Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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SPECULOPOLI

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI

SPECULOPOLI. SPECULAZIONI PER TUTTI

 

«Nessuno a chiedersi il perchè si fanno i conti in tasta ai parlamentari e non ai magistrati o ai dirigenti e managers boiardi di Stato. Si vorrebbe forse avere dei precari in Parlamento? Basterebbe pretendere che al giusto guadagno corrispondesse giusto impegno per ben rappresentare l'elettorato. Non c'è mai un rigurgito di dignità. E poi, il giorno dopo, lì a lamentarsi dei politici che loro stessi hanno rivotato. Mai che nessuno, con un sonoro intercalare, si chiedesse: "Ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi?"»

di Antonio Giangrande

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

 

 

INDICE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NELLA BOLLETTA ELETTRICA.

TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NEL…SACCHETTO.

INPS E PENSIONI: VERGOGNA DI STATO.

DALLA PARTE DEI CONSUMATORI E DEGLI OPERAI?

PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.

RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!

L’ITALIA CLEPTOMANE. PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.

L'ULTIMA RAPINA COMUNISTA A DANNO DEGLI ITALIANI.

PARLIAMO DELLE BABY PENSIONI.  

L'ITALIA IPOCRITA DEI GIOCHI D'AZZARDO.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.

NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

QUOTE LATTE E DEFERIMENTO DI STATO.

ANTROPOLOGIA CRIMINALE ED I PREGIUDIZI DELLA SINISTRA.

PERCHE’ L’EVASORE LA FA FRANCA?

SPECULAZIONI: LA LISTA FALCIANI.

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

CORRUZIONE E TANGENTI. LA GERMANIA PEGGIO DI NOI.

AUTOVELOX, LA SUPERTASSA COMUNALE.....COL TRUCCO.

ITALIA DA ROTTAMARE. GIUGNO. LA FARSA DEL PAGAMENTO DELLE TASSE.

ITALIA. AVANTI CON IL FRENO A MANO TIRATO. LUNGAGGINI, TASSE OCCULTE E TROPPE LEGGI.

CHI SONO I LADRI: CHI EVADE O CHI, CORROTTO, PECULA O MALVERSA?

LO STATO PATRIGNO CHE UCCIDE I SUOI FIGLI.

DOLCE E GABBANA E L’INVASIONE DELLA GUARDIA DI FINANZA.

VIZI PUBBLICI: AFFARI DI STATO.

MEDICI ED AVVOCATI GLI AVVOLTOI DELLA SALUTE.

LO STATO DELLA CASTA: COME EVADE LE TASSE E COME TRUFFALDINAMENTE SI FINANZIA.

LO SPRECO DELLA CARTA PARLAMENTARE.

IL PAESE DELLE STAZIONI FANTASMA.

LE TASSE, L’EVASIONE E LO STATO CHE CI PRENDE PER IL CULO.

LETTERA AI FORCONI.

LETTERA AI GRILLINI.

LA RAPINA FISCALE.

EVASIONE COME DIRITTO DI DIFESA.

QUOTE LATTE E TESORETTO NON RISCOSSO.

ITALIA. PAESE DELLE 100 TASSE E DEI DISSERVIZI, RITARDI E SPRECHI SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI.

DANNO DA DISSERVIZIO E DISORGANIZZAZIONE NELL'AMMINISTRAZIONE.

LA SAGRA GASTRONOMICA. LA MADRE DI TUTTE LE ILLEGALITA’.

FAR LA CRESTA SULLE SPESE SANITARIE.

MENZOGNE DI STATO. DOVE VANNO A FINIRE I NOSTRI SOLDI?

RISCOPRIAMO LA CAMBIALE.

LE BANCHE FANNO MENO PRESTITI ED ADOTTANO TASSI PIU' ALTI.

TASSE ALTE, MAGGIORE EVASIONE.

I BIG E L'EVASIONE FISCALE. E GLI ALTRI?

PROVINCE SPECULATIVE.

RINCARI SPECULATIVI: CARBURANTI ED RCA.

BANKITALIA E LE (QUASI) VERITA’ SULLE BANCHE.

IL SALVA BANCHE. PIOVE (LA FREGATURA), GOVERNO LADRO.

MPS, LA BANCA D’ITALIA E LE SPECULAZIONI DELLE BANCHE.

CHI COMANDA IL MONDO? LE BANCHE! DERIVA DI STATO: IL CREDITO CHE SI DISCREDITA…

TARTASSATI. TUTTO QUELLO CHE NON CI DICONO SUI SOLDI PUBBLICI.

 

CAPITOLO 1. MERCATOPOLI:

OSSIA, MERCATO A CONDUZIONE FAMILIARE

 

SOMMARIO

 

PARLIAMO DELL’ITALIA DI M……..UNO STATO DI LADRI INGORDI.

TRIBUTI ITALIA: QUANDO A RUBARE E' LA SOCIETA' DI RISCOSSIONE.

ONERI DI URBANIZZAZIONE NON AGGIORNATI.

E CON EQUITALIA CI SI TROVA DI FRONTE ALL'USURA DI STATO.

QUESTO STATO: DURO CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI.

CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.

DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO.

FISCO E STATO: LA MAFIA NEL SENTIRE COMUNE.

LA MAFIA DI STATO. PARLIAMO DELL’USURA E DELL'ESTORSIONE DI STATO.

ITALIA: RACKET DI STATO.

PARLIAMO DI CASTE. L’OLIGARCHIA DEGLI ALTI BUROCRATI.

LE CASTE. LA MAFIA DEGLI ORDINI PROFESSIONALI: "I VERI INTOCCABILI".

PARLIAMO DI LOBBIES: LA TRUFFA DELLE ASSICURAZIONI.

PARLIAMO DI BANCHE, USURA E FALLIMENTI TRUCCATI.

PARLIAMO DI FONDI STRUTTURALI UE.

 

CAPITOLO 2. FISCOPOLI:

OSSIA, SPREMA O EVADA CHI PUO’.

 

SOMMARIO

 

TASSATI E MAZZIATI!!!! ESTORSIONE DI STATO. PARLIAMO DEL COSTO DEL LAVORO.

ITALIA: RACKET DI STATO.

PARLIAMO DELLA MAFIA DEI CARBURANTI: LA CUPOLA TRA STATO E PETROLIERI.

SCANDALOSO, PERO’, E’ QUELLO CHE NON SI DICE: LE COMPAGNIE PETROLIFERE EVADONO LE ACCISE E L’IVA.

PARLIAMO DEL BALZELLO DEI BALZELLI: L'ABBONAMENTO RAI.

UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.

PARLIAMO DI TRIBUTI E BALZELLI D’ITALIA.

PIENI DI TASSE STUPIDE.

EVASORI O TARTASSATI?!?

NON SOLO ITALIANI. EVADERE LE TASSE: PASSIONE DEI TEDESCHI.

PERCHE' VINCONO GLI EVASORI.

COSI' SI ESPORTANO I CAPITALI.

L'EVASIONE FISCALE VIENE ANCHE DAL PUBBLICO. IL DOPPIO LAVORO DEGLI STATALI.

LE MINI EVASIONI E LE TRUFFE ALL'INPS. L'ESERCITO DEI FINTI DISOCCUPATI.

NON CI RESTA CHE PIANGERE....LA MASSONERIA APPOGGIA MONTI.

TASSE, SPRECHI E PRIVILEGI: IL PERICOLO CHE NON SI POSSANO PIU' PAGARE GLI STIPENDI.....

PARLIAMO DI PRIVILEGI.

SALVIAMO LE BANCHE...

ITALIA E SISTEMA DI POTERE: UN POZZO SENZA FONDO.

ICI (IMU), QUELLI CHE NON PAGANO.

A PROPOSITO DI SPRECHI PARLIAMO DELLA «MACCHINA PUBBLICA».

SCURRICULUM: LE CARRIERE DI AMICI E PARENTI.

LA CASTA DELLE STELLETTE.

LA CASTA DEI COMMESSI PARLAMENTARI.

QUANDO IL MINISTRO DELL'ECONOMIA FU INDAGATO PER EVASIONE.

PARLIAMO DI ESTORSIONE ED USURA LEGALIZZATA: LE CARTELLE ESATTORIALI.

VADEMECUM DEL CONTRIBUENTE.

5x1000: BENEFICI, MA NON PER TUTTI.

PARLIAMO DI GIOCO D’AZZARDO DI STATO.

AFFITTI IN NERO.

PARLIAMO DELL’ITALIA DEI CONDONI.

EVASIONE FISCALE LEGALIZZATA. GLI ITALIANI COSI’ BEFFANO LO STATO E LA FANNO FRANCA. NON SI INCASSA IL 90 % DELL'EVASO.

RIFIUTI: DAI MINISTERI EVASIONE PER 45 MILIONI.

ONLUS CHE TRUFFA.

TASSE NON RISCOSSE.

PARLIAMO DI BALZELLI NON DOVUTI.

TELECOM E LA TRUFFA LEGALIZZATA.

PARLAMENTARI BARBONI O EVASORI ??

PENSIONI DI INVALIDITA' FALSE.

PARLIAMO DI DIRITTI D’AUTORE.

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

  

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NELLA BOLLETTA ELETTRICA.

Energie rinnovabili. Con la sinistra bollette aumentate del 40%. Ricordatevelo prima di votare, scrive il 4 marzo 2018 Enrico Salvatori su "Il Giornale". Quando a Novembre Gentiloni, Calenda e Galletti hanno presentato la nuova Strategia energetica nazionale (Sen), i giornali filogovernativi ne hanno parlato come un progetto straordinario studiato per far risparmiare soldi in bolletta agli italiani incentivando le energie rinnovabili, ma in realtà scopriremo come -per compiacere l’Onu e qualche ambientalista da strapazzo- favorisce al contrario un aumento delle tasse per famiglie e imprese. Nel documento del governo è infatti spiegato chiaramente che uno degli obiettivi è quello di aumentare al 2030 di oltre un terzo la produzione di energia elettrica rinnovabile. “Noi ad oggi”, spiega Rosa Filippini degli Amici della Terra, “per raggiungere l’obiettivo del 33% di produzione elettrica da rinnovabili, abbiamo sussidiato gli impianti di eolico e fotovoltaico per circa 12 miliardi di Euro l’anno (con aumenti fino al 40% in bolletta)”. Quanto ci costerà dunque arrivare al 55% di produzione di energia elettrica al 2030 come indicato dalla SEN? Difficile ora fornire stime specifiche ma “una cosa è certa”, spiega ancora Filippini, “nonostante uno degli obiettivi generali sia quello di ridurre il costo dell’energia, in realtà questa SEN comporterà un aumento del prezzo in bolletta, non una sua riduzione”; “per incentivare, in media, la produzione di appena il 20% dell’energia elettrica consumata in Italia che, a sua volta, costituisce poco più del 20% del totale dei consumi finali di energia”, ci tiene a precisare Monica/ Tommasi, presidente della stessa associazione, di recente espulsa dalla federazione internazionale degli ambientalisti (Friends of Earth), con una accusa dal sapore vagamente “sovietico”, ovvero quella di non essersi allineata alle “direttive comuni”. Siamo di fronte, quindi, a quello che forse è il più consistente programma di sussidi del dopoguerra, nonostante il ministro Calenda, appena tre mesi fa abbia dichiarato che “la scelta (degli incentivi esagerati) fatta (negli anni scorsi) con le rinnovabili elettriche” sia stata “una scelta dissennata”.

Altra scemenza l'”impegno politico alla cessazione della produzione termoelettrica a carbone al 2025″. Nessun paese europeo rinuncia infatti ad una base di produzione elettrica a basso costo e abbondante come quella derivante dal carbone. La stessa Germania, secondo dati Eurostat, mentre si presenta al mondo come paladina degli Accordi ONU di Parigi contro il Cambiamento climatico e possiede oggettivamente il parco rinnovabile più grande d’Europa, non rinuncia a questa risorsa (proprio per mantenere bassi i costi delle bollette). Anzi, continua ad usare la lignite (la forma più inquinante del Carbone fossile) con cui produce il 42% del proprio fabbisogno energetico a fronte di una produzione “verde” del 26%. Stesso discorso per il Regno Unito (non per la Francia, che comunque genera il 77% del suo fabbisogno energetico elettrico dal nucleare e non dalle energie rinnovabili). Dunque l’Italia, nonostante sia il paese con la produzione più alta di energia elettrica da rinnovabile (che si attesta al 39% compreso l’idroelettrico, rispetto al 30% della Germania), decide con questa SEN, di smantellare le nostre centrali a carbone (appena costruite, ecologiche e con un sistema di filtri avanzato), solamente per compiacere le frange più estreme dell’ambientalismo ideologico, a casa nostra e presso le Nazioni Unite (a spese nostre). Ma vedrete che “la tassa occulta sull’energia elettrica diventerà presto palese insieme alle responsabilità di chi l’ha imposta”, commenta Oreste Rutigliano di Italia Nostra. E questa volta non reggerà neanche il ritornello “ce lo chiede l’Europa”. Perché le politiche energetico-climatiche UE per il 2030 non prevedono più obiettivi obbligatori di fonti rinnovabili per i singoli stati membri. Altro aspetto deleterio, la necessità auspicata dalla SEN che le norme di tutela del paesaggio siano addirittura ammorbidite per triplicare gli attuali impianti installati di fotovoltaico e raddoppiare quelli di eolico. “In questo modo”, spiega ancora Monica Tommasi, “raddoppierà anche il sacrificio di ulteriori territori fra i più belli e delicati del nostro Paese per conseguire in pochi anni un incremento di 15 punti percentuali nel solo comparto elettrico e che si tradurrà in appena il 4% di contributo sul fabbisogno energetico complessivo”. “Un suicidio”, chiosa Oreste Rutigliano di Italia Nostra, “a favore di indeterminate lobby e fuori da ogni razionalità”.

