niersbach.

Il 2 dicembre il terremoto colpisce anche l’atletica italiana. La Procura antidoping del Coni, infatti, chiede la squalifica di 26 azzurri per “elusione del controllo” e “mancata reperibilità”. Tra gli atleti, anche nomi eccellenti come Andrew Howe e Giuseppe Gibilisco.

Il 10 dicembre, anche il neo presidente della Iaaf, Sebastien Coe, finisce nel mirino della magistratura francese: è infatti accusato di aver deliberatamente favorito la città di Eugene nella corsa ai Mondiali di atletica leggera del 2021.

L’11 dicembre, il Tas di Losanna rigetta il ricorso contro la sospensione da parte del Comitato etico della Fifa da parte di Michel Platini, accusato di corruzione. La sua corsa alla presidenza della Fifa si fa sempre più complicata.

Il 18 dicembre, la Commissione etica squalifica per 8 anni il Presidente della Fifa, Sepp Blatter e quello della Uefa, Michel Platini. L’accusa, decisamente grave, è quella di corruzione. Per Blatter, carriera finita. Per “Le Roi”, un duro colpo che ne mina la credibilità conquistata in 40 anni di calcio.

Inchiesta sul calcio italiano: 64 dirigenti, giocatori e procuratori indagati per fatture false ed evasione fiscale. Indagine della procura di Napoli: persone, tra le quali l'ex presidente della Juventus Jean Claude Blanc, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, Adriano Galliani, Claudio Lotito, Alessandro Moggi e alcuni calciatori tra cui Ezequiel Lavezzi, scrive Dario Del Porto il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Terremoto giudiziario nel mondo del calcio. Perquisizioni e sequestri per i reati di evasione fiscale e false fatturazioni, per ordine della Procura di Napoli. Gli indagati sono 64 tra cui l'ex presidente della Juventus Jean Claude Blanc, il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, il dirigente del Milan Adriano Galliani, il presidente della Lazio Claudio Lotito l'agente di calciatori Alessandro Moggi e alcuni calciatori, tra cui Ezequeil Lavezzi. Le indagini della Finanza sono condotte dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e dai pm Stefano Capuano, Vincenzo Ranieri e Danilo De Simone. La Procura napoletana ipotizza un "meccanismo fraudolento architettato per sottrarre materiale imponibile alle casse dello Stato" nella compravendita dei calciatori. I fatti si riferiscono al periodo compreso tra il 2009 e il 2013. I procuratori degli atleti, sostengono gli inquirenti, "provvedevano a fatturare in maniera fittizia alle sole società calcistiche le proprie prestazioni, simulando che l'opera intermediazione fosse resa nell'interesse esclusivo dei club, mentre di fatto venivano tutelati gli interessi degli atleti assistiti dagli agenti medesimi". L'inchiesta della Procura era partita a seguito delle indagini sulle rapine commesse ai danni di alcuni calciatori del Napoli e dall'intercettazione di una telefonata in cui Lavezzi, parlando con il suo procuratore, Alejandro Mazzoni, sembrava fare riferimento all'apertura di un conto corrente bancario in Svizzera a favore di Chavez, altro atleta argentino, Chavez. Mazzoni replicava affermando che il conto, già aperto con la Hsbc, era stato chiuso e che si stava muovendo per aprirne un altro. Da qui, la finanza aveva avviato una serie di accertamenti sugli aspetti economico finanziari dei contratti dei calciatori della scuderia Mazzoni. Il sequestro è stato disposto, per importi di alcune migliaia di euro ciascuno, nei confronti di otto procuratori sportivi: Alessandro Moggi, Marco Sommella, Vincenzo Leonardi, Riccardo Calleri, Umberto Calaiò, Adrian Leonardo Rodriguez, Fernand Osvaldo Hidalgo, Inev Alejandro Mazzoni, Edoardo Luis Rossetto. Trentasette dirigenti societari: Antonio e Luca Percassi, Claudio Garzelli, Giorgio Perinetti, Luigi Corioni, Gianluca Nani, Sergio Gasparin, Pietro Lo Monaco, Igor Campedelli, Maurizio Zamparini, Rino Foschi, Daniele Sebastiani, Andrea Della Valle, Pantaleo Corvino, Alessandro Zarbano, Enrico Preziosi, Luciano Cafaro, Jean Claude Blanc, Alessio Secco, Claudio Lotito, Marco Moschini, Renato Cipollini, Aldo Spinelli, Adriano Galliani, Aurelio De Laurentiis, Tommaso Ghirardi, Pietro Leonardi (a suo tempo indagato per concorso in bancarotta fraudolenta nell'inchiesta sul fallimento del Parma Fc) Pasquale Foti, Edoardo Garrone, Umberto Marino, Massimo Mezzaroma, Roberto Zanzi, Giovanni Lombardi Stronati, Francesco Zanotti, Sergio Cassingena, Dario Cassingena, Massimo Masolo. E diciassette calciatori: Gustavo Gerrman Denis, Juan Ferbando Quintero Paniaugua, Adrian Mutu, Ciro Immobile, Matteo Paro, Hernan Crespo, Pasquale Foggia, Antonio Nocerino, Marek Jankoulovsky, Cristian Gabriel Chavez, Ignacio Fideleff, Ivan Ezequiel Lavezzi, Gabriel Paletta, Emanuele Calaiò, Cristian Molinaro, Pabon Rios, Diego Miliyo. Contestualmente al decreto di sequestro, i pm hanno anche firmato l'avviso di chiusura delle indagini preliminari. Rispetto all'elenco dei destinatari del decreto di sequestro firmato dal giudice Luisa Toscano, l'avviso non coinvolge Andrea Della Valle e sei calciatori: si tratta di Emanuele Calaiò, Ciro Immobile, Marek Jankulovsky, Pasquale Foggia, Christian Molinaro, Matteo Paro. Nei loro confronti si profila l'archiviazione del fascicolo in quanto, successivamente al deposito del decreto di sequestro, ma prima della sua emissione, la legge ha modificato le soglie di punibilità di questo genere di reati. A questi indagati pertanto il decreto di sequestro non sarà notificato. Le società potevano dedurre le spese dal debito imponibile, ottenendo anche la detrazione dell'Iva. In parole povere, rileva la Procura, "l'importo pagato dal club costituiva un reddito da imputare effettivamente al calciatore e di conseguenza la società ometteva il pagamento delle ritenute fiscali e previdenziali". Le presunte violazioni riguardano 35 società di A e B. Il sequestro è scattato nei confronti di 12 indagati per un importo complessivo di 12 milioni di euro. Contestualmente, il pm ha chiuso le indagini per 64 persone. Tutti gli indagati potranno replicare alle accuse nei successivi passaggi del procedimento. Il decreto di sequestro potrà essere impugnato dalla difesa davanti al tribunale del Riesame. L'inchiesta che ha portato ai provvedimenti di oggi nasce con la Guardia di Finanza che nel 2012 nelle sedi del Napoli e della Figc acquisisce i contratti di Ezequiel Lavezzi, ceduto dal Napoli al Psg, e del quasi sconosciuto attaccante argentino Cristian Chavez. Partendo da quella attività, nove mesi dopo, i finanzieri si sono presentati nelle sedi di 41 società di serie A e B per acquisire ulteriore documentazione. Gli investigatori parlarono di un "fenomeno generalizzato" nel calcio italiano, vale a dire la "progressiva ed esasperata" lievitazione degli oneri relativi agli ingaggi dei calciatori. E questo, era l'ipotesi investigativa, avrebbe fatto sì che nel tempo si determinasse una situazione di squilibrio gestionale sul piano economico-finanziario che potrebbe aver spinto le società a compiere una serie di illeciti fiscali. L'attenzione della procura e della Gdf si è concentrata su diversi aspetti della gestione dei club: dalla ricostruzione dei rapporti tra società, procuratori e calciatori alle modalità di trasferimento di questi ultimi; dall'esame dei contratti alle modalità d'inserimento nei bilanci dei giocatori; dalle operazioni di compravendita e rinnovo alla gestione dei diritti d'immagine e dei diritti televisivi; dall'attività di scouting ai compensi per i calciatori qualificati come "fringe benefit". Nell'ambito dell'inchiesta sono state eseguite una serie di perquisizione presso le abitazioni e altri luoghi da loro frequentati da calciatori e i loro rispettivi procuratori coinvolti nell'indagine. Lo scopo del blitz delle fiamme gialle - si legge in una nota del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli - è rinvenire eventuale documentazione bancaria e contrattualistica inerente ai fatti illeciti contestati ossia condotte fraudolente finalizzate a evadere il fisco. Sequestri da parte del nucleo di polizia tributaria della Gdf sono in corso anche a Bologna. L'inchiesta coinvolge l'attuale ds del Bologna Calcio, Pantaleo Corvino, ma per vicende precedenti al suo arrivo in Emilia. La società rossoblu non è toccata dai provvedimenti in esecuzione. "No comment" è la posizione del Napoli in merito all'inchiesta "Fuorigioco" della procura di Napoli. Il capo della comunicazione del club di De Laurentiis ha spiegato che la società "non commenta le inchieste in corso". Anche il Milan ha commentato l'inchiesta: "La vicenda è assolutamente marginale e non fondata, troverà la sua risoluzione sia sotto il profilo tributario, sia sotto il profilo penale, in una doverosa archiviazione". "Ho parlato con Lotito, non ha ricevuto nessun atto dal quale risulta che è indagato. Nessun avviso di garanzia, niente. Ha saputo tutto dalle notizie di oggi". Così l'avvocato della Lazio, Gian Michele Gentile. "Se è indagato? La procura non se lo sarà inventato, ma ad oggi Lotito non ha avuto nessuna notifica di alcun atto. Non abbiamo nessun segnale di alcun tipo, se ci fosse stata una perquisizione Lotito me lo avrebbe detto". Secondo gli investigatori, ci sarebbe un tesoro milionario di alcuni calciatori occultato nelle banche in Svizzera. L'inchiesta "madre" era infatti sulle diverse rapine commesse ai danni di calciatori del Napoli; da una conversazione tra il calciatore Ezequiel Lavezzi e il suo procuratore Alejandro Mazzoni, il 20 gennaio 2012, si capì che c'era qualcosa da approfondire. Il suo procuratore riferiva a Lavezzi alcune informazioni che lo stesso aveva chiesto sull'apertura di un conto corrente bancario in Svizzera in favore di un altro calciatore argentino, Cristian Chavez. Mazzoni, anche lui indagato, dice al "Pocho" che il conto estero, già esistente con la Hsbc, era stato chiuso e che si stava adoperando per aprirne un altro con l'Istituto Farakin. L'ascolto di questa conversazione spinge gli investigatori a effettuare alcuni riscontri sugli aspetti economici dei contratti partendo proprio da quello di Lavezzi. In particolare sul trasferimento del "Pocho" a Paris Saint Germain, la polizia giudiziaria avrebbe accertato evasioni fiscali record; sarebbe stata emessa infatti una falsa fattura da Alessandro Moggi, la numero 18, per un valore di oltre due milioni e mezzo di euro in favore di Lavezzi, in cui attestava esecuzioni di prestazioni rese dal suo agente Mazzoni, pari a circa un milione e 600 mila euro. In tal mondo Lavezzi poteva evadere il Fisco italiano dichiarando il lavoro del suo agente in Francia dove avrebbe pagato di meno e favoriva Mazzoni che avrebbe guadagnato a nero il suo compenso. "Ho letto quello che avete letto voi e non posso fare commenti su cose che non conosco". Il presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio commenta così, da Potenza, dove sta partecipando all'inaugurazione della nuova sede del comitato regionale lucano, gli sviluppi dell'inchiesta "Fuorigioco" della Procura di Napoli.

Un altro teorema sul calcio: inchiesta su fatture inesistenti. Un altro assalto al calcio italiano. Nel mirino squadre di A e B. L'ipotesi di reato è evasione fiscale e falsa fatturazione. Il Milan: "Inchiesta infondata", scrive Sergio Rame, Martedì 26/01/2016, su "Il Giornale". Una nuova bufera si abbatte sul calcio italiano. Una inchiesta, condotta dai pm della procura di Napoli Danilo De Simone, Stefano Capuano e Vincenzo Ranieri coordinati dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, solleva nuove accuse contro massimi dirigenti, calciatori e procuratori di squadre di calcio di serie A e B. L'ipotesi di reato è evasione fiscale e false fatturazioni. Ma, come al solito, l'impianto accusatorio sembra un teorema che non regge e che mira soltanto a indebolire il nostro calcio. Oltre cento persone coinvolte. Almeno trentacinque società di serie A e B nel mirino. L'inchiesta "Fuorigioco" parte nel 2012 ipotizzando presunte violazioni fiscali commesse sia dalle società sia dai procuratori e dai calciatori nell'ambito di operazioni di acquisto e cessione dei diritti alle prestazioni sportive dei calciatori stessi. "Il meccanismo fraudolento - spiegano dalla procura - è stato architettato per sottrarre materia imponibile alle casse dello Stato italiano". I procuratori, dicono gli inquirenti, fatturavano in maniera fittizia la propria prestazione alla sola società calcistica, come se la loro intermediazione fosse nell'interesse esclusivo del club, mentre di fatto tutelavano gli interessi dei loro atleti assistiti. Le società potevano così dedurre dal reddito imponibile queste spese, beneficiando di detrazioni di imposta sul valore aggiunto relativa proprio a questa pseudo prestazione. E i calciatori non dichiaravano quello che era "sostanzialmente un fringe benefit" riconosciuto loro dalla società calcistica nel momento in cui si accollava il pagamento procuratore. Inoltre, dicono le indagini, agenti argentini riuscivano a farsi tassare in Italia i propri compensi ricorrendo a documentazione fiscale e commerciale fittizia e l'interposizione di società "schermo" con sedi in paradisi fiscali. L'inchiesta nasce nel 2012 quando la Guardia di Finanza, piombata nelle sedi del Napoli e della Figc, acquisisce i contratti di Ezequiel Lavezzi, ceduto dal Napoli al Paris Saint Germain, e del quasi sconosciuto attaccante argentino Cristian Chavez. Partendo da quella attività, nove mesi dopo, i finanzieri si presentano nelle sedi di 41 società di serie A e B per acquisire ulteriore documentazione. Gli investigatori parlarono di un "fenomeno generalizzato" nel calcio italiano, vale a dire la "progressiva e esasperata" lievitazione degli oneri relativi agli ingaggi dei calciatori. E questo, è l'ipotesi investigativa, avrebbe fatto sì che nel tempo si determinasse una situazione di squilibrio gestionale sul piano economico-finanziario che potrebbe aver spinto le società a compiere una serie di illeciti fiscali. Tra i sessantaquattro di indagati nell'indagine della procura di Napoli, che ha portato al sequestro di beni per circa 12 milioni, ci sono nomi eccellenti come l'ad del Milan Adriano Galliani, il numero uno della società partenopea Aurelio De Laurentis, il presidente della Lazio Claudio Lotito, l'ex presidente e ad della Juventus Jean Claude Blanc. "È una vicenda assolutamente marginale e non fondata - minimizzano i legali del Milan - troverà la sua risoluzione sia sotto il profilo tributario, sia sotto il profilo penale, in una doverosa archiviazione". Tra i calciatori, indagati anche "il pojo" Lavezzi e l'ex giocatore Hernán Crespo. Nella rete dei magistrati sono finiti anche diversi procuratori tra cui Alessandro Moggi. Per i pm partenopei sono responsabili "in maniera sistematica di reati tributari, mediante condotte fraudolente esclusivamente finalizzate a evadere il fisco".

Torna la vetrina dei pm: un'inchiesta ogni estate. Un mondo con pochi controlli che ora fa gola al fisco. E le Procure ne approfittano per cercare la ribalta, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 26/06/2013, su "Il Giornale". Nove mesi. Tanto è durato il lavoro degli uomini della finanza. Nove mesi per mandare in frantumi le vetrine del football italiano. Da una parte le trattative e le chiacchiere del calcio mercato, dall'altra l'azione plateale dei piemme. Puntuale, quando arriva l'estate, il tempo per tenere alta l'attenzione e la tensione, secondo usi e costumi della nostra giustizia. Ho usato l'aggettivo «plateale» perché, in contemporanea con la vicenda della procura napoletana, in Inghilterra la Premier League ha reso pubblica, senza trombe e blitz mattutini, la tabella degli emolumenti che i club professionistici inglesi hanno garantito, si fa per dire, ad agenti e procuratori per l'acquisto o la cessione dei calciatori: novantuno milioni di euro, questa la cifra complessiva che vede in testa alla lista il Manchester City che, nel periodo 1 ottobre 2011-30 settembre 2012 ha versato 12 milioni e mezzo di euro come consulenza e indennità ai procuratori. L'elenco è chiuso dal Southampton con soli settecentosessantunomila euro. Da segnalare che il Queens Park Rangers, nonostante l'esborso di otto milioni di euro, è retrocesso al termine della stagione. É storia vecchia, la circolazione del denaro, nel calcio, non ha frontiere e i controlli non sono sempre assidui. Il caso di Lionel Messi che va a transazione con il fisco spagnolo pagando 10 milioni di euro o quello di Mourinho anch'egli alle prese con una vicenda fiscale, sono la conferma che il pallone è oppio per i popoli e banca per l'erario. Sempre che quest'ultimo operi nel rispetto del contribuente. Da ieri, comunque, la voce che circola fuori dall'Italia, è che la serie A, ma non soltanto, «non paga le tasse». I club hanno già rispedito la palla al mittente, loro non c'entrano, sono i procuratori ad avere, eventualmente, violato le leggi. Ma chi è che tratta con i procuratori? Chi affida loro le trattative di acquisizione e cessione? Di tutto questo dovrebbe occuparsi anche la Fifa, la federazione calcistica internazionale la quale dovrebbe esercitare un controllo delle operazioni e verificare la loro trasparenza. Ma è di questi giorni il caso di un calciatore brasiliano richiesto dalla Lazio che ha trovato l'accordo con il club relativo e lo stesso calciatore, il quale però risulta prigioniero di un fondo d'investimento inglese, Doyen Sport. Silenzio totale da parte degli organi di controllo, Blatter e la Fifa lasciano che il football venga violentato. Anderson, il calciatore in questione, verrà in Italia, troverà ad attenderlo la procura di Napoli e le Fiamme gialle? Qualsiasi riferimento al calcio come momento di evasione è puramente casuale.

Calcio, inchieste e scandali: una storia che si ripete. L’inchiesta della procura di Napoli ribattezzata «Fuorigioco» fa fare un salto di qualità agli scandali del calcio, dopo le partite anche la finanza truccata, scrive Giovanni Bianconi il 26 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. La nuova frontiera sono le frodi fiscali: fatturazioni fittizie alle società per mascherare all’erario i guadagni di giocatori e procuratori. L’ipotesi d’accusa della Procura di Napoli fa fare un salto di qualità agli scandali del calcio aprendo il filone, in parte già noto, della finanza truccata. Che segue quello più classico delle partite truccate: per favorire le scommesse clandestine oppure per permettere a qualche squadra di evitare figuracce o retrocessioni, com’è avvenuto lo scorso anno con il Catania del presidente reo confesso. Dai tempi del Totonero scoperto nel 1980 (quando le partite in tv si vedevano solo nelle sintesi differite di 90° minuto, ancora in bianco e nero), con i calciatori arrestati insieme a faccendieri di bassa lega, a quelli recentissimi delle scommesse intercontinentali e in diretta sulle partite di ogni campionato, atleti e dirigenti continuano a vendere i risultati. Per guadagnare soldi attraverso collegamenti con vere e proprie associazioni per delinquere. Così come dirigenti senza scrupoli continuano a contattare arbitri o colleghi di altri club (da Calciopoli in avanti: ma quanti sono i casi mai scoperti?) per indirizzare l’esito delle partite. E ancora il pasticcio dei passaporti falsi per far figurare italiani o “continentali” stranieri sconosciuti, da tesserare anche se non si potrebbe. Fino alle false fatturazioni di cui si riparla oggi. E’ come se il calcio –non solo in Italia, visto quello che accaduto alla Fifa – fosse condannato a convivere con la corruzione, in una deriva che non c’è modo di fermare. Il ricorso al malaffare sembra un vizio ineliminabile, forse nella convinzione che tanto la Grande Macchina dello spettacolo e del business non si potrà fermare: per i soldi che muove, ma anche per gli entusiasmi e le passioni che continua a suscitare nel pubblico (ignaro o rassegnato) degli stadi e delle pay-tv. Lo scandalo passa, il circo del calcio resta. In attesa del prossimo scandalo.

Calcio e scandali, binomio che ha più di 80 anni di vita, scrive “Televideo Rai”. La prima volta nel 1927, quando il derby Torino-Juve salì alla ribalta per un episodio di corruzione che costò la revoca dello scudetto ai granata. Calcio e scandali. Un binomio epico che ha più di 80 anni di vita, un filo rosso che ha tenuto unito il pallone, in Italia e non solo, tra squalifiche, retrocessioni, coinvolgimenti eccellenti, manette soprattutto quando la posta si faceva alta. Già, perché è con le scommesse che il pallone ha preso la sua peggior deriva, sconfinando dal campo al tribunale, officiando il tradimento dei tifosi; e ogni volta è stata bufera. La prima nel lontano 1927, quando il derby Torino-Juve salì alla ribalta per un episodio di corruzione che costò la revoca dello scudetto ai granata. Piccola cosa se messa a confronto con lo scandalo vero che squassò i vertici della serie A. La tempesta arriva infatti nel 1980, dopo l'esposto di due scommettitori: nella polvere e in carcere finirono nomi noti anche del massimo campionato, tra cui Manfredonia e Giordano della Lazio, Albertosi e Morini del Milan, compreso il presidente dei rossoneri, Felice Colombo. Giornate pesantissime, con i campioni del calcio made in Italy portati via in manette dai Carabinieri mentre sullo sfondo andavano in scena i 90 minuti più attesi della settimana. La giustizia ordinaria assolve allora i giocatori coinvolti, ma quella sportiva usa il pugno di ferro: Milan e Lazio retrocedono in B (per i rossoneri si tratta della prima discesa tra i cadetti): le squalifiche per i calciatori vanno da tre mesi a sei anni. Colpito anche Paolo Rossi, salvato solo dall'amnistia dell'82 grazie alla quale partecipa al fortunato Mondiale in Spagna che porta degli Azzurri di Bearzot il terzo titolo iridato. Si trattò del primo grande scandalo di illeciti sportivi e partite truccate nella storia del calcio italiano, che portò anche alle dimissioni del presidente federale Artemio Franchi. Ma anche in epoche più recenti il calcio scommesse è tornato padrone della scena: nel 2001 un'inchiesta su Atalanta-Pistoiese di Coppa Italia, per un presunto tentativo di combine per consentire scommesse pilotate. Nel 2004 un altro mezzo tsunami: sotto i riflettori dei giudici sportivi finiscono il Modena, la Sampdoria, il Siena e alcuni giocatori noti, tra cui Stefano Bettarini, allora marito della conduttrice tv Simona Ventura, che la disciplinare condanna a cinque mesi di stop. Il Modena evita la retrocessione, blucerchiati e toscani se la cavano con una multa, prosciolto il Chievo, pure finito nella bagarre. Un altro terremoto l'Italia del pallone lo ha vissuto nel 2006, con Calciopoli: ma qui lo scandalo non era per le scommesse, ma per la presunta corruzione di arbitri e di massimi dirigenti di club. Una bufera - che prosegue ancora nelle aule del tribunale di Napoli - che portò in ambito sportivo alla retrocessione in serie B addirittura della Juventus. E poi il colpo di spugna sui vertici di allora, presidente federale compreso. Ma gli scandali non hanno confini. In Germania nel 2009 quindici persone finirono in manette nell'ambito di un'inchiesta su un giro di scommesse illegali legato a una serie di partite di calcio truccate in una decina di Paesi europei. L'Uefa allora aveva avvertito: sta per scoppiare uno scandalo scommesse di dimensioni europee. Un fil rouge da cui il pallone non sembra proprio riuscire a districarsi.