Bollette della luce: la “burla” delle tasse nascoste, ecco chi sono i morosi. Non si placano le polemiche sulle bollette non pagate dai morosi e la tassa nascosta relativa agli oneri di sistema, scrive Chiara Lanari il 23 Febbraio 2018 su "Investire oggi". Ormai è cosa nota. Le bollette della luce non pagate dai morosi ricadranno sui cittadini che puntuali hanno sempre provveduto a saldare la fattura, 37 milioni di consumatori pagheranno cifre aggiuntive, un sistema che ricorda molto quello sulle accise della benzina. Quello che forse è difficile da accettare è che nelle bollette dell’energia vengono spalmate voci, oneri di sistema, che poco o nulla hanno a che fare con l’energia e invece di essere a carico della fiscalità ricadono sul cliente. Un esempio è stato riportato da Il Sole 24 ore secondo cui su una bolletta non residente da 183 euro, solo 42 euro si riferiscono agli oneri di sistema mentre per una bolletta residenti di 662 euro, 166 sono riferiti agli oneri.

Cosa paghiamo nella bolletta della luce? Gli oneri di sistema vengono stabiliti dall’Arera e tra questi una voce importante è riferita agli incentivi alle rinnovabili, componente A3. C’è poi l’onere A2 ossia lo smantellamento delle centrali nucleari dismesse, in parte destinato al bilancio dello Stato, l’A5 è invece riferito alla ricerca svolta nell’interesse del sistema elettrico nazionale, l’Ae per agevolazioni alle imprese manifatturiere con elevati consumi, la voce UC4 si riferisce ai costi di piccole aziende elettriche che operano sulle isole minori. Altri voci sono legate allo smaltimento delle scorie nucleari, le agevolazioni per la fornitura di energia elettrica al sistema ferroviario, il bonus elettrico per chi è in una situazione di disagio economico etc. Tutti questi oneri dal 1 gennaio sono stati unificati in oneri generali relativi al sostegno delle energie da fonti rinnovabili e cogenerazione (Asos) e i rimanenti oneri generali (Arim). In ogni caso nelle bollette che paghiamo solo il 19% del totale è riferito proprio a questi oneri, a cui si aggiunge anche il Canone Rai e conseguenti rincari. La notizia di per sè non è una novità ma lo diventa quando viene stabilito che agli oneri di sistema che già non c’entrano quasi o poco nulla con l’energia si aggiungono le cifre non pagate dai morosi.

Ecco chi sono i morosi. Una verità arriva dall’associazione Codici che avrebbe svelato chi sono questi odiati morosi: “dai dati dell’Autorità per l’energia, più nello specifico dal monitoraggio retail sui morosi, appare lampante come in questo Paese a non pagare sono sostanzialmente: la pubblica amministrazione e le imprese e comunque tutti colori che consumano in media tensione (MT) altri usi, quindi non gli utenti domestici, ovvero non i privati cittadini”. A pagare di meno sono le aziende e le Pa e a rimetterci i cittadini secondo Codici che promette di impugnare davanti al Tar il provvedimento. Il conto ammonta infatti a 200 milioni ma potrebbe essere molto di più. Oltre a Codici, a scandalizzarsi ci sono anche Adusbef e Federconsumatori, che conferma le parole di Codici sui morosi: “stando ai dati dell’Autorità per l’energia, le utenze che risultano morose sono in larga parte relative alle piccole e medie imprese. Proprio per questo appare ancora più assurdo ed improponibile far pagare ai cittadini i costi a cui le imprese non riescono a far fronte”.

Bollette della luce non pagate: saremo noi a sborsare per i morosi. Un meccanismo poco chiaro. Bisogna anche sottolineare come è nato questo meccanismo. I grandi distributori di energia avevano anticipato alcuni degli oneri ma il gran numero di morosi aveva messo in ginocchio parecchie società che avrebbero dovuto raccogliere le cifre per riconsegnarle ai big che avevano anticipato le suddette quote. Una volta fallite le società non hanno più potuto pagare e ora il buco lasciato dovrà essere colmato dai consumatori. Ora l’Autorità sta ancora calcolando a quanto dovrà ammontare l’aumento ma sembra trincerarsi dietro un: “non pensiamo che l’impatto sulle bollette sarà così allarmante”. In ogni caso a pagarle sarà chi, in fondo, non ha colpe.

Perché la “rivolta” di chi non vuole pagare 35 euro di aumento della bolletta elettrica è inutile. Molti cittadini indignati propongono di non pagare l'aumento da "35 euro" della bolletta elettrica perché "non è giusto pagare per chi non paga". Ovviamente non è possibile farlo. Ma il problema è un altro: come mai nessuno propone azioni simili nei confronti degli evasori fiscali, che costano senza dubbio di più al singolo cittadino? Scrive Giovanni Drogo giovedì 22 febbraio 2018 su "Next". L’Internet italiano è in fibrillazione per colpa di 35 euro. Questa volta non sono i famosi 35 euro che lo Stato spende per mantenere i migranti in alberghi a cinque stelle con WiFi gratuita, piscina riscaldata e tavoli da black jack. Si tratta invece dell’aumento della bolletta dell’energia elettrica. Un rincaro dovuto non tanto ai costi dell’energia ma ai mancati pagamenti da parte degli utenti morosi. Tutto è nato in seguito alla pubblicazione di un articolo del Sole 24 Ore che dava conto di una delibera dell’Autorità dell’energia (ARERA) che prevede di “spalmare” sugli utenti il costo delle bollette non pagate.

Cosa sono gli oneri generali elettrici? Il tutto è la conseguenza di una serie di ricorsi e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che hanno avuto come conseguenza la decisione di redistribuire fra tutti i consumatori una parte degli “oneri generali” (come spiegato qui da ARERA) elettrici pari a circa 200 milioni di euro arretrati non pagati dai titolari delle utenze “morose”. Gli oneri generali non corrispondono alla fornitura di energia elettrica ovvero a quanto effettivamente consumato dall’utente che non paga. Nelle bollette dell’energia elettrica, oltre ai servizi di vendita (materia prima, commercializzazione e vendita), ai servizi di rete (trasporto, distribuzione, gestione del contatore) e alle imposte, si pagano alcune componenti per la copertura di costi per attività di interesse generale per il sistema elettrico nazionale: si tratta dei cosiddetti oneri generali di sistema, introdotti nel tempo da specifici provvedimenti normativi. Tra questi ci sono quelli per il decommissioning nucleare, gli incentivi alle fonti rinnovabili, le agevolazioni alle industrie ad alto consumo di energia, quelli per la promozione dell’efficienza energetica oppure le compensazioni territoriali per quegli enti locali che ospitano impianti nucleari. In buona sostanza gli oneri generali sono all’incirca il corrispettivo delle accise sui carburanti. Soldi che ogni utente paga ma che vengono “girati” poi allo Stato I fornitori dell’energia elettrica che non riescono a farsi pagare le bollette hanno già versato gli oneri e quindi ora si trovano nella spiacevole (per loro) situazione di dover coprire questa perdita che però non ammonta al totale degli insoluti la cui cifra secondo alcune stime è superiore al miliardo di euro.

L’aumento delle bollette elettriche e il solito annoso problema di chi non paga le tasse. A nessuno naturalmente fa piacere pagare per gli altri soprattutto quando il conto viene presentato direttamente in bolletta. Se non fosse per quello, ovvero per il fatto che ogni utente vedrà di persona quanto pesa la morosità, probabilmente nessuno si sarebbe lamentato troppo. Non si sono mai viste sollevazioni popolari (a mezzo Facebook) contro aumenti delle tasse dovuti ad esempio all’evasione fiscale. Eppure per consentire il funzionamento dei servizi pubblici (dei quali usufruiscono quotidianamente anche gli evasori) chi paga le tasse lo fa anche per coloro che non pagano. Una parte dell’aumento della tassazione è necessario per coprire il minor gettito dovuto all’evasione. Succede a tutti i livelli, di recente a Roma è emersa l’esistenza di dodicimila “scrocconi” che non pagano la tassa sui rifiuti. Servizio di cui usufruivano lo stesso di fatto danneggiando i loro concittadini che erano costretti a pagare di più. Il paradosso è che da molte persone l’evasione fiscale viene vista addirittura come una cosa giusta. Non serve ricordare qui chi era quel politico che qualche anno fa diceva che era “moralmente giustificato” evadere le tasse. La differenza naturalmente è che in seguito alla privatizzazione del settore elettrico i gestori sono società private e quindi il “sopruso” è più sentito. Ma il punto è che già ora paghiamo i costi dell’evasione, sia delle tasse che delle tariffe. Non è giusto, ma indignarsi perché gli “oneri generali” (ovvero la componente parafiscale delle bollette) viene fatta pagare a chi è in regola non fa altro che mettere in luce un problema generale. Senza contare ovviamente che se le aziende saranno costrette a chiudere probabilmente alcune persone perderanno il lavoro. E di nuovo lo Stato (ovvero i cittadini) dovrà aprire il portafoglio per pagare eventuali ammortizzatori sociali.

La bufala del messaggio WhatsApp che invita a non pagare i 35 euro. Insomma è un serpente che si morde la coda, ma essendo i cittadini la parte più debole (ma al tempo stesso i colpevoli, visto che a non pagare sono altri cittadini) il pagamento è particolarmente odioso. Ecco che quindi i soliti rivoluzionari da tastiera propongono fantasiosi metodi per non pagare, ad esempio scorporando autonomamente i “35 euro” dall’importo della propria bolletta. Il problema è che l’entità dei rincari non è ancora stata definita e quella dei 35 euro, cifra quanto mai evocativa in Italia, non corrisponde alla reale entità dell’aumento. ENEL ha fatto sapere infatti che “il relativo impatto sulle bollette dei consumatori finali non è ancora stato quantificato da ARERA, ma in ogni caso l’Autorità ha precisato che sarà molto contenuto (all’incirca il 2% degli oneri di sistema, e non certo 35 euro)”. Così come il messaggio-catena che circola su WhatsApp e invita tutti a pagare “solo quanto mi spetta” (semmai il dovuto) non ha alcun senso e non funzionerà nemmeno se lo faranno tutti i consumatori.  Non solo perché i gestori si rifaranno su ciascuno degli utenti ma anche perché, e questo è l’aspetto interessante, quegli oneri servono per finanziare altre voci di spesa delle quali usufruiscono i cittadini. Alcune – come quelle per il decomissioning delle centrali nucleari sono la diretta conseguenza delle decisioni dei cittadini stessi (il referendum sul nucleare) altre invece finiscono nel calderone degli incentivi per le rinnovabili (ovvero anche gli sgravi fiscali).

Via dal vento, se ancora si può. Via da questo pazzo vento di incentivi scandalosi per quantità e durata, via da questa corsa forsennata all’ultima pala che qualcosa frutterà anche se per ora non gira, via da questi “sviluppatori” - nuova sofisticata figura di mezzani - che stravolgono e offendono la quieta esistenza dei piccoli comuni giocando a nascondino con le royalties, via da questi sprechi, da queste mafie in agguato, da queste bollette ogni giorno più care perché il Balletto dell’Eolico ha i suoi costi. E che costi, per produrre poco o nulla. Sono installati in questo momento in tutta la Penisola 4.236 “aerogeneratori”.

Le pale eoliche - il 98 per cento al Sud, e questo la dice lunga - producono 4.849 megawatt, tanto da porre l’Italia al terzo posto in Europa, ben distanziata da Germania (25.800) e Spagna (19.100) e inseguita da vicino da Francia (4.500) e Gran Bretagna (4.000). Bene, l’installazione e la manutenzione di una pala media in Danimarca - lo Stato che ha investito più sull’eolico - in 15 anni di vita costa un milione, mentre da noi, in Sicilia, viene il quadruplo. E sono pale che girano davvero poco: 1.880 ore sempre in Danimarca, 2.000 in Svizzera, 2.046 in Spagna. 2.066 in Olanda, 2.083 in Grecia, 2.233 in Portogallo e da noi soltanto 1.466 ore l’anno. Ma perché? «Una terra di vento e di sole -titolò il Financial Times la sua inchiesta sull’energia eolica in Italia - ma senza regole adeguate». Nessuno se ne accorse, o forse fecero tutti finta di non accorgersene.

Ma non s’è levato un moto di reazione neppure il 18 settembre 2010 quando il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, parlando da Cortina, ebbe a dire: «Il business dell’eolico è uno degli affari di corruzione più grande e la quota di maggioranza francamente non appartiene a noi». Silenzio. E invece lo sconcio è sotto gli occhi di tutti. Uno sconcio che provocherà guasti anche sociali, non solo economici, stravolgerà l’esistenza di borghi preziosi e di colture rare, produrrà un punto di non ritorno per questa nostra Italia con cui bisognerà fare i conti. Per comodità di ragionamento, lasciamo per un attimo da parte il primo dilemma, piace, non piace. Facciamo finta che questi giganti abbelliscano davvero l’Appennino Dauno e la piana di Mazara, le più belle zone archeologiche della Puglia e le gole più nascoste delle Marche. E passiamo ai dilemmi successivi: chi ci guadagna, come ci guadagna, se questi benefici arrivano in tutto o in parte al Paese Italia. Le prime cifre sono sconvolgenti, purtroppo. Ci sono domande di connessione alla rete in Italia (2010) pari a 88.171 megawatt. L’Anev, l’Agenzia che raggruppa le aziende del settore dell’Energia del vento stima che entro il 2020 la produzione potrà raggiunge al massimo 16mila megawatt. Che senso ha quindi, se non quello di puntare a una spaventosa speculazione, presentare domande per una quantità di energia cinque volte superiore? Il mercato dell’eolico è anche e soprattutto un mercato di carta, il mercato dei famigerati “certificati verdi”, che possono essere comprati dalle grandi aziende al piccolo produttore se queste grandi aziende non hanno prodotto, di loro, la percentuale di energia rinnovabile prevista dalla legge. Che poi queste aziende continuino con le vecchie produzioni inquinanti, questo sembra non interessare davvero a nessuno. Di fatto, con i certificati verdi si fanno grandi cose. Lo dice l’Authority per l’energia, rivelando che nel solo 2008 il Governo ha sborsato 1.230 milioni in certificati verdi, pagati grazie all’addizionale sulle nostre bollette, e che la metà di questa somma è stata tirata fuori per rimborsare un «eccesso dell’offerta». Ecco cosa vuol dire: che si produce più energia di quella che si vuole immettere o si riesce a immettere e che questo surplus viene comunque pagato. E ovviamente le nostre bollette restano le più care d’Europa. Ci sono studi recenti anche sui posti di lavoro, ventottomila nell’eolico nel solo 2008. Considerando che i sussidi erogati sono stati pari a 2,3 miliardi di euro, ogni posto di lavoro creato è costato 55mila. Un altro calcolo: comprendendo tutte le energie rinnovabili, quindi anche il fotovoltaico, si calcola che un nuovo posto di lavoro venga a costare almeno sette volte di più rispetto all’industria. C’e da rimanerci seppelliti sotto questa valanga di cifre. Se non ci fosse da rimettere insieme, ancora, alcune tessere del mosaico. A cominciare dagli incentivi sulla produzione di energia, garantiti per quindici lunghi anni come le pale e i più alti d’Europa come le bollette. Partiamo dal fatto che un kwatt di energia al povero cittadino costa oggi 6,5 centesimi. Ebbene, chi produce eolico ne intasca intorno al doppio (dipende dai valori un poco oscillanti della Borsa elettrica) e chi invece si butta sul fotovoltaico, che poi è la vera nuova inesplorata (può arrivare a cinque sei volte il valore iniziale, intorno ai 39-40 centesimi di euro).

Ma perché il Far West dell’eolico conosca uno stop, ci vogliono almeno i piani regionali. Per ora, chi si alza per primo mette la pala. Per sfuggire persino alla Valutazione di Impatto Ambientale, tedeschi, spagnoli e americani hanno già scoperto il trucco: spaccano un progetto di parco eolico in quattro-cinque spezzoni, scendono sotto la soglia prevista, e così se la cavano con una semplice, unilaterale Dichiarazione di impatto ambientale al comune che li ospita. Non c’è piano regolatore da rispettare, c’è solo da avvicinare il famoso “sviluppatore” in loco, che ha già scelto l’area, ha già valutato i vincoli paesaggistici e soprattutto ha già contattato gli amministratori locali. E comincia così il valzer del terreni scelti, quello sì, questo no, per distese infinite come solo il nostro Appennino regala. Ma la gente si ribella. Contro i parchi eolici spuntano comitati a ogni piazza, a ogni tavolino di bar, a Nardò, a Mazara, a Cosenza, a Crotone, a Otranto. E con i comitati spuntano le inchieste delle magistratura. A parte quella famosa aperta in Sardegna - quella di Flavio Carboni, per intenderci - è tutto un fiorire di nuovi fascicoli: ancora a Crotone, a Sant’Agata di Puglia, in Molise, a Trapani, dove allo “sviluppatore” Vito Nicastri, re del vento di Sicilia e Calabria e ritenuto longa manus del boss Matteo Messina Denaro, hanno sequestrato un patrimonio di 1.5 miliardi. E’ un mare di sporco che avanza, non se ne vede la fine. ''L'eolico nelle regioni meridionali è stato favorito e sostenuto dalla mafia. Questo è un dato inconfutabile; tacere è una forma di complicità''. Lo ha detto Vittorio Sgarbi.

Se ai pastorelli della collina di Giuggianello - come racconta Ovidio - capitò di essere trasformati in alberi solo per aver avuto l’ardire di danzare con le Ninfe, cosa potrà mai capitare agli amministratori della Regione Puglia se un giorno gli Dei decidessero di tornare qui: di trasformarsi tutti in pale eoliche da 80 metri l’una, alte quanto un palazzo di 25 piani? O quale altro sortilegio sarà loro riservato come punizione, per aver consentito non in un mese e neppure in un anno, ma in lunghi mesi e lunghi anni, che la loro splendida terra si trasformasse in un Far West, che il sogno del business ad ogni costo - una Corsa all’Oro in piena regola - attirasse qui ogni genìa di cow boy senza scrupoli a devastare, a inquinare, a corrompere? Ecco, la Puglia. Partiti con il sole e con il vento, con il sogno dell’energia pulita, si è finiti dieci anni dopo a fare i conti con un disastro: i conti con le inchieste penali aperte dalla magistratura, i conti con i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, i conti con le pressioni, con le intimidazioni che hanno dovuto subire i contadini proprietari dei terreni, con le giravolte di società partite con diecimila euro e poi pronte a sparire, i conti con una Puglia che non è più la stessa.

Tanto per riepilogare, il meccanismo è questo: arriva lo “sviluppatore”, contatta piccole amministrazioni con le casse vuote e contadini che ormai delle loro terre non vivono più, presenta il progetto delle pale, impacchetta tutto e aspetta la grande azienda. Per rivendersi a milioni di euro quell’autorizzazione e perché cominci un altro affare, questo alla luce del sole, ma altrettanto discutibile: un kw di energia che vale 6,5 centesimi di euro verrà pagato a chi la produrrà con queste pale praticamente il doppio, e per quindici lunghissimi anni. Chi ci rimette, sempre per riepilogare, è il povero cittadino che paga la bolletta: c’è una voce che gli viene addebitata proprio perché partecipi anche lui (ma solo da spettatore pagante) a quest’abbuffata, una voce che in questo 2010 vuol dire, come incentivo su scala nazionale a carico degli utenti, 3 miliardi di euro, 5 miliardi nel 2015 e 7 miliardi nel 2020. Bell’affare.

Ma torniamo alla Puglia, dove davvero è successo di tutto e di più. Dove l’Anev, l’Agenzia delle imprese del settore, dice che fino al 2009 sono state installate 916 pale eoliche per un totale di 1.158 megawatt, Puglia prima in Italia, s’intende. Ma le cifre dell’Anev sono superate da quelle dell’assessorato all’Energia: fra impianti installati e autorizzati c’è già in campo una produzione di 2.300 megawatt, quindi intorno alle 1.800 pale e c’è un piano energetico regionale che consente di arrivare entro il 2016 a 4.000 megawatt. Una follia, la Puglia da sola che pretende (e a questo punto dovrebbe riuscirci) di produrre un quarto dell’energia eolica italiana prevista dall’Anev per il 2016. Come è potuto accadere?

«Ma se vuole – confida l’assessore all’energia - le offro un dato che può consegnare la Puglia alla fantascienza...». E lo offre: ci sono domande giacenti in Puglia per altri 30mila megawatt, per almeno altre 12mila torri eoliche da disseminare sul territorio, «una specie di Foresta del Mato Grosso», chiosa l’assessore. E che succederà? «Succederà che approveremo solo progetti altamente qualificati, quindi pochissimi». Richieste per 30mila megawatt vuol dire che i pescecani dell’eolico pensavano di produrre qui il doppio dell’energia prevista per tutta l’Italia dalle “rinnovabili” entro il 2020. Una stalla che nessuno si è preoccupato di chiudere né quando, nell’estate del 2008 arrestarono il sindaco di Ascoli Satriano, provincia di Foggia, Antonio Rolla, per abusi commessi proprio nella realizzazione di un parco eolico, né quando a febbraio 2009 si mosse la Procura Antimafia di Lecce con un’inchiesta su quel che resta della Sacra Corona, sul clan Bruno, e sul parco eolico di Torre Santa Susanna, provincia di Brindisi, che finì con dieci arresti, e neppure quando un anno dopo tutta la giunta di Sant’Agata di Puglia finì sotto inchiesta per le pale del Sub Appennino Dauno che sul terreno del sindaco valevano il doppio. Tanto meno ha senso chiuderla oggi, questa stalla, oggi che la Procura di Napoli ha messo gli occhi anche sul parco eolico di Castellaneta, provincia di Taranto, uno dei più grandi d’Europa con le sue 276 pale, e che sta frugando tra le carte della Green Engeneering and Consulting, di Napoli appunto, la stessa azienda che si potrebbe ritrovare negli archivi del comune di Vicari, provincia di Palermo, l’intero consiglio sciolto nel 2005 per «infiltrazioni mafiose». Ma non è la sola connection siciliana che si nota qui in Puglia: nelle pagine dell’inchiesta di Raccuja, parco dei Nebrodi, provincia di Messina, che ha portato all’arresto del sindaco, si può ritrovare il nome della Api Holding, la stessa ditta delle pale di Sant’Agata di Puglia. Insomma, un bell’intreccio.

Si diceva dei pastorelli e delle Ninfe perché anche qui c’è un casus belli, un po’ come le rovine di Altilia a Sepino, in Molise. La differenza è che mentre le pale di Sepino sono previste a una decina di chilometri dalle rovine e già danno fastidio, le 14 pale di Giuggianello, invece, dovrebbero sorgere praticamente tra i resti megalitici che raccontano quella leggenda. Quattordici belle pale che qui hanno una loro peculiarità: essendo piazzate sulle Serre Salentine, cioè sui crinali più alti del Tacco d’Italia, a 200 metri di quota, possono essere ben viste dai due mari, sia dall’Adriatico sia dallo Jonio. Come ha potuto la regione Puglia consentire che si arrivasse a tanto? Perché, poi, il Salento è un caso nel caso. E’ qui che c’è stato l’assalto più sfrenato. Pale come se piovesse, a Lecce stessa, a Soleto, a Martignano, a Surbo, a San Pancrazio, a Martano, a Ugento, a San Donato. Solo a Nardò, nelle bellissima Nardò, non sono arrivati. Una specie di rivolta di popolo ha impedito che il parco eolico si realizzasse. Ma per il resto è stata una specie di marcia trionfale dei Guastatori. E poi c’è l’off shore, le pale a mare. Quattordici progetti presentati, uno approvato dalla Regione Puglia, quello di Tricase, in provincia di Lecce, con le torri a una ventina di chilometri dalla costa. Una specie di zattere che comunque infastidiscono parecchio gli ambientalisti: sostengono che interromperebbero la migrazione degli uccelli fra Italia e Albania. Gli altri tredici progetti, perché nel frattempo la normativa è cambiata, sono tutti sul tavolo del ministero a Roma. La Regione, per quanto di sua competenza, si è già dichiarata contraria alle torri alle Isole Tremiti e davanti al Gargano. E la partita non è chiusa. Con i pannelli fotovoltaici stanno succedendo cose turche per queste contrade. E il fotovoltaico rende come incentivi almeno tre volte l’eolico, scatena, quindi, appetiti ancora più sfrenati. E’ la nuova frontiera, perché questo brutto Far West non finisce mai. Tutta ancora da raccontare.

«Italia Nostra auspica una nuova prima vera “mani pulite in Puglia”, che riporti la legalità ed il diritto, dove oggi sembra regnare solo l’interesse di pochi! Dove si devasta il paesaggio, lì c’è la mafia! Non cercatela altrove! - Queste le parole di Marcello Seclì, presidente Italia Nostra, Sud Salento. - I telefoni di Italia Nostra squillano come centralini ospedalieri durante un’epidemia: è gente allarmata che denuncia la desertificazione, la morte del Salento sotto i “lager dei pannelli fotovoltaici” dove prima crescevano fiori e prodotti agricoli. E’ una “metastasi incontrollata” che soffoca le nostre vite uccidendo il nostro paesaggio, un “cancro”, non lo si può definire diversamente, cui la Regione deve porre rapido rimedio, fermando con una moratoria il fotovoltaico in tutte le zone agricole e autorizzandolo solo nelle aree industriali e sui tetti e tettoie di strutture ed edifici recenti! Tutti gli impianti industriali prossimi alle strade del Salento che stiamo vedendo sorgere ormai dappertutto comportano, sotto la luce del sole, un effetto riverbero che acceca gli automobilisti provocando incidenti che possono rivelarsi anche fatali! Nessuno ha mai tenuto conto di questo?! Eppure altri impianti fotovoltaici a terra stanno sorgendo su ettari ed ettari ai margini della provinciale Castrignano dei Greci-Martano, della Corigliano-Galatina, lungo lo scorrimento veloce Maglie-Galatina, qui addirittura senza che siano rispettate nemmeno le fasce di rispetto di almeno 50 m previste per le strade di tipo B, ecc. ecc. Scempi a danno del paesaggio, del suolo agricolo e del nostro ambiente (si consideri solo l’inquinamento da diserbanti utilizzati!), tutti incostituzionali, che amministratori dall’animo corrotto e bugiardi presentano pure come occasione di sviluppo per il territorio, pur nella consapevolezza della nulla tecnologia locale impiegata e della esigua manodopera che sarà occupata a regime; amministratori che si arrampicano sugli specchi per cercare di giustificare le autorizzazioni concesse ai nuovi colonizzatori stranieri dell’energia, che tutto prenderanno, deprederanno, dal territorio, persino i nostri stessi incentivi per le rinnovabili, senza nulla poter dare in cambio. Siamo arrivati veramente alla spudoratezza! Ciò che finora si è fatto e tentato di fare illegittimamente e nel più assoluto riserbo, ora si tenta di continuare a fare cercando di legittimarlo attraverso la pubblica ostentazione, in extremis, nel crollo rovinoso di immagine e delle norme del castello immorale con cui si era permessa questa speculazione, quella delle rinnovabili industriali e della Green Economy, praticamente la più grave speculazione della storia del Sud Italia, come l’ha definita tra le righe lo stesso Ministro Tremonti! Dove sono le forze dell’ordine che dovrebbero intervenire in forze per porre i sigilli di sequestro a queste strutture totalmente industriali realizzate in piene zone agricole e contro la Costituzione Italiana ed ogni buon principio di pianificazione urbana? Infatti, la legge regionale 31/08 è stata dichiarata incostituzionale, già in marzo 2010, dalla Corte Costituzionale, ed è in nome di questa legge che si sono aperti successivamente cantieri per realizzare gli impianti, i più, di potenze inferiori a 1MW, ciascuno di circa tre ettari di verde fertile suolo ricco di biodiversità, che viene desertificato e coperto, sepolto di pannelli, pugnalato da migliaia di pali e martoriato con chilometri di cavidotti, ed il tutto con la presentazione di una semplice Dichiarazione di Inizio Attività (DIA) al solo comune interessato; una procedura che non offre alcuna garanzia per l’ambiente e la pubblica sicurezza e prevenzione sanitaria. Scopriamo poi, che stesse ditte, magari mal celate sotto nomi diversi, tentano di realizzare più impianti nello stesso feudo comunale! Ma questo è assolutamente illegale, non solo per l’incostituzionalità già citata; si tratta, infatti, di frazionamenti realizzati ad hoc, con dislocazione di uno stesso mega impianto di più megawatt in più sotto impianti, anche non necessariamente contermini, ma nello stesso feudo, o in feudi vicini, per poter con lo strumento delle semplici DIA, evitare, con un illecito escamotage, le più complesse strade burocratiche dell’autorizzazione unica regionale, che per legge devono percorrere impianti superiori ad 1MW! A volte il frazionamento mira ad evitare le incerte, nell’esito autorizzativo, procedure di Valutazione di Impatto Ambientale per i grandi impianti! Intervengano allora le forze dell’ordine per riportare l’ordine e la legalità, per controllare come sia possibile tutto ciò, ma anche per verificare come sia stato possibile inaugurare altri nuovi cantieri alla luce della retroattività della sentenza di incostituzionalità! Ci chiediamo, senza volere fare polemica, ma come appello estremo e disperato: dove sono le forze dell’ordine, il NOE, i Carabinieri, la Polizia, la Finanza, la Forestale, la Polizia Provinciale? Non vedono, come tutti noi cittadini invece vediamo quotidianamente, quanto si sta compiendo illegalmente ai danni di noi tutti, del nostro paesaggio, della nostra Costituzione? E’ un esercito stipendiato a difesa del territorio che pare sonnecchiare, o a cui le mani sono state legate da interessi di terzi poteri, che hanno soffocato anche la loro libertà?! C’è sempre tempo per sequestrare piscine e case abusive, ma oggi vi è l’impellenza di fermare sul nascere lo scempio ben più grave e catastrofico delle rinnovabili industriali, da mega eolico e mega fotovoltaico, denunciato dagli stessi direttori generali pugliesi di ARPA (Agenzia per la Prevenzione l’Ambiente) e della Soprintendenza ai Beni Culturali e Paesaggistici! Non avallino i magistrati e le nostre forze dell’ordine, con il silenzio e la non azione, quanto sta avvenendo!»