Il giocattolo rotto: tutti gli scandali del calcio italiano. Il primo ai tempi del fascismo quanto il Torino fu accusato di corruzione. Nel 1980 è la volta del calcioscommesse che torna nel 2011, oggi il blitz della Gdf per i contratti - Moggi e Mazzoni tra gli indagati - I contratti ai raggi X, scrive Matteo Politanò il 25 giugno 2013 su "Panorama". Nuovo scandalo nel calcio italiano, nuovo imbarazzo per lo sport più seguito del paese. Il blitz della Guardia di Finanza nelle sedi di 41 squadre di Serie A, B e campionati minori riapre ferite mai rimarginate. Nel mirino la documentazione relativa ai contratti tra i club, i calciatori e i procuratori per un'indagine nata circa un anno fa. Le ipotesi avanzate dal nucleo di polizia tributaria di Napoli sono quelle di associazione a delinquere, reati fiscali internazionali, fatture false e riciclaggio. Nel mirino anche le big: perquisite le sedi di Milan, Juventus, Inter, Roma, Napoli, Lazio e Fiorentina. Una lunga scia di scandali che fanno disinnamorare e e strappano altri pezzi di un giocattolo che ciclicamente si mostra sempre più rotto. La prima inchiesta nella storia del calcio italiano risale alla stagione 1926/1927 quando fu revocato lo scudetto vinto sul campo dal Torino. La Figc aprì un'inchiesta dopo l'uscita di un articolo dal titolo "C'è del marcio in Danimarca" che portò ad indagare su un tentativo di corruzione ad un giocatore della Juventus, Luigi Allemandi, da parte di un dirigente del Torino. 50.000 lire di acconto per il terzino bianconero al fine di permettere una facile vittoria granata nel derby. La stracittadina si concluse poi per 2-1 ma Allemandi fu tra i migliori in campo e le reti nacquero dagli errori di altri giocatori come Rosetta e Pastore. Allemandi fu prima squalificato a vita e poi riabilitato dopo una stagione. Il vero tornado sul calcio italiano si abbatté però nel 1980 con il più grande scandalo che investì società di A, B, dirigenti e calciatori. A marzo un commerciante romano inviò alla Procura della Repubblica di Roma un esposto sostenendo di essere stato truffato da alcuni giocatori della Lazio tramite la mediazione di un ristoratore della zona. Avrebbe dovuto ricevere "soffiate" dai giocatori biancocelesti ma dopo aver perso grosse somme di denaro decise di denunciare il tutto. Dopo 3 settimane la magistratura fece arrestare diversi tesserati di serie A, tra questi anche Bruno Giordano e Lionello Manfredonia della Lazio ed Enrico Albertosi del Milan. Paolo Rossi, Oscar Damiani, Beppe Savoldi, Giuseppe Dossena e altri ricevettero degli avvisi a comparire come persone informate dei fatti. Fu il primo grave colpo inflitto all'immagine e alla credibilità del calcio italiano che culminò con la retrocessione di Milan e Lazio e con pesanti squalifiche per molti giocatori (tra i quali Paolo Rossi che però fu graziato due anni più tardi in tempo per vincere la coppa del Mondo). Nel 2001 finì sotto la lente d’ingrandimento la partita tra Atalanta e Pistoiese di Coppa Italia e tre anni dopo Sampdoria, Siena e Modena furono invischiate in un nuovo mini-scandalo che costò 5 mesi di squalifica a Stefano Bettarini e qualche multa pecuniaria alle società. Alla vigilia del mondiale 2006 ecco un nuovo scandalo per devastare immagine e credibilità del calcio italiano e del paese tutto: calciopoli. A metà aprile 2006 la Gazzetta dello Sport, Repubblica e Il Corriere della Sera iniziano a pubblicare intercettazioni ascoltate dai Carabinieri. Inizia un'indagine con il maresciallo Auricchio che consegna il fascicolo con le intercettazioni alla procura federale. Si scopre che alcuni dirigenti, tra cui Luciano Moggi della Juventus, avevano contatti con i designatori arbitrali. Inizia il processo a giugno, nel frattempo emerge anche che Moggi aveva consegnato delle sim svizzere agli arbitri e che Meani del Milan andava spesso a cena con i disegnatori e con gli arbitri, soprattutto con Collina. Il processo si svolge in tempi rapidissimi e si conclude con la condanna di primo grado alla Serie C1 per la Juventus, Serie B per Milan, Fiorentina, Lazio e Reggina. Alla fine la Juventus è retrocessa in Serie B con 30 punti di penalizzazione, le altre restano invece in Serie A con penalizzazione. A febbraio 2010 emergono almeno 700.000 intercettazioni ascoltate ma incomprensibilmente non consegnate dal maresciallo Auricchio alla procura federale. Nelle intercettazioni si scopre che altre squadre si comportavano come la Juventus e soprattutto emerge che Facchetti (ex presidente dell'Inter) visitava spesso gli arbitri prima delle partite a San Siro, a volte arrivando anche ad intimorirli per aiutare l'Inter. Si scoprono fitti legami tra l'Inter e i designatori e tra il Milan e i designatori ma i termini di prescrizione sono scaduti e l'Inter non può essere condannata. L'ultimo scandalo in ordine di tempo è quello legato al Calcioscommesse che dal 2011 ha visto coinvolti calciatori, dirigenti, società di serie A, B, Lega Pro e dilettanti con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva. Il processo parte dalle procure di Cremona e Bari basandosi sulle testimonianze di diversi collaboratori tra cui ex giocatori che ammettono di aver truccato partite per incassare soldi dalle puntate. Settimana dopo settimana l'inchiesta si allarga a macchia d'olio coinvolgendo volti noti della serie A, da Cristiano Doni a Giuseppe Signori si scopre un universo di atleti pronti a vendere lo sport e a comprare combine con l'aiuto di organizzazioni criminali. E' l'ennesimo terremoto per il campionato italiano, ultimo colpo inferto ad un circo che non può più arrogarsi il diritto di chiamarsi semplicemente "gioco".

Calcio sporco: gli scandali italiani in 10 tappe, scrive Nicola Bambini su Vanity faire del 30 giugno 2015. «Il treno delle 11 c’è? Certo, quello è il direttissimo». Risultati puntuali, da far invidia alle Ferrovie dello Stato. Nessuna stazione o locomotiva nelle intercettazioni che hanno svelato le partite comprate quest’anno dal Catania, bensì tante parole in codice ma facilmente smascherabili. I treni sono i giocatori e l'orario rappresenta il numero di maglia, così da poterli identificare. Che poi un treno che parte alle 11 è verosimile, ma quando esce fuori quello «delle 33» la conversazione assume contorni grotteschi. D'altronde camuffare le parole quando si compiono certi illeciti è necessario: i protagonisti nascondono il linguaggio ma forse vogliono nascondere anche un po' se stessi, mettere la testa sotto la sabbia e vergognarsi di fronte ad una simile vigliaccata. Il primo pensiero, e non potrebbe essere altrimenti, va agli appassionati, a chi segue l'evento dallo stadio e da casa, con sacrifici pure economici. Magari litigano per guardarsi la partita invece che andare al cinema, salvo poi assistere ad un match che è pura fiction. Autogol regalati, errori pilotati, risultati accomodati: sceneggiature già scritte con finali che qualcuno sa già. «Corruzione», «associazione a delinquere» e «frode sportiva» si ripetono come una cantilena nauseante e riempiono senza sosta le pagine dei giornali. Già dagli anni Venti, a dire il vero, quando una testata dell’epoca, il Tifone, smascherò il tentativo di corruzione che costò al Torino lo Scudetto del ’27: era il caso Allemandi, il primo grande scandalo del calcio italiano. Le macchine di Polizia sulla pista dell'Olimpico segnarono nel 1980 la fine dell'innocenza e l'inizio del declino. Sei anni dopo infatti ci fu la seconda parte dell’inchiesta, poi nel 2000 nuovi scandali, fino alla «rumorosa» squalifica di Conte e una lista infinita di nomi noti coinvolti. Passando tra passaporti falsi e arbitri chiusi negli spogliatoi. E la solita domanda: dello sport cosa resta?

1/10. CASO ALLEMANDI - 1927. Una lettera sbriciolata in mille pezzi ma che, dopo 18 ore di lavoro, riprende forma come un puzzle e svela il tentativo del Torino di corrompere un difensore della Juventus, tale Luigi Allemandi, per poter così vincere derby e campionato. E’ il primo vero scandalo del calcio italiano: Scudetto revocato ai granata, seppur alcuni retroscena non furono mai chiariti.

2/10. TOTONERO - 1980. Le immagini delle camionette di Polizia e Guardia di Finanza sulla pista dello Stadio Olimpico in attesa di portare in carcere alcuni giocatori è rimasta negli annali. La prima vera grande pugnalata alla credibilità del calcio italiano: partite truccate e scommesse clandestine, coinvolti club di A e B. A pagare più di tutti furono Milan e Lazio, retrocesse d’ufficio.

3/10. TOTONERO BIS - 1986. Come un fantasma che aleggia sopra gli stadi italiani, lo scandalo corruzione torna in picchiata e avvolge stavolta anche le serie minori. Confessioni e intercettazioni non lasciano spazio a dubbi: si scommette a tutti i livelli, la Procura di Torino smaschera partite truccate anche in terza e quarta serie. Spicca il nome di Renzo Ulivieri, squalificato tre anni.

4/10. ATALANTA-PISTOIESE - 2000. «Attenzione, c’è un flusso di scommesse anomalo sul match di Coppa Italia: il primo tempo la vittoria del club di casa, pareggio al triplice fischio». E’ la Snai a dare l’allarme, soprattutto quando la partita finisce proprio come prevedeva il flusso di denaro. Gli indagati tutti assolti in appello, ma uno di questi, Cristiano Doni, confermò: «Sì, era truccata».

5/10. PASSAPORTI FALSI - 2001. Altro triste primato per il pallone italiano: il primo caso di falsificazione documentaria nel calcio europeo si verifica nel Bel Paese. Quindici i calciatori extracomunitari naturalizzati illecitamente, su tutti spiccarono i nomi del laziale Veron, del milanista Dida e soprattutto dell’interista Recoba. Ammende per le società coinvolte, ma nessuna penalizzazione.

6/10. CALCIOPOLI - 2006. Rolex in regalo a Natale e tante sim telefoniche per non essere rintracciati. Sono queste le immagini che più di tutte colpiscono leggendo gli atti del clamoroso scandalo che, alla vigilia dell’indimenticabile Mondiale in Germania, sventra la credibilità del calcio italiano: Luciano Moggi diventa l’emblema, la Juventus finisce in B.

7/10. ARMA LETALE - 2009. Ancora una volta sono le serie minori a finire sotto la lente degli investigatori: tirando i fili di un’indagine antimafia, la Procura di Potenza scopre alcuni legami tra Giuseppe Postiglione, presidente della squadra locale, ed alcuni esponenti della malavita organizzata: l’accusa parla di associazione a delinquere volta ad alterare i risultati delle partite.

8/10. LAST BET - 2011. Da Cremona arriva l’ennesimo schiaffo al calcio italiano, questo particolarmente forte visto che il procuratore De Martino emette ben quattro tranche di custodia cautelare. Il giro di affari si allarga, spunta una cupola di scommettitori internazionali con base a Singapore. Tanti i nomi coinvolti, ma la condanna più rumorosa è quella per il ct Antonio Conte.

9/10. DIRTY SOCCER - 2015. Decine di partite truccate tra Lega Pro e Serie D, una sfilza interminabile di indagati tra tesserati e non: il mese scorso la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ha scoperto «una stabile organizzazione criminale che ha messo in atto condotte finalizzate ad alterare i risultati di varie partite. Il problema è tutt’altro che risolto». C’è da credergli.

10/10. I TRENI DEL GOL - 2015. «Il treno delle 13 è sicuro? Certo, il direttissimo». No, non si tratta di uno scambio di informazioni su un binario di una stazione, bensì del linguaggio in codice usato da alcuni esponenti del Catania per comprare partite: i treni erano i giocatori e l’orario invece il numero di maglia. Il presidente Pulvirenti ha confessato di aver comprato cinque partite.

Caccia all'arbitro. Aggressioni, violenza, offese: un mestiere pericoloso. Arbitri presi d'assalto per avere semplicemente fatto il loro dovere. Le aggressioni agli arbitri nelle partite di calcio non fanno più tanto clamore perchè spesso si assiste a ingiurie verbali, a imprecazioni a atti volgari contro chi di una partita deve fare attenzione al rispetto delle regole da parte delle squadre. A volte le aggressioni diventano anche fisiche e si è in presenza di vere e proprie violenze che cancellano i momenti di sport e indignano chi vede lo sport come momento di aggregazione sociale.

Partita contro la violenza, arbitro picchiato. È accaduto nel Lecchese durante un campionato dilettantistico. L'arbitro ha concesso un rigore alla squadra locale e il capitano della squadra ospite lo ha colpito al volto, scrive il 18 aprile 2016 “La Gazzetta”. Un giovane arbitro è stato picchiato nel fine settimana "contro la violenza nei confronti degli arbitri". Un paradosso divenuto purtroppo triste realtà. Le partite del calcio dilettantistico lombardo sono iniziate con dieci minuti di ritardo per dare un segnale forte, ma a Cernusco Lombardone (Lecco), durante una partita del campionato provinciale della categoria Juniores, l'arbitro Marco Airoldi è stato vittima di un'aggressione. Airoldi, studente di 18 anni di Vercurago, da due anni arbitro dell'Aia di Lecco, dirigeva la partita del centro sportivo di Cernusco Lombardone, dove la Brianza Cernusco Merate ha ospitato e battuto per 3 a 0 il Costamasnaga. Il giovane arbitro ha concesso un rigore alla squadra locale e per tutta risposta il capitano della squadra ospite - una volta vista assegnata la terza rete - lo ha colpito al volto. Il giocatore in questione da diversi anni milita nel Costamasnaga, ed è coetaneo dell'arbitro. Il direttore di gara ha sospeso la partita e si è poi recato al pronto soccorso dell'ospedale di Lecco per farsi medicare le contusioni. Poco dopo sono giunte le scuse dello stesso capitano e dei suoi dirigenti. Faticano invece a capacitarsi i vertici degli arbitri lecchesi, visto che, per l'appunto, si trattava di un turno di campionato espressamente dedicato alla condanna di atti di violenza.

Intervenendo il 2 maggio 2016 nel corso di un incontro tra gli arbitri e la stampa presso il Centro congressi Frentani, a Roma, il capo dei fischietti italiani ha anche espresso la sua opinione: «Com'è possibile che oggi, sui campi di calcio italiani, si permetta che ogni anno vengano picchiati 650 arbitri? Tutti assieme dobbiamo dire a quei delinquenti che girano attorno ai campi, che il calcio non è roba per loro». E' l'amaro sfogo del presidente dell'Aia, Marcello Nicchi. Il direttore generale della Figc, Antonello Valentini ha dichiarato a Radio RAI il 19 settembre 2015: «In Italia si giocano 570 mila partite ufficiali in una stagione effettiva, 18-20 mila a settimana dalla Serie A ai campionati giovanili, con 570mila arbitri, quindi in campo ogni anno e nella passata stagione sono stati 600 gli arbitri aggrediti e malmenati.

Addirittura 600 (record in Sicilia, 128 casi) e oltre il 30 per cento degli arbitri hanno fatto ricorso alle cure mediche. Sessanta atti di violenza sono stati consumati ai danni di arbitri-ragazzini, di 16-17 anni. Una vergogna. La maggior parte delle aggressioni sono a causa dei tesserati: 69% calciatori, 24% dirigenti, i "terzi" (spettatori o padri dei calciatori) rappresentano il 13% sugli episodi violenti.

Caccia all'arbitro. Nella stagione 2014-2015 è raddoppiato il numero delle aggressioni, scrive Leo Gabbi il 27/10/2015. Una volta tanto parliamo di arbitri, ma non le famose giacchette nere della nostra Serie A, bensì di tutti quei giovani e anche solo ragazzini, che per passione, anziché giocare in una squadra, si mettono a dirigere le partite. Sarà forse anche un pizzico di protagonismo o di leadership a portarli a questa scelta per certi versi “estrema”, per altri incomprensibile ai più, ma spesso, come avviene fatalmente per i loro colleghi più grandi, questi mini-arbitri si trovano al centro di polemiche infinite che spesso sfociano addirittura in aggressioni verbali e in qualche caso persino fisiche non solo da parte dei dirigenti delle squadra, ma anche di genitori e amici dei giocatori. Situazioni vergognose e inaccettabili, in cui spesso il ragazzino in giacchetta nera si trova ad arbitrare giovani molto più grandi di lui, senza avere la minima protezione dentro e fuori dal campo. Questo avviene spesso nel nostro calcio minore, nelle ultime settimane con una concentrazione di episodi preoccupanti, ma a volte riguarda anche altre discipline. Qualche tempo fa ad esempio, nel Pisano, un gruppo di genitori, durante un torneo di minibasket ha cominciato a prendere a male parole un arbitro, appena 12enne, costretto poi ad abbandonare il parquet in lacrime. A Cremona invece, durante una partita di volley femminile under 13, i genitori delle ragazzine hanno dato vita ad una vera e propria rissa sugli spalti. L’80% degli episodi è però sempre riconducibile al nostro sport più popolare. E se ancora qualcuno pensa che il calcio violento nasce dagli scontri di Serie A e B, dovrebbe farsi un giro sui campetti di periferie, le domeniche mattina, per capire quanta rabbia viene a volte incanalata sui giovani fischietti. Quasi un anno fa a Lecce una partita di seconda categoria si è trasformata in caccia all’uomo, prima in campo e poi negli spogliatoi per un giovane arbitro che poi, al pronto soccorso ha avuto una prognosi di 21 giorni. Poi altri casi recenti in Sicilia, Sardegna, nel Lazio, ma anche in Lombardia e Veneto. I dati ufficiali certificano che il fenomeno è sempre più preoccupante: nella stagione 2014-2015 ma anche in quella appena iniziata, i direttori di gara hanno subito quasi il doppio delle aggressioni rispetto a quelle precedenti e il primato negativo riguarda proprio i campionati del Settore Giovanile, con la Federazione che ha inasprito le pene, ma che non sembra abbia ottenuto un’inversione di tendenza. C’è una specie di senso di impunità in coloro che commettono certe azioni violente, che a volte trascina all’eccesso anche altre persone, mentre sono più rari i casi in cui gruppi di papà e mamme si ribellano e denunciano chi esagera. A mali estremi però, meglio reagire senza aspettare altre conseguenze. In 90 anni di calcio nostrano, mai gli arbitri hanno scioperato: forse invece sarebbe il caso di mandare un segnale forte, perché questa escalation delle violenze, spesso sottaciute o quasi, non può sempre diventare come la polvere che finisce sotto il tappeto. Fonte: Sir

Arbitri, offesi e picchiati, scrive Massimiliano Castellani il 5 novembre 2014 su "Avvenire". Se Paolo Sollier, il centravanti dal “pugno chiuso” volesse aggiornare il suo libro manifesto degli anni ’70 Calci e sputi e colpi di testa, il protagonista principale non sarebbe più un calciatore, ma un giovane arbitro italiano, magari di colore. In questo autunno rovente per il nostro pallone si è passati dagli attacchi verbali alle violenze fisiche sui direttori di gara. Solo nell’ultima settimana, tre arbitri aggrediti, di cui due minorenni. Qualcuno leggendo la vicenda dell’arbitro 17enne Luigi Rosato, minacciato addirittura di morte via facebook, dopo le aggressioni subite durante la gara Atletico Cavallino- Cutrofiano (Seconda categoria), forse avrà pensato che si trattava di un caso limite, magari isolato. Illusi, colti in pieno fuorigioco. Solo nel mese di ottobre sono stati 30 i casi di violenze contro gli arbitri, molti dei quali minorenni, spesso coetanei degli stessi giocatori, i quali rappresentano il 64% dei “picchiatori” dei poveri direttori di gara. Il resto del lavoro molto sporco lo fanno dirigenti e genitori. Come nel caso dell’altro arbitro pugliese, Lucio Del Sole, 18 anni, malmenato a Montesano Salentino da un 50enne, papà di un calciatore, durante Tricase-Sogliano Cavour (Giovanissimi). Del Sole e l’arbitro 16enne di Lecco aggredito a Calolziocorte durante Victoria-Polisportiva Foppenico (Allievi), oltre al referto arbitrale hanno presentato anche quello medico rilasciatogli dall’ospedale in cui gli hanno diagnosticato rispettivamente 3 e 5 giorni di prognosi. Unica nota lieta di queste giornate di ordinaria follia sono state le lacrime del 14enne calciatore che rivolgendosi all’arbitro Del Sole gli ha detto solidale: «Mi scuso per mio padre... ». Il mondo adulto oltre alla testa ha perso anche la dignità: dal 2009 alla stagione calcistica 2013-2014 sui nostri campi si sono verificati 2.323 episodi di violenza contro gli arbitri. Una cifra drammaticamente da “primato mondiale” che va a sommarsi a quella dei 109 casi di direttori di gara che sono dovuti ricorrere alle cure sanitarie. Nella deriva in cui siamo, l’Aia (Associazione italiana arbitri) ha dovuto creare un Osservatorio ad hoc. Sotto stretto controllo soprattutto il movimento che rimane all’ombra dei riflettori del grande calcio: la maggioranza dei 375 episodi di violenza registrati nell’ultima stagione hanno avuto come teatro partite di tornei giovanili e dilettantistici. La Serie A, come insegna il pandemonio conseguente alla direzione di Juventus- Roma dell’arbitro Rocchi (si è arrivati alle interpellanze parlamentari), non dà certo il buon esempio, e l’immagine delle “giacchette nere” viene continuamente infangata. E questo, nonostante la nostra scuola arbitrale sia ancora riconosciuta a livello internazionale come la migliore. Non a caso il designatore Uefa è l’ex fischietto d’oro Pierluigi Collina che, dinanzi al fenomeno dell’escalation violenta, ha commentato amaro: «Mai stato picchiato. E sono stato fortunato, non bravo». Collina ha anche viaggiato sotto scorta. Tutto ciò è accaduto in un Paese in cui non abbiamo mai avuto arbitri palesemente corrotti come l’ecuadoregno “castiga Italia” Byron Moreno. (Mondiali di Corea-Giappone 2002). In un secolo e più di storia della vituperata - ingiustamente - categoria (l’Aia è nata nel 1911), si ricordano solo due casi di corruzione acclarata: quelli dei signori Pera e Scaramella, arbitri che negli anni ’40 incassarono assegni per aggiustare il risultato. Vicende distanti anni luce da una realtà odierna, in cui il “capro espiatorio” è diventato il “23° in campo”, il temuto e odiato uomo nero. Quando oltre alla divisa, è nera anche la pelle dell’arbitro, si verificano reazioni assurde, tipo quella che ha visto protagonista in negativo un ex calciatore di Serie A, il bomber Emiliano Bonazzoli. Il 35enne attaccante ora in forza all’Este (serie D) si è beccato dieci giornate di squalifica in quanto il 28 settembre scorso al termine della gara contro la Correggese si era rivolto con epiteti di «discriminazione razziale» nei confronti dell’arbitro Ramy Ibrahim Kamal Jouness, medico di Torino di origini marocchine. «Quello di Bonazzoli è stato il primo episodio della stagione in corso, ma nella scorsa sono stati 8 i casi di discriminazione razziale contro arbitri romeni e di colore, e tutti si sono verificati tra i dilettanti», spiega il sociologo Mauro Valeri, responsabile dell’Osservatorio sul razzismo e antirazzismo nel calcio. Mentre i calciatori “G2”, gli italiani figli di stranieri, da Balotelli a El Shaarawy fino ad Ogbonna hanno conquistato le luci della ribalta, di “G2” direttori di gara in Serie A neanche l’ombra. «Questo la dice lunga – continua Valeri –, del resto anche nella multietnica Francia il primo arbitro nella massima serie è comparso solo un paio di anni fa». Si trattava del signor Silas Billong di Lione, classe 1974, origini camerunensi, arbitro di terza divisione chiamato a dirigere Nizza-Lens, ma soltanto perché era la domenica in cui i suoi colleghi della Ligue1 scioperavano. E anche il presidente dell’Aia Marcello Nicchi, visto il dilagare delle angherie di cui sono vittima i suoi associati, minaccia sciopero. «La Federcalcio deve dare risposte concrete altrimenti ci fermiamo, a partire dalla Serie A». Per discriminazione razziale si può anche interrompere la partita, ricorda la Uefa, ma quella contro l’arbitro finora ha prodotto un solo stop, però in Olanda. Da noi nel 2007 a dire «basta» ci aveva provato il signor Slimane Ouakka della sezione di Rimini: durante Argenta- Forlì (serie D) dopo ripetuti insulti razzisti e uno schiaffo ammollatogli da un difensore dell’Argenta, riportò le squadre negli spogliatoi. Logica avrebbe voluto il 3-0 decretato a tavolino in favore del Forlì, mentre il giudice sportivo optò, clamorosamente, per la ripetizione della partita. «L’apertura dell’Aia ai figli di stranieri o a quelli residenti in Italia portata avanti negli ultimi anni è stata molto importante, ma questi ragazzi vanno sostenuti e tutelati con delle campagne di sensibilizzazione mirate, altrimenti continueremo a vedere bravi arbitri, uomini e donne, che stanchi di sentirsi discriminati per il colore della pelle o per la loro etnia, mollano proprio quando potrebbero decollare verso quel professionismo che, ad oggi, rappresenta un miraggio», denuncia Valeri. Cattivi pensieri di abbandono comuni a ragazzi come il romeno Marian Bogdan Vamanu, insultato sul campo del Real Casal (Promozione lombarda) dai tifosi in trasferta del Calcio Rudianese. «Vamanu – conclude Valeri – è della sezione di Cremona, la stessa di Chaida Sekkafi, la 16enne di origine marocchina che ha debuttato lo scorso anno. È stato il primo arbitro con il velo in testa... In un momento come questo proviamo a non distruggere la speranza».