Quei miliardi al vento. A Report la grande truffa dell'importazione dell'energia verde. Le garanzie fornite dai venditori esteri non danno sicurezza sulla provenienza. È un meccanismo complicato, ma si può riassumere così: comprare un certificato verde costa a un’azienda italiana molto di più che importare dall’estero energia dichiarata pulita, anche se non c’è alcuna vera garanzia che sia davvero tale, come ammette il sottosegretario Stefano Saglia. Conseguenza per il contribuente italiano: lo Stato si è impegnato a comprare tutti i certificati verdi invenduti, per garantire un sostegno al nascente business dell’energia pulita. E questo (come spiega Milena Gabanelli nella puntata di Report in onda in 28 novembre 2010 su Raitre) nel 2009 è costato alle casse pubbliche un miliardo di euro. Che pagano tutti gli italiani in bolletta.

C’è fame di energie rinnovabili in Italia. Nella puntata di Report  Giovanni Buttitta, direttore delle relazioni esterne di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, conta e riconta le richieste per allacciare i nuovi impianti: “Un numero molto alto: 120 mila megawatt”. Il doppio del fabbisogno annuale dell’Italia. Perché spuntano panelli fotovoltaici ovunque e pale eoliche giganti sostituiscono alberi in montagna e coprono la terra rossa in riva al mare? L’inchiesta di Alberto Nerazzini racconta il vero business che si nasconde dietro le richieste ambientaliste dell’Europa: entro il 2020 l’Italia deve abbattere le emissioni di anidride carbonica e consumare il 17 per cento dell’energia da fonti rinnovabili. I cittadini, in gran parte a loro insaputa, contribuiscono a una rivoluzione verde pagando in bolletta 3,2 miliardi di euro l’anno. Nerazzini si occupa anche di Green Power, società di Enel appena sbarcata in Borsa. L’azienda non si affida solo al boom dell’economia verde, ma anche al regime fiscale degli Stati Uniti: oltre 60 società di proprietà di Green Power hanno sede a Wilmington, nel Delaware, Stati Uniti. Come mai? L’amministratore delegato, Francesco Starace, spiega a Report senza imbarazzo: “Perché lì, in America, noi abbiamo una società che si chiama Enel North America, residente nel Delaware, che all’interno degli Usa ha un regime fiscale positivo. È un modo per generare meno tasse”. Commenta Nerazzini: “Tutto legittimo. E sappiamo quanto sia difficile restare competitivi sul mercato internazionale. Ma visto che Enel è ancora una società controllata dal Ministero del Tesoro, che ne possiede più del 30 per cento, uno si domanda quale sia la percentuale di tasse che Enel sta evitando di scaricare sul fisco italiano”.

L’altro punto su cui si concentra Report è il traffico di energia rinnovabile importata dall’estero dai produttori di energia sporca (gas, petrolio) che sono tenuti a ripulirsi, comprando “certificati verdi” da chi produce usando fonti rinnovabili (un complicato sistema per trasferire soldi da chi inquina a chi è più “verde”). Il 31,6 per cento di tutta l’energia elettrica consumata in Italia proviene da fonti rinnovabili, cioè da centrali idroelettriche, biomasse, geotermia, eolico e solare. Questo dato è lo stesso che è comunicato ai consumatori: compare nella tabella del mix energetico che da maggio scorso le aziende fornitrici di elettricità, come l’Enel, devono pubblicare sui loro siti e sulle bollette. Un dato che sembra descrivere un’Italia sulla buona strada nel raggiungimento dell’obiettivo concordato con l’Europa per il 2020. Peccato però che la quantità di energia (32mila gigawatt) importata che il Gse (Gestore Servizi Energetici) considera verde possa essere computato dall’Italia come energia da fonte rinnovabile per il raggiungimento degli obiettivi europei del 2020. “Le garanzie d’origine non sono sufficienti per il conteggio del target italiano”, ammette Gerardo Montanino, direttore operativo di Gse.

La direttiva europea che stabilisce gli obiettivi del 2020 prevede infatti che uno Paese possa conteggiare l’energia verde importata solo se c’è uno specifico accordo con il Paese esportatore. Questi accordi per il momento non ci sono e quindi l’energia verde di cui parla il Gse, ai fini degli obiettivi del 2020, conta zero. E questo per i prossimi anni, visto che secondo il Piano di azione nazionale per le energie rinnovabili, stilato dal ministero dello Sviluppo economico, i primi giga verdi d’importazione saranno computabili come consumati in Italia solo nel 2016: dei 9mila Gwh previsti, 6mila arriveranno dal Montenegro. Sempre che venga realizzato un cavo di interconnessione attraverso l’Adriatico. Insomma per gli obiettivi del 2020 le garanzie d’origine non contano nulla. E ora sembra avere dubbi sulla loro reale utilità anche il sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico Stefano Saglia, che a Report dice: “Importiamo energia ed è quasi tutta con certificato di garanzia da fonte rinnovabile, ma invece non lo è”. Perché, quindi ci si affida tanto all’estero? Come sempre è questione di soldi.

Un'inchiesta di Report rivela come il cippato per le centrali a biomasse spesso proviene dall'estero, con notevoli costi ambientali. Le centrali a biomasse sono utili all'ambiente e all'economia se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie, in un'ottica di filiera corta, per rendere autosufficienti i piccoli paesi. La stessa cosa non si può dire per le centrali di grandi dimensioni, che per essere alimentate devono acquistare biomasse fuori provincia, fuori regione e perfino all'estero. A tracciare un quadro di luci e ombre sulle centrali a biomasse è stata un'inchiesta della trasmissione Report di Milena Gabanelli, che ha riconosciuto la bontà per il territorio e l'ambiente di un modello basato sulla filiera corta e, per quanto riguarda le centrali alimentate a legno cippato, basate sull'utilizzo degli scarti delle segherie locali e del legname recuperato dalla pulizia dei boschi. Il problema evidenziato è la grande diffusione su tutto il territorio nazionale delle centrali a biomassa, dovuta anche agli incentivi statali (certificati verdi, che però a partire dal 2011 non dovranno più pesare sulla finanza pubblica), con il rischio che in una stessa zona (come in Garfagnana) ce ne siano troppe. La conseguenza è che in molti acquistano il legname fuori regione e all'estero, non solo in Europa ma anche da Cile, Nigeria, Indonesia, Brasile, Argentina, alla faccia della filiera corta. Trasportare su distanze così grandi il legname comporta alti costi energetici e ambientali, per non parlare poi dell'aumento dei gas serra causato dal disboscamento del suolo. Ma i costi diventano anche economici: la carenza di legno causa l'aumento dei costi dei pannelli per l'arredamento, calano i consumi e l'industria dei produttori del legno semilavorato rischia di entrare in crisi, insieme a tutta la filiera dell'arredamento. “Le centrali a biomasse sono un'ottima idea – ha riassunto la Gabanelli chiudendo la trasmissione - se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie e utilizzano tutta l’energia prodotta per riscaldare magari piccoli paesi. Il fine dovrebbe essere quello di diventare autosufficienti e non di lucrare. Diversamente si rischia di compromettere un patrimonio, di mettere in crisi un settore dell’economia, a noi costa di più, e alla fine magari si inquina, quanto con il gasolio”.

TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NEL…SACCHETTO.

Buste di plastica: chi le ammette e chi le tassa ma lo stop trionfa. Due modi per impedire l'impiego di uno strumento che ha contribuito a danneggiare l'ecosistema, scriveva già Boris Bivona il 15 febbraio 2011 su "Fiscooggi". La prima al mondo a vietare l'uso dei sacchetti di plastica è stata nel 2000 l'India a Mumbai. Due anni dopo a proibire l'impiego è stato il Bangladesh nella sua capitale, Dhaka. La decisione è stata adottata a seguito delle piogge monsoniche dopo che gli shoppers hanno causato numerosi intralci al sistema di drenaggio. L'intervento ha peraltro favorito la produzione locale di sacchi di iuta. Nel 2003 l'uso dei sacchetti di plastica è stato vietato dal Sud Africa e da Taiwan mentre nel 2005 sono state introdotte normative per limitarne l'uso in Eritrea, Ruanda e Somalia. Nel 2006, la Tanzania e nel 2007 il Kenya e l'Uganda hanno sancito il divieto totale di uso.

L'Italia e il divieto di commercializzazione. Dal 1° gennaio 2011 è entrato in vigore il divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica.  Nel decreto legge n. 225 del 2010 (cosiddetto Milleproroghe) non sono stati previsti ulteriori differimenti dei termini riguardanti la commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l'asporto delle merci che non rispondano ai criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario. Più in particolare, l'Unione europea non ha imposto la messa al bando delle buste di plastica ma ha disposto con norma armonizzata del Comitato europeo di normazione, EN 13432, le caratteristiche che un materiale deve possedere per potersi definire biodegradabile o compostabile.

La decisione impositiva. Ciò detto, occorre rilevare come la decisione di imporre una tassa può rispondere a differenti finalità. Quella principale è di concorrere alle spese pubbliche ma l'imposta può avere anche lo scopo diretto di penalizzare un certo settore economico o quello di colpire una tipologia di consumi. Esempio è dato dall'imposta di fabbricazione che fu introdotta sui sacchetti di plastica dalla legge n. 478/1988 che all'articolo 1 prevedeva l'assoggettamento di 100 lire per ciascun shoppers non biodegradabile (con evidente finalità ambientalista). La tassazione dei sacchetti non biodegradabili è un meccanismo esclusivamente dissuasivo (la minaccia di applicare nuove tasse ha lo scopo, in tal caso, di giungere a una loro progressiva eliminazione). Infatti, le 100 lire sortirono un effetto deterrente, tanto che l'uso dei sacchetti scese di oltre il 30%. La legge n. 427 del 1993, tuttavia, abrogò questa disposizione nonostante alcuni supermercati continuarono (illegittimamente) a far pagare la busta (al prezzo di 5 centesimi circa) traslando sul cliente finale la tassa che non era più dovuta all'erario. A ogni modo, dal gennaio 2011 nei supermercati italiani si possono acquistare sacchetti biodegradabili (il cui sovrapprezzo è pari a circa 20 centesimi) mentre quelli di plastica sono usati fino a esaurimento scorte purché la cessione degli stessi sia effettuata a favore dei consumatori ed esclusivamente a titolo gratuito.

Le altre scelte europee. Oltre al caso italiano occorre ricordare la scelta degli irlandesi. Nell'isola, infatti, dal 2002 è stata avviata una campagna contro i rifiuti selvaggi e contro tutti i tipi di imballaggio disseminati lungo le strade. Per ogni sacchetto di plastica utilizzato negli stores è stata imposta una tassa di 15 centesimi al fine di ridurne l'utilizzo ed evitare di contribuire all'inquinamento delle campagne irlandesi. Il consumo è calato drasticamente del 90%.  L'esperienza irlandese è servita da modello per altri Paesi quali la Scozia, Malta e Gran Bretagna. Nel Regno è stato Modbury il primo comune ha dichiarare fuorilegge i sacchetti di plastica nel 2007. Il consumo è stato dimezzato pure in Spagna mentre in Germania, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera per i sacchetti di plastica si paga già una tassa aggiuntiva "punitiva".