Arbitro di calcio, mestiere pericoloso: in Italia più di una aggressione al giorno. Nella stagione 2013- 2014 ben 375 casi, quest'anno già 42: categoria abbandonata a se stessa. Il presidente Nicchi al fattoquotidiano.it: "Mai fatto abbastanza da chi di dovere", scrive Andrea Tundo il 2 novembre 2014 su "Il Fatto Quotidiano". E’ il 9 ottobre e Alessandro Comerci, 18 anni, arbitra Virtus Sanremo-Dianese. Un dirigente della squadra di casa lo colpisce con un violento pugno allo zigomo destro: venticinque giorni di prognosi per un fischio contestato in una partita di allievi provinciali. Giosj Castangia ha 24 anni ed è una guardalinee, il 21 settembre deve gestire un caldo finale di gara tra Lerici e Ortonovo, Promozione ligure. Si becca un forte calcio al fianco destro e uno al gluteo. Dieci giorni di prognosi. Settimana scorsa, Prima Categoria piemontese, siamo al 25esimo del secondo tempo tra Vanchiglia e Carrara 90. L’arbitro Umberto Galasso sventola il cartellino giallo in faccia a un giocatore di casa che per tutta risposta lo colpisce con uno schiaffo. L’aggressione di Luigi Cannas da parte del presidente del Sanluri (Eccellenza sarda) a metà settembre e i pugni incassati dal 17enne Luigi Rosato durante Atletico Cavallino-Cutrofiano sono solo gli ultimi sintomi di un cancro silenzioso che si annida nei polverosi campi della provincia italiana. E che dall’inizio della stagione conta già 42 casi. In Italia viene aggredito più di un arbitro al giorno. Nell’ultimo anno solare l’Osservatorio violenza dell’Associazione italiana arbitri ha registrato 376 episodi. Negli ultimi cinque sono stati 2365, con un picco di 630 durante i campionati 2010/11. La stagione conclusasi a giugno ha fatto segnare un leggero rialzo rispetto alla precedente arrivando a 375, di cui 303aggressioni fisiche gravi. Novantotto nella sola Sicilia, seguita da Calabria (44), Campania (39) e Veneto (30). Ma anche in una regione meno violenta come il Lazio (17) si rintracciano storie di ordinaria follia. Uno dei 61 casi che si sono verificati nel corso di partite del settore giovanile e scolastico è accaduto a fine maggio a Terracina, in provincia di Latina. Il dispositivo del giudice sportivo relativo alla sfida tra gli under 19 di Hermada e Campo Boario sembra la sceneggiatura di un film sul bullismo. Un giocatore del Campo Boario “colpiva violentemente (l’arbitro) con un calcio alla schiena facendolo cadere con la faccia a terra e costringendolo alle cure del pronto soccorso dell’ospedale di Formia che lo giudicava guaribile in sette giorni”. Alcuni suoi compagni di squadra continuavano il pestaggio con violenti pugni ai fianchi e alla schiena, sputandogli addosso e cercando di colpirlo al volto con una bandierina. Per poi entrare nello spogliatoio “mettendolo a soqquadro” e “disponendo dei suoi effetti personali ed indumenti, questi venivano gettati dentro il water”. La giustizia sportiva ha punito otto giocatori e l’allenatore per un totale di diciotto anni di squalifica. “Sono sei stagioni che lotto con tutti i mezzi possibili per risolvere un problema sottovalutato da cento anni. Ci sono responsabilità precise del mondo federale. È sempre stato fatto poco – attacca il presidente dell’Aia Marcello Nicchi – Picchiare centinaia di arbitri all’anno viene concepita come una cosa normale, ma non è accettabile. Non devono essere sfiorati”. Fanno parte del gioco, interpretano il ruolo più delicato. Eppure sono proprio gli altri protagonisti della partita i primi a scagliarsi contro di loro. Il 64 per cento delle aggressioni avviene per mano dei calciatori, una su cinque vede coinvolti i dirigenti e nel 18% dei casi i direttori di gara vengono presi di mira dai tifosi. “È una vergogna tutta nostra – prosegue il numero uno dell’Aia – Oltretutto in controtendenza rispetto alla qualità degli arbitri, in netta crescita”. Quello di Nicchi è uno sfogo e allo stesso tempo l’ennesimo appello. Perché se è vero che si verificano episodi di violenza nell’1% delle partite disputate, questa non è una faccenda da rinchiudere nella fredda statistica: “Trovo immorale farne un discorso di percentuali. Qui si parla di cultura sportiva, di rispetto. Ben venga la disamina degli errori ma si parli anche delle nostre virtù. Prendiamo le botte ma siamo quelli che arbitrano la finale mondiale. Il buon esempio deve arrivare dai giocatori delle serie più importanti, quelle esposte mediaticamente. I loro comportamenti, i loro sorrisini, le loro urla diventano schiaffi nei campionati dilettantistici e mancanza di cultura nel settore giovanile”. Da qui la decisione: “Perseguiremo tutti quando c’è violenza. Questa gente uccide il calcio e in un Paese civile finirebbe in galera. Dobbiamo cambiare orizzonte, parlando di prevenzione e divulgazione delle regole”. Anche perché, oltre ai calci e ai pugni, resiste lo sterminato sottobosco delle offese che sfugge al radar dell’Osservatorio. Basta leggere quanto ha scritto il 17enne aggredito domenica scorsa a Cavallino, ringraziando genitori, amici e colleghi: “A te mamma, grazie, perché nonostante quella sola volta che sei venuta a vedermi arbitrare, dopo solo mezz’ora, ti sei allontanata non potendo sopportare i toni e le contestazioni che mi venivano rivolti e, nonostante ieri lavavi la mia divisa sporca di sangue con gli occhi lucidi di pianto, mi hai sempre incoraggiato e sostenuto con il tuo sorriso”. Tra qualche settimana Luigi Rosato tornerà in campo, giusto il tempo di far trascorrere i 21 giorni di prognosi. Per un nuovo fischio d’inizio.

MAFIA. CACCIA ALLE STREGHE? NO! CACCIA ALLE ZEBRE...

Se la sinistra giustizialista vuole arrestare anche la Juve. L'Antimafia indaga sulle infiltrazioni delle cosche in curva: «Interroghiamo Agnelli», scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 8/02/2017, su "Il Giornale". La zona grigia. Non quella classica, fra società civile e cosche. No, quella più evoluta e sofisticata che separa i grandi club del calcio dalla grande criminalità. Finora, allo Juventus Stadium, si era visto solo il gioco a zona, ma sul terreno. Ora gli occhi vigili dell'Antimafia, e dei suoi corifei della sinistra giustizialista, puntano gli occhi su quel che accade più in alto, fra le tribune e la curva. Terreno, in verità, di scorribande da parte di ceffi poco raccomandabili. Un'informativa della Digos di Torino, anticipata ieri dalla Gazzetta dello sport, tratteggia un quadro inquietante sui pregiudicati, dal curriculum corposissimo, o loro parenti che attraverso gli ultrà e i loro gruppi hanno messo le mani sul business del bagarinaggio. Un'inchiesta, Alto Piemonte, ha svelato le infiltrazioni della 'ndrangheta nel Torinese e addirittura nel tempio del football, ci sono stati 18 arresti e 23 rinvii a giudizio. Il processo è alle porte. E la vicenda si porta dietro anche il giallo di un suicidio, quello di Raffaello Bucci, presunto anello della catena. La Juventus però non è coinvolta, almeno sul piano penale. E i suoi dirigenti non sono indagati, anche se è stranoto che molte società, non solo i campioni d'Italia, nel tempo hanno cercato di gestire il malaffare che albergava sui gradoni proponendo patti non proprio pedagogici ai capi delle tifoserie: pace in cambio di biglietti su cui lucrare. Perfetto. Ma ora l'antimafia militante ascolta i pm titolari del fascicolo, Monica Abbatecola e Paolo Toso, poi invade il campo con dichiarazioni di guerra. Attacca Marco di Lello, appena transitato nel Pd: «Secondo la procura la Juve non è parte lesa e neanche concorre nel reato, dunque c'è una grande zona grigia su cui la commissione ha il dovere di indagare e di proporre soluzioni normative». Insomma, si dà il calcio d'inizio a una nuova partita, con i parlamentari ruota di scorta delle procure, anzi pronti a rilanciare sospetti e accuse spingendosi ben oltre la cornice del codice. Ancora Di Lello: «Per un processo occorrono elementi che i pm non hanno ravvisato. È una valutazione che rispettiamo». E ci mancherebbe. Può darsi che l'abnegazione degli onorevoli impantanati nella zona grigia finisca lì, ma pare di no. Claudio Fava (Sel) che dell'Antimafia è vicepresidente, allarga il raggio della sua inchiesta e sale su, su fino alla vetta: «Appaltare la sicurezza negli stadi a frange di ultrà infiltrati da elementi della criminalità organizzata è cosa irrituale e preoccupante. È grave aver permesso che a gestire il bagarinaggio su biglietti e abbonamenti della Juve fosse l'esponente di una solida e nota famiglia di 'ndrangheta». Per la cronaca l'imputato chiave di Alto Piemonte è Rocco Dominello, leader di due sigle ultrà, e legato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Fava non agita ancora le manette, non chiede ancora l'arresto del club bianconero in blocco, ma fa di meglio: «Per tutto questo chiederò che in commissione venga audito anche il presidente Andrea Agnelli». C'è posto pure per lui nelle nebbie della zona grigia.

Alleanze e giri d'affari. Nelle curve di serie A la mafia è senza colori. Strani legami tra capi ultrà di Milan e Juve schierati contro i club per gestire i biglietti, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 15/02/2017, su "Il Giornale".  «I colori non cancellano l'amicizia - Loris libero». Il lungo striscione bianco apparve nel cuore della Curva Sud di San Siro la sera del 22 ottobre del 2006, poco prima che iniziasse Milan-Palermo. Sono passati più di dieci anni, ma nulla è cambiato. Perché di quello striscione si ritorna a parlare ora, nelle carte dell'indagine che scuote il mondo del calcio, l'inchiesta sui rapporti tra la Juventus e una tifoseria ultrà legata a doppio filo al crimine organizzato. Lo striscione «Loris libero» racconta che il problema non si ferma allo Juventus Stadium, che un filo lega ormai tifoserie di opposte sponde, e che si tratta di un filo criminale: obiettivo, da Nord a Sud, prendere possesso delle curve, del business del bagarinaggio, taglieggiare le società. Nel milieu criminale, i colori delle bandiere contano poco. Di striscioni in difesa di arrestati e diffidati, le curve ne espongono in continuazione. Ma il lenzuolo che i milanisti appendono a San Siro quella sera di ottobre ha una particolarità: non è dedicato a un milanista. «Loris» è Loris Grancini, capo dei Viking, uno dei club più potenti della curva della Juventus. Altra particolarità: pochi giorni prima della partita Grancini è finito in galera non per un reato «da curva», ma per un regolamento di conti da Far West in una piazza milanese, quando fa sparare a un piccolo balordo che gli aveva mancato di rispetto. A eseguire l'ordine di Grancini, un ragazzotto che di cognome fa Romeo, e che - si legge nella sentenza di condanna - è «figlio di un affiliato alla 'ndrangheta». E allora, viene da chiedersi, perché il 22 ottobre 2006 la curva rossonera prende le difese di un rivale finito in galera per un delitto da gangster? La risposta si trova in un rapporto che la Squadra Mobile di Milano invia in Procura nove giorni prima: «Nel corso degli ulteriori sviluppi investigativi, emergeva il probabile coinvolgimento nel delitto di un ulteriore personaggio identificato per Lombardi Giancarlo, potente leader del gruppo ultrà milanista Guerrieri Ultras e legato da uno stretto vincolo di amicizia con Grancini Loris nonostante la diversa fede calcistica». E chi è Lombardi? Risposta: «Sandokan», il capo incontrastato insieme al «Barone» Giancarlo Cappelli della curva rossonera. «La locale Digos - aggiunge la Mobile - comunicava di avere visto in più di una circostanza Grancini utilizzare una Ferrari e Lombardi è proprietario proprio di una Ferrari 360 Modena». Il rapporto riappare ora nelle carte che il questore ha inviato alla sezione «misure di prevenzione» del tribunale di Milano, chiedendo che Grancini sia sottoposto alla sorveglianza speciale. A carico del capo dei Viking, ci sono i rapporti con i mafiosi calabresi del clan Pesce, arrestati nell'inchiesta sulla Juve: è a Grancini che uno dei capiclan, Giuseppe Sgrò, si rivolge il 7 aprile 2013 per chiedere il permesso di far entrare allo Stadium un nuovo club ultrà, i Gobbi. Malavitoso e capo ultrà si danno del «fratello». E Grancini accetta: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma le carte dell'inchiesta raccontano che essere juventini conta fino a un certo punto: anzi, Grancini è tra quelli che trasformano in una rissa furibonda tra club bianconeri l'incontro con la dirigenza della società, il 14 settembre 2006. Il legame vero, quello che apre le porte al grande business delle curve, è il legame malavitoso. E la grande amicizia tra Grancini e Lombardi, tra il capo ultrà juventino e il boss della curva rossonera, è il rapporto tra due che nel mondo del crimine hanno solidi agganci. Grancini, il bianconero, ha precedenti di ogni genere, dalla droga al gioco d'azzardo, l'ultima denuncia l'ha presa per avere picchiato la sua donna; «Sandokan» sta scontando la pena che gli è stata inflitta per i ricatti al Milan, e anche le carte di quell'indagine sono istruttive, perché raccontano di cupi legami di Lombardi con i protagonisti di storie e di droga e di sangue. Mani sporche, insomma, sulle curve: una conquista annunciata già nel 2009, quando i capi di Viking e Guerrieri si incontrarono a Milano, e c'erano anche i capi dei Boys dell'Inter, per pianificare lo sbarco. È a questo nuovo tipo di tifoso-malavitoso che si riferiva Paolo Maldini quando disse: «Sono contento di non essere uno di voi».

Juventus, i tentacoli di ultrà e ’ndrine (ancora) sui biglietti. L’inchiesta di Report, scrive Carlo Tecce il 22 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Criminali, pestaggi, riciclaggio, biglietti gonfiati, affari sporchi, finti ultras. In campo è sempre più forte, fuori la Juventus rischia di apparire ancora succube volontaria della malavita. La vecchia Signora ha smesso col vecchio vizio di foraggiare le frange più estreme del tifo con centinaia di biglietti che si trasformano in guadagni sporchi col bagarinaggio? A Federico Ruffo di Report l’ex ultrà Bryan Herdocia, detto lo “squalo”, dodici anni di Daspo, un arresto per una rissa con i fiorentini, detenzione illegale di un coltello, due pistole, una mazza da baseball e ottanta carte d’identità false, mostra una chat con Salvatore Cava, fedelissimo di Moccia dei “Drughi”: “Hanno smaltito i biglietti a 250 sterline, anche se in origine costavano 35”. Herdocia fa riferimento a una trasferta di Champions League del marzo scorso, gli ottavi di finale contro il Tottenham.

La Vecchia Signora e le frange “cattive”. Stasera Report ritorna in onda con un servizio devastante per l’immagine aristrocratica dei bianconeri, un servizio che racconta l’indagine Alto Piemonte sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta a Torino, in cui la Juventus non è stata coinvolta (se non come testimone) e neppure considerata parte lesa; il suicidio di Raffaello “Ciccio” Bucci, collaboratore della Juve, ex vertice degli ultrà e informatore della polizia e dell’intelligence; il ruolo di Rocco Dominello, fondatore del fasullo gruppo ultrà “Gobbi”, esponente assieme al padre della cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, condannato in appello a cinque anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Per quattro anni e con almeno 1.500 biglietti a partita, secondo la ricostruzione della Procura Figc poi diventata sentenza, la Juve ha mantenuto l’ordine pubblico con un patto occulto con gli ultras dal valore di oltre 5 milioni di euro. I dirigenti bianconeri Alessandro D’Angelo (sicurezza), Stefano Merulla (botteghini) e Francesco Calvo (marketing) hanno agito in combutta con gli ultras con l’assenso del presidente Andrea Agnelli. Il figlio di Umberto l’ha sfangata con una squalifica a tre mesi e una multa di oltre mezzo milione di euro per la società perché la giustizia sportiva ha accolto la versione della Juve: Agnelli & C. ignoravano il profilo mafioso di Dominello, un ragazzo squattrinato che girava in Jaguar e dava del tu al presidente bianconero. Il processo sportivo s’è celebrato con l’ostentato dissenso di Michele Uva, il direttore generale della Federcalcio, le pressioni dei bianconeri sui media e un modesto spazio sui giornali (il Fatto ha seguito l’intera vicenda).

Ciccio Bucci, che volò dal viadotto. Le ultime tracce del bagarinaggio autorizzato dal club risalgano al 2016. Il 7 luglio Ciccio Bucci, il giorno dopo l’interrogatorio davanti ai magistrati di Torino, si lancia da un viadotto dopo un breve viaggio con un Suv ricevuto in dotazione dalla Juve. La Procura di Cuneo ha riaperto il fascicolo su Bucci. “Era terrorizzato! Era terrorizzato! Sembrava che lo dovessero ammazzare da un momento all’altro perché ha parlato coi pm”, spiega al telefono – intecettato – D’Angelo all’ex collega Calvo, passato al Barcellona dopo la rottura per ragioni personali con Agnelli (che ha sposato l’ex moglie del responsabile del marketing). Bucci era una sorta di ministro delle Finanze – spiega Report – dei Drughi di Gerardo “Dino” Mocciola, uomo carismatico, riservato e temuto, uscito di galera un dozzina di anni fa (nell’89 partecipò a una rapina a un portavalori e all’omicidio di un carabiniere). Poi Ciccio entra nella Juve per curare il dialogo con la tifoseria. Bucci maneggiava troppi soldi, si pensa ai proventi del bagarinaggio, e li ripuliva – ha scoperto Report – con vincite taroccate del Lotto o di altri concorsi pubblici. Il metodo è semplice e l’ha sperimentato la ‘ndrangheta: il vincitore incassa denaro in contante, il riciclatore ottiene le ricevute e si fa pagare con un bonifico di una concessionaria dello Stato. Più sicuro di così? La morte di Bucci scuote la dirigenza della Juve, soprattutto D’Angelo e Merulla. A un anno dal suicidio, Merulla va a casa dell’ex compagna di Bucci e confessa che alla vigilia del faccia a faccia con i pm aveva “istruito” Ciccio: “Quella sera io mi ricordo che lui era seduto sul divano e facevamo – anche un po’ scherzando – le domande che avrebbe potuto fare il pm visto che delle cose le aveva chieste anche a me. E quindi facevamo, diciamo, domanda e risposta: “qui puoi dire così, qui puoi dire cosà, qui puoi non andare nello specifico”. E facevamo un… non un gioco, ma un modo per sdrammatizzare quello che sarebbe successo”. Il dramma, invece, si stava per compiere. Questo non è l’unico episodio sulle strane manovre attorno all’inchiesta Alto Piemonte. Paolo Verra, avvocato dell’ex compagna di Bucci, sostiene che nel 2015 – un anno prima del suicidio – Bucci gli abbia confidato: “Io so per certo che alla fine di questo campionato scoppierà la bomba. E quindi io, come tanti altri all’interno della curva, ci stiamo organizzando”. Un esponente dei Viking chiama in causa D’Angelo: nel 2013 avrebbe avvisato il gruppo di un’indagine dei carabinieri per la “storia dei calabresi in curva”.

“Mi sono comprato due case e un’Audi”. Report intervista Andrea Puntorno, frequentatore di ambienti mafiosi siciliani e calabresi, leader del gruppo ultrà “Bravi ragazzi”, con obbligo di dimora ad Agrigento per una condanna a sei anni e mezzo per traffico internazionale di droga: “Io ero in contatto con D’Angelo e Merulla. Con il Real Madrid il prezzo dei biglietti si ricaricava anche di duecento euro. Così mi sono comprato due case e un’Audi”. Herdocia in diretta Skype agita un tagliando della finale di Champions tra Juventus e Barcellona (2015): “Ne ho piazzati tredici a 1.500 euro ciascuno”. Le telecamere di Report riprendono le attività di bagarinaggio anche per Juventus-Bologna del 5 maggio 2018. E Beppe Marotta? L’ormai ex amministratore delegato della Juventus ha un contatto con Dominello nell’ottobre del 2013: gli regala cinque biglietti per il Real e concede un provino (infruttuoso) al figlio di un amico, sempre affiliato alla ‘ndrangheta. Marotta non ha patito conseguenze di gustizia ordinaria e sportiva, non l’hanno mai indagato, però viene spinto davanti agli inquirenti della Federcalcio interessati al bagarinaggio – circa un paio di anni fa – proprio da Andrea Agnelli: “Domandate a Marotta”. In quel momento, Agnelli era in guerra col cugino John Elkann e dubitava della fedeltà di Marotta. Andrea ha sconfitto il nemico, ha superato quasi indenne i tribunali della Figc e, un mese fa, anche per questi motivi, ha “licenziato” Marotta.

Report: "Calcio e mafia: Juve, la morte dell'ultrà Bucci e le domande a Marotta", scrive l'01 ottobre 2018 Calciomercato. "Il direttore sportivo della Juventus Beppe Marotta, nell'ottobre del 2013, in occasione di Juve-Real Madrid, lascia 5 biglietti della sua riserva personale a Rocco Dominello, figlio del boss, che deve rivenderli. Questo è lo scambio di messaggi con un intermediario, che deve rivenderli.

 

- Direttore buongiorno io parto domattina per Madrid per i 5 biglietti come possiamo fare, me li lascia lei da qualche parte oppure ci incontriamo veda lei.

- Ti informo io. Ciao. Ti ho lasciato la busta al Principi, hotel. Alla reception c'è una ragazza bionda, li ho lasciati a lei. 

- Va bene, grazie mille.

- Ciao Fabio ci vediamo in sede. Tutto ok per i biglietti?

- Sì direttore, grazie, speriamo bene. 

- Ok, mi raccomando, massima riservatezza, B.

- Come sempre nessuno lo sa. 

Qualche mese dopo, Marotta incontra in un bar Dominello e accetta di far sostenere un provino per le giovanili a un ragazzo. Si chiama Mario Bellocco, figlio di Umberto, esponente di spicco del clan di Rosarno". Questa l'apertura dell'inchiesta di Report, che con un breve video, circa 80 secondi di immagini e testo, rimanda all'approfondimento in onda nelle prossime puntate della trasmissione. Il tema? Mafia e calcio, insieme. L'inchiesta si sviluppa e trova anche modo di affermarsi in un incontro diretto con il direttore bianconero, che però non risponde alle domande dell'inviato di Rai Tre, in merito alla morte di Raffaello Bucci, ex dipendente della Juve morto suicida. Ecco il video di Report, in attesa della puntata completa.

Juventus, coinvolgimento nella morte di Bucci: tutta la verità, scrive il 22 ottobre 2018 Viaggi news. Mettono i brividi gli elementi che stanno uscendo dalla puntata di Report sulla morte di Raffaello Bucci, uomo della tifoseria bianconera che aveva il ruolo di congiunzione tra Juventus e i suoi tifosi. Tantissimi gli elementi dell’indagine che non tornano e che fanno presumere un coinvolgimento di componenti della società Juventus nella vicenda. Bucci era in realtà un informatore dei servizi segreti e aveva dato molte informazioni anche sull’infiltrazione della ‘ndrangheta nella tifoseria della Juventus. Il portale Calciomercato.it ha intervistato Federico Ruffo, l’autore del servizio di Report, che ha dimostrato di avere le idee molto chiare. “Ho avuto modo di vedere un sistema che ha anticorpi tutti suoi, è malato ma si rigenera” – ha messo in evidenza il giornalista – “E l’anticorpo peggiore siamo noi, non ci piace che il giocattolo venga rotto e venga messo in discussione. Quello che ci interessa è che ogni domenica si giochi. Si dimentica sempre in fretta. Sono tutti molto preoccupati, ma non ho elementi per dire se ci saranno risvolti di natura sportiva. Sono aspetti che attengono alla sfera penale di singole persone. Potrebbe scatenarsi un terremoto di natura etica, quello sì. Ma, soprattutto, spero si arrivi alla verità sulla morte di Bucci”.

Juventus, Report vuole fare luce su questa brutta vicenda. “Bagarinaggio? C’è ed assicura agli ultras almeno un milione e mezzo di euro in nero, esentasse. E probabilmente tutta questa gente poi si troverà all’interno di coloro che potranno beneficiare del reddito di cittadinanza. Noi di ‘Report’ proveremo a fare luce ed a mostrarvi questo mostro”. Le intercettazioni vertono anche sulla oscura vicenda del suicidio di Raffaello Bucci, un ex capotifoso juventino molto noto, accusato di riciclaggio e che faceva da punto d’unione tra ultras e dirigenza. Per un certo periodo Bucci è stato anche informatore dei servizi segreti ed era anche a qualche giocatore come Leonardo Bonucci. Sul suo decesso, avvenuto a luglio 2016, si ritiene che ci sia qualcosa di losco. “Era terrorizzato, diceva di essere un uomo morto” si carpisce da una discussione tra Alessandro D’Angelo, Security Manager della Juventus, assieme all’ex direttore commerciale bianconero, Francesco Calvo.

Morte Bucci: il dialogo tra D’Angelo e Bonucci. Se nel lancio promozionale della puntata di questo 22 ottobre, era stata mandata in rete parte dell’intervista al capo ultras Andrea Pontorno, il quale spiegava le modalità di vendita dei biglietti per le partite all’Allianz Arena, adesso sono state condivise delle intercettazioni telefoniche che provano come il security manager della Juventus Alessandro D’Angelo informasse della morte di Raffaello Bucci il presidente del club Andrea Agnelli e il difensore Leonardo Bonucci. Questa seconda intercettazione è stata pubblicata da Report:

D’Angelo: Ho un problema: Ciccio si è ucciso. Si è suicidato Ciccio.

Bonucci: Non ci credo.

D’Angelo: Non sono riuscito a fermarlo. Si è suicidato stamattina, si è gettato da un ponte, aveva paura di qualcosa.

Bonucci: Quando è andato, l’altro ieri mattina?

D’Angelo: Ieri mattina. Ha avuto paura, si vergognava di me. Gli dicevo: “Non ti preoccupare, me l’hai messa nel culo ma non ti preoccupare. La risolvo”. Lui mi ha detto: “No no, perdonatemi”. Io sono convinto che non avesse paura di noi.

Curva Juve e 'ndrangheta, a Report parla l'ultrà: "Così piazzavamo i biglietti per conto dei boss", scrive il 22 ottobre 2018 Repubblica TV. Gli affari della ‘ndrangheta nella curva della Juventus non si sarebbero fermati nemmeno dopo le inchieste e le condanne. "Fino alla fine della scorsa stagione i Drughi avevano ancora i biglietti dalla società e continuavano a fare bagarinaggio" conferma a Report, nella puntata in onda questa sera alle 21,15 su Rai3, Bryan Herdocia detto "lo Squalo", ultrà bianconero responsabile dell’assalto a un pullman di tifosi della Fiorentina, che consegna al reporter Federico Ruffo ricevute, biglietti e chat: "Biglietti da 220 euro venduti a 1500, io ne ho piazzati 13". E poi, alla domanda se sapesse che parte di quegli ingressi venivano piazzati per conto della 'ndrangheta, conferma: "Io davanti al Bernabeu ho piazzato dei biglietti per loro, ricordo che il tipo che mi dava i biglietti era nervoso perché un aereo era arrivato in ritardo, ed era andato in tilt, diceva 'tu non sai di chi sono questi biglietti, tu non sai questi soldi a chi vanno, se non arrivano in tempo io qua finisco male".

Juventus, la bomba di Report: ultrà, Agnelli e 'ndrangheta, l'intercettazione su Lapo Elkann, scrive il 23 Ottobre 2018 Libero Quotidiano". C'è anche Lapo Elkann al centro della attesissima puntata di Report sulla Juventus. Il programma condotto da Sigfrido Ranucci lancia siluri inquietanti sulla Signora, rovistando nelle intercettazioni e nelle carte dell'inchiesta giudiziaria Alto Piemonte sui rapporti tra gli ultrà bianconeri e gli esponenti della 'ndrangheta. Un misto di calcio, rapporti di forza, legami oscuri e business che getta una luce sinistra non solo sul club, ma su tutto il calcio italiano. Per comprendere il ruolo preponderante del tifo organizzato nella vita di una società è esemplare la telefonata intercettata tra Fabio Germani, ultrà di peso a capo della fondazione Italia Bianconera, e Rocco Dominello, figlio del boss Saverio Dominello e considerato dagli inquirenti al centro del "sistema-biglietti" della Juventus Arena, con agganci pesantissimi tra i dirigenti. Si deve tornare indietro di quasi 10 anni, la primavera del 2009. Lapo, secondo quanto raccontato da Dominello ai magistrati, "avrebbe incontrato il figlio del boss, prima della comunione della figlia di Germani" e in quell'occasione "gli avrebbe espresso il desiderio di vedere esposti degli striscioni in curva con su scritto Lapo Presidente". Una telefonata intercettata tra Dominello e Germani confermerebbe la versione: "Senti una cosa, ma il tuo amico Lapo che fine ha fatto?", chiede il primo al secondo. "L'ho sentito stamattina, è in Svizzera". 

Dominello - "Lo fissiamo 'sto appuntamento?"  

Germani - "No, questo periodo non esiste".

D - "Perché?"

G - "Eh, perché domani parte va in America…"

D - "Vabbuò, fissa un appuntamento. Se vuole un appoggio, fissa un appuntamento, sennò andate a f… tu, lui, la Juve… tutti quanti!".

G - "Ma tu lo sai che lui l'appoggio lo vuole?"

D - "Lui mi deve dire Sì, sono veramente intenzionato… e io faccio fare gli striscioni sia da una parte che dall'altra, tutti per lui. Però allora mi devi dire quanto veramente ci tiene. Perché io ti giuro che sia di qua che di là facciamo fare tutto quello che lui vuole". 

G - "Ho parlato con Lapo fino a un'ora fa".

D - "Ah eri con Lapo e non mi hai chiamato, bravo… bravo".

G - "Si è scaricato il telefono! Martedì, cosa fai martedì?" 

D - "Martedì niente, perché?" 

G - "Se vuoi andiamo in barca da Lapo". 

D - "Ma dove?" 

G - "A Saint Tropez".

Quella gita, spiega Report, poi è saltata. Lo striscione non fu mai esposto e alla fine presidente è diventato il cugino Andrea Agnelli, a cui nel 2013, dopo il secondo scudetto di fila, Lapo riconobbe pubblicamente tutti i meriti sportivi e societari.

Cosa c’è dietro il misterioso suicidio di un ultrà juventino? Un’avvincente inchiesta dove si intrecciano i rapporti tra spie, tifoseria, mafia e calciatori. Documenti inediti svelano l’ipocrisia di prestigiosi dirigenti del nostro calcio.

UNA SIGNORA ALLEANZA di Federico Ruffo. Video mandato in onda il 22 ottobre 2018 nella trasmissione Report di Raitre.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO 16 luglio 2018. Arrivano da tutta Italia, in 1500 e tutti vogliono vedere il sogno con la maglia della Juve. Un sogno da 105 milioni che nessun altra squadra in Italia può permettersi. Tutti vogliono vedere Cristiano Ronaldo. A noi invece interessa l’uomo al suo fianco, il security manager della Juventus Alessandro D’Angelo. Ma per capire perché dobbiamo tornare indietro di cinque anni. 21 aprile 2013. Allo Juventus Stadium si gioca Juve - Milan. In curva sud, quella in cui sono riuniti tutti i gruppi ultrà, spunta fuori uno striscione nuovo. “I Gobbi”. Secondo la Procura di Torino è un segnale: significa che la ‘ndrangheta è ufficialmente entrata nella curva della Juventus. Rocco e Saverio Dominello, boss della cosca PesceBellocco di Rosarno, si sono accordati con gli altri gruppi della curva e sono entrati nel business del bagarinaggio. I gruppi della Juve da sempre sono cinque: i Drughi, guidati dal pluripregiudicato Dino Mocciola; i Bravi Ragazzi, guidati da Andrea Puntorno, siciliano vicino al clan mafioso Li Vecchi; i Vinking, guidati da Loris Grancini, considerato vicino al clan Rappocciolo, il Nucleo 1985 e i Tradizione Bianconera, gestito dai fratelli Toia.

UOMO Giornalisti siete una massa di merde.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Tutta gente che non ammette intrusioni. Quindi che succede? Succede che quello non è uno striscione: è un contratto. Un accordo tra famiglie. Un affare da oltre un milione di euro l’anno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche la città d’arte più bella, se la osservi attraverso le grate di un tombino delle fognature può sembrare orrenda. Ecco, noi stasera parleremo della più forte, più amata e anche più invidiata signora del calcio italiano: della Juventus, dei suoi rapporti con i capi ultrà e con la ‘ndrangheta. Potete utilizzare lo sguardo che più ritenete opportuno, con il filtro del “così è ovunque” (ed è vero) e allora non ci rimane che rassegnarci all’impotenza di fronte a un sistema, oppure utilizzare lo sguardo del comune cittadino appassionato di calcio. Il nostro di sguardo nasce invece da un’indagine, un’inchiesta della magistratura antimafia di Torino, che ha indagato su una cricca di criminali romeni e poi ha scoperto che invece la curva della Juventus era stata infiltrata dalla ‘ndrangheta. Personaggio chiave Rocco Dominello, figlio di un boss, che si era infilato nella curva e ha cominciato a fare business con il bagarinaggio. La Juventus ha ceduto negli anni, ha venduto migliaia di biglietti agli ultrà nella consapevolezza che li rivendevano a prezzi maggiorati. Per questo Andrea Agnelli è stato condannato in primo grado ad un anno di interdizione dai campi sportivi, e poi pena ridotta a tre mesi più una cospicua multa; questo dalla giustizia sportiva. Ma la condanna è stata possibile perché i magistrati antimafia oltre ad ascoltare i telefoni dei mafiosi, hanno anche ascoltato quelli dei dirigenti della Juventus. Il capo della security Alessandro D’Angelo, quello di Stefano Merulla responsabile della biglietteria ma anche dell’ex capo ultrà Raffaello Bucci, poi assunto, ha lavorato poi nella Juventus. Lo diciamo subito chiaramente: nessun dirigente, nessun dipendente della Juventus è stato mai coinvolto nell’inchiesta antimafia. Ecco, però sono tutti testimoni. Alla fine della conta ne manca di testimone uno, quello chiave. Ma che probabilmente era anche quello più fragile. Il nostro Federico Ruffo.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO 7 luglio 2016. Pochi minuti a mezzogiorno, bretella autostradale di Fossano, ingresso della Torino-Savona. Da un suv bianco scende un uomo, si sporge dal guardrail e si getta nel vuoto. É Raffaello Bucci, detto Ciccio. Era stato una sorta di ministro delle finanze del più importante gruppo ultras: i Drughi. Per anni ha gestito il bagarinaggio; migliaia di biglietti, milioni di euro. Nonostante questo la Juve, nel 2015, lo sceglie come Vice Supporter Liaison Officer, l’uomo che cura i rapporti tra società, tifosi e forze dell’ordine. Lo Slo ufficiale sarebbe Alberto Pairetto, fratello di Luca, arbitro di Serie A e figlio d’arte di Pierluigi ex arbitro e designatore di tutti gli arbitri della serie A, fino a quando non è stato travolto da Calciopoli, condannato in appello a due anni salvo poi finire in prescrizione. Secondo l’accusa uno di quelli a cui Luciano Moggi telefonava su schede svizzere per scegliersi gli arbitri amici. Raffaello Bucci il giorno prima era stato ascoltato dai magistrati che indagavano sui rapporti tra Juve, ultrà e ‘ndrangheta. Aveva paura. E non ha retto alla pressione.

PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Mi sono trovato di fronte a un’autopsia totalmente sprovvista di una qualunque documentazione fotografica o di filmati. Non c’era nulla.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Perché nell’esame autoptico non c’era una sola foto?

AL TELEFONO - MARIO ABBRATE – ANATOMOPATOLOGO PROCURA DI CUNEO Sì sì, le foto ci sono ovviamente! Cinque o sei fotografie e sono anche in digitale, quindi...

FEDERICO RUFFO AL TELEFONO E allora perché non ci sono nel fascicolo?

AL TELEFONO - MARIO ABBRATE – ANATOMOPATOLOGO PROCURA DI CUNEO Il fatto che loro non le abbiano può significare o che non gliele ho date o che le han perse. Però io non son sicuro di avergliele date, quindi…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Una foto però c’è: l’ha scattata la sorella dell’ex compagna di Bucci col telefonino, mentre si trovava in camera mortuaria prima dell’autopsia.

FEDERICO RUFFO In che condizioni era?

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Disastrose. Che si vedeva che era stato pestato.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO A sostenere l’ipotesi del pestaggio prima del suicidio c’è una perizia redatta da un esperto, un anatomopatologo. Si chiama Raffaele Varetto e ha analizzato la foto.

PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI C’è un taglio profondo, sanguinante, che non è compatibile con la caduta. C’è una pesante tumefazione all’occhio. Anche questa non è giustificabile con questa tipologia di caduta.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ma in questa vicenda, di cose strane ne accadono tante a cominciare dall’ospedale in cui Bucci viene trasportato. C’è un grande via vai quel giorno di persone e di oggetti che scompaiono e ricompaiono. Come i suoi occhiali da sole.

PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI E questi occhiali presentavano, all’interno del ponticello come anche nella montatura, dei residui di materiale organico.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Dai verbali si evince che Bucci non indossava gli occhiali al momento del salto, ma in mezzo alla fronte presenta un graffio da montatura. Secondo la perizia quindi, potrebbe essere stato causato da un ferimento prima della caduta dal ponte.

PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Io non sono riuscito a capire dove erano questi occhiali. Fatto sta che questi occhiali sono stati riconsegnati alla ex compagna del Bucci in busta chiusa, sigillata…

FEDERICO RUFFO E chi può mai aver riportato in ospedale a Cuneo cioè, se è stato in possesso di questi occhiali e portati in ospedale?

PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Chi li ha portati non lo so. Si son presentati presso l’ospedale di Cuneo, Pronto Soccorso, dei soggetti qualificatisi come dipendenti Juventus.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO I primi due ad arrivare in ospedale quel giorno, prim’ancora che Bucci venga dichiarato morto, sono Stefano Merulla, responsabile della biglietteria della Juventus, e lui, l’uomo vicino a Ronaldo, Alessandro D’Angelo, il capo della sicurezza. Con loro si presenta una non meglio precisata amica di Bucci e chiede che le vengano consegnati il telefono e tutti suoi effetti personali. É l’avvocato Maria Turco, dello studio Chiusano che da sempre difende gli interessi della Juve e della famiglia Agnelli.

FEDERICO RUFFO Avvocato mi perdoni… É l’avvocato Turco?

MARIA TURCO – STUDIO LEGALE CHIUSANO Sì.

FEDERICO RUFFO L’avevo cercata perché in realtà c’erano un paio di cose all’interno del fascicolo che la riguardavano direttamente. Quindi volevo capire…

MARIA TURCO – STUDIO LEGALE CHIUSANO Non parlo con i giornalisti. Io su questa situazione, detta tra di noi, l’ho già patita abbastanza. Detto questo, io quello che dovevo fare è stato accompagnare delle persone che non erano in grado di guidare vista la notizia.

FEDERICO RUFFO Avevo trovato singolare questa anomalia nell’andare a chiedere il cellulare di Raffaello.

MARIA TURCO – STUDIO LEGALE CHIUSANO Io non ho mai chiesto il cellulare a nessuno. Mi faccia avere l’annotazione.

FEDERICO RUFFO Cioè le mi sta dicendo che questi signori si sono inventati di sana pianta questa roba?

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Noi il verbale all’avvocato Turco lo abbiamo inviato, ma lei, essendo stato riaperto il fascicolo sulla morte di Bucci, per ora preferisce non commentare.

PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Non riesco a capire questo tipo di comportamento tenuto dalla collega Turco anche perché non avrebbe avuto alcun titolo per farsi consegnare questo materiale.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E non è chiaro neanche a quale titolo il responsabile della biglietteria della Juve Stefano Merulla, abbia concordato con Bucci la versione da dare ai magistrati. Lo dichiara lui stesso all’ex compagna a distanza di un anno.

STEFANO MERULLA – TICKETING MANAGER JUVENTUS F.C. Quella sera io mi ricordo che lui era seduto sul divano e facevamo – anche un po’ scherzando – le domande che avrebbe potuto fare il pm visto che delle cose le aveva chieste anche a me. E quindi facevamo, diciamo, domanda e risposta: “qui puoi dire così, qui puoi dire cosà, qui puoi non andare nello specifico”. E facevamo un…non un gioco, ma un modo per sdrammatizzare quello che sarebbe successo.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Peccato che Merulla nella sua deposizione ai magistrati si sia dimenticato di raccontare questo episodio. Poi c’è l’auto della Juventus, in leasing. La stradale scatta subito delle foto per repertare gli oggetti al suo interno. Quasi nulla, ma quando giorni dopo D’Angelo riconsegna alla ex compagna di Bucci gli effetti personali, all’improvviso compaiono le chiavi di casa e il borsello in cui teneva i documenti importanti. Secondo la squadra mobile di Torino sull’auto di Bucci, dopo il suicidio, hanno messo mano tre dipendenti della Juventus. Il primo a perquisirla è Matteo Stasi, autista di Andrea Agnelli e dice di non aver trovato nulla. Poi tocca a Daniele Boggione: è lui che dice di aver trovato chiavi e borsello, nell’auto sulla pedana del passeggero.

AL TELEFONO FEDERICO RUFFO Volevo farle qualche domanda circa gli oggetti che lei ha ritrovato in auto.

AL TELEFONO DANIELE BOGGIONE – DIPENDENTE JUVENTUS F.C. Eh, al momento non riesco.

FEDERICO RUFFO AL TELEFONO Ma guardi, se vuole possiamo anche vederci più… pronto?

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Peccato, perché Boggione avrebbe potuto spiegarci il mistero del ritrovamento delle chiavi della casa dove aveva dormito Bucci e il borsello. Anche perché nella foto scattata dagli inquirenti il giorno del suicidio, nel posto da lui indicato – lo vedete - non c’erano.

JACOPO RICCA – LA REPUBBLICA Diciamo che questa è la più grande anomalia di tutta la vicenda. Questo quindi ci fa pensare che né le chiavi della casa di Beinette né il borsello, fossero con lui al momento del suicidio.

FEDERICO RUFFO Tecnicamente chiunque era in possesso di chiavi e borsello è la persona... è qualcuno che ha incontrato Bucci poco prima che si togliesse la vita nelle ore precedenti.

JACOPO RICCA – LA REPUBBLICA Diciamo che l’ipotesi più forte è che sia la persona che ha incontrato Bucci subito prima di morire.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Di certo c’è che a riconsegnare gli oggetti è il capo della security Alessandro D’Angelo che è anche il protagonista di una telefonata intercettata mezz’ora dopo la morte di Bucci. Chiama l’ex direttore commerciale della Juventus, Francesco Calvo, squalificato per un anno dalla giustizia sportiva per aver agevolato la vendita irregolare dei biglietti agli ultrà. Calvo all’epoca lavorava per il Barcellona.

AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. É morto!

AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. Lo so, ho saputo.

AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Non ci credo… lo ha ammazzato!

AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. Minchia! non ci posso credere! Se penso che lo abbiamo portato io e te alla Juve…

AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Si, ma non era un motivo per ammazzarsi. Non doveva aver paura!

AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. No, no di certo.

AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Era terrorizzato ieri. AL TELEFONO FRANCESCO CALVO – EX DIR. COMMERCIALE JUVENTUS F.C. Era terrorizzato?

AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Era terrorizzato! Era terrorizzato! Sembrava che lo dovessero ammazzare da un momento all’altro perché ha parlato coi pm. M’ha detto no no no io non posso parlare io l’ho fatta grossa, io sono un coglione, è tutta colpa mia ho gestito male le informazioni. Lui non ho capito cosa farfugliava ma m’ha detto mi sono fidato di uno sbagliato.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Al momento non risulta che né D’Angelo né Calvo siano stati ascoltati dalla procura di Cuneo su queste dichiarazioni.

FEDERICO RUFFO Direttore ci perdoni, siamo di Report, Raitre. Volevamo farle una domanda perché stiamo lavorando sulla morte di Raffaello Bucci, il vostro vecchio dipendente.

CLAUDIO ALBANESE – DIRETTORE COMUNICAZIONE JUVENTUS Guarda adesso non parliamo con nessuno.

FEDERICO RUFFO Non so se sapete che ci sono queste intercettazioni in cui due dei vostri sostengono che lo hanno ammazzato. Direttore… Direttore era un vostro dipendente non vi interessa questa cosa? Direttore… Direttore è morta una persona, non volete neanche parlarne?

VIDEO AMATORIALE - RAFFAELLO BUCCI I soldi sono qua, non me ne vado a trans …

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Anche il telefono di Bucci era sotto controllo, per due lunghi anni, con un solo buco: proprio le tre ore durante le quali Bucci avrebbe deciso di uccidersi. I server della Procura di Torino non hanno registrato un solo secondo a causa di uno sbalzo di corrente. É un peccato perché proprio in quelle ore forse si nascondeva il segreto sulla morte di Raffaello Bucci. Ma il telefono lo hanno sequestrato e lì un segreto c’era, il più grande di tutti. Lo scopriranno grazie agli sms rimasti in memoria. L’ex capo ultrà, scriveva a un numero intestato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’identità è stata secretata dai pm. Di lui c’è soltanto un nome in codice: Gestore. É il nome di copertura di un agente dei servizi di sicurezza. Raffaello Bucci era un informatore dei servizi. L’ultimo messaggio tra l’agente e Raffaello è 48 ore prima di uccidersi. Bucci lo invia dopo l’ennesima notte in bianco: “Sono nella merda, sono certo che la mia posizione è bruciata”. Il giorno dopo deve essere ascoltato dai magistrati sui rapporti tra Juve, ultrà e ‘ndrangheta.

AL TELEFONO FEDERICO RUFFO “La mia posizione è bruciata” è un termine tecnico per dire “io lavoro ancora per voi e mi hanno scoperto”. Non avete…

AL TELEFONO GESTORE – AGENTE AISE Attacca.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che l’agente non può rivelarci è che Bucci aveva passato informazioni sull’eversione di destra che si era infiltrata nella curva. Aveva dato anche informazioni sulla presenza dei calabresi. Secondo la sua testimonianza ai magistrati, era stato collaboratore dal 2010 al 2015, ma l’sms che abbiamo trovato sul suo telefonino - “la mia posizione è bruciata” - fa pensare che Bucci avesse collaborato fino all’ultimo con l’agente dei servizi di sicurezza. Tanto è vero che lo incontra il 3 luglio, pochi giorni prima di morire, e parlano dell’inchiesta sui calabresi. Ma Bucci era anche un informatore della Digos. Abbiamo trovato un altro sms nel quale si chiedono informazioni in merito a un tentativo da parte dei No Tav di acquistare esplosivo all’interno dei gruppi ultrà della curva. Ecco, anomalie e segreti ne accadono tante in quelle ore, prima e dopo la morte di Bucci. Chi ha preso il borsello dove conteneva informazioni? Chi le chiavi di casa dove ha dormito Bucci la sera prima di uccidersi? Poi quello che è certo è che c’è un’attività frenetica dei dirigenti della Juventus. Stefano Merulla, responsabile della biglietteria, ha confidato solo un anno dopo alla ex compagna di aver passato la sera prima con Bucci concordando, cercando di concordare la versione da dare ai magistrati. Ecco, questo è un particolare che Stefano Merulla non ha confidato, non ha detto ai magistrati antimafia della Procura di Torino. Ha detto di aver passato la sera precedente con lui, ma non di aver concordato, seppur con scherzo, scherzando, la versione da dare ai magistrati. A che titolo l’ha fatto? E a che titolo l’avvocato Turco, che è una specchiata professionista - ha difeso anche noi di Report-, che appartiene allo studio legale Chiappero-Chiusano che tutela gli interessi della Juventus, a che titolo ha chiesto, secondo quello che c’è scritto in verbale, gli oggetti personali e il telefono di Bucci dopo la sua morte? Ecco, quegli oggetti e quei telefoni che invece ci vengono consegnati a noi di Report, dopo una telefonata, dalla ex compagna di Bucci.

AL TELEFONO GABRIELLA BERNARDIS - EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Volevo dirti che ho trovato la scatola che mi hanno riconsegnato a Torino con tutte le cose che avevano sequestrato a casa di Raffaello e vorrei che gli dessi un’occhiata, perché ci sono delle cose che forse vi possono interessare.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO C’è un po’ di tutto tra le cose lasciate da Raffaello. Quattro telefoni cellulari, diverse schede… ma ci interessano soprattutto queste: ricevute di giocate al Lotto; tutte vincenti. Migliaia di euro nell’arco della stessa giornata a volte a distanza di pochi minuti. E ancora: centinaia di Gratta&Vinci, di SuperEnalotto; tutte vincenti. In un caso, nel giro di poche ore, avrebbe giocato 20 volte lo stesso numero, il 74, vincendo sempre. Tutte hanno lo stesso codice ricevitoria: un tabaccaio di Cuneo. Il sospetto è che Bucci avrebbe riciclato proventi del bagarinaggio dei biglietti della Juventus ricorrendo ad un metodo brevettato dalla ‘ndrangheta: grazie ad una ricevitoria compiacente, quando qualcuno vince, non viene pagato dalla ricevitoria, ma liquidato in contanti da chi deve riciclare i soldi, che a quel punto entra in possesso della schedina vincente, diventa l’intestatario e la incassa a proprio nome. Un bonifico da una concessionaria dello Stato che nessuno potrà più contestare. Soldi puliti.

TABACCAIO Io se la Procura ha qualcosa da chiedermi, mi chiama la Procura. Ma io a lei non posso dire niente, mi capisce?

FEDERICO RUFFO Cioè non può dirmi se queste vincite non erano del signor Bucci ed erano di altri e sono state usate per lavare i soldi?

TABACCAIO Lei però…io cosa…?

FEDERICO RUFFO Mi dica questo: erano tutte vincite regolari queste?

TABACCAIO E certo che erano vincite regolari!

FEDERICO RUFFO Quindi Raffaello ha vinto 3 volte 2111 euro nell’arco della stessa giornata… Era l’uomo più fortunato d’Italia. E ha vinto 200mila euro in 4 anni?

TABACCAIO Penso… Penso di sì.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO In totale Bucci dai bonifici dalle vincite, vere o presunte, ha incassato circa 100 mila euro dal Lotto e altrettanti dai Gratta&Vinci e questo solo sul conto corrente a lui intestato sul quale salta all’occhio un altro dettaglio: nei sette giorni precedenti la sua morte c’è un’improvvisa impennata: in meno di due giorni incassa 14 vincite per un totale di 25mila euro. E potrebbe aver nascosto altro denaro.

FEDERICO RUFFO Nel giorno in cui Raffaello si toglie la vita lei è in Puglia. Perché l’aveva mandata in Puglia?

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Perché mi aveva detto che dovevo andare ad avvisare i suoi fratelli che ci sarebbe stata un’indagine della Guardia di Finanza e che dovevano trovare il barattolo e non la marmellata.

FEDERICO RUFFO Come se ci fossero dei soldi…

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Da far sparire.

FEDERICO RUFFO Da far sparire. Non le aveva spiegato di che soldi erano, dove erano….

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA BUCCI No, non so niente di tutta questa storia io.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Con l’inchiesta Alto Piemonte che avanzava, probabilmente Bucci tentava di nascondere il suo denaro. Ma di quei soldi cosa sapevano gli ultras del suo gruppo? L’uomo che state per ascoltare è un ex membro dei Drughi. Uno dei collaboratori più stretti di Raffaello.

ULTRAS DRUGHI JUVENTUS Io sono incazzato nero.

FEDERICO RUFFO E perché saresti arrabbiato?

ULTRAS DRUGHI JUVENTUS Perché secondo me non s’è suicidato.

FEDERICO RUFFO Capisci però che se sai qualcosa per noi è fondamentale che tu ce lo dica.

ULTRAS DRUGHI JUVENTUS Ciccio è stato uno stupido. Non aveva bisogno di soldi, ok? E sapeva benissimo con la merda con cui aveva a che fare. I soldi fanno comodo a tutto a tutti e va bene. Abbiamo tutti i figli, anch’io ci arrangiavo qualcosa, però un conto è arrangiare qualcosa e ognuno a casa sua e un conto è avere determinati contatti, stretti come li aveva lui, che comunque creavano anche un vincolo. Lì si è spinto troppo oltre.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Un vincolo con i Drughi, il più potente gruppo ultras di Torino, dei quali aveva gestito le casse e con il loro leader da oltre 40 anni, Dino Mocciola. Un capo tanto discreto quanto temuto. Non usa il telefono, non usa internet, l’unica foto pubblica risale al 1989: quella scattata dopo l’arresto per aver rapinato un portavalori e partecipato con i suoi complici all’omicidio di un appuntato dei carabinieri che li aveva fermati per caso. Dal carcere Mocciola nomina Bucci ministro delle Finanze, ma quando esce si riprende tutto. É lui l’interlocutore privilegiato della ‘ndrangheta interessata agli affari della curva. É lui l’interlocutore della famiglia Dominello. Ma i rapporti tra Mocciola e Bucci erano peggiorati. Era noto, tanto che il giorno dei funerali…

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Ero ferma al casello di San Severo, stavo aspettando che arrivasse il feretro e si ferma questa macchina nera tedesca. E scendono delle persone.

FEDERICO RUFFO Che vengono a parlare con voi?

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Sì.