La Francia e la tassa da 10 euro. Se l'Italia ha messo il bando ai sacchetti di plastica non biodegradabili il Senato francese ha fatto slittare dal 2011 al 2014 la loro tassazione. I parlamentari, infatti, hanno votato un emendamento che dispone per i supermercati una tassa di 10 euro per ogni kilo di sacchetti con decorrenza 2014 (mentre i deputati avevano chiesto di anticipare il tutto al 2011).

La tassazione nel resto del mondo. La tassazione come deterrente finalizzato a ovviare il problema dei rifiuti ambientali vige anche negli USA. La Città di Washington DC, nel 2010, ha imposto una tassa pari a 5 centesimi per ogni sacchetto di plastica ceduto al cliente che effettua la spesa nei supermercati. La capitale non è la prima città a disincentivare l'uso delle "plastic bags". La tassa sui sacchetti di plastica è in vigore a San Francisco, dove già nel 2008 è stato vietato il loro utilizzo (nei supermarket e nelle farmacie) e dove è stato imposta la sostituzione con materiali più eco-friendly, come la carta (sebbene si sta sempre più diffondendo la popolarità dei sacchetti di tela riutilizzabili). Anche in questo caso, la ratio della tassa risponde non tanto all'esigenza di introdurre un nuovo onere tributario quanto a quello di incoraggiare gli acquirenti a non essere ulteriormente tassati (nel rispetto dell'ambiente). In oriente, la Cina ha deciso di porre al bando i sacchetti di plastica nel 2009 istituendo un nuovo tributo sui sacchetti ed emesso regolamenti per vietare quelli maggiormente inquinanti. Fonti: ministero dell'Ambiente

Sui social arriva la "resistenza" contro i sacchetti a pagamento. Renzi al contrattacco: "Così aiutiamo la green economy", scrive Massimo Malpica, Giovedì 04/01/2018, su "Il Giornale". Un sacco (bio) di proteste. La prima polemica dell'anno ha lo spessore quasi impalpabile dei sacchetti per l'ortofrutta, quelli parzialmente biodegradabili, che dal primo gennaio sono diventati - come noto - a pagamento. Nei supermercati il prezzo varia tra uno e tre centesimi, ma nonostante Assobioplastiche abbia stimato un costo annuo tra 1,5 e 4,5 euro pro capite, le proteste dei consumatori dilagano. Soprattutto sui social network. A irritare per cominciare è la scelta del governo di «portarsi avanti» nel recepire la direttiva europea in materia (che permetteva di escludere dagli obbiettivi di riduzione plastica proprio i sacchetti ultraleggeri), prevedendo da subito di proibire la distribuzione gratuita delle bustine, oltre che la mancanza di alternative: le buste non possono essere riutilizzate (ma si possono usare come contenitori per l'umido a casa, se sono ancora integre) e non si possono utilizzare sacchetti propri, quindi di fatto si è costretti a spendere quegli eurocent in più ogni volta che si compra e si pesa ortofrutta, pesce o carne. Anche questo dettaglio è diventato «virale» in rete in seguito al suggerimento «risparmioso» di incollare lo scontrino della bilancia direttamente sull'ortaggio pesato. Niente da fare: per semplificare il calcolo, il costo della busta in bioplastica è aggiunto proprio al momento della pesata. Per cui lo stratagemma di prezzare direttamente frutta e verdura non funziona, perché si finisce per pagare il sacchetto anche se non lo si prende. Ma comunque le foto di mele scontrinate una per una (con una conseguente moltiplicazione del costo per i sacchetti) ieri andavano alla grande su Facebook, con migliaia di condivisioni che spacciavano la trovata come «soluzione» per il boicottaggio della nuova legge. L'altra polemica è squisitamente «antirenziana», e riguarda l'azienda leader nella produzione di buste in mater-bi, una plastica biodegradabile realizzata dal mais dalla Novamont, azienda novarese con stabilimento a Terni il cui ad, Catia Bastioli, aveva partecipato alla Leopolda del 2011, sei anni fa, come oratrice, invitata proprio dal rottamatore. Di qui le critiche alla scelta «radicale» del governo guidato da Paolo Gentiloni nell'imporre da subito un prezzo ai sacchetti ultraleggeri. Anche perché, sempre online, non sono mancati i simpatizzanti dem che di bacheca in bacheca difendono la scelta dell'esecutivo e la attribuiscono a un presunto obbligo italiano di allinearsi all'Europa, mentre come detto le cose stanno diversamente, e di fatto l'Italia è il solo Paese nel quale quei sottilissimi involucri tocca pagarli. In Irlanda, invece, viene applicata una tassa sulla produzione degli shopper. «In Italia ci sono circa 150 aziende che fabbricano sacchetti prodotti da materiale naturali e non da petrolio, anziché gridare al complotto dovremmo aiutare a creare nuove aziende nel settore della green economy senza lasciare il futuro nelle mani dei nostri concorrenti internazionali», ha replicato Matteo Renzi nell'ultimo numero delle sue Enews. E non manca nemmeno l'ironia a margine delle polemiche. Come il meme del principino George, icona snob del web, che ammonisce sorridente: «I sacchetti per la spesa ve li compro io. Poracci».

I sacchetti biodegradabili a pagamento solo in Italia. Solo nel nostro Paese buste pagate sullo scontrino. Fino allo scorso anno il costo era stato scaricato sui prodotti, scrive Franco Grilli, Mercoledì 03/01/2018, su "Il Giornale". I sacchetti per frutta e verdura si pagano, per il momento, solo in Italia. Il nostro Paese ha scelto questa strada per adeguarsi ad una direttiva Ue del 2015. Di fatto in Italia a partire dall'1 gennaio si pagano i sacchetti sotto i 15 micron che troviamo in tutti i supermercati per imbustare verdure o frutta da pesare. In questo modo i sacchetti di questo tipo vengono uniformati a quelli da 50 micron, quelli in cui mettiamo materialmente la spesa che acquistiamo e che da tempo si pagano in cassa. Di fatto finora il costo di queste piccole buste veniva scaricato sul prezzo finale per i prodotti. La decisione dell'esecutivo ha sostanzialmente invertito questa prassi. La novità tra gli scaffali dei supermercati di fatto ha scatenato qualche protesta soprattutto sui social dove qualcuno ha deciso di "ribellarsi" pesando ad esempio le arance una ad una senza usare la busta. La direttiva europea comunque riguarda tutti gli stati membri e probabilmente l'Italia ha semplicemente anticipato ciò che potrebbe accadere altrove nei prossimi anni. In Irlanda, come riporta il Corriere, finora si è deciso di predisporre una tassa sui sacchetti. Un altro modo per affrontare il problema posto dalla direttiva Ue. Bruxelles di fatto ha scelto di dare il via ad una stretta contro quei sacchetti di platica biodegradabili che vengono usati da milioni di cittadini in tutta l'Ue. In Francia i sacchettini sono stati messi al bando dal 2017. Niente buste di plastica gratuite in Paesi Bassi, Gran Bretagna, Croazia e Svezia. Dovranno ancora allinearsi alla nuova direttiva (i cui termini sono scaduti nel 2016) Danimarca, Grecia, Finlandia, Austria e Germania.

Veritas vincit: Questa è la patria della tassa sul macinato, scrive Rosanna Manzato mercoledì 3 gennaio 2018 su "Freeanimals". Allora, governo di merda, oggi sono andata al supermercato ed ovviamente, nel reparto frutta e verdura, con dei cartelli, si avvisa la clientela che i sacchetti per frutta e verdura, come da vostro ordine, dal 1° gennaio 2018 sono a pagamento al costo di 1 cent di € cadauno. Ho preso 4 arance sfuse e ad una ad una le ho pesate ed etichettate. Vado alla cassa e dico alla cassiera che ho fatto questo per non pagare il sacchetto. La poveretta mi passa la prima arancia sul lettore dei codici a barre e mi dice esterrefatta: "Signora, la bilancia è già tarata con il prezzo del sacchetto già compreso, perché mi dà il costo del frutto più il prezzo del sacchetto". Io allora rispondo gentilmente: "Ok va bene, le lascio qui le arance". La povera chiama il direttore che, molto gentilmente, mi dice che il prezzo del sacchetto si può stornare dal conto, ma solo per 2 capi e per le altre 2 arance mi verranno restituiti i 2 cent dalla cassiera. Ho ricevuto un tripudio di elogi dai clienti in coda alla cassa, mi sono scusata con i gentilissimi cassiera e direttore che a loro volta erano d'accordo con me... Governo di m…! Credo che questa piccola cosa, avrà un largo seguito: incularci un centesimo vale quanto incularci un lingotto d'oro, tenetelo bene a mente, che tutto vi ritornerà con gli interessi! Ps: in altre catene di supermercati, i sacchetti costano 3 centesimi cadauno...fate voi!

Sacchetti biodegradabili per frutta e verdure a pagamento, scoppia la rivolta sui social. Arance pesate una ad una e altri trucchetti suggeriti dai consumatori per evitare di pagare il costo dei sacchetti biodegradabili, obbligatori e a pagamento dal primo gennaio 2018. La stima è di una spesa dai 4 ai 12,50 euro all'anno, scrive Valentina Santarpia il 2 gennaio 2018 su “Il Corriere della Sera”.  «Non ci sono speculazioni ai danni del consumatore», dice soddisfatto il presidente di Assobioplastiche dopo una prima ricognizione sui prezzi dei sacchetti per frutta e verdura, che dal primo gennaio sono - per legge - biodegradabili e a pagamento. Anche se la cifra per ogni sacchetto oscilla tra 1 e 3 centesimi, non la pensano allo stesso modo i clienti dei supermercati, che, inviperiti dalla novità, hanno iniziato da ieri a postare sui social foto di scontrini e sotterfugi per evitare quello che il Codacons ha già definito un «balzello». «Fatta la legge, trovato l'inganno», scrive una consumatrice, pubblicando la foto delle arance pesate ed etichettate una ad una, per evitare di usare il sacchetto.

Il calcolo della spesa. Secondo l'Osservatorio di Assobioplastiche, il costo annuale dei sacchetti per una famiglia dovrebbe oscillare tra i 4,17 e i 12,51 euro. Come si arriva a questa stima? L'Osservatorio stima che il consumo di sacchi per ortofrutta e per il cosiddetto secondo imballo (quello dei prodotti che prima vengono incartati, come carne, pesce, gastronomia, panetteria) si aggiri complessivamente tra i 9 e i 10 miliardi di unità, per un consumo medio di ogni cittadino di 150 sacchi all'anno. Secondo i dati dell'analisi Gfk-Eurisko presentati nel 2017 le famiglie italiane effettuano in media 139 spese all'anno nella Grande distribuzione. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo compreso tra 4,17 e 12,51 euro (considerando appunto un minimo rilevato di 0,01 e un massimo di 0,03 euro).

Il prezzo di 12 minuti. La legge entrata in vigore dal 1° gennaio del 2018 è l’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017 (il Decreto Legge Mezzogiorno) che stabilisce che «le borse di plastica non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite». Per gli esercizi commerciali che non applicheranno la nuova norma sono previste multe che vanno da 2.500 a 25.000 euro. Ma le sanzioni possono arrivare anche fino a 100.000 euro in caso di «ingenti quantitativi» di buste fuorilegge. E per i consumatori non c'è nessuna via facilitata, come il fai da te: il ministero dell'Ambiente ha già fatto sapere che, per motivi igienici, i sacchetti non potranno essere portati da casa o riutilizzati. Anche se le stime dicono che il tempo medio di utilizzo di un sacchetto è 12 minuti. Una vita breve e costosa.

Sacchetti biodegradabili per la frutta a pagamento, le polemiche sui social tra soluzioni green e lamentele. Rivolta social per i sacchetti a pagamento per l'imballaggio alimentare. Sui costi guerra di cifre tra associazioni dei consumatori e aziende. Su Twitter appelli, battute e ironie, scrive il 3 gennaio 2018 “Il Corriere della Sera”. Il provvedimento sui sacchetti biodegradabili per il primo imballo alimentare a pagamento continua a scatenare furiose polemiche sui social media e non solo. Il botta e risposta sulle spese aggiuntive per le famiglie si è consumato a colpi di note tra associazioni dei consumatori e aziende produttrici: il Codacons ha infatti affermato che i costi aggiuntivi potrebbero raggiungere i 50 euro a famiglia; molto meno (cifre nell'ordine di pochi euro all'anno) per Assobioplastiche, l’associazione di categoria delle aziende produttrici, che sostiene che la spesa supplementare potrebbe essere compresa tra 1,5 euro e 4,5 euro all’anno (per persona, però, non per famiglia).

La furia dei consumatori. Nel frattempo, comunque, la polemica è scoppiata, puntuale e furiosa, sui social media. Anche perché, a quanto pare, i supermercati hanno applicato la tariffa per il «sacchetto bio» o il «sacchetto orto» a scontrino emesso dalla bilancia e non a sacchetto effettivamente consumato. Con il risultato che anche chi compra la frutta e la etichetta a pezzo singolo paga per un sacchetto non utilizzato. 

Buste biodegradabili per frutta e verdura: cosa sono i bioshopper obbligatori dal 2018, scrive Ida Artiaco il 3 gennaio 2018 su "Fan Page". Dall’1 gennaio 2018 diventano obbligatori per legge i sacchetti di plastica biodegradabile per pesare e trasportare alimenti freschi e di macelleria nei supermercati e nelle piccole botteghe. Molte le polemiche dei consumatori, dal momento che queste buste sono a pagamento. La decisione rappresenta, tuttavia, un passo in avanti dell’Italia per combattere l’inquinamento. Si tratta di un materiale compostabile e riciclabile, capace persino di rendere fertile il terreno sul quale viene depositato. Dall'1 gennaio 2018 in tutta Italia è obbligatorio utilizzare sacchetti di plastica biodegradabile e compostabili per pesare e imbustare al supermercato o nelle botteghe sotto casa frutta, verdura, carne, pesce, pane e uova. Lo ha stabilito la legge, o meglio il cosiddetto Decreto Mezzogiorno, secondo il quale i bioshopper devono diventare l'imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, andando a sostituire le buste ultraleggere in plastica con spessore inferiore ai 15 micron, che utilizzavamo solitamente per pesare gli alimenti, nel rispetto dello standard internazionale UNI EN 13432. Una decisione, questa, amica dell'ambiente e a favore della lotta all'inquinamento atmosferico e dei mari, ma che ha fatto infuriare, e non poco, i consumatori che hanno parlato di "tassa sulla spesa", dal momento che questi nuovi sacchetti saranno a pagamento: ogni esercente potrà, infatti, vederli a un prezzo compreso tra 1 e 5 centesimi. Chi di loro non rispetterà la nuova normativa, rischierà multe salate. Ma di cosa si tratta nello specifico?