FEDERICO RUFFO É questa la persona che le ha detto queste cose?

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Questo, sì.

FEDERICO RUFFO E si ricorda che cosa le ha detto?

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Preferisco non dirlo.

FEDERICO RUFFO Posso chiederle perché?

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Perché è una cosa che mi inquieta un po’.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO L’uomo nelle foto è Salvatore Cava, il braccio destro di Mocciola. E quello che Gabriella non vuole ripetere, è nei verbali della polizia. Cava le avrebbe detto: “Vengo dalla Germania, ero con Dino. Ti manda a dire che lui, con la morte di Raffaello, non c’entra nulla!”. Secondo un rapporto della Digos nel 2014 Mocciola aveva già picchiato Bucci: una lite violenta, talmente violenta da convincere Raffaello a fuggire.

GABRIELLA BERNARDIS – EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Piangendo mi aveva detto che doveva sparire per un bel po’ di tempo perché altrimenti sarebbe finito male.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Dino Mocciola è un capo molto rispettato, perfino da alcuni calciatori. Leonardo Bonucci, quando è squalificato, va in mezzo ai Drughi a vedere la partita, in curva. É in rapporti confidenziali con loro. Questo è un sms di Bonucci contenuto nel cellulare di Bucci: “Come ha detto Dino (Mocciola), noi senza di voi non saremmo nessuno. Lo dico sempre anche agli altri che dicono che sono amico dei tifosi”. Dal momento dell’arresto dei Dominello, Saverio, boss indiscusso della ‘ndrangheta nell’alto Piemonte e di suo figlio ed erede al trono Rocco, l’uomo infiltratosi tra gli ultras della Juventus, secondo la Squadra Mobile, Mocciola si è defilato. Ma è il suo braccio destro, Salvatore Cava che tiene in riga i Drughi.

INTERCETTAZIONE DEL 01/09/2016, ORE 14.50 SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Te lo sto dicendo anche a te! Se anche tu hai la coscienza a posto, che non è successo niente e non avete detto niente, siete tutti a posto! Altrimenti a sto giro qua vi faccio spaccare il culo a uno per uno! A partire da te!

AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Non è stato massacrato nessuno e non è stato percosso nessuno. Anche ci fossero dei soldi ma di che soldi stiamo parlando?

FEDERICO RUFFO Di proventi del bagarinaggio.

AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Bagarinaggio noi non ne facciamo.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Bucci non è mai stato picchiato e bagarinaggio, i Drughi, non ne fanno. Queste intercettazioni però sembrano smentirlo.

INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Quanto glielo gonfiavi il biglietto?

INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO ROBERTO MAFFEI– ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Bah… ma massimo 40! Ma forse 40 son tanti…

INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Vogliam fare 70, lo mettiamo a 120? Ci dobbiam stare dentro eh…

INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO ROBERTO MAFFEI– ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Sì, sì, sì, sì…

INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Ok?

INTERCETTAZIONE DEL 26/08/2016, ORE 13.50 AL TELEFONO ROBERTO MAFFEI– ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Sì, sì ci sta, giusto! Giusto!

INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS I biglietti che tu dovresti dare a quelli là che se ne vanno per cazzi loro, no?

INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO MATTIA LOTTI – ULTRAS JUVENTUS Sì…

INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO SALVATORE CAVA – ULTRAS “DRUGHI” JUVENTUS Glieli dai a 85 euro! Al posto di 55!

INTERCETTAZIONE DEL 12/09/2016, ORE 16.37 AL TELEFONO MATTIA LOTTI – ULTRAS JUVENTUS Ma come mai a 85? É tanto, eh! L’altra volta mi hai detto 55 e gliel’ho già detto! Ora che dico 85 mi mandano a cagare, tutto qua!

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Oltre alle intercettazioni anche le informazioni trovate sui cellulari di Bucci sembrano contraddire Cava: con le foto, ci sono anche i conteggi del bagarinaggio, partita per partita. Migliaia di tagliandi divisi tra i capi ultras che li richiedevano, tra cui Corona, il nome d’arte di Cava, e la ‘ndrangheta: Rocco Dominello, il figlio del boss Saverio. Ecco la loro quota. E in fondo alla pagina il conteggio finale degli incassi: decine di migliaia di euro 2, anche 3 volte alla settimana.

DAL PROCESSO CACCIA – 29/03/2017 MASSIMILIANO UNGARO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Sono stato associato con la ‘ndrangheta, con la famiglia Crea, nella primavera 2014 fino a dicembre 2015.

DAL PROCESSO CACCIA – 29/03/2017 PUBBLICO MINISTERO Cosimo Crea si è mai occupato dei proventi del bagarinaggio e dei biglietti?

DAL PROCESSO CACCIA – 29/03/2017 MASSIMILIANO UNGARO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In un’occasione, per la finale di Champions League, tra Juventus e Barcellona. Che io sappia i biglietti erano stati presi dalla società, ma non son stati mai pagati, per cui ritengo che siano proventi illeciti.

MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Alla ‘ndrangheta interessa mantenere il controllo delle curve perché da lì, come è emerso poi anche dal dibattimento, si lucravano risorse importanti. Poi sono i gruppi ultras a tenere più o meno sotto ricatto, comunque ad avere interlocuzione direttamente con la società.

FEDERICO RUFFO Siete riusciti a stimare, in un anno, quanto ogni singolo gruppo ultras riusciva a lucrare sul bagarinaggio?

MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA Per quanto ci abbiamo provato, la ricostruzione è inevitabilmente lacunosa anche perché la società ha cercato di limitare in ogni modo almeno nelle sue dichiarazioni, il fenomeno.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ogni gruppo ultras a Torino ha un leader pluripregiudicato e, secondo la Digos, legato alla criminalità organizzata. Uno di questi è Andrea Puntorno.

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dipende! Trenta, quaranta, venticinque…

FEDERICO RUFFO …mila euro?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì.

FEDERICO RUFFO Fa impressione…

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Perché fa impressione?

FEDERICO RUFFO Beh, insomma. Sono tanti! ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì, sono tanti.

FEDERICO RUFFO Parliamo comunque dell’incasso di una settimana?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Il business c’è, non è che non c’è: c’è. Io mi sono comprato due case, mi sono comprato un panificio, mia moglie stava bene. Io non lo nego, perché non è un reato che io ho fatto.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO 41 anni, siciliano, considerato vicino alla cosca dei Li Vecchi e uomo di fiducia del clan calabrese dei Macrì, quando lo incontriamo Puntorno ha l’obbligo di dimora ad Agrigento, dove sta finendo di scontare una condanna a 6 anni e mezzo per traffico internazionale di stupefacenti. Puntorno da 20 anni guida il gruppo ultras “Bravi Ragazzi”. Per la prima volta racconta il meccanismo a un giornalista.

FEDERICO RUFFO Devi ammettere che il nome “Bravi Ragazzi” può suonare un po’ equivoco…

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì…

FEDERICO RUFFO Come lo avete scelto?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Così, Bravi Ragazzi. Abbiamo scelto, è venuto, eravamo in 3… abbiamo tirato alla storia del film, che c’è i Bravi Ragazzi; ci è piaciuto…

FEDERICO RUFFO Quante persone fanno parte del gruppo?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” 600-700 persone… non tutte di Torino.

FEDERICO RUFFO Che non sono poche. Siete voi a occuparvi di rifornire dei biglietti tutte queste 600 persone?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì certo.

FEDERICO RUFFO Si sa che i gruppi ultras lucrano su quei biglietti. Tecnicamente si chiama bagarinaggio. Voi fate del bagarinaggio in qualche modo?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Io personalmente no, però c’era chi per me lavorava.

FEDERICO RUFFO Come funziona? Da dove arrivano i biglietti?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Vabbè i biglietti lo sapete da dove arrivano! Non è che te lo devo dire io…

FEDERICO RUFFO Dalla Juventus?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Ma è normale, no? Ma è stato sempre così!

FEDERICO RUFFO Cioè, la Juve ha sempre dato delle quote di biglietti agli ultras…

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì, sempre!

FEDERICO RUFFO E in che modo venivano stabilite queste quote?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dipende: tra di noi ce la gestivamo senza problemi; chi ne aveva bisogno magari di 300, chi ne aveva bisogno di 500, ‘sta settimana a te… C’era il “quieto vivere”.

FEDERICO RUFFO Quanto ricaricavate sopra?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Di 100, di 200, dipende dalla partita.

FEDERICO RUFFO Dici, una partita molto importante si potevano ricaricare anche di 200 euro?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Juve Real Madrid 200, 300, dipende. Io mi sono comprato la casa con lo stadio, mi compravo l’Audi, giravo.

FEDERICO RUFFO Voi avevate dei rapporti con D’Angelo e Merulla?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” E certo! Io li avevo!

FEDERICO RUFFO Si sono mai creati attriti per questioni economiche?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Magari gli chiedevi 300 biglietti e te ne davano 250, te ne davano 200 capito? perché…

FEDERICO RUFFO E in quel caso come ci si comportava con loro?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dovevamo fare lo sciopero in curva, dovevamo fare qualche bomba, magari gli facevamo prendere un verbale, magari - capito? - facciamo qualche scaramuccia…

FEDERICO RUFFO Voi facevate in modo che loro potessero essere multati…

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Bravo…

FEDERICO RUFFO È quindi il danno economico diventava tale che gli conveniva di più dare i biglietti che non stare a questionare.

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Bravo. Ma questa è sempre stata una cosa degli ultras.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Alla fine della stagione la torta da spartire è circa un milione e mezzo. E così la ‘ndrangheta e gli ultras giungono ad uno storico accordo. E a renderlo possibile sarebbe stata la mediazione di un solo uomo.

DAL PROCESSO CACCIA – 24/11/2016 PLACIDO BARRESI Placido Barresi, nato a Messina il 2/12/52. Ho fatto sempre il bandito nella vita.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Braccio armato del boss Domenico Belfiore, reo confesso di quattro omicidi, sospettato di almeno dieci, condannato all’ergastolo, Placido Barresi viene ricordato nei libri di storia criminale come uno dei re di Torino per quasi un trentennio: avrebbe messo tutti d’accordo dal carcere. Dopo aver scontato quasi trent’ anni, oggi beneficia del permesso diurno per lavorare.

FEDERICO RUFFO Son venuti da lei a chiederle se poteva fare da paciere perché stavano litigando per i biglietti e si volevano ammazzare fra di loro per i biglietti? Quindi è segno che comunque ci guadagnavano, non erano pochi soldi.

PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE E beh, guardi che a un certo punto mica entrano solo i Dominello, lì: entra tutta la Calabria unita, eh.

FEDERICO RUFFO Negli atti non c’è.

PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE E non c’è, però se facessero un po’ più di attenzione.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Prima di congedarci, Barresi ci racconta la sua teoria sulla morte di Bucci: si sarebbe ucciso, ma sotto ricatto.

PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE Volevano i soldi indietro. Se hanno scoperto i soldi…

FEDERICO RUFFO Se gli hanno solo menato, è perché volevano indietro i soldi?

PLACIDO BARRESI – MEMBRO CLAN BELFIORE E la minaccia al figlio. “Guarda che ti prendiamo tuo figlio”.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO È il suo punto di vista, ma coincide perfettamente con quello del manager della security Alessandro D’Angelo; Bucci è morto da meno di mezz’ora. E lui telefona a un ultrà.

AL TELEFONO GIUSEPPE FRANZO – ULTRAS JUVENTUS M… che dramma.

AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Aveva paura di essere ammazzato, Beppe, continuava a dirci che era un uomo morto. Non capivamo cosa c… dicesse. Ieri continuava a dirci: “Sono un uomo morto!”. Per paura che gli ammazzassero il figlio si è ammazzato lui.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E l’idea che Bucci temesse per la vita del figlio, D’Angelo la ripete più volte in quei minuti concitati, anche al telefono con Francesco Calvo.

AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Lui aveva paura che lo ammazzassero, se non era lui, era il figlio. Quindi ha deciso di provvedere lui prima che andassero a toccare suo figlio.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Poco dopo chiama anche uno dei leader della squadra: Bonucci.

INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Leo?

INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO LEONARDO BONUCCI – CALCIATORE JUVENTUS F.C. Sì…

INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Ho un problema: Ciccio s’è ucciso…

s’è suicidato Ciccio!

INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO LEONARDO BONUCCI – CALCIATORE JUVENTUS F.C. Non ci credo!

INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Non sono riuscito a fermarlo! Si è suicidato stamattina, si è lanciato da un ponte. Aveva paura di qualcosa. Era terrorizzato.

INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO LEONARDO BONUCCI – CALCIATORE JUVENTUS F.C. Quando era andato? L’altro ieri mattina?

INTERCETTAZIONE DEL 07/07/2016 AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. È andato ieri mattina lui! È andato ieri mattina a parlare al Palazzo di Giustizia, è uscito sconvolto. Ha avuto paura, si vergognava di me, gli dicevo: “Ma non ti preoccupare, me l’hai messa nel c…, la risolvo, non ti preoccupare!”. Mi ha detto: “No, no, perdonatemi, perdonatemi, perdonatemi”. Non aveva paura di noi, io son convinto che non avesse paura di noi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Era terrorizzato Bucci. E che cosa voleva farsi perdonare dal capo della security D’Angelo? Il fatto che aveva testimoniato ai magistrati che Rocco Dominello era una figura importante per il mantenimento dell’ordine pubblico all’interno delle curve. E questo particolare, dice Bucci ai magistrati, gli era stato confidato proprio da D’Angelo. Ecco, Rocco Dominello, che è il figlio di un boss, Saverio, condannato nel ’96 per mafia (e nel 2012 vengono arrestati con la stessa accusa anche i due fratelli), lui invece, Rocco, era pulito, era nullatenente e andava in giro con una Jaguar. E grazie alla sua amicizia con Fabio Germani, un altro ultrà, condannato anche lui poi dopo per associazione e per concorso esterno alla mafia, e a capo di una fondazione, l’Italia Bianconera, amico di Moggi, amico di Lapo Elkann, era riuscito attraverso Germani a tessere una ragnatela: avvolgere i giocatori e i dirigenti finanche ad arrivare allo scranno più alto.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Il direttore sportivo della Juve, Beppe Marotta, nell’ottobre del 2013, in occasione di Juve - Real Madrid, lascia cinque biglietti della sua riserva personale a Rocco Dominello, figlio del boss. Questo è lo scambio di messaggi con un intermediario, con tanto di preghiera finale: “Massima riservatezza mi raccomando”. Qualche mese dopo, ancora Marotta incontra in un bar Dominello che gli chiede di far sostenere un provino per le giovanili a un ragazzo: si tratta del figlio di Umberto Bellocco, esponente di spicco del clan di Rosarno. Il provino lo farà, ma poi verrà scartato.

GIORNALISTA Agnelli è il grande presidente?

LAPO ELKANN Mio cugino ha fatto un lavoro della madonna come tutti i suoi, tutti gli uomini intorno a lui, tutte le persone che lavorano nella Juve: dal raccattapalle, allo chef, all’allenatore, al giocatore, tutti.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Nel giorno della vittoria del primo scudetto del nuovo ciclo, Lapo riconosce al cugino Andrea i meriti per il lavoro fatto; ma nel 2009 aveva puntato lui allo scranno più alto della società. Lapo secondo quanto raccontato da Dominello ai magistrati, avrebbe incontrato nella primavera del 2009 il figlio del boss, prima della comunione della figlia di Fabio Germani, ultrà presidente della fondazione Italia Bianconera e molto vicino ai dirigenti della Juve. In quell’occasione, gli avrebbe espresso il desiderio di vedere esposti degli striscioni in curva con su scritto “Lapo Presidente”.

LAPO ELKANN Una goduria.

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Senti una cosa, ma il tuo amico Lapo che fine ha fatto?

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” L’ho sentito stamattina, è in Svizzera.

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Lo fissiamo ‘sto appuntamento?

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” No, questo periodo non esiste.

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Perché?

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Eh, perché domani parte va in America…

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS “Vabbuò, fissa un appuntamento. Se vuole un appoggio, fissa un appuntamento, sennò andate a f… tu, lui, la Juve… tutti quanti!”.

INTERCETTAZIONE ABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Ma tu lo sai che lui l’appoggio lo vuole?

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Lui mi deve dire “sì, sono veramente intenzionato…” e io faccio fare gli striscioni sia da una parte che dall’altra, tutti per lui. Però allora mi devi dire quanto veramente ci tiene. Perché io ti giuro che sia di qua che di là facciamo fare tutto quello che lui vuole.

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Ho parlato con Lapo fino a un’ora fa.

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Ah eri con Lapo e non mi hai chiamato, bravo… bravo.

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Si è scaricato il telefono! Martedì, cosa fai martedì?

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Martedì niente, perché?

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Se vuoi andiamo in barca da Lapo.

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Ma dove?

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” A Saint Tropez.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO La gita poi è saltata. E lo striscione non fu mai esposto. Ma chiunque avesse un problema, chiedeva aiuto ai Dominello. Anche Fabio Cannavaro, capitano della nazionale e Pallone d’Oro, dopo la parentesi al Real Madrid, dove era andato dopo lo scandalo Calciopoli, torna alla Juve e viene contestato. Secondo quanto sostenuto da Germani in questa telefonata, avrebbe chiesto aiuto a Dominello per fermare la contestazione.

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Te l’ho detto. Lo vedo stasera Cannavaro. Abbiamo parlato di te anche. Dice: “Fabio, io lo so che gli unici siete tu e Rocco, che la Juve sta facendo dei casini, che tu non ne vuoi sapere della Juve”. E lui mi ha detto: “io non voglio mettere in mezzo la Juve” lui Cannavaro. E poi mi ha spiegato un bel po’ di cose. Io lunedì sera dovrei mangiare con De Ceglie. Se vuoi venire…

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Vabbè intanto ci vediamo, ci organizziamo.

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Va bene dai. Ok ciao ciao.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Vincenzo Iaquinta. Per lui i magistrati antimafia di Bologna, hanno chiesto sei anni di carcere per reati connessi alle armi con l’aggravante mafiosa, 19 anni per il padre. Iaquinta era anche il centravanti della nazionale

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Scandaloso! Vabbè da una parte è anche buono così Iaquinta rientra!

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Sì è giusto così. Un’ Italia che gioca così è giusto che va fuori.

INTERCETTAZIONE ROCCO DOMINELLO – ULTRAS JUVENTUS Dai quando rientra andiamo a mangiare, dai…

INTERCETTAZIONE FABIO GERMANI – PRESIDENTE “ITALIA BIANCONERA” Va bene.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Alessandro D’Angelo, il security manager, nell’estate del 2012 raggiunge in ferie Rocco Dominello a Tropea. Insomma, erano amici: al punto che D’Angelo, al telefono, ammette di conoscere cosa fanno gli ultras e i calabresi con i biglietti.

INTERCETTAZIONE AL TELEFONO ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Il tuo gruppo probabilmente è composto da 300 persone, quindi io ti permetto di fare, purtroppo a malincuore, business. Ma questo lo faccio non perché mi sei simpatico, semplicemente perché voglio la tranquillità. È inutile che ci nascondiamo: io voglio che voi stiate tranquilli e che noi stiamo tranquilli e che viaggiamo insieme.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E insieme erano andati anche, secondo quanto riferito dal figlio del Boss ai magistrati, da Andrea Agnelli: e più volte. Ma Agnelli, che va detto non è mai stato indagato alla Procura, ha fornito risposte diverse in momenti diversi. Prima ha negato, poi ha detto di non ricordare e poi che potrebbe averlo incontrato, ma senza sapere chi fosse Rocco Dominello.

MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA (LUGLIO 2013-MARZO 2018) Il presidente Agnelli ha dichiarato di non averne ricordo, ma da una serie di risultanze pare abbastanza chiaro che il Dominello avesse accesso anche agli uffici anche privati della società.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Agnelli e il suo responsabile della security D’Angelo, hanno dichiarato di non aver mai avuto contezza dello spessore criminale di Rocco Dominello. Uno dei leader dei Viking, la colonna milanese della curva bianconera, ci racconta di un episodio avvenuto tre anni prima degli arresti dell’indagine Alto Piemonte; l’inchiesta era appena partita e in teoria doveva essere segreta.

ULTRAS “VIKING” A noi Alessandro D’Angelo, nel lontano 2013, ci dice che c’è un’indagine dei carabinieri in curva per la storia dei calabresi. Ci dice a me, Grancini e un altro ragazzo…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ma anche Raffaello Bucci, braccio destro dello slo della Juve, era a conoscenza da tempo dell’inchiesta sui calabresi.

PAOLO VERRA – LEGALE EX COMPAGNA RAFFAELLO BUCCI Un anno prima lui mi aveva detto testuali parole: “Io so per certo che alla fine di questo campionato” – ovvero a giugno – “scoppierà la bomba. E quindi io come tanti altri all’interno della curva, ci stiamo organizzando.”

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Se Bucci sapeva e se anche il capo della Security della Juve sapeva delle indagini sui calabresi, come facevano in società a non sapere che Rocco Dominello fosse il figlio del boss? Forse erano rassicurati dal fatto che Rocco Dominello venisse ricevuto perfino dalle istituzioni.

ULTRAS “VIKING” Rocco Dominello veniva a parlare per conto dei Drughi in questura. Cioè, non in un bar, nascosti sotto ad un portico: in questura.

FEDERICO RUFFO Possibile che il figlio di un boss di quella caratura entrasse in questura a partecipare alle riunioni sulla sicurezza e nessuno sapesse chi era?

MARCO DI LELLO – COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA (LUGLIO 2013 – MARZO 2018) Sul fatto che nessuno sapesse noi abbiamo avanzato più di un dubbio. Stiamo parlando di un signore ufficialmente nullatenente e disoccupato, che andava in giro con una Jaguar e con un tenore di vita decisamente alto. Ma certo, per molti anni la sensazione è che si è fatto finta di non vedere e di non capire.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Altri capi ultras con rapporti con la malavita organizzata incontrano Agnelli. Ad esempio Loris Grancini, leader dei Viking, secondo la procura vicino al clan mafioso dei Rappocciolo; ultimo domicilio conosciuto, il carcere di Opera dove sconta una condanna a 13 anni e 11 mesi per tentato omicidio.

Da fanpage.it – 30/03/2017 LORIS GRANCINI – CAPO VIKING È vero, sono molto vicino alla cosca dei Rappocciolo. È la mamma di mia moglie, non ha nessun fratello uomo in vita, l’ultimo è morto otto anni fa.

RAFFAELLA FANELLI Hai mai incontrato Andrea Agnelli?

LORIS GRANCINI – CAPO VIKING In occasione dell’inizio dell’anno per parlare di nuovo anno, tifoseria, mi ha detto di coreografie, farci i complimenti.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO È il 5 maggio del 2018, la Juventus ospita il Bologna. A distanza di due anni dall’arresto dei Dominello, i Drughi li troviamo al loro posto a fare affari come sempre. E c’è chi fa bagarinaggio.

COMPONENTE DRUGHI? C’erano dei ragazzi siciliani che me li hanno ordinati, non sono potuti venire e li ho dati a loro; mi hanno telefonato loro.

FEDERICO RUFFO Non è bagarinaggio secondo voi questo?

COMPONENTE DRUGHI? No, quello non è bagarinaggio. Non è che loro…

FEDERICO RUFFO Cioè non l’hanno pagato di più?

COMPONENTE DRUGHI? No, no.

FEDERICO RUFFO Quindi voi non vendete mai i biglietti a una cifra…

COMPONENTE DRUGHI? No, a prescindere che non ce li abbiamo biglietti…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Loro i biglietti neanche li hanno. Guardate che succede ora. Arriva un altro ultrà alle spalle e - vedete? – gli ha passato una tessera del tifoso. È con quella che cambiano i nomi sui biglietti appena rivenduti. E il tutto avviene davanti agli occhi degli addetti alla sicurezza dello Juventus Stadium.

ADDETTO ALLA SICUREZZA Hanno la bancarella fuori in curva Sud. Sono gli unici autorizzati. Vai a sapere come mai sono gli unici!

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO La bancarella dei Drughi si trova subito fuori la recinzione dello Stadium. La competenza è del Comune che però in quel punto non rilascia licenze per ragioni di sicurezza. Eppure i Drughi fino alla fine della passata stagione erano lì a vendere.

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Tutto lì si fa, tutto allo stadio si fa.

FEDERICO RUFFO Cioè lì a quella bancarella i Drughi vendono anche…

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” No, ma in tutto davanti il piazzale. Il piazzale è nostro.

FEDERICO RUFFO Quello della curva?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Già. Siamo noi che lo gestiamo! Noi avevamo dentro.

FEDERICO RUFFO Dentro lo stadio?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Sì. Dentro lo stadio.

FEDERICO RUFFO E lì come funziona? C’è un accordo, c’è una licenza? C’è un accordo?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” No, non c’è niente. Abusivamente. Ma è una cosa normale per lo stadio, capito? Io il 28 sono libero. Me ne vado di nuovo su per andare a metter lo striscione.

FEDERICO RUFFO Perché attualmente lo striscione dei “Bravi Ragazzi” non c’è?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Non c’è. Perché hanno fatto diffida a me e allo striscione capito? Senza che ce l’ho intestato io lo striscione. È questa la cosa…

FEDERICO RUFFO E quindi ora come pensi di fare per ripristinare lo striscione?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Dovrò andare a parlare alla Juventus.

FEDERICO RUFFO E credi che ti riceveranno?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Eh?

FEDERICO RUFFO Credi che ti riceveranno?

ANDREA PUNTORNO – LEADER “BRAVI RAGAZZI” Certo. FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Bryan Herdocia detto “Lo squalo”: 12 anni di Daspo, un arresto nel 2015 dopo una rissa coi tifosi della Fiorentina, una perquisizione nella quale gli vengono sequestrate due pistole, una mazza da baseball, un coltello e 80 carte d’identità false. Servivano per intestare i biglietti per lo stadio a gente inesistente ed erano fatte così bene che lo squalo è stato uno dei più importanti bagarini dello stadio; e lo è ancora oggi: nonostante il Daspo gestisce tutto direttamente da casa sua.