Cosa sono e come sono fatti i bioshopper. Quando si parla di bioshopper ci si riferisce a dei sacchetti di plastica biodegradabile, compostabile e riciclabile, utilizzati per il trasporto degli alimenti. Questo tipo di materiale, impiegato per la realizzazione dei prodotti più diversi, non solo per le buste della spesa, deriva da materie prime vegetali rinnovabili annualmente. Il tempo di decomposizione è di qualche mese in compostaggio, contro i 1000 anni richiesti dalle materie plastiche sintetiche derivate dal petrolio. Le bioplastiche che si trovano sul mercato sono composte soprattutto da farina o amido di mais, grano o altri cereali. Oltre ad essere biodegradabili, hanno anche il pregio di rendere fertile il terreno sul quale vengono depositate. Dopo l'uso, consentono persino di ricavare concime fertilizzante dai prodotti realizzati, come biopiatti, biobicchieri, bioposate, e di impiegarlo per l'agricoltura, perché, a differenza di quelli in polietilene e polipropilene, si decompone naturalmente sul terreno.

L'inquinamento da plastica: allarme per il suolo e i mari. La plastica è tra i maggiori responsabili dell'inquinamento del suolo ma anche e soprattutto dei nostri mari e degli altri corsi d'acqua, dai laghi ai fiumi (il cosiddetto marine litter). Non solo enormi quantità fluttuano in superficie, ma tantissimi prodotti realizzati con questo materiali restano imprigionati anche in profondità e non sono dunque visibili a occhio nudo. Secondo alcuni esperti, la massa di plastica galleggiante sugli oceani dovrebbe essere tra le 93.300 e le 236 mila tonnellate. Numeri, questi, che aumentano di anno in anno, a causa dell'alta durabilità nel tempo di questo materiale, sempre più utilizzato per dare vita agli oggetti più diversi, tra cui proprio i sacchetti per la spesa. Soltanto in Europa, come riscontrato dagli ultimi dati diffusi dall’EPA, si stima un consumo annuo di 100 miliardi di buste di plastica, di cui una parte finiscono direttamente in mare e sulle coste. Secondo l’International Coastal Cleanup, nel Mediterraneo tra il 2002 e il 2006 le buste di plastica sono risultate essere il quarto rifiuto più abbondante dopo sigarette, mozziconi e bottiglie.

Italia virtuosa e all'avanguardia: le leggi approvate. A dire il vero, tra i paesi dell'Ue l'Italia è tra i più virtuosi per quanto riguarda il tema dell'inquinamento da plastica ed in particolare dei sacchetti per la spesa. Il nostro Parlamento è infatti stato il primo ad approvare nel 2011 la legge contro gli shopper non compostabili. Ad oggi, come riferisce Legambiente, anche se la misura non è del tutto rispettata, c’è stata una riduzione nell’uso di sacchetti del 55%. Se fosse esteso a tutti i Paesi del Mediterraneo e non solo, i risultati in termini sarebbero molto più rilevanti. Un ulteriore passo in avanti è rappresentato, nelle intenzioni dei legislatori, dall'ultima norma riguardante i bioshopper per pesare e imballare frutta, verdura e altri prodotti alimentari e di macelleria, nonostante le polemiche nate sui social perché queste buste sono a pagamento, e obbligatorie, a partire dall'1 gennaio 2018. L’articolo 9-bis della legge n.123/2017, il cosiddetto Decreto Mezzogiorno, prevede che le borse di plastica non possano essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità debba risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati. Mentre il Codacons accoglie i timori dei consumatori, parlando di una "tassa sulla spesa" e di "stangata per le famiglie", Legambiente usa toni più moderati. "L'innovazione – ha detto Stefano Ciafani, direttore generale dell'associazione ambientalista – ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta". Si ricorda però che sulle nuove buste con cui si trasporteranno ad esempio verdura o pane ci sarà incollata l'etichetta con il prezzo termico che non è compostabile e dunque andrà accuratamente tolta. Inoltre, per questioni igieniche non si potrà portare il proprio sacchetto da casa.

Sacchetti bio a pagamento per frutta e verdura, ecco quanto ci costeranno, scrive Cinzia Arena mercoledì 3 gennaio 2018 su "Avvenire". Guerra di cifre su uno dei rincari scattati con il 2018. Legambiente: l'Italia in prima linea nella lotta all'inquinamento da plastica. Ma i consumatori replicano: a pagare saranno le famiglie. Tra i rincari su tariffe e servizi che il 2018 ha portato con sè, dalle bollette di luce e gas al capitolo trasporti ai ticket sanitari, c'è una piccola tassa occulta sull'acquisto di frutta e verdura. L'anno nuovo si è aperto infatti con una novità per chi va a fare la spesa: la messa al bando dei sacchetti di plastica leggeri e ultraleggeri utilizzati per imbustare prodotti ortofrutticoli ma anche carne, pesce e affettati. Al loro posto shopper biodegradabili e compostabili, ma rigorosamente a pagamento (da 1 a 5 centesimi). Una misura che ha prodotto una serie infinita di polemiche sui social (con tanto di foto di arance con le etichette attaccate direttamente alla buccia per evitare il pagamento della bustina bio) e un duro scontro tra gli ambientalisti e le associazioni di consumatori. "L'innovazione ha un prezzo ed è giusto che si paghi purchè il costo sia equo, vale a dire 2-3 centesimi a busta - è la posizione espressa da Legambiente per voce del suo direttore Stefano Ciafani - È fondamentale continuare la strada iniziata nel 2011 dall'Italia nella lotta all'inquinamento da plastica". In Europa, secondo i dati dell'Agenzia perla protezione dell'ambiente, si stima un consumo annuo di 100miliardi di sacchetti, e una parte di questi finiscono in mare e sulle coste. L'Italia è stato il primo Paese europeo ad approvare, nel 2011, la legge contro i sacchetti non compostabili. Ad oggi anche se la misura non è del tutto rispettata, c'è stata una riduzione nell'uso di sacchetti del 55%. E adesso fa un altro passo in avanti.

Guerra di cifre sul costo annuo per le famiglie. Ma quanto costerà la nuova norma agli italiani? Su questo punto è guerra di cifre. Secondo l'Osservatorio di Assobioplastiche la spesa aggiuntiva oscillerà fra 4,17 e 12,51 euro il prezzo che ogni famiglia dovrà aggiungere quest'anno alla spesa alimentare fatta in supermercati e ipermercati. Nella ricognizione compiuta dall'Osservatorio in una dozzina di grandi magazzini alimentari, il costo di ogni singolo sacchetto è risultato compreso fra 1 e 3 centesimi. Assobioplastiche ricorda che il consumo di buste si aggira tra i 9 e i 10 miliardi di unità, per un consumo medio di ogni cittadino di 150 sacchi all'anno. Secondo i dati dell'analisi Gfk-Eurisko presentati nel 2017, le famiglie italiane fanno in media 139 spese all'anno nella grande distribuzione. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo complessivo compreso tra 4,17 e 12,51 euro (considerando appunto un minimo rilevato di 0,01 e un massimo di 0,03 euro). "Queste prime indicazioni di prezzo ci confortano molto -spiega Marco Versari, presidente di Assobioplastiche -, perché testimoniano l'assenza di speculazioni o manovre ai danni del consumatore". Peraltro, i sacchetti "sono utilizzabili per la raccolta della frazione organica dei rifiuti - aggiunge - e quindi almeno la metà del costo sostenuto può essere detratto dalla spesa complessiva". Sul pagamento dei sacchetti però le associazioni dei consumatori si sono scatenate. Per il Codacons è "un nuovo balzello che si abbatterà sulle famiglie italiane, una nuova tassa occulta a carico dei consumatori". Si tratterà di una spesa aggiuntiva compresa tra i 20 e i 50 euro a famiglia a seconda della frequenza degli acquisti. Una vera e propria tassa occulta. Differente la stima fatta da Adoc che parla di un aggravio fra i 18 e i 24 euro l'anno per una media di 600 sacchetti a famiglia. Tra le soluzioni alternative c'è chi propone un ritorno alle buste di carta e chi come, Coop Svizzera, lancia le buste riutilizzabili per frutta e verdura, chiamate multi-bag. 

Federdistribuzione: obiettivo sottocosto per venire incontro ai consumatori. La grande distribuzione, chiamata a mettere in pratica la normativa, non ci sta a considerarla una stangata. Federdistribuzione parla di una norma che punta ad accrescere la sensibilità dei consumatori nei confronti dei temi ambientali. "Stiamo parlando di miliardi di sacchetti utilizzati nei supermercati è ovvio che contribuiscono all'inquinamento. L'obiettivo è ridurne il numero e al tempo stesso contenere i costi: nelle nostre aziende si sta facendo strada sempre di più il "sottocosto" vale a dire la vendita del sacchetto ad un costo inferiore a quello di produzione. Mi sembra che il disagio sia relativo per il consumatore e inoltre si tratta di una norma europea alla quale bisognava adeguarsi" spiega il presidente Giovanni Cobolli Gigli ricordando che il passaggio analogo, ai sacchetti per la spesa bio ha prodotto nel giro di sei anni una netta riduzione. Conciliare ambiente e risparmio insomma si può.

La norma inserita nel decreto Mezzogiorno. L'obbligo di utilizzo dei sacchetti bio-degradabili e a pagamento è entrato in vigore dal 1° gennaio del 2018. Si tratta dell’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017 (il decreto legge Mezzogiorno) che stabilisce che «le borse di plastica non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite». Per gli esercizi commerciali che non applicheranno la nuova norma sono previste multe che vanno da 2.500 a 25.000 euro. Ma le sanzioni possono arrivare anche fino a 100.000 euro in casi estremi, di «ingenti quantitativi» di buste fuorilegge. Per i consumatori non c'è possibilità di scelta. Bocciato il fai da te: il ministero dell'Ambiente ha già fatto sapere che, per motivi igienici, i sacchetti non potranno essere portati da casa o riutilizzati. Ma la loro vita media è di appena 12 minuti. 

Per capire. Legambiente: 4 domande (e risposte) sui sacchetti biodegradabili, scrive mercoledì 3 gennaio 2018 "Avvenire". È polemica sui nuovi bioshopper biodegradabili e compostabili, a pagamento, per gli alimenti ed entrati in vigore dall'1 gennaio 2018. Non tutte le notizie che circolano appaiono però corrette. In questi giorni infatti gli italiani appaiono sempre più divisi sui nuovi bioshopper biodegradabili e compostabili, a pagamento, utilizzati per gli alimenti ed entrati in vigore dal 1 gennaio 2018. C'è chi li sostiene e che invece ha molti dubbi al riguardo, e non mancano in queste ore il proliferare di affermazioni inesatte su una novità che, invece, sostiene Legambiente, fa bene all'ambiente e aiuta a contrastare in maniera efficace l'inquinamento da plastica non gestita correttamente e il problema del marine litter. Per questo Legambiente punta il dito contro le "bugie" che stanno circolando in questi giorni: dalla cosiddetta "tassa occulta" alla questione del monopolio di Novamont, azienda a cui si deve l'invenzione del Mater-Bi. Quindi l'associazione affronta 4 punti fornendo alcune informazioni:

Perché questo provvedimento? L'inquinamento da plastica è sempre più grave. "Le polemiche di questi giorni - dichiara Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - sono davvero incomprensibili: non è corretto parlare di caro spesa né di tassa occulta o di qualche forma di monopolio aziendale. Sarebbe utile che ci si preoccupasse dei cambiamenti climatici e dell'inquinamento causato dalle plastiche non gestite correttamente, e che si accettassero soluzioni tecnologiche e produttive che contribuiscono a risolvere questi problemi, senza lasciarsi andare a polemiche da campagna elettorale di cui non se ne sente il bisogno. È ora di sostenere e promuovere l'innovazione che fa bene all'ambiente, senza dimenticare di contrastare il problema dei sacchetti di plastica illegali. Circa la metà di quelli in circolazione sono infatti fuorilegge, un volume pari a circa 40 mila tonnellate di plastica, e una perdita per la filiera legale dei veri shopper bio pari a 160 milioni di euro, 30 solo per evasione fiscale".

Siamo di fronte a una tassa occulta? Tassa occulta? Per Legambiente non è nulla di tutto ciò. Da sempre i cittadini pagano in modo invisibile gli imballaggi che acquistano con i prodotti alimentari ogni giorno. Nessun produttore o nessuna azienda della grande distribuzione ha mai fatto ovviamente e naturalmente beneficenza nei confronti dei consumatori. Unica differenza, è che questa volta il costo è visibile, perché l'obiettivo della norma è aumentare la consapevolezza dei consumatori su un manufatto che se gestito non correttamente può causare un notevole impatto ambientale.

La legge vieta il riutilizzo dei sacchetti? Questo problema si può ovviare semplicemente con una circolare esplicativa del Ministero dell'ambiente e della salute che permetta in modo chiaro, a chi vende frutta e verdura, di far usare sacchetti riutilizzabili, come ad esempio le retine, pratica già in uso nel nord Europa. In questo modo si garantirebbe una riduzione auspicabile dell'uso dei sacchetti di plastica, anche se compostabile, come già fatto coi sacchetti per l'asporto merci (che grazie al bando entrato in vigore nel 2012 in 5 anni sono stati ridotti del 55%).