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Ad esempio ti faccio vedere questa cosa qua se riesci a vederla. Questo è un biglietto della finale di Berlino.

FEDERICO RUFFO Sì, Juve - Barça.

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Bravissimo, questo biglietto ad origine veniva 220 euro. 1500 euro a biglietto.

FEDERICO RUFFO 1500 a biglietto?

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Solo io da solo ne ho piazzati 13.

FEDERICO RUFFO Tu i biglietti per Juve Barcellona che si giocava a Berlino, quindi non nello stadio della Juve, da chi li hai presi?

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Allora io i biglietti ti dico li ho reperiti direttamente dalla curva.

FEDERICO RUFFO Di questa vicenda della ‘ndrangheta, dei Dominello, di Rocco, voi quanto sapevate? Cioè si sapeva chi era Rocco?

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Io so che quando ho piazzato i biglietti nel 2015 fuori dal Bernabéu, ho piazzato dei biglietti per loro, perché quando Pippo che mi dava i biglietti era nervoso perché un aereo è arrivato in ritardo e la gente non arrivava e servivano subito i soldi, era andato in tilt perché mi diceva: “Tu lo sai di chi sono questi biglietti? Ma tu lo sai questi soldi a chi vanno? Ma se questi non arrivano in tempo e non pagano poi qua finisco male…”

FEDERICO RUFFO Qua io finisco male ti ha detto?

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Sì, ma sì, perché questo aveva paura.

FEDERICO RUFFO Raffaello Bucci di tutto questo cosa sapeva?

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Raffaello sapeva tutto.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Lo Squalo ci mostra una chat dello scorso marzo con il braccio destro di Mocciola, Salvatore Cava, in occasione di Tottenham - Juventus, ottavi di finale di Champions League. Hanno venduto 250 sterline l’uno biglietti che ne costavano 35.

FEDERICO RUFFO Fino allo scorso anno, alla fine della stagione dello scorso anno, comunque i Drughi continuavano a fare bagarinaggio?

BRYAN HERDOCIA – EX ULTRAS JUVENTUS Certo.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Secondo quanti ci riferisce, lo squalo avrebbe piazzato biglietti anche fino a pochi giorni fa, questa è una chat dello scorso 18 settembre, il giorno di Valencia – Juve, Champions League. Questo il prezziario dei biglietti da piazzare: 95 euro. Questi i biglietti per Juve-Lazio, il 25 agosto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo “squalo” fa bagarinaggio da casa colpito da Daspo, cioè non può andare allo stadio, ma lo fa per i Drughi, cioè per quel gruppo che fa riferimento al pregiudicato Dino Mocciola e anche a Rocco Dominello, almeno fino a prima che lo arrestassero. Ecco, ma da dove arrivano i biglietti? Non lo sappiamo. Abbiamo segnalato alla Juventus il fatto che abbiamo raccolto testimonianze che il bagarinaggio continua anche dopo l’inchiesta giudiziaria; e abbiamo anche chiesto se fosse vero che il suo capo della security avesse confidato ad un ultrà l’esistenza di un’indagine anni prima, un’indagine sui calabresi. Ecco, hanno preferito tutelarsi dietro il riserbo. E che cosa ha detto il presidente Agnelli in tema di sicurezza? Ha detto che la gestione avveniva attraverso una triangolazione: la Juventus parla con gli ultrà e le forze dell’ordine, gli ultrà parlano con la Juventus e le forze dell’ordine e le forze dell’ordine parlano con ultrà e Juventus. Tutto vero: poi però c’è la sentenza della giustizia penale. Le motivazioni dei giudici della Corte d’Appello sono uscite pochi giorni fa e scrivono, riconoscono la sussistenza del metodo mafioso anche nei confronti della Juventus, seppure con modalità non apertamente intimidatorie perché non ve n’era bisogno”; la Juventus, scrivono, “era ben disposta, come emerso da testimonianze e intercettazioni, a fornire agli ultrà cospicue quote di biglietti e abbonamenti perché li rivendessero e ne traessero benefici, utili, ottenendo come contropartita l’impegno a non commettere azioni violente”. Ecco, insomma, la Juve, secondo i magistrati non è parte lesa, né si è costituita parte civile. Ma è questa l’idea di legalità? Che lo stadio e la sicurezza viene gestita dai capi ultrà pregiudicati? Insomma, da una parte organizziamo ronde per fermare i “vucumprà” che vendono merce abusiva, dall’altra lasciamo che lo stadio sia una zona franca, dove ci sono pregiudicati che incassano milioni di euro in nero, dove c’è gente che risulta nullatenente e va in giro con Jaguar e magari ce la ritroveremo tra coloro che percepiranno il reddito di cittadinanza, se non facciamo attenzione. Di tutto questo ha colpa anche la politica, che nelle curve trova linfa elettorale. Il reato di bagarinaggio è un semplice reato amministrativo, e c’è una riforma, ma è ferma da anni in un cassetto. Poi sarebbe anche vietato e punibile con l’arresto fino a un anno chi introduce striscioni con frasi ingiuriose…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Febbraio 2014, durante un derby col Torino, i tifosi espongono due striscioni che inneggiano alla tragedia di Superga. La condanna e unanime e rievocano il dolore di chi come Sandro Mazzola, ha perso il padre Valentino.

SANDRO MAZZOLA C’è qualcuno che allo stadio porta certi striscioni, ma non c’entra la dirigenza di quella società che son persone eccezionali. Ma quello stadio va chiuso. Per un anno chiuso!

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Anche Andrea Agnelli esprime il suo sdegno; lo fa con un tweet: “No agli striscioni canaglia”. Ma dalle intercettazioni emerge che fu proprio il responsabile della sicurezza D’Angelo insieme a Raffaello Bucci – all’epoca un semplice ultrà – a trattare e fare entrare quegli striscioni.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Come ti posso aiutare domenica?

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Eh, mi devi aiutare fratello, perché io ho fatto il lavoro… però mi devi aiutare.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eh dimmi come: gli striscionisti immagino.

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Eh no, devi capire Ale.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eh aiutami… Ah, ho capito.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Per non scioperare, gli ultras vogliono che il capo della security D’Angelo, trovi il modo di far entrare gli striscioni vietati. La Juve dovrà pagare una multa per questo, tuttavia lui è disposto sia ad aiutarli che a pagare la multa. Tutto, pur di accontentare i Drughi.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Tanta roba?

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Quanta multa vuoi prendere?

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Io fino a 50 mila.

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Non ce la fai, non ce la fai compa’!

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. No ti prego, non Superga…

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO E invece, Superga sì. D’Angelo è così sotto scacco che non può trattare. Il responsabile della sicurezza deve solo trovare il modo di aggirarla, la sicurezza.

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Arrivo già armato, pronto.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Minchia, ma in zaini ce l’hai?

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS E dove cazzo li metto?

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eh appunto, quanti zaini?

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Ma saranno due zaini. INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Va bene, va bene, ok.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Gli unici furgoni a non essere controllati, sono quelli di panini e bibite: e li usano come cavallo di Troia per far passare gli zaini con dentro 20 metri di striscioni che inneggiano alla morte di 31 persone innocenti. Per questo contatta il direttore dei ristoranti dello stadio.

FEDERICO RUFFO Le hanno dato questo zaino e le hanno detto “mi porti dentro questa roba domani”?

ROBERTO PASQUETTAZ – RESP. CATERING JUVENTUS STADIUM In realtà mi pare di ricordare fosse proprio il giorno stesso. Questo non è avvenuto neanche attraverso me, ma è avvenuto attraverso uno dei miei uomini.

FEDERICO RUFFO Anche Agnelli sapeva che il suo manager della sicurezza il giorno del derby stava trattando con Ciccio Bucci, il pluripregiudicato Dino Mocciola e Rocco Dominello per evitare lo sciopero.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Andrea...

INTERCETTAZIONE ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS F.C. Ohi.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Due ore fa è venuto poi Ciccio a dirmi: “So che ti incazzerai. Ho parlato con Dino che ha parlato con quelli di Milano. Non cantano al primo tempo, cantano al secondo”. Io gli ho detto: “No, gli accordi erano diversi, io non mi esponevo come ho fatto, sto per fare una figura di merda che non avrei mai voluto fare, ma è l’ultima che faccio per voi”.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Ma il giorno dopo la partita, D’Angelo viene convocato in fretta e furia da Agnelli.

INTERCETTAZIONE ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS F.C. No, ma infatti so quella solo, son gli zaini, entrano gli striscioni, cioè… È l’unica.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Eccomi.

INTERCETTAZIONE ANDREA AGNELLI - PRESIDENTE JUVENTUS F.C. Dove sei? Quando hai finito vieni da me.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Sì sì, sto finendo e arrivo.

FEDERICO RUFFO FUORI CAMPO Nell’ufficio di Andrea Agnelli, D’Angelo scopre di essere stato ripreso dalle telecamere. Tutti sanno che è stato lui.

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Ti devo fare una confessione, te la dico, cerca di capirmi: mi hanno beccato domenica, eh!

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS F.C. L’han beccato?

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Mi hanno. Lo zaino.

INTERCETTAZIONE RAFFAELLO BUCCI – ULTRAS JUVENTUS Sì?

INTERCETTAZIONE ALESSANDRO D’ANGELO – SECURITY MANAGER JUVENTUS F.C. Sì, ma ho riso perché sono arrivato su dal Presidente, erano andati dal Presidente. Mi ha detto: “Ale sei un ciucco, ti hanno beccato!” Gli ho detto: “Non avevo dubbi che il sistema funzionasse di telecamere”. L’ho detto, a chi dovevo dirlo. C’era il direttore dello stadio e gli ho detto: “Francesco, non te la prendere”. Lui mi ha detto: “No, ma a me va benissimo, tu puoi fare il c… che vuoi, se me lo dici ti aiuto!”. Gli ho detto: “Io non volevo coinvolgere nessuno, visto che è una porcheria assurda che ho fatto”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Su questo siamo tutti d’accordo. Dalle intercettazioni è emerso che il presidente Andrea Agnelli, pur conoscendo la trattativa in essere con i tifosi, non era a conoscenza che era stato proprio il suo capo della security a far entrare lo striscione controverso, insomma così, che aveva creato tante polemiche. Lo scopre il giorno dopo. Tuttavia non denuncia. Anzi, qualche mese dopo viene assunto anche Raffaello Bucci, l’altro autore dello striscione, come uomo che teneva rapporti tra ultrà, dirigenza e forze dell’ordine. Ecco, tutto questo è emerso grazie alle intercettazioni dei magistrati antimafia. La Juventus ha rischiato seriamente di essere infiltrata dalla ‘ndrangheta; se questo non è avvenuto è perché ha degli anticorpi forti, più forti di altri. Però un suo uomo comunque ha perso la vita per quel contesto che abbiamo raccontato, che è un contesto, attenzione, che non riguarda solo la Juventus; riguarda molte altre squadre. La commissione parlamentare ha fatto un dossier, questo, dal quale emerge, sono 100 pagine circa, dal quale emerge che il calcio è infiltrato dalla mafia. Attraverso i rapporti con gli ultrà, attraverso i finanziamenti e l’acquisizione di quote societarie o attraverso il rapporto diretto con i calciatori e la gestione del calcio scommesse. E poi gli stadi sono diventati megafono di chi è al 41 bis, al carcere duro, che riesce a comunicare all’esterno grazie agli striscioni. Ecco, ma il ministro dell’Interno, il sottosegretario Giorgetti con delega allo sport, il ministro della Giustizia, il Coni, la Figc, gli organi di controllo, questo dossier l’hanno letto? Perché è anche una questione di democrazia: controllare una squadra di calcio significa controllare il consenso. Questa è la maglia che indossava Bucci, la maglia ufficiale: ce l’ha regalata durante la nostra inchiesta il figlio, che è ancora innamorato della sua squadra. Se vogliamo che il calcio continui ad essere l’arte dell’impensabile, dell’imprevedibile, che quando meno te l’aspetti un nano dia una lezione di calcio a un gigante, come scriveva Galeano nel suo libro “Splendori e miserie del calcio”, dobbiamo rimboccarci le maniche tutti: politici, forze dell’ordine, dirigenti del calcio e anche noi giornalisti che abbiamo privilegiato in questi anni il racconto dell’epica o della tragedia sportiva, meno quello del fango. Se vogliamo continuare a raccontare il calcio, altrimenti rischieremo di raccontare un calcio dove neanche più l’erba è vera, la dipingono di verde per non rovinare lo spettacolo.

PARLIAMO DELL’ITALIA DEI BAGARINI. GLI AVVOLTOI DEL BIGLIETTO ONLINE.

Stefano Vitelli, il gip del tribunale di Torino, nell'ordinanza di custodia cautelare siglata a carico di 18 persone, nessuna delle quali appartenente alla Juve ed indagate in prevalenza per associazione mafiosa, dà conto di un "preoccupante scenario". Di fatto, per il gip, biglietti delle partite e soldi andavano spartiti per garantire la calma in tribuna. Scrive vitelli che "alti esponenti di una importantissima società calcistica a livello nazionale e internazionale (la Juventus,) hanno consentito di fatto un bagarinaggio abituale e diffuso come forma di compromesso con alcuni esponenti del tifo ultrà".

Lo scrive il gip di Torino: "Alti esponenti Juve permisero bagarinaggio", scrive “Cronaca Qui” l’11 luglio 2016. L'ultima inchiesta sulla presenza della 'Ndrangheta in Piemonte ha fatto emergere il "preoccupante scenario" che ha visto "alti esponenti di una importantissima società calcistica a livello nazionale e internazionale (la Juventus - ndr) consentire di fatto un bagarinaggio abituale e diffuso come forma di compromesso con alcuni esponenti del tifo ultras". Lo scrive il gip del tribunale di Torino Stefano Vitelli nell'ordinanza di custodia cautelare siglata la scorsa settimana a carico di 18 persone, nessuna delle quali appartenente alla Juventus, indagate in prevalenza per associazione mafiosa. Si tratta di un filone secondario dell'inchiesta della Dda torinese. Il giudice è del parere che sia stato questa politica ("voi non create problemi di ordine pubblico e noi vi facciamo guadagnare con i biglietti") a suscitare le attenzioni delle cosche. "Avere consentito da parte di taluni responsabili della società juventina un sistema di questo tipo - scrive - ha determinato, fra l'altro, la formazione di un importante giro di facili profitti su cui, come era facile prevedere, hanno messo gli occhi e poi le mani anche le famiglie mafiose operanti in zona, creando un pericoloso e inquietante legame di affari tra esponenti ultras e soggetti appartenenti a cosche mafiose". Sono state diverse le persone ascoltate in questi giorni in procura, a Torino, nell'ambito dell'inchiesta sui tentativi di infiltrazione della 'Ndrangheta negli ambienti della tifoseria della Juventus. Fonti vicine alla società bianconera affermano comunque che non si tratta di esponenti del club. E' la procura di Cuneo, intanto, a svolgere gli accertamenti sul caso di Raffaello Bucci, il capo ultras dei Drughi morto suicida l'8 luglio (il giorno dopo essere stato interrogato come testimone dagli inquirenti). L'uomo si è gettato da un viadotto dell'autostrada Torino-Savona all'altezza di Fossano, nel Cuneese. 

Raffaello Bucci, giallo morte ultras Juventus: ‘ndrangheta, bagarinaggio…, scrive l'11 luglio 2016 "Blitz Quotidiano". C’entra la ‘ndrangheta nella morte di Raffaello Bucci, 41 anni, ultrà della Juventus che faceva da “anello di congiunzione tra le tifoserie e la società? Se lo domanda Marco Bardesono sul Corriere della Sera, sottolineando la strana coincidenza della morte di Bucci proprio dopo essere stato interrogato dai pubblici ministeri che indagano sulla gestione, da parte di una cosca della ‘ndrangheta, del bagarinaggio allo stadio. Bucci era consulente per la sicurezza della biglietteria della Juve, e il giorno dopo essere stato interrogato come testimone si è buttato dal viadotto Torino-Savona, lo stesso dal quale si era gettato nel 200 Edoardo Agnelli, figlio di Gianni Agnelli. Forse, è l’ipotesi di Bardesono del Corriere della Sera, chi era coinvolto pensava che Bucci avesse fatto dei nomi. Spiegano Ottavia Giustetti e Jacopo Ricca su Repubblica: Il giorno prima era stato sentito dal magistrato di Torino Monica Abbatecola come testimone nelle indagini che hanno portato, lunedì scorso, all’arresto di 18 persone accusate di associazione mafiosa. Tra quelli dei presunti boss e malavitosi spicca il nome di Fabio Germani, storico capo ultrà bianconero. E nelle carte dell’indagine compare anche il direttore generale della Juventus, Beppe Marotta, che non è indagato. La polizia sta cercando di ricostruire tutti i movimenti e i contatti di Raffaello Bucci nelle ultime ore, prima del suicidio. Non è stato trovato né un biglietto né un messaggio e nessuno sa dare una spiegazione al suo gesto. Al contrario, quelli dell’entourage Juve, che lo conoscono, raccontano che era molto gratificato per il nuovo incarico fiduciario che gli era stato dato dai dirigenti della squadra. La sola ombra che segna la sua vita negli ultimi tempi è la scomparsa della madre. Ma gli investigatori sospettano che possa esserci un legame tra la sua morte e la vicenda per la quale è stato convocato in procura. Dal verbale della sua deposizione risultano incertezze e contraddizioni. E non si esclude che qualcuno lo abbia avvicinato per conoscere il contenuto dell’interrogatorio. Forse un incontro così sconvolgente da spingerlo a farla finita. Il tentativo di infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle tifoserie organizzate era già stato raccontato nell’inchiesta San Michele. E ripreso pochi giorni fa da Roberto Saviano sul suo blog: “Alcuni boss sarebbero partiti in aereo dalla Calabria alla volta di Torino per assistere gratis, allo stadio, il 5 aprile 2006, a Juventus-Arsenal”. “Fummo accolti da un ragazzo che ci consegnò i biglietti in una busta – è scritto nelle carte – non pagammo”. Sette anni dopo, la scena si ripete. Questa volta è il capo ultrà Fabio Germani che ritira il pacco di biglietti alla reception dell’hotel dove la squadra si ritira prima delle partite. Sono per il boss Rocco Dominello, che cerca ticket da rivendere per l’incontro Real Madrid-Juve del 23 ottobre 2013. A farglieli recapitare al Principi di Piemonte è Giuseppe Marotta in persona. Raccomandata la “massima riservatezza”. Qualche tempo dopo, i tre si incontrano in un bar della città. Questa volta Rocco Dominello chiede a Marotta di organizzare un provino per un giovane calciatore figlio dell’amico Umberto Bellocco, del clan di Rosarno. (…) E l’appuntamento viene seguito dai poliziotti, che intercettano un giro di email per organizzare il provino. Ma il giovane Bellocco non sarà mai ingaggiato. Bucci veniva considerato un testimone importante come Dino Geraldo Mocciola, 52 anni, leader storico dei “Drughi” della curva bianconera. Anche di lui si sono perse le tracce. È stato convocato in Procura, ma non si è presentato. I poliziotti lo cercano da giorni, invano.

Raffaello Bucci: ‘ndrangheta negli Ultrà Juve, i “Gobbi” bagarini dietro il giallo della morte, scrive il 12 luglio 2016 Edoardo Greco su "Blitz Quotidiano". Il giallo della morte del capo ultrà juventino Raffaello Bucci detto “Ciccio”, caduto dallo stesso ponte di Fossano dal quale si era buttato Edoardo Agnelli, scoperchia una situazione non del tutto sconosciuta a chi frequenta o conosce la curva bianconera. Una realtà riassumibile in due punti e che può spiegare come mai il quarantunenne capo ultrà dei “Drughi” possa essere stato indotto al suicidio da minacce pesantissime o possa essere stato direttamente “suicidato”:

1. la ‘ndrangheta ha infiltrato i gruppi ultrà della Juventus, arrivando a formarne uno, di gruppo, di sua diretta emanazione.

2. La vendita dei biglietti è un vero business che rende molto lucrativo e ambito il ruolo di capo ultrà della Juve: in uno stadio tutto esaurito durante tutta la stagione, con un’offerta 40 mila posti a fronte di una domanda di milioni di tifosi, non sorprende che il bagarinaggio sia un’attività che faccia gola a criminali di “prima fascia”.

1. Come la ‘ndrangheta ha infiltrato la curva della Juventus, e perché. Scrive Ottavia Giustetti su Repubblica Torino:

«Andiamo avanti! Eh abbiamo il benestare da tutte le parti e nessuno domani ci può dire a noi “che avete fatto?”… Andiamo avanti e non è detto che non ce la prendiamo noi, la curva, direttamente». Il 14 aprile 2013 alle cinque del pomeriggio Giuseppe Sgrò, Saverio Dominello e Marcello Antonino del clan di Rosarno viaggiano sull’auto di Sgrò e si compiacciono per l’accordo che è stato raggiunto. Snocciolano i particolari e si ripetono su quanti consensi possono contare per mettere le mani sul business dei biglietti delle partite. «Abbiamo Rosarno, Barrittieri, Seminara, Reggio» dicono. E il 21 aprile, durante l’incontro tra Juventus e Milan, in curva sud si verifica il fatto decisivo, il clan annuncia il suo ingresso e srotola lo striscione «Gobbi». Fabio Farina è l’uomo destinato a gestire i rapporti tra dirigenti della biglietteria della squadra e il clan, secondo il giudice Stefano Vitelli nell’ordinanza che il 4 luglio ha portato in carcere 18 persone per associazione mafiosa. «Noi siamo dentro lo stadio dal 21, contro il Milan» aveva annunciato Farina all’amico Giuseppe Selvidio, entrambi indagati, mentre erano in corso le trattative per saldare i rapporti tra mafia e ultras. «Ma che fai vieni in curva tu il 21?» gli chiede Selvidio. «Eh se devo venire – risponde Farina – se prendiamo soldi sì, che cazzo me ne frega a me». Che Farina abbia fiutato la possibilità di guadagnare è chiaro dal 3 aprile, quando parlando con lo zio Frank spiega: «… Adesso i fratelli Ercolino (Lo Surdo) mi hanno chiamato che stanno fondando una curva – dice – mi hanno già chiesto tutti i biglietti, a me me li passano come li pagano loro, non ho un c… da fare mi butto dentro gli stadi e vaffa…». Prima di entrare però i calabresi devono ottenere il definitivo via libera degli storici club ultras. Il referente del gruppo Vikings pone una sola condizione: «Se sono juventini problemi non ne abbiamo». Ma l’osso duro è Gerardo Mocciola, detto Dino. Torinese e capo indiscusso dei «Drughi» che ha scontato 20 anni per l’omicidio di un appuntato dei carabinieri e che sembra svanito nel nulla dopo gli arresti del 4 luglio. È lui l’uomo che incontrano in un bar di Montanaro. È lui che dà l’ok definitivo. Ma da lì a poco il business si rivela troppo appetibile per essere lasciato nelle mani di Farina. Ed entra in gioco Rocco Dominello figlio di Saverio, referente del clan di Rosarno. Dominello gestisce gli affari cooperando con Fabio Germani, altro capo ultrà bianconero che presenta a Dominello il security manager della Juventus, Alessandro D’Angelo, che non è indagato ma che risulta essere l’anello di congiunzione tra il gruppo ultras e la società bianconera. Non c’è, al momento, prova che il dirigente Juve potesse conoscere i suoi legami con la malavita. Ma ci sono conversazioni tra i due dai toni molto confidenziali. «Perché ormai hanno paura di me Ale, capisci?» dice Dominello quando viene a sapere che D’Angelo ha ridotto le tessere ai «Vikings» per agevolare i «Gobbi». Poi gli chiede consiglio su come contattare il dg Marotta. «Dominello e Germani – scrive il gip – sono ben inseriti nei meccanismi della società e ottengono plurimi biglietti da rivendere a prezzo maggiorato». Ma un giorno gli scappa la mano e un «cliente» svizzero si lamenta e con la società di aver pagato 620 euro un biglietto che ne costava 140. Stefano Merulla, responsabile della biglietteria Juve, sa che quel pacchetto era stato opzionato da D’Angelo. E si rivolge a Germani per chiederne conto. Poi racconta che la società ha cominciato ad avere sospetti sulla provenienza del “socio”. Ma D’Angelo trova il modo per continuare a rifornire il clan. «Li mettiamo sotto un codice diverso – dice a Dominello – devi solo dirmi chi va a ritirarli».

2. Come funziona il sistema del bagarinaggio con i biglietti delle partite della Juventus. Come, cioè, il business dei ticket venduti a sovrapprezzo finisca per finanziare le paghe mensili che i clan assicurano ai loro affiliati carcerati. Spiegano sul Secolo XIX: «La Juve pratica il prezzo normale, poi sta a loro fare il sovrapprezzo. Il pagamento alla Juve avviene dopo la partita. Andrea riceve le somme provento della vendita dei biglietti, paga la Juve, ottiene il suo margine, una parte del quale va versato ai carcerati». Loro sono i “Bravi ragazzi”, gruppo ultrà bianconero. Andrea, è Andrea Puntorno, il loro leader, arrestato nel 2014 dai carabinieri di Torino per una storia di armi e droga. A svelare i retroscena del business della compravendite di biglietti è la moglie, Patrizia Fiorillo vittima di minacce da parte degli ex soci del marito, due soggetti «prossimi all’area ’ndranghetista facente capo alla famiglia Belfiore». È in questo verbale dettagliatissimo, datato gennaio 2015, raccolto nell’ambito dell’indagine sulle minacce subite dalla donna dopo l’arresto del marito, che il pm torinese Paolo Toso, ha trovato conferma dell’intreccio di affari che lega la criminalità organizzata al bagarinaggio, emerso nell’ultima ondata di arresti scattati una settimana fa. Ecco come funziona, secondo Patrizia Fiorillo, il mercato dei biglietti: «Andrea prima del campionato gestisce una campagna abbonamenti. Gli danno i moduli da sottoscrivere e vogliono una certa cifra. Lui organizza una distribuzione di abbonamenti, facendoli sottoscrivere e facendoseli pagare con un sovrapprezzo. Li lascia per la maggior parte a chi ha sottoscritto, in più gestisce un pacchetto di abbonamenti che paga lui alla Juve. Compila i dati prendendoli da fotocopie di documenti e poi li usa di partita in partita per fare entrare persone a pagamento». Il nome di suo marito compare anche negli atti dell’ultima ordinanza frutto delle indagine dell’antimafia torinese nei confronti della famiglia Dominello, legata alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. L’ordinanza racconta fatti precedenti al suo arresto, ma che si incastrano con gli eventi successivi, finiti nel mirino dello stresso magistrato e della collega Monica Abbatecola. Nel 2013, quando un amico della famiglia Dominello propone di aprire un nuovo gruppo ultrà, con lo striscione «I Gobbi», la prima preoccupazione è quella di non entrare in conflitto proprio con i «Bravi Ragazzi», che hanno il loro punto di riferimento in Puntorno. In gioco, come osserva il gip Stefano Vitelli, non è la passione calcistica, ma il «lucrosissimo mercato dei biglietti». Parlando al magistrato, la donna ammette che, dopo l’arresto del marito, «a me portano una parte di questi guadagni, anche se in questo periodo le somme sono davvero esigue: circa 200 euro alla volta, invece di regola potevano arrivare a casa nostra 4, 5 mila euro a partita». E, come già svelato da altre inchieste sulla ’ndrangheta, ai carcerati va dato aiuto con la raccolta fondi. Un obbligo a cui gli «affiliati» non possono sottrarsi. È da queste premesse che si muove la procura, per cercare di scoprire quanto sia profonda l’infiltrazione della criminalità nella curva bianconera. Indagini divenute ancor più delicate dopo la morte di Raffaello Bucci, il collaboratore della Juventus che si è suicidato lanciandosi da un ponte dopo essere stato interrogato. Anche ieri sono state sentite delle persone informate sui fatti.

L'affare dei biglietti di favore scuote la Torino bianconera. La vicenda sollevata dal suicidio del leader degli ultrà juventini interrogato in un'inchiesta sulla 'ndrangheta, scrive Nadia Muratore, Martedì 12/07/2016, su “Il Giornale”. Per cercare di risolvere il giallo che avvolge il suicidio di Raffaello Bucci, uno dei leader dei «Drughi», gli ultrà della Juve, la procura di Torino ha disposto il sequestro dei due telefoni cellulari trovati nella sua vettura, abbandonata sul viadotto dell'autostrada Torino-Savona e dal quale Bucci si è buttato giovedì scorso. Nello stesso giorno della sua morte, la squadra mobile di Torino, si è recata a Margherita - piccolo comune in provincia di Cuneo dove viveva l'ultrà juventino, per cercare nella sua abitazione elementi utili a capire il perché abbia deciso di togliersi la vita, poche ore dopo essere stato ascoltato come persona informata sui fatti dal pm torinese della Dia Monica Abbatecola nell'ambito dell'inchiesta che ha portato all'arresto di 18 persone accusate di associazione mafiosa. Tra i nomi di spicco emersi nell'indagine, oltre a quelli di presunti boss e malavitosi, anche quello di Fabio Germani, storico capo ultrà bianconero. Nell'abitazione di Margherita, oltre ad alcuni effetti personali, gli inquirenti hanno sequestrato due computer, che saranno analizzati nei prossimi giorni. Intanto l'autopsia sul corpo di Bucci che all'ospedale di Cuneo era arrivato ancora vivo - conferma che l'uomo è morto per i «politraumi causati dalla caduta». Se non ci sono dubbi che l'uomo si sia suicidato, gli inquirenti vogliono capire se sia legato all'indagine inerente all'infiltrazione della 'ndrangheta nella curva bianconera e al business del bagarinaggio. Per trovare la chiave del giallo forse bisogna tornare al gennaio 2014, quando Bucci abbandona la curva bianconera. Autentico tesoriere degli ultrà, si fa da parte per non meglio precisati dissapori con gli altri capi. Quando fa rientro allo Stadium, lo scorso anno, ha cambiato divisa. Indossa una tuta del club: è diventato «supporter liaison officer», figura introdotta dal regolamento Fifa come anello di collegamento tra tifoseria e società. Ciccio, come lo chiamano nell'ambiente, riceve grandi apprezzamenti dal club. Per gli ultrà, invece, è «l'infame», perché parla con la polizia e sta dall'altra parte della barricata. Il giorno prima di suicidarsi, la procura di Torino lo convoca in merito all'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in curva e lui è costretto a ripercorrere quella delicata stagione 2013-14, quando gli investigatori documentano le relazioni tra i membri della famiglia Dominello, clan collegato alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno, e la tifoseria bianconera. L'obiettivo è entrare nella curva, con il nuovo gruppo ultras «I Gobbi» e mettere così le mani sul business dei biglietti. Il capo del sodalizio è Fabio Farina, accusato di aver sparato a maggio del 2013 alcuni colpi di pistola contro una nota discoteca di Torino dopo una discussione con la security. Il racconto di Bucci al pm però è lacunoso. Magari aveva paura che quelle sue «relazioni pericolose» venute a galla con l'inchiesta della Dia torinese, mettessero a rischio il suo nuovo incarico alla Juve. O forse a intimorirlo è stato qualcuno che non poteva rischiare che Ciccio, con le sue dichiarazioni, rivelasse un mondo criminale che gira intorno alle partite di calcio.

Il business dei bagarini in mano alla ’ndrangheta. Profitti anche ai carcerati. Le indagini sulla curva della Juve svelano il potere ultrà. Si allarga l’inchiesta sulle infiltrazioni della malavita nei gruppi di ultras per gestire il business dei bagarini, scrivono Federico Genta e Massimilano Peggio il 12/07/2016 su "La Stampa”. «La Juve pratica il prezzo normale, poi sta a loro fare il sovrapprezzo. Il pagamento alla Juve avviene dopo la partita. Andrea riceve le somme provento della vendita dei biglietti, paga la Juve, ottiene il suo margine, una parte del quale va versato ai carcerati». Loro sono i «Bravi ragazzi», gruppo ultrà bianconero. Andrea, è Andrea Puntorno, il loro leader, arrestato nel 2014 dai carabinieri di Torino per una storia di armi e droga. A svelare i retroscena del business della compravendite di biglietti è la moglie, Patrizia Fiorillo vittima di minacce da parte degli ex soci del marito, due soggetti «prossimi all’area ’ndranghetista facente capo alla famiglia Belfiore». È in questo verbale dettagliatissimo, datato gennaio 2015, raccolto nell’ambito dell’indagine sulle minacce subite dalla donna dopo l’arresto del marito, che il pm torinese Paolo Toso, ha trovato conferma dell’intreccio di affari che lega la criminalità organizzata al bagarinaggio, emerso nell’ultima ondata di arresti scattati una settimana fa. Ecco come funziona, secondo Patrizia Fiorillo, il mercato dei biglietti. «Andrea prima del campionato gestisce una campagna abbonamenti. Gli danno i moduli da sottoscrivere e vogliono una certa cifra. Lui organizza una distribuzione di abbonamenti, facendoli sottoscrivere e facendoseli pagare con un sovrapprezzo. Li lascia per la maggior parte a chi ha sottoscritto, in più gestisce un pacchetto di abbonamenti che paga lui alla Juve. Compila i dati prendendoli da fotocopie di documenti e poi li usa di partita in partita per fare entrare persone a pagamento». Il nome di suo marito compare anche negli atti dell’ultima ordinanza frutto delle indagine dell’antimafia torinese nei confronti della famiglia Dominello, legata alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. L’ordinanza racconta fatti precedenti al suo arresto, ma che si incastrano con gli eventi successivi, finiti nel mirino dello stresso magistrato e della collega Monica Abbatecola. Nel 2013, quando un amico della famiglia Dominello propone di aprire un nuovo gruppo ultrà, con lo striscione «I Gobbi», la prima preoccupazione è quella di non entrare in conflitto proprio con i «Bravi Ragazzi», che hanno il loro punto di riferimento in Puntorno. In gioco, come osserva il gip Stefano Vitelli, non è la passione calcistica, ma il «lucrosissimo mercato dei biglietti». Parlando al magistrato, la donna ammette che, dopo l’arresto del marito, «a me portano una parte di questi guadagni, anche se in questo periodo le somme sono davvero esigue: circa 200 euro alla volta, invece di regola potevano arrivare a casa nostra 4, 5 mila euro a partita». E, come già svelato da altre inchieste sulla ’ndrangheta, ai carcerati va dato aiuto con la raccolta fondi. Un obbligo a cui gli «affiliati» non possono sottrarsi. È da queste premesse che si muove la procura, per cercare di scoprire quanto sia profonda l’infiltrazione della criminalità nella curva bianconera. Indagini divenute ancor più delicate dopo la morte di Raffaello Bucci, il collaboratore della Juventus che si è suicidato lanciandosi da un ponte dopo essere stato interrogato. Anche ieri sono state sentite delle persone informate sui fatti. Anche il club bianconero sta seguendo gli sviluppi dell’indagine, attraverso i suoi avvocati. «Dalla Juventus - afferma Luigi Chiappero - escono solo biglietti a pagamento nel rispetto delle procedure di vendita, e i funzionari addetti a queste incombenze sono persone di specchiata professionalità».

Il clamoroso sold out per il concerto milanese di Springsteen, quando nel giro di 60 secondi sono stati venduti 40mila tagliandi, ha riacceso i fari sul cosiddetto "secondary ticketing": pratica legale inevitabile o illecito bagarinaggio digitale reso possibile da sofisticati software? Mentre negli Stati Uniti la magistratura indaga e inizia fornire le prime sconcertanti risposte, in Italia il problema sembra non stare a cuore quasi a nessuno. Il messaggio di Ligabue a Repubblica: "Io ho sempre cercato di fare il massimo per contenere i prezzi". Inchiesta di "La Repubblica" dell'8 marzo 2016.

Il caso Springsteen solo la punta dell'iceberg, scrivono Paolo Gallori e Carmine Saviano. Springsteen, dopo un minuto introvabili anche i biglietti per il 5 luglio. Biglietti già esauriti sulle pagine web del rivenditore ufficiale allo scoccare della vendita online, ma allo stesso tempo disponibili a prezzi folli sui siti di "secondary ticketing". Un problema che non riguarda solo i patiti del rock, la cui ultima traumatica esperienza è stata lo scorso 9 febbraio il sold out del concerto di Bruce Springsteen del 3 luglio a San Siro, quando 40mila biglietti sono spariti nel giro di un minuto dall’unico rivenditore online autorizzato, Ticketone. Con situazioni simili devono regolarmente fare i conti anche gli appassionati di calcio e sport vari per, per i quali entrare in possesso del singolo biglietto per un evento top - tipo finale di Champions League per intenderci – è molto spesso impossibile e l’unica alternativa a disposizione è l’acquisto in un costoso pacchetto all incusive, comprensivo di volo e albergo. Un "pedaggio" odioso che può sopportare il fan sfegatato, questa procedura definita "secondary ticketing", ma che non dovrebbe essere tollerato da tutti gli altri attori della filiera che compone un evento dal vivo. Dall’artista al promoter, dall’agenzia che rappresenta l’immagine della star fino a chi gestisce materialmente i luoghi dei concerti. Negli Stati Uniti si narrano le gesta di temerari hacker che in solitaria sono riusciti a gestire fino a 75 identità diverse, riuscendo così a comprare centinaia di biglietti con pochi clic. La stragrande maggioranza dei casi, come ha accertato la più recente (e probabilmente unica) inchiesta condotta sin qui sul fenomeno, ha però contorni molto meno romantici. Al centro della vicenda c’è ancora una volta lui, Bruce Springsteen, una delle rock star più amate di sempre. Secondo quanto ha appurato il procuratore generale di New York, Eric Schneiderman, lo scorso 10 dicembre su tre diverse piattaforme digitali sono stati offerti i biglietti (a prezzi da capogiro) per il tour del Boss ancor prima che la prevendita ufficiale fosse aperta. Ai siti di secondary ticketing Stubhub, Ticketnetwork e Vivid Seats viene intimato quindi di oscurare quelle offerte e le società che li controllano vengono allo steso tempo invitate a un incontro per aprire un tavolo contro la speculazione. Nel frattempo il lavoro di indagine del procuratore Schneiderman, sostenuto anche dalle denunce di cittadini esasperati dall’impossibilità di riuscire ad acquistare i biglietti per i grandi eventi musicali o sportivi attraverso i canali ufficiali, va avanti e i primi risultati vengono resi noti a fine gennaio 2016. A parte gli inquietanti intrecci di proprietà tra siti ufficiali e siti di “rivendita” (TicketsNow ad esempio appartiene dal 2008 a TicketMaster), gli investigatori accertano una gestione dei tagliandi che già a monte lascia ben poche possibilità all’acquirente "outsider". Il 16% finisce infatti nella disponibilità di promoter, artisti e operatori dell’industria musicale, sponsor e fan club. Un altro 38% è riservato poi ai possessori della carta di credito convenzionata con il sito di rivendita ufficiale. A ciò si aggiungono infine veri e propri abusi e pratiche fraudolente che impediscono ai consumatori di accedere ai biglietti al giusto prezzo. Schneiderman punta l’indice in particolare contro veri e propri broker attivi sulle piattaforme del secondary ticketing dove rivendono biglietti con margini di guadagno medi del 49% in più rispetto al prezzo base, arrivando talvolta a offrirli anche a prezzo decuplicato. Per alimentare il loro business, questi intermediari utilizzano i “ticket bots”, software nemmeno tanto costosi che consentono di acquistare sui siti delle rivendite ufficiali quanti biglietti si desiderano anche per gli eventi più attesi, quelli da cui l’utente comune denuncia di restare sempre tagliato fuori. Biglietti che poi finiscono nel circuito del “secondary ticketing” generando grandi guadagni perfettamente esentasse. A emblema di questa pratica scandalosa il rapporto di Schneiderman cita in particolare l’episodio dell’8 dicembre 2014, quando in un solo minuto un singolo "acquirente" riuscì ad accaparrarsi online 1012 biglietti per un concerto degli U2 al Madison Square Garden nonostante il rivenditore avesse fissato un limite massimo di quattro tagliandi. Il bottino complessivo fu però ancora più ricco, con due soli broker capaci di assicurarsi la bellezza di 15mila biglietti del tour degli U2 in Nord America.  "La nostra inchiesta - concludeva Schneiderman - è solo l’inizio del nostro sforzo per la normalizzazione del business della compravendita di biglietti". Una promessa che non è detto il procuratore riuscirà a mantenere, ma che sicuramente non avrebbe un grande futuro qui da noi. Il problema principale è che più si va fondo nel funzionamento di questo malcostume, più appare evidente che gli unici a rimetterci sono i fan. Per tutti gli altri si tratta di una pratica che comporta solo benefici. Così, tanto più in un paese come l’Italia dove il ricorso alle class action è ancora a uno stato embrionale, la speranza che possa cambiare qualcosa appare piuttosto remota. L'unico modo per contrastare il bagarinaggio online sarebbe probabilmente quello di controllare nominalmente ogni biglietto all'ingresso del luogo dell'evento. Ma è solo una pia illusione farlo in concerti o eventi sportivi che prevedono l'apertura dei cancelli a poche ore dall'inizio dell'evento e file di decine di migliaia di persone. In genere viene accertata solo la validità del biglietto e non se lo stesso è finito nelle mani del titolare di turno dopo chissà quanti e quali passaggi di mano virtuali. Un mercato parallelo che nell'assenza di precise legislazioni in materia, e nell'assenza di interventi da parte delle “polizie postali” dei vari paesi, non fa altro che crescere. Secondo uno studio di “Research and market” pubblicato alla fine del 2015, nel giro dei prossimi quattro anni il secondary ticketing avrà un incremento del 20%. E i settori coinvolti non saranno solo quelli relativi alla musica: altro settore coinvolto è quello degli eventi sportivi, dalle prossime Olimpiadi di Rio fino alle partite di calcio dei maggiori campionati europei. La polizia postale ci ha confermato che di indagini non ne sono mai state fatte, ma che per partire hanno bisogno di una denuncia. Compito che praticamente nessuno sembra volersi assumere. Inutile, ad esempio, sperare in una presa di posizione degli artisti come accaduto in Gran Bretagna (vedi pezzo di Andrea Silenzi qui sotto). Repubblica ha cercato di coinvolgere in questa inchiesta giornalistica gli artisti italiani (si contano sulle dita di una mano) capaci di riempire uno stadio e che in teoria si dovrebbero sentire danneggiati, ma dai loro staff sono arrivati solo cordiali dinieghi e frasi di circostanza del tipo "noi facciamo in modo che i biglietti siano venduti al prezzo più basso possibile, ma poi, una volta che sono finiti, se c’è chi è disposto a pagarli quelle cifre che possiamo farci?". A cercare di smuovere le acque ci prova un promoter, Claudio Trotta, titolare della Barley & Arts, l’agenzia che gestisce, tra l’altro, proprio i tour di Bruce Springsteen. Dopo lo scandalo del febbraio scorso, Trotta ha annunciato l’intenzione di presentare un esposto e ha prima scritto a tutte le parti "tecniche" coinvolte, a cominciare da quell’Assomusica che da statuto dovrebbe combattere simili anomalie, e poi, in uno sfogo affidato alla sua pagina Facebook, si è rivolto alle associazioni dei consumatori, agli artisti e alla Siae. Senza dimenticare l’Agenzia delle Entrate, vista l'evidente evasione fiscale di chi lucra sul secondary ticketing, e il Parlamento, affinché colmi un evidente vuoto legislativo su un fenomeno che non può essere paragonato al tradizionale bagarinaggio o alla casuale cessione di biglietti tra privati. Iniziativa su cui lo stesso manager non pare fare troppo affidamento, se è vero che la stessa requisitoria si concludeva con una domanda tanto retorica quanto sibillina: "Vi siete mai chiesti come mai io sia solo in questa battaglia?". Trotta nella lettera agli addetti ai lavori denunciava in particolare il fatto che "i biglietti in questione riportano sul retro dell’evento le condizioni a cui il soggetto acquirente è tenuto a sottostare". "In particolare - ricordava - l’art. 7 stabilisce che ‘Il titolo di ingresso non può essere permutato, ceduto a titolo oneroso né può essere oggetto di intermediazione o utilizzato ai fini commerciali’. Pertanto, chiunque violi le disposizioni sopra citate non solo si rende responsabile di un inadempimento contrattuale che darà origine a un’azione civile per il risarcimento dei danni, ma verranno valutati altresì i presupposti per l’azione penale con ogni relativa conseguenza”. Raggiunto solo a ridosso della pubblicazione dell'inchiesta di Repubblica, Ferdinando Salzano, amministratore delegato di Friends & Partners, ha voluto ricordare l'impegno "culturale" della sua agenzia per educare il pubblico dei concerti a tenersi lontano dagli avvoltoi e la sperimentazione del biglietto nominale effettuata durante il tour teatrale di Ligabue. Inoltre annuncia l'intenzione di voler presentare una denuncia alla Polizia Postale. "Oggi stesso darò mandato ai miei legali. Dopo aver messo all'indice le piattaforme digitali, bisogna dare un volto a chi le utilizza per speculare". Secondo Salzano, l'aspetto più importante dell'azione di Trotta è in un passaggio: "Aver denunciato la connivenza a livello internazionale tra gente del nostro ambiente e le piattaforme. In America è provata. Per l'Italia, non si può dire nulla senza prove. Indaghi la polizia". A dare manforte a Salzano ci sarà lo stesso Ligabue, che dopo aver letto la nostra inchiesta, ci ha voluto mandare una sua precisazione: "Personalmente ho chiesto da sempre a chi mi rappresenta di fare di tutto perché chi viene ai miei concerti spenda la cifra più ragionevole possibile per lo spettacolo, la produzione, l'accoglienza migliore che gli si possa offrire. Tutto quello che viene fatto nel nome di questa mia richiesta è totale merito di Claudio Maioli e Ferdinando Salzano". A rendere difficile una soluzione giudiziaria del problema c’è però in Italia una sentenza della Cassazione del 2008 che ha risolto un presunto caso di bagarinaggio sentenziando che “chi acquista e poi rivende a proprio rischio non compie alcuna attività di intermediazione, neppure atipica”, almeno finché non sia dimostrata la provenienza illecita del bene. Lo snodo diverrebbe quindi riuscire a dimostrare l’acquisto tramite software tickets bot e poi saperlo tracciare fino a risalire al "burattinaio". L’Unione Nazionale dei Consumatori, dopo i primi tentativi di pressione su Ticketone, suggerisce invece una strada alternativa. "Gli abbiamo scritto cercando di farli venire allo scoperto – afferma il segretario Massimiliano Dona – a seconda di come rispondono sapremo come muoverci, l’arma potrebbe essere una segnalazione all’Antitrust per pratiche scorrette, perché l’operatore, in questo caso unico, che vende online deve combattere i fenomeni devianti. Ticketone può dire di non averne colpa, ma non può non interessarsi del dopo". Un precedente conforta Dona: "Denunciammo quelli di TripAdvisor per le recensioni di alberghi e ristoranti i cui autori non erano identificabili. La loro difesa, tipica dell’operatore online, fu: 'noi siamo solo intermediari'. Invece furono condannati, perché dovevano fare tutto il possibile affinché gli autori di quei giudizi fossero identificabili”. Più o meno la logica che il procuratore Schneider ha applicato intimando alle tre piattaforme di rimuovere le offerte di biglietti più inaccettabili.

Così un software aggira tutti i controlli, scrive Martina Nasso. Tre minuti e venti secondi. È il tempo impiegato da un utente non registrato per l'acquisto di un biglietto sul sito TicketOne. Un minuto e mezzo se ha già un account. Al software TicketOne Spinner Bot bastano pochi secondi per compiere la stessa operazione. Un ticket robot (bot) è un programma per computer che automatizza il processo di ricerca e acquisto dei biglietti per concerti, eventi sportivi e spettacoli sulle piattaforme di acquisto online. In Italia TicketOne è la principale biglietteria virtuale autorizzata. Alle 11 di martedì 9 febbraio l'azienda ha aperto la prevendita per il concerto di Bruce Springsteen del 3 luglio allo stadio San Siro di Milano. In un minuto sono svaniti migliaia di biglietti. Alcuni agenti hanno acquistato i biglietti con il software robot per poi rivenderli a prezzi altissimi al grande pubblico sui siti di secondary ticketing come TicketBis, Viagogo e Seatwave. Queste piattaforme sono una sorta di bagarini 2.0 e hanno creato un mercato di vendita dei ticket parallelo a quello autorizzato. Su Viagogo, un posto per la data milanese del Boss arriva a costare anche 1500 euro, più di dieci volte il prezzo di vendita originale. "TicketOne Spinner Bot" è un software acquistabile online con una spesa di 950 dollari. La sua caratteristica principale, oltre alla velocità, è di riuscire a eludere il sistema che limita gli acquisti multipli su TicketOne. Il sito prevede, infatti, alcune misure per evitare che un singolo possa acquistare più di quattro/sei biglietti per quegli eventi, come i grandi concerti, per i quali la domanda supera di gran lunga l'offerta. In questi casi interviene un sistema di sicurezza che si basa sull'utilizzo di captcha, codici di sicurezza che l'utente deve compilare, e sul controllo degli indirizzi IP. La persona interessata all'evento può procedere all'acquisto solo inserendo il codice alfabetico corretto e, una volta acquistato il numero massimo di biglietti, TicketOne registra il suo l'indirizzo IP e gli impedisce di comprare altri tagliandi per lo stesso evento. Se dall'altra parte dello schermo, però, non c'è una persona in carne e ossa, i sistemi di sicurezza non sono poi così efficaci. "TicketOne Spinner Bot" bypassa i captcha e si collega a server proxy che creano indirizzi IP multipli. Chi lo utilizza può impostarlo inserendo l'orario di apertura del botteghino. Allo scoccare dell'ora stabilita il programma inizierà automaticamente la ricerca e in pochi secondi garantirà al proprietario centinaia di biglietti. Dopo aver superato il controllo del captcha, il software crea indirizzi IP multipli e inganna il sistema di controllo. TicketOne, così, collegherà la vendita a tanti utenti quanti sono gli indirizzi IP generati. Per rendere ancora più efficace il meccanismo e non destare sospetti nel caso di controlli individuali effettuati dagli amministratori del sito, spesso i broker usano per i pagamenti più carte di credito, intestate a persone diverse. I ticket robot non sono una novità. Nel 2007 Ticketmaster.com, la principale biglietteria online degli Stati Uniti, fece causa alla RMG Technologies Inc. La società vendeva software per l'acquisto automatico di biglietti che ingannavano i sistemi di controllo del sito. Ticketmaster vinse il processo nel 2008 e ottenne un risarcimento di 18,2 milioni di dollari. Alla RMG Technologies fu impedito di creare altri programmi per superare i sistemi di controllo della biglietteria virtuale. Sono passati dieci anni da allora e né in Italia, né negli USA esiste una regolamentazione sull'utilizzo di questi programmi che continuano a moltiplicarsi e mettono a dura prova la pazienza e soprattutto le tasche dei fan.