Una legge che favorisce il monopolio di un'azienda? È una legge basata sul monopolio dell'azienda Novamont? Si tratta di una fantasia di chi non conosce il mercato delle bioplastiche. Oggi nel mondo ci sono almeno una decina di aziende chimiche che producono polimeri compostabili con cui si producono sacchetti e altro. Basta andare sul web e si possono trovare colossi della chimica italiana, tedesca, americana, del sud est asiatico, che producono bioplastiche. Dove sarebbe il monopolio? Forse sarebbe opportuno ricordare che tra le principali aziende della chimica verde una volta tanto l'Italia ha una leadership mondiale sul tema, grazie ad una società che è stata la prima 30 anni fa a investire in questo settore e che negli ultimi 10 anni ha permesso di far riaprire impianti chiusi riconvertendoli a filiere che producono biopolimeri innovativi che riducono l'inquinamento da plastica. Un problema di cui ormai si parla in tutto il mondo, come emerso chiaramente ad esempio alla Conferenza mondiale sugli oceani che l'Onu ha organizzato nel giugno scorso a New York, a cui Legambiente ha partecipato portando l'esperienza di citizen science sul marine litter con Goletta verde e le campagne di pulizia delle spiagge.

Quanto costa davvero il sacchetto della spesa, scrive Maria Teresa Camarda Mercoledì 03 Gennaio 2018 su "Live Sicilia”. Alcune cifre che circolano sul web sono delle bufale. E guardando un po' più a fondo, i sacchetti in questione si pagavano anche prima. Sacchetti della spesa a pagamento nei supermercati a partire dal 1 gennaio. Un obbligo di legge che ha fatto scattare immediatamente accesissime polemiche sui social network. I consumatori stanno vivendo questa decisione del governo nazionale come un'ulteriore tassa da pagare allo Stato. Ma le cose non stanno proprio così e i costi di questa misura non sono poi così esosi come si è detto. Alcune delle cifre che circolano sul web se non sono bufale, poco ci manca. Stando ai calcoli diffusi dall'Osservatorio di Assobioplastiche, la spesa per i sacchetti igienici destinati all'acquisto di frutta, verdura, carne e pesce oscillerà fra 4,17 e 12,51 euro l'anno. E non, quindi, la spesa di 50 euro di cui tanto si parla su Facebook, Twitter & co. Il provvedimento è previsto dalla legge 123/2017, il cosiddetto decreto Mezzogiorno, approvato lo scorso agosto, in cui si indica che queste buste non possono essere gratis per via delle misure europee che prevedono l’obbligatorietà in tutti i Paesi dell’Unione della cessione degli shopper a pagamento. Questa misura, come recita la direttiva, si è resa necessaria "per aumentare la consapevolezza del pubblico in merito agli impatti ambientali delle buste di plastica per liberarci dall'idea che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso". "Queste prime indicazioni di prezzo ci confortano molto - spiega Marco Versari, presidente di Assobioplastiche, in un'intervista al notiziario "Eco dalle città" -, perché testimoniano l'assenza di speculazioni o manovre ai danni del consumatore". Peraltro, i sacchetti "sono utilizzabili per la raccolta della frazione organica dei rifiuti - aggiunge Versari - e quindi almeno la metà del costo sostenuto può essere detratto dalla spesa complessiva". Ma anche su Assobioplastiche si è scatenato un vespaio di polemiche: "Gli unici ad applaudire pubblicamente la norma - scrive un attivista del Movimento 5 stelle su Facebook in un post che è stato condiviso centinaia di volte dal suo profilo e altrettante da ogni altro profilo - sono i vertici di Assobioplastiche, il cui presidente, Marco Versari, è stato portavoce del maggiore player del settore, la Novamont, già nota per aver inventato i sacchetti di MaterBi, il materiale biodegradabile a base di mais". Ma, guardando un po' più a fondo, i sacchetti in questione si pagavano anche prima, solo che erano inclusi nel costo complessivo del prodotto pesato. Adesso, con la nuova norma i supermercati dovranno indicare esplicitamente il costo del sacchetto e, anche su quelli, pagare le imposte. Quindi, la nuova norma semplicemente considera il sacchetto come una cosa che il supermercato ti vende e non come un semplice costo di gestione. Per il Codacons, comunque, è "un nuovo balzello che si abbatterà sulle famiglie italiane, una nuova tassa occulta a carico dei consumatori". Per Legambiente, invece, "non è corretto parlare di caro-spesa. L'innovazione ha un prezzo, ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo, che si dovrebbe aggirare intorno ai 2-3 centesimi a busta. Così come è giusto prevedere multe salate per i commercianti che non rispettano la vigente normativa". Le sanzioni per chi viola o elude la legge vanno da 2.500 a 25.000 euro, elevabili fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure un se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore.

Dal primo gennaio sono obbligatori: i bioshopper dividono gli italiani. Per legge devono essere l'imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, macelleria, pescheria, frutta verdura e panetteria. Sono riciclabili e per questo piacciono a molti; costano poco ma se si fa la somma alle casse si può avere qualche sorpresa, e per questo una fetta di italiani parla di "tassa occulta", scrive Giacomo Talignani il 2 gennaio 2018 su “La Repubblica”.

"GENTILE CLIENTE... ti comunichiamo che è in vigore la legge che impone che vengano utilizzati sacchetti compostabili e biodegradabili idonei al contatto alimentare in sostituzione dei sacchetti di plastica". Questa la scritta che molti supermercati italiani recano all'ingresso dei loro punti vendita da oggi, giorno di riapertura della maggior parte degli store della grande distribuzione. Dal 1°gennaio è infatti scattato l'obbligo, per il cosiddetto "Decreto mezzogiorno", di utilizzare ''bioshopper'' come imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, macelleria, pescheria, frutta verdura e panetteria. Via dunque le buste ultraleggere in plastica (con spessore inferiore ai 15 micron) che utilizzavamo solitamente per pesare gli alimenti le quali saranno sostituite da quelle biodegradabili e compostabili, nel rispetto dello standard internazionale UNI EN 13432. Una scelta, decisa nella lotta all'inquinamento ambientale e al problema delle microplastiche nei nostri mari, che peserà però sulle tasche degli italiani: ogni esercente venderà infatti le singole buste a un prezzo compreso fra gli 1 e i 5 centesimi. Come stabilito per legge, inoltre, per questioni igieniche non si potrà portare il proprio sacchetto da casa e dunque, di fatto, sarà obbligatorio spendere qualche centesimo nel caso si voglia acquistare frutta, verdura o altri prodotti.  In caso di inadempienze per i venditori - l’obbligo si estende dalla grande distribuzione ai piccoli negozi - sono previste multe salate che vanno da 2.500 a un massimo di 25mila euro. La novità ha già diviso gli italiani fra coloro che sono favorevoli all'iniziativa e chi invece punta il dito contro la "tassa occulta" che dovremo pagare: ad ottobre un sondaggio Ispos Public Affairs indicava che 6 italiani su 10 si dicono favorevoli al nuovo sistema.

LA POLEMICA SUI COSTI - La legge, che vieta soluzioni diverse da quelle biodegradabili e compostabili con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%, è stata accolta con entusiasmo dalle associazioni ambientaliste mentre da quelle dei consumatori arrivano forti critiche. Per Legambiente non è corretto parlare di caro-spesa: perché" l’innovazione - dichiara Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta". Il Codacons parla invece di stangata sulle famiglie. "Significa che ogni volta che si va a fare la spesa al supermercato occorrerà pagare dai 2 ai 10 centesimi di euro per ogni sacchetto, e sarà obbligatorio utilizzare un sacchetto per ogni genere alimentare, non potendo mischiare prodotti che vanno pesati e che hanno prezzi differenti. Tutto ciò comporterà un evidente aggravio di spesa a carico dei consumatori, con una stangata su base annua che varia dai 20 ai 50 euro a famiglia a seconda della frequenza degli acquisti nel corso dell'anno" dice il presidente Carlo Rienzi definendola una "tassa occulta". Differente invece la stima di Adoc che prevede un aggravio fra i "18 e i 24 euro l'anno per circa 600 sacchetti consumati a famiglia". A queste cifre replica Assobioplastiche che stima un prezzo differente, al massimo fra "1,50 e 4,50 euro l'anno a persona". In questa operazione di contrasto al "marine litter" ogni supermercato della Gdo (la grande distribuzione) indicherà il proprio prezzo per busta. Per ora sono in pochi ad essersi sbilanciati, fra cui la Coop che ha fissato a 2 centesimi a busta il suo prezzo. Altri, come Esselunga o Carrefour, stanno procedendo con la sostituzione dei sacchetti ma devono ancora indicare con precisione la propria cifra. 

RIUTILIZZO DEI SACCHETTI -  Fra gli aspetti da considerare nella "rivoluzione dei sacchetti" c'è quello del riutilizzo delle buste biodegradabili per la raccolta dell'umido. In alcuni Comuni dove è in vigore la differenziata le famiglie acquistano i sacchetti biodegradabili in confezione con costi che oscillano fra i 10 e i 15 centesimi e dunque, se si riutilizzassero quelli dei supermercati comprati a 1-2 centesimi, ci sarebbe un risparmio. Ambientalisti e attenti osservatori ricordano però che sulle nuove buste con cui trasporteremo ad esempio verdura o pane ci sarà incollato l'etichetta con il prezzo termico che non è compostabile e dunque andrà accuratamente tolta. Catene come Lidl pesano i prodotti direttamente in cassa aggirando il problema dell'etichetta con prezzo e battendo direttamente sullo scontrino.

SISTEMI ALTERNATIVI - Ogni novità, chiaramente, scatena l'inventiva dei più creativi per trovare soluzione gratuite. Se come detto non è possibile portarsi i propri sacchetti da casa c'è chi propone il ritorno delle vecchie buste a rete o dei sacchetti di carta, questione però ancora tutta da dibattere (per i distributori). Fra le soluzioni già in atto, per esempio per frutta o ortaggi acquistati singolarmente, come un limone, un avocado e via dicendo, c'è quella di attaccare l'etichetta direttamente sul singolo prodotto (di solito sulla buccia che poi viene tolta). Altri esempi di possibili soluzioni future arrivano poi da Coop Svizzera che da novembre ha messo a disposizione buste riutilizzabili per frutta e verdura, chiamate Multi-Bag, in alternativa ai sacchetti.

IN EUROPA - In Europa, secondo gli ultimi dati diffusi dall'EPA, si stima un consumo annuo di 100 miliardi di sacchetti, molti dei quali finiscono in mare e sulle coste. Legambiente ricorda che la messa al bando degli shopper non compostabili è attiva in Italia, Francia e Marocco e altri Paesi hanno introdotto delle tasse fisse (Croazia, Malta, Israele e alcune zone della Spagna, della Grecia e della Turchia). Diverse iniziative sono in atto in tutto il Vecchio continente per cercare di ridurre il numero delle buste. Secondo un report della Marine Conservation Society in Gran Bretagna la lotta ai sacchetti non biodegradabili ha portato a un drastico calo della presenza di buste sulle coste, circa il 40% in meno.

Sacchetti biodegradabili per frutta e verdure: una «tassa sulla spesa»? Dal primo gennaio obbligatorio imbustare frutta e verdura acquistata nei supermercati in sacchettini di plastica biodegradabile forniti a pagamento. Ma ambientalisti, consumatori e industriali la pensano tutti in modo diverso, scrive il 03/01/2018 Andrea Zaghi su Sir Servizio Informazione Religiosa. Alcuni l’hanno già chiamata «tassa sulla spesa». E in effetti così parrebbe l’obbligo, scattato dallo scorso primo gennaio, di imbustare frutta e verdura acquistata nei supermercati solo in sacchetti di plastica biodegradabile «nuovi» e forniti a pagamento. La precisazione non è casuale: accanto all’obbligo dei supermercati, c’è anche un altro obbligo, imposto ai consumatori, di non portarsi da casa sacchetti biodegradabili usati. Tutto è contenuto nel DL Mezzogiorno e precisamente nell’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017. Le regole appaiono piuttosto chiare, in ogni caso il ministero dell’Ambiente ha inviato una lettera al sistema della grande distribuzione organizzata. Dal primo gennaio è obbligatorio infilare frutta e verdura acquistata nei supermercati solo in sacchetti di plastica biodegradabile che dovranno essere pagati (si tratta dei sacchettini bianchi che fino a pochi giorni fa erano forniti gratuitamente); oltre a questo, è vietato il riutilizzo delle buste biodegradabili per motivi igienico-sanitari. Ugualmente è vietato mettere in una sola busta prodotti ortofrutticoli diversi. Questo all’interno del supermercato. C’è da immaginare, quindi, che tutto invece possa avvenire appena fuori i centri commerciali e i punti vendita (con tanto di travasi di prodotti nelle borse casalinghe). L’obiettivo è condivisibile – diminuire il più possibile l’uso di plastica -, il percorso per raggiungerlo lascia perplessi molti e ha del contraddittorio. Da un lato, infatti, si vuole ridurre l’uso della plastica, dall’altro si vieta il riuso della plastica biodegradabile. Il tema è solo apparentemente banale ed ha già prodotto schieramenti netti: da un lato gli ambientalisti, dall’altro alcune associazioni dei consumatori. Senza contare la deriva di polemica politica; c’è chi infatti vede dietro questa norma, un favore fatto ad aziende i cui vertici sarebbero legati a filo doppio al centrosinistra. Stando ai calcoli già fatti, comunque, la «tassa sulla spesa» dovrebbe pesare dai due ai dieci centesimi per busta utilizzata. Parte del ricavo dovrà essere versato dai supermercati allo Stato sotto forma di Iva e di imposte sul reddito. Per chi sgarra ci sono le multe. I supermercati che usano ancora buste non biodegradabili rischiano multe da 2.500 euro a 25.000 euro e fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore. Ed è naturalmente sul costo dei sacchetti che pare crearsi la spaccatura fra ambientalisti e consumatori. Il Codacons ha già parlato di una «stangata sulle famiglie». A conti fatti l’associazione indica un aggravio di spesa annuo dai 20 ai 50 euro per nucleo familiare. Si tratta, ha tuonato il presidente Carlo Rienzi, «di una vera e propria tassa occulta a danno dei cittadini italiani che non ha nulla a che vedere con la giusta battaglia in favore dell’ambiente». Più sfumata Legambiente il cui direttore generale, Stefano Ciafani, ha spiegato che l’innovazione «ha un prezzo» e che è «giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta. Così come è giusto – ha continuato -, prevedere multe salate per i commercianti che non rispettano la vigente normativa». Per Assobioplastiche (l’Associazione Italiana delle Bioplastiche e dei Materiali Biodegradabili e Compostabili), i sacchettini di plastica biodegradabile costituiscono la «naturale conclusione di un percorso virtuoso nel settore della bioeconomia e dell’economia circolare che fa dell’Italia un modello per tutta l’Europa». Poi ci siamo tutti noi, quelli che vanno a fare la spesa al supermercato. Che non la pensano poi tanto male. Da un’indagine Ipsos, infatti, il 71% degli intervistati prevede una spesa notevole ma solo il 28% è davvero contrario alle nuove regole. La «nuova tassa» è ben accetta, servirà ad abbattere davvero il consumo di plastica e a migliorare l’ambiente. Il 58% degli intervistati si è detto favorevole alla legge. D’altra parte che qualcosa occorra fare ne sono consapevoli tutti. Sembra che in Europa ogni anno siano consumati cento miliardi di sacchetti di plastica (Fonte: EPA), e che una buona parte di questi finiscano in mare e sulle coste. Una situazione non più sostenibile che vede però l’Italia fra i Paesi più virtuosi visto che dal 2011 abbiamo una legge contro gli shopper non compostabili.