Ora all'estero si muovono le star, scrive Andrea Silenzi. Biglietti e concerti, una questione mai risolta. In Italia se ne parla dai tempi dello storico tour dei Beatles, nel giugno del 1965. I due concerti all’Adriano di Roma (uno pomeridiano, l’altro serale) si svolsero davanti a una platea con più di un posto vuoto: il prezzo dei biglietti (dalle 5.000 alle 7.000 lire) era per l’epoca piuttosto elevato, e la cosa fece discutere. Negli anni Settanta, col boom di spettacoli, la “questione biglietti” divenne un fatto politico. “Riprendiamoci la musica” era lo slogan che faceva da colonna sonora a scavalcamenti, sfondamenti e proteste: la contestazione sul caro-biglietti portò conseguenze drammatiche durante il concerto di Lou Reed al Palasport del febbraio 1975, con cariche della polizia e lacrimogeni lanciati tra gli spalti. A quell’epoca i biglietti si acquistavano, nella maggior parte dei casi, sul posto: il concetto di prevendita non era molto diffuso, il bagarinaggio avveniva fuori dai cancelli. Ma rispetto ad oggi, tutta la macchina organizzativa era meno minuziosa e più pioneristica. L’avvento di colossi della prevendita come l’americana Ticketmaster ha trascinato il business dei concerti in una nuova dimensione, professionale ma non priva di contraddizioni. Più di venti anni fa i Pearl Jam trascinarono in tribunale (finendo sconfitti) Ticktmaster con l'accusa di monopolio e, soprattutto, di praticare prezzi troppo alti con un ricarico eccessivo per i diritti di prevendita. Elementi profondamente contrari alla politica della band nei confronti dei fan. Da allora, la situazione si è fatta sempre più complicata. Quando la vendita si è trasferita sul web, ai grandi circuiti ufficiali si sono affiancati i cosiddetti “secondary tickets sites”, siti web che offrono biglietti per qualsiasi evento (soprattutto musicali e sportivi) a prezzi spropositati. Negli ultimi anni il fenomeno ha assunto proporzioni imbarazzanti, al punto di finire nel mirino delle autorità giudiziarie americane. All’inizio di dicembre il procuratore generale di New York ha inviato una lettera ad alcune agenzie di prevendita online per chiedere spiegazioni sulla presenza sui loro siti di biglietti per il concerto di Bruce Springsteen prima ancora della loro messa in vendita ufficiale. Sempre Springsteen, con le prevendite del suo tour italiano della prossima estate, ha riportato i riflettori sulle misteriose prassi dei siti secondari e sulla rabbia di utenti e musicisti. Come è possibile che decine di migliaia di biglietti spariscano dalle prevendite ufficiali in pochi minuti per poi ricomparire sui siti secondari a prezzi stratosferici? Secondo un’indagine condotta dal settimana americano Billboard, la Bibbia dell’industria musicale statunitense, per le sei date del tour americano di Adele erano disponibili, sulla carta, 750.000 biglietti. Nei fatti, però, solo 300.000 sono finiti sul mercato. Circa 350.000 sono stati riservati con una “pre-sale” mirata a partner commerciali, acquirenti di pacchetti vip e altri operatori. Dai 300.000 rimasti vanno poi tolti quelli rastrellati dai siti secondari. I fan, ovviamente, sono in rivolta. Il problema è molto sentito anche in Gran Bretagna, dove un gruppo di musicisti, manager e promoter (di cui fanno parte, tra gli altri, Mumford & Sons, Elton John, Coldplay, Radiohead, Ed Sheeran, Blur, Noel Gallagher, Iron Maiden e molti altri) ha scritto una lettera aperta al governo britannico, pubblicata dal Times, per prendere le difese dei fan e per chiedere di stabilire nuove regole che vietino di vendere tagliandi con un ricarico superiore al 10% rispetto al loro prezzo base. Nella lettera si sottolinea inoltre la necessità di creare un sistema “trasparente di vendita e acquisto dei biglietti” che costringa compratori e venditori a dichiarare la propria identità. La situazione è talmente esasperata che Elton John ha dichiarato pubblicamente di preferire una platea vuota piuttosto che vedere i suoi fan pagare prezzi assurdi. Il promoter inglese Harvey Goldsmith ha parlato di “disastro nazionale”, mentre tutti i musicisti invocano protezione per i loro fan. Che al momento pagano e subiscono. Ovunque.

Colpito anche il calcio, ma nessuno interviene, scrive Cosimo Cito. Profumo di tabacco, un lungo cappotto, la voce: "Biglietti". C’erano una volta i bagarini. C'erano le domeniche allo stadio, freddo gelido o caldo di primavera, loro c’erano sempre, austeri, imperturbabili nella loro augusta, tollerata illegalità. Se volevi saltare la fila, o solo se volevi vedere la partita, dato che al venerdì, quando i botteghini aprivano, i biglietti li prendevano loro, è da lì che dovevi passare. Inutile farsi domande, solo pagare. Chi si asteneva tornava a casa ad ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Non è strano, per nulla, se il termine bagarino derivi dal francese bagarre. Oggi l’operazione si svolge davanti a uno schermo di un computer. È il secondary ticketing applicato allo sport. Se la scorsa settimana si cliccava, ad esempio, su Ticketbis.it, Roma-Fiorentina, Curva nord. Il prezzo di un biglietto arrivava a 80 euro. Tanti, dato che il tagliando, acquistato per vie normali, regolari, sul circuito Ticketone, non supera i 35 euro. Più del doppio. Perché farlo, quel biglietto, a quel costo? Perché, magari, non c’è alternativa: la rivendita regolare dura il tempo di un amen, un’ora al massimo in genere, il tempo perché i biglietti vadano esauriti. Tutti nelle mani di soggetti, il più delle volte agenzie, che poi rivendono i tagliandi attraverso il cosiddetto secondary ticketing. E non è nemmeno illegale. Queste società d’intermediazione tra domanda e offerta operano in un vuoto normativo e sono regolarmente iscritte ai registri delle Camere di commercio. Teoricamente dovrebbe trattarsi di piattaforme sulle quali è possibile rivendere biglietti acquistati per eventi ai quali non ci si può più recare. In realtà i rivenditori non sono semplici tifosi vittime di un imprevisto, ma più spesso organizzazioni, spessissimo vicine alle società, che acquistano biglietti con l’unico scopo di rivenderli a prezzi maggiorati e specularci. SeatWave, Ticketbis e Viagogo rivendicano la legalità del servizio: i siti, tecnicamente, non vendono biglietti, ma fanno da mediatori tra domanda e offerta, con una provvigione del 20% nell’intera operazione di compravendita, niente di più, il costo del servizio. Accedervi è un attimo: basta registrarsi, cercare l’evento e decidere se vendere o acquistare un biglietto. Per chi voglia rivendere i propri biglietti, è semplicissimo: ci si registra, si inserisce un numero di carta di credito, si è, comunque, identificabili. E il gioco è fatto. A confermare che la pratica è legale, è stata anche la Corte di Cassazione, che con la sentenza 10881 del 2008 ha spiegato come "chi acquista e poi rivende a proprio rischio non compie alcuna attività di intermediazione, neppure atipica", almeno finché non viene dimostrata la provenienza illecita del bene. In Inghilterra la rivendita dei biglietti per le partite di calcio è connessa al consenso delle società. In Italia tutto avviene al buio della Lega, in una terra di mezzo: non essendo vietato - secondo la dottrina massimalista del diritto - è quindi concesso. Speculazione, niente di più, dicono loro. E i biglietti nominali non sono affatto un problema. Già al Mondiale brasiliano, quando le prime crepe in seno alla Fifa si aprirono proprio a causa di una compravendita illegale di biglietti destinati ai vip da parte di alti papaveri della Federcalcio mondiale, chi voleva, poteva lanciarsi in acquisti spericolati (anche 30mila euro un biglietto per la finale), senza paura di essere fermato ai tornelli d’ingresso del Maracanã. I controlli sulla legittima proprietà dei tagliandi sono praticamente inesistenti. Oppure accade anche questo: che emettitori legittimi di biglietti pratichino sottobanco il secondary ticketing. Ticketbis, società leader nel settore, è nata in Spagna nel 2009, opera in oltre 40 paesi e ha un giro da un milione di biglietti online: in Italia è attiva dal 2011 e ha all’incirca 100 mila utenti, ma il traffico sta crescendo. Nel 2015 ha fatturato circa 80 milioni di euro. Alle accuse di essere veicolo di bagarinaggio online risponde così, anzi rilancia: "Dovremmo aprirci all’idea del 'prezzo dinamico' – spiega Giulia Chiari, regional manager per l'Europa della società - è assurdo imporre un prezzo fisso a ogni evento. La soluzione è quella di piegare la legge della domanda e dell’offerta alle necessità dei potenziali acquirenti. Questo siamo noi, veicolo di un più moderno modo di intendere il mercato. Del resto, chi ha mai accusato Ryanair o altre società che praticano vendite online, di fare bagarinaggio di biglietti? Abbiamo un'idea paludata del mercato, in America il secondary ticketing è molto più utilizzato che da noi, molto più conosciuto. E molto più compreso". Soprattutto dopo il lavoro del procuratore Schneiderman.

Bigliettopoli, così lucrano i bagarini 2.0. Il secondary ticketing è ormai una pratica diffusa e (solo in teoria) legale. Con software che riescono ad acquistare in pochi secondi migliaia di biglietti dai siti di vendita. In questo modo il mercato viene drogato e i prezzi vanno alle stelle. Un esempio? Il concerto di Springsteen può costare anche 1500 euro, scrive Luciana Grasso il 22 febbraio 2016 su “L’Espresso”. Volete vedere il concerto di Bruce Springsteen ma i biglietti son finiti prima che poteste anche solo pensare di fare click? Oppure, volevate andare lo scorso ottobre a Torino, a sentire Madonna, ma i 180 secondi di apertura della prevendita non vi sono bastati per conquistarvi un biglietto? Niente paura. I biglietti ci sono ancora (e c’erano anche per Madonna). Basta sapere dove cercarli, e avere i soldi per pagarli. Non si tratta di cifre da poco: un biglietto per Springsteen a Milano, a pochi giorni dall’apertura ufficiale della prevendita (tra l’altro del tutto contestuale alla sua chiusura, visto che la disponibilità è durata solo pochi minuti) possono costare anche 1500 euro (primo anello San Siro), oppure, se non andate troppo per il sottile e vi accontentate, come i loggionisti, del terzo anello, potete cavarvela con circa 150 euro. Stessa solfa a Roma, anche se con prezzi più bassi. Cifre che equivalgono a multipli del prezzo di partenza: il prato a San Siro costava, in origine, 80 euro; il terzo anello 40,00, ma che ormai non fanno più rumore, perché fanno parte di una pratica diffusa (e, almeno in teoria legale) che si chiama secondary ticketing, evoluzione virtuale del vecchio bagarinaggio. «Nulla vieta, a chi ha un biglietto che non usa di rivenderlo. Allo stesso modo con cui si può vendere una bicicletta o un paio di sci smessi. L’importante è la pratica sia occasionale e non a scopo di lucro e che dunque non costituisca una speculazione ai danni del nuovo acquirente e non sia una fonte di reddito costante. Se così non è si apre anche tutta una faccenda che va oltre e i concerti e i biglietti e interessa piuttosto il fisco». A spiegarlo è Tommaso Salvetti, startupper torinese della piattaforma Hit Your Tix, l’unica sino ad ora ad aver invertito il sistema di vendita: non è più il venditore che fissa il prezzo ma l’acquirente indicando quanto è disposto a spendere «Così cerchiamo di conciliare le esigenze di chi si ritrova con un biglietto in più e quelle di chi invece è rimasto a bocca asciutta, cercando di fare in modo che entrambi ci guadagnino e nessuno ci perda. Non solo: ma sul nostro sito non si possono effettuare più di dieci vendite l’anno dello stesso ID, indipendentemente dall’account e cerchiamo di tenere alla larga i disonesti». Sì, perché il problema non sono i biglietti e il loro prezzo, ma quelli che li fanno sparire in pochi secondi. Il modo più usato per farlo è l’uso dei bot, ossia dei software che riescono a razzolare via in pochi secondi migliaia di biglietti dai siti di vendita. In questo modo il mercato viene drogato e i prezzi prendono a salire. Contro i bot, e, inevitabilmente contro il secondary ticketing, da tempo, musicisti e canali di vendita ufficiali di vendita stanno cercando darsi da fare come possono. Nel 2013 TicketMaster (un colosso simile alla nostrana TicketOne) citò in giudizio 21 persone accusandole di aver usato bot per comprare più di 200mila biglietti al giorno. Ligabue, a suo tempo, escogitò il sistema di ‘liberare’ a 48 ore dalla data del concerto, ulteriori ingressi. Un sistema provato proprio dagli organizzatori del Mondovisione Tour di Ligabue, Riservarossa e F&P Group, che da sempre sono schierati contro il secondari ticketing e hanno invitato più volte il pubblico a non comprare biglietti fuori dai circuiti di vendita autorizzati, “anche per evitare l’elevato rischio di incorrere in biglietti falsi e non validi”. Nel gennaio 2015 ottanta tra musicisti e personalità di spicco della musica inglese, come Nick Mason dei Pink Floyd, Ed O'Brien dei Radiohead e Sandie Shaw chiesero al parlamento britannico di approvare una legge per eliminare il mercato secondario. «I primi a voler arginare le speculazioni siamo noi, non consentiamo più di comprare più di 4 biglietti alla volta e non consentiamo di fare più di 4 collegamenti da uno stesso account - spiega Andrea Grancini, vicedirettore generale di TicketOne -. Nell caso di Springsteen addirittura abbiamo imposto il limite di una sola transizione ad account. I numeri però sono stati comunque enormi: il nostro sito ha avuto 372 mila visitatori tra le 10 e 30 e le 11; abbiamo aperto le vendite alle 11 e alle 11 e 32 avevamo venduto 23 mila biglietti, 8 mila dei quali nei primi 5 minuti. Numeri notevolissimi nella transazione dei quali, va detto, non abbiamo riscontrato anomalie o ingressi fraudolenti, che avremmo fermato immediatamente. A quel che ci risulta gli acquirenti sono esseri umani”.  Umani che, poi, hanno cambiato idea, e ora rivendono il biglietto a 1500 euro. Buona visione.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto. 
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi. 

IL PALLONE PERDUTO IN UN MONDO DI LADRI.

La gola profonda del calcio: “Vi svelo le partite truccate”. Dal Portogallo alla Romania, il bookmaker anticipa i finali: «Basta monitorare i flussi delle scommesse». E in Italia c’è chi non accetta più puntate sulle partite di Lega Pro. Il copione delle scommesse su risultati anomali si ripete ogni weekend e il fenomeno riguarda i campionati di mezza Europa, scrivono Alberto Abburrà e Gabriele Martini il 4/05/2016 su “La Stampa”. Il primo messaggio arriva via WhatsApp alle 19,35 di giovedì scorso: «Massima divisione del campionato di calcio maltese, Mosta-Pembroke finirà con almeno 4 gol totali». La partita è iniziata da pochi minuti e il risultato è fermo sullo 0-0. L’equilibrio però non dura: la squadra di casa si porta in vantaggio. Secondo sms: «Il Pembroke segnerà cinque gol». La profezia sembra davvero azzardata, in quel momento il parziale è 2-0. Poi succede l’inimmaginabile: in 12 minuti gli ospiti ribaltano il risultato, all’intervallo il tabellino recita 2-3. Finirà 3-5. Per la gioia dei tifosi della squadra vittoriosa. Ma - soprattutto - per quella dei tanti (troppi) scommettitori che hanno indovinato l’esito della sfida. L’uomo con la sfera di cristallo si chiama Francesco Baranca ed è il segretario generale di FederBet, organizzazione che riunisce una serie di bookmaker internazionali. La sua missione è andare a caccia di partite truccate. Quando ancora lavorava per Sky Sport 365, era stato tra i primi a denunciare il fenomeno del «matchfixing» in Italia a cui seguì l’inchiesta della procura di Cremona. Qui le doti divinatorie non c’entrano. Baranca non è un indovino: monitora in tempo reale i flussi di scommesse. E, a volte, i conti non tornano. «Ogni fine settimana si giocano partite truccate e i campionati italiani non sono un’oasi felice. Per combinare un risultato basta che siano d’accordo anche solo tre o quattro calciatori». Senza scordare il ruolo di dirigenti e affini: il direttore tecnico del sopraccitato Mosta è Adrian Farrugia, fratello di Robert, considerato dalla Procura di Catanzaro uno dei grandi finanziatori di combine delle partite di Lega Pro.  Ma un risultato strambo non basta. Ecco così che l’oracolo del pallone torna a farsi vivo alle 11 di sabato: «Play off di serie B in Romania, il Mioveni batterà il Brasov segnando almeno 3 reti». Eppure il primo tempo fila via senza acuti, quando mancano pochi secondi all’intervallo il risultato è fermo sullo 0-0. Da segnalare solo qualche errore di troppo sottoporta. Intanto la quota dell’over (minimo 3 gol) sale. Poi accade qualcosa di strano: l’attaccante dei padroni di casa entra in area di rigore, tenta un dribbling, ma si allunga troppo la palla; l’azione sembra sfumare, finché un difensore interviene in scivolata e lo atterra. L’arbitro fischia: è calcio di rigore. Il Mioveni si scatena e segna tre reti in sei minuti. Su una respinta maldestra del portiere arriva il primo gol degli ospiti. Finisce 4-2. È un copione che si ripete ogni weekend: flussi di puntate anomali su risultati rocamboleschi e scommettitori che puntualmente ci prendono. Il fenomeno riguarda i campionati di mezza Europa, quasi sempre si tratta di serie minori. È la prova che le partite sono truccate? No. Ma il sospetto è per lo meno legittimo. Sabato 30 aprile, ore 17. Il Penafiel sfida l’Oriental per il campionato di serie B portoghese. «Over con segno 1», prevede Baranca. Agli scommettitori che hanno puntato su quel pronostico basta attendere il quinto minuto del secondo tempo: è 2-1. Poi arriva un’altra soffiata via sms: «Fra poco fanno il terzo». Passano quattro minuti e la profezia si avvera: il Penafiel cala il tris. Baranca «indovina» anche una partita della serie A romena (Viitorul Constanta-Targu Mures: 6-1) e una della serie B russa (Baltika-Arsenal Tula: 1-4). Il giro d’affari delle scommesse mondiali sul calcio è stimato in mille miliardi di euro all’anno: grossomodo 2/3 del nostro Pil. Solo la Serie A raccoglie 20 miliardi, calcola Sportradar. In Italia vigilare contro il calcio truccato spetta a Monopoli e polizia. Nell’ultima stagione le partite sospette segnalate alle Procure si contano sulle dita di una mano (al Messina il poco lusinghiero primato). Quindi tutto regolare? Non è così semplice. Infatti sempre più spesso i bookmakers, di fronte a flussi di scommesse anomali, decidono di non accettare puntate. «I calciatori che vendono le partite ci sono anche in Italia, eccome», racconta un dirigente di una società di scommesse, che chiede l’anonimato. «Ogni domenica rischiamo di perdere una montagna di soldi, ma ci siamo fatti furbi». In queste ultime giornate, infatti, la maggior parte delle partite di Lega Pro non viene quotata dalle agenzie. Eurobet, uno dei pochi operatori che accetta ancora scommesse sulla terza serie italiana, per l’ultima giornata ha lasciato aperte le puntate per otto partite su 27. Le quote sono blindate (tra 2 e 3,5) e dagli elenchi restano esclusi tutti i match del girone C, quello del Sud, considerato il più a rischio combine. 

Scandalo nel mondo del calcio: truccate 1272 gare tra i dilettanti in Campania. Deferito Pastore. L'ex presidente del Comitato regionale, Vincenzo Pastore, è stato in carica dal 2012 al 2015, scrive Pasquale Tina il 24 luglio 2017 su “La Repubblica”. Scandalo nel calcio minore della Campania. E’ stato deferito l’ex presidente del comitato, Vincenzo Pastore. Tra le imputazioni c’è la violazione dell’articolo 7 del Codice di Giustizia Sportiva, ovvero l’illecito sportivo. “Nella qualità di presidente del comitato regionale campano (dal 2012 al 2015, ndr) – si legge nel dispositivo -  poneva in essere, soprattutto nella stagione sportiva 2014/2015, condotte rivolte ad alterare il risultato di singole gare e l’esito dei relativi campionati, nella piena consapevolezza del proprio operato”. Secondo la Procura, Pastore "aveva previsto un sistema incentrato sulla costante e deliberata violazione della regolamentazione sportiva del Coni, nonché delle norme federali, legittimando l'utilizzazione, nei vari campionati, di un numero elevatissimo di calciatori risultati privi di tesseramento e di certificazione di idoneità sanitaria".  In base al deferimento, sono state 1272 le gare irregolari, con 357 società coinvolte e 828 calciatori raggiunti da sanzioni. “Pastore – si legge nel deferimento – avrebbe favorito l’estensione del fenomeno procurando un ingente danno per l’immagine dell’organizzazione federale”. Il Comitato regionale campano è commissariato dall’aprile 2016: al vertice c’è Cosimo Sibilia, vice-presidente della Figc, che dovrebbe lasciare l’incarico a fine 2017 e poi ci saranno nuove elezioni.

Tratta di baby-calciatori dall'Africa e partite truccate: 4 arresti in Italia. Arrestati due presidenti e un agente che avevano messo su un giro di baby-calciatori dalla Costa d'Avorio. Toccate di striscio anche Inter e Fiorentina, scrive Gianni Carotenuto, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Nuovo scandalo nel mondo del calcio. La Polizia di Stato di Prato sta eseguendo quattro misure cautelari e numerose perquisizioni per immigrazione clandestina, falso documentale e favoreggiamento reale a carico di persone legate al mondo del calcio. A carico di molti di loro sono anche emersi profili di responsabilità per frode sportiva, consistita nell'aver alterato alcuni risultati calcistici. Gli indagati, in violazione delle disposizioni del Testo Unico concernente la disciplina dell'immigrazione, hanno compiuto atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso nel territorio dello Stato di cittadini di origine africana, in particolare ivoriani minorenni, producendo presso l'Ambasciata Italiane di Abidjan, e poi presso l'Ufficio Immigrazione della Questura di Prato, documentazione attestante falsi stati. In particolare condizioni personali, quali quella di maternità biologica e filiazione naturale rispetto ai minori, atti funzionali a richiedere ed ottenere il rilascio dei visti di ingresso per motivi di ricongiungimento familiare, con successivo ottenimento dei permessi di soggiorno per motivi familiari. Le indagini della Polizia di Stato di Prato hanno permesso di accertare che la finalità dell'ingresso illegale dei cittadini di origine africana, è stata quella di far giocare i ragazzi in squadre di calcio italiane e europee in violazione anche delle norme FIFA che ne consentono il tesseramento. Tra le società coinvolte spiccano due club di Serie A, Inter e Fiorentina, a cui Prato e Sestese hanno venduto due giovanissimi giocatori ivoriani implicati nella tratta. Tuttavia, agli inquirenti risulta che nè i nerazzurri nè i viola fossero a conoscenza degli illeciti commessi dalle società di provenienza nel regolarizzare la posizione dei due ragazzi. Nel corso delle indagini sono emersi anche interessi connessi all'alterazione dei risultati di partite di calcio. La Squadra Mobile, a tal proposito, ha raccolto riscontri in merito all'alterazione di undici partite tra Lega Pro, Eccellenza e Promozione toscane. Oltre alle misure cautelari, i cui destinatari sono i presidenti delle due squadre di calcio del Prato e della Sestese (Firenze), un procuratore sportivo e una donna di origine ivoriana, sono state eseguite anche dodici perquisizioni a carico di arbitri di calcio, presidenti, segretari e direttori sportivi di altre società di calcio, tra cui la squadra di serie B del Cittadella.

Calcio, partite truccate e tratta di baby giocatori: arresti a Prato, scrive il 20 luglio 2017 Sky tg24. Eseguite 4 misure cautelari e 12 perquisizioni. Altre 11 persone indagate. Alcuni dirigenti avrebbero alterato i risultati e favorito l’ingresso illegale in Italia di minorenni di Paesi africani. Richiesto l'accesso agli atti di Inter, Fiorentina e Cittadella. Alcuni dirigenti calcistici avrebbero alterato i risultati di diverse partite e favorito l'ingresso illegale in Italia di minorenni africani, che in qualche caso sono stati poi ceduti a ignare squadre di serie superiore. La Polizia di Prato ha richiesto l'accesso agli atti societari di Inter, Fiorentina e Cittadella e ha eseguito quattro misure cautelari e 12 perquisizioni per immigrazione clandestina, falso documentale e favoreggiamento reale a carico di persone legate al mondo del calcio e la Procura. A carico di molti di questi sono emersi anche profili di responsabilità per frode sportiva per aver alterato alcuni risultati calcistici. Nell'ambito dell'operazione, Inter, Fiorentina e Cittadella hanno ricevuto una richiesta di accesso agli atti societari dalla procura della Repubblica di Prato. I magistrati indagano sul trasferimento di due giovani di origine africana che sarebbero entrati in Italia con documentazioni fittizie al fine di ottenere, per le società che ne detenevano il cartellino di tesseramento (A.C. Prato e Sestese), profitti sulla vendita dei giocatori. I risultati di undici partite di Lega Pro, Categoria Eccellenza Toscana e Campionato Regionale Toscano di Promozione sarebbero stati alterati, secondo quanto emerso nel corso delle indagini. Le perquisizioni hanno riguardato arbitri, presidenti, segretari e direttori sportivi del Prato calcio (che milita in Lega Pro) e di altre società. L'inchiesta ha portato a quattro misure cautelari: due arresti ai domiciliari, una custodia in carcere e l'interdizione dalla gestione della squadra. I destinatari sono i presidenti delle due squadre di Calcio del Prato e della Sestese, un procuratore sportivo e una donna di origine ivoriana. Nel corso dell'operazione altre undici persone sono state indagate per l'alterazione dei risultati, tra cui molti giovani giocatori di calcio delle serie dilettantistiche. Gli indagati avrebbero procurato illegalmente l'ingresso in Italia di cittadini di origine africana, in particolare ivoriani minorenni, producendo presso l'Ambasciata Italiane di Abidjain e poi presso l'Ufficio Immigrazione della Questura di Prato, documentazione attestante false parentele, quali quella di maternità biologica e filiazione naturale rispetto ai minori, allo scopo di ottenere il rilascio dei visti di ingresso per motivi di ricongiungimento familiare, con successivo ottenimento dei permessi di soggiorno per motivi familiari. Le indagini hanno permesso, fra l'altro, di accertare che la finalità dell'ingresso illegale dei cittadini di origine africana era quella di far giocare i ragazzi in squadre di calcio itali