Fatti e misfatti della nuova legge sui sacchetti ultraleggeri. C’è chi parla di tassa, c’è chi chiama in causa il giglio magico e la lobby delle bioplastiche. Facciamo un po’ di chiarezza sulla nuova norma che disciplina la vendita delle borse di plastica per alimenti sfusi, scrive il 2 gennaio 2018 "Polimerica". Nonostante sia nota dalla fine del 2016 l’intenzione del Governo di imporre misure restrittive sulla commercializzazione di sacchetti ultraleggeri per ortofrutta (leggi articolo), ufficializzata nell’agosto dell’anno scorso con l’approvazione del decreto n. 91/2017(disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), solo negli ultimi giorni i media e le associazioni dei consumatori si sono scatenati, in modo spesso scomposto, su origine e impatti del provvedimento, giudicato una sorta di tassa sui consumatori, sostanzialmente inutile, introdotta al solo scopo di favorire Novamont e altri produttori di bioplastiche. Per Codacons è “un balzello inutile che non ha nulla a che vedere con l’ambiente e con la lotta al consumo di plastica”, che “determinerà un aggravio di spesa che potrà raggiungere i 50 euro annui a famiglia, laddove il costo degli shopper avrebbe dovuto essere interamente a carico dei supermercati e dell’industria”. Contraria al provvedimento anche Federconsumatori, che ritiene il nuovo provvedimento “importante e anche condivisibile, ma restano alcuni dubbi sulla scelta di introdurne l’utilizzo esclusivamente a pagamento”. Per il Giornale - in un articolo a firma di Giuseppe Marino (qui articolo integrale) - si tratta di un regalo alla Coop e a Catia Bastioli, AD di Novamont, definita “una capace manager che ha incrociato più volte la strada del Pd e di Renzi”. A difendere la scelta del Governo - oltre ad Assobioplastiche - c’è Legambiente: “L’innovazione – afferma il direttore Stefano Ciafani - ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta”. NON È UNA TASSA. In realtà, non si tratta di una nuova imposta. I proventi - se non indirettamente (IVA) - non finiranno nelle casse del tesoro, ma resteranno ad esercenti e grande distribuzione, a copertura dei maggiori costi dei sacchetti biodegradabili e biobased rispetto a quelli tradizionali. Per dare un'indicazione di massima, un sacchetto ultraleggero costa alla grande distribuzione tra i 2 e i 5 centesimi al pezzo, a seconda dei volumi e degli accordi con i fornitori. Il prezzo del sacchetto al consumatore sarà deciso dal singolo esercente: e se ciò potrebbe essere fonte di speculazioni, è anche vero che nulla vieta ad un esercente di imporre un valore infinitesimale; l’unico vincolo, secondo la legge è che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”. In una circolare, il Ministero dello Sviluppo economico ha confermato la liceità di vendere i sacchetti sottocosto, onde evitare - come si legge nella nota - "di far ricadere sul consumatore finale il costo derivante dall’introduzione e conseguente applicazione di una disposizione avente quale finalità la tutela ambientale".

PERCHÈ SOLO A PAGAMENTO? Qui il tema si fa più complesso. Per motivare l’obbligo di far pagare i sacchetti ultraleggeri è stata chiamata in causa una direttiva europea (2015/720), diramata da Bruxelles per ridurre il consumo di sacchetti monouso in plastica, che prescrive, come opzione: "l’adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia”. Ma, una riga sotto si legge anche: “Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure”. In sostanza, nulla vieta di adottare misure restrittive per i sacchetti con spessore inferiore a 15 micron utilizzati a fini di igiene, compreso l’obbligo di far pagare il sacchetto - come ha fatto l’Italia -, ma non è Bruxelles a imporle. Infatti, come si legge nelle premesse della Direttiva: “gli Stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron (“borse di plastica in materiale ultraleggero”) fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi ove necessario per scopi igienici oppure se il loro uso previene la produzione di rifiuti alimentari”.

QUANTO COSTANO ALLA CASSA? A poche ore dall’entrata in vigore della legge, l’Osservatorio di Assobioplastiche ha svolto una prima ricognizione sui prezzi applicati a questi sacchetti, per ora limitata alla grande distribuzione. Auchan, Conad, Coop Italia, Coop Lombardia, Eurospar, Gruppo Gros e Iper hanno fissato un prezzo di 2 centesimi a sacchetto. Costano invece la metà, 0,01 euro, gli ultraleggeri commercializzati nei punti vendita di Coop Toscana, Esselunga e Unes. Hanno deciso di applicare un prezzo di 3 centesimi di euro a sacchetto le catene Lidl, Pam e Simply.

QUANTO PAGHERA' IL CONSUMATORE? Indubbiamente qualche centesimo moltiplicato per più sacchetti (uno per ogni alimento) utilizzati per la spesa quotidiana o settimanale, alla fine dell’anno comporterà un aggravio di costo per i consumatori. Ma quanto? Molto dipenderà dal costo fissato dagli esercenti. Codacons stima un costo annuo per famiglia di 50 euro, mentre Assobioplastiche ridimensiona la cifra a un ordine di di grandezza in meno: considerando un consumo medio annuo per famiglia intorno a 150 sacchetti e un costo unitario compreso tra 1 e 3 centesimi, si arriva ad un onere complessivo di 2-4,5 euro l’anno. Secondo i dati dell'analisi GFK-Eurisko presentati a Marca 2017, le famiglie italiane effettuano in media 139 spese anno nella GDO. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo compreso tra 4,2 e 12,5 euro. Occorre anche considerare che il nuovo sacchetto ultraleggero è compostabile: quindi, dopo essere stato utilizzato per la spesa può tornare utile per il conferimento dell’umido, nei comuni in cui è in funzione la raccolta differenziata dei rifiuti organici, evitando l’acquisto di sacchetti specifici.

SI RIDURRÁ IL CONSUMO DI SACCHETTI MONOUSO? Difficile dirlo, ma non essendoci sempre alternative disponibili - come nel caso dei banconi ortofrutta dei supermercati - non è certo che la misura servirà a ridurre il consumo di sacchetti ultraleggeri in plastica. In alcuni casi, ove possibile, potrebbe favorire materiali alternativi come la carta, ma la praticità e la leggerezza della plastica difficilmente può essere compensata dall’aggravio di qualche centesimo di euro. C’è anche chi pensa che questa misura favorirà la vendita di verdura e frutta confezionata rispetto a quella sfusa: in realtà, il differenziale di prezzo a livello di packaging è a sfavore degli imballi rigidi (vaschette in plastica).

PERCHÈ NON POSSO PORTARE LA BUSTA DA CASA? C’è chi ha chiamato in causa la lobby dei produttori di bioplastiche per motivare la decisione della Grande distribuzione di vietare al consumatore di portarsi da casa il sacchetto per alimenti sfusi (verdure, frutta, carne, pesce), così come avviene con le buste per la spesa. In realtà le ragioni sono altre: in primis quella legata all’igiene, essendo questa tipologia di sacchetti destinata a contenere alimenti sfusi non altrimenti imballati; il rischio di contaminazione è reale ed è stato adombrato in passato anche per le buste per la spesa riutilizzabili più volte. Poi c’è la questione della taratura delle bilance per la pesa dei prodotti, che sono settate sui sacchettini distribuiti in prossimità dei banchi ortofrutta. La legge, pur richiamando conformità alla normativa sull’utilizzo dei materiali destinati al contatto con gli alimenti nel caso dei sacchetti ceduti al pubblico, non norma espressamente questo punto. Tanto che il consumatore potrebbe utilizzare le proprie sporte o retine per gli acquisti nel negozio sotto casa, come per altro già avveniva in passato. Questa possibilità è stata ammessa espressamente da una circolare del Ministero dello Sviluppo economico, in attesa del pronunciamento del dicastero della Sanità. Tecnicamente è possibile estendere questa pratica anche a livello GDO, come dimostra il caso della Coop Svizzera con le sporte Multi-Bag.

FAVORIRÁ i PRODUTTORI DI BIOPLASTICHE? Senza dubbio, ma in fondo potrebbe essere utile - a livello di sistema paese - favorire un’industria nazionale con prospettiva di crescita rispetto ad un prodotto - il sacchetto di polietilene - che può essere acquistato in ogni angolo del pianeta a prezzi di commodities. Va anche detto che Novamont non è l’unica azienda a produrre bioplastiche per film, anche se è il principale fornitore di polimeri biobased e compostabili in Italia. Uno dei competitor - solo per citare il più noto - è il gruppo tedesco BASF.

MA QUANTO VALE IL MERCATO? Non esiste (ancora) uno studio specifico sul mercato italiano dei sacchetti ultraleggeri per il confezionamento di alimenti sfusi, ma la società di consulenza Plastic Consult - che da anni monitora il settore delle materie plastiche e, più recentemente, l'evoluzione dei sacchetti monouso in plastica - stima che il consumo si attesti tra 20mila e30mila tonnellate annue tra polietilene e bioplastiche.

COSA DICE LA LEGGE? Come indicato dalla legge 123/2017 del 13 agosto scorso, dal 1° gennaio 2018 dovranno essere biodegradabili e compostabili secondo la norma UNI EN 13432 i sacchetti ultraleggeri – con spessore inferiore a 15 micron - utilizzati per il confezionamento di merci e prodotti, a fini di igiene o come imballaggio primario in gastronomia, macelleria, pescheria, ortofrutta e panetteria. Oltre ad essere idonei per l’uso alimentare, con l’anno nuovo i sacchetti dovranno avere un contenuto minimo di materia prima rinnovabile (secondo EN 16640:2017) pari ad almeno il 40%, che salirà al 50% a partire da gennaio 2020 e al 60% dal 2021.  La nuova norma impone anche che i sacchetti per ortofrutta, così come gli shopper, non possano essere ceduti a titolo gratuito e che il prezzo di vendita risulti dallo scontrino o dalla fattura di acquisto. Inoltre, sui sacchetti dovranno essere apposti elementi identificativi del produttore e diciture idonee ad attestare il possesso dei requisiti di legge. La sanzione per chi contravviene alla norma, violando anche solo uno dei requisiti cumulativi, parte da 2.500 e può arrivare fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure se il loro valore è superiore al 10% del fatturato del trasgressore. Ma, va ricordato, la sanzione riguarda solo distributori ed esercenti, non il consumatore trovato in possesso di una borsa fuori norma.

La tassa sui sacchetti di plastica fa ricca la manager renziana. Fregatura al supermercato. Oltre la nomina pubblica Catia Bastioli guida pure la ditta che fabbrica l'80% delle buste bio, scrive Giuseppe Marino, Domenica 31/12/2017 su “Il Giornale", ripreso in parte da Affari Italiani. L'obbligo di comprarli scatta da domani, ma nei supermercati si respira già il malumore dei clienti per la «tassa sui sacchetti». Quel che non è ancora chiaro a chi fa la spesa, è chi incasserà i proventi della nuova subdola imposta. Per capire chi in queste ore sorride al pensiero dei sacchetti a pagamento bisogna mettere insieme alcuni fatti, qualche sospetto e un numero impressionante di coincidenze. Che hanno una data d'inizio: 3 agosto 2017. È il giorno in cui viene approvato in commissione, con voto compatto del gruppo del Pd, l'emendamento che introduce il balzello. In pieno clima di ferie il Parlamento sente l'esigenza di accelerare la norma infilandola in una legge che c'entra ben poco, il Dl Mezzogiorno. Col paradosso che in un provvedimento che dovrebbe portare sviluppo al sud compare un emendamento, firmato dalla deputata Dem Stella Bianchi, i cui frutti saranno goduti molto più a Nord, e precisamente in Piemonte. Vedremo dopo per quali strade. Prima è meglio dare un'occhiata a come è stato congegnato l'emendamento. Da una parte si impone il divieto di usare i sacchetti ultraleggeri di plastica, quelli che servono a pesare la frutta o a incartare formaggi e salumi. Fin qui è l'attuazione di una direttiva europea che ha uno scopo condivisibile, ridurre il consumo di plastica e il suo impatto ambientale rendendo obbligatori i sacchetti con almeno il 40% di componente biodegradabile. Il Pd aggiunge però un altro meccanismo diabolico: ai supermercati è vietato regalarli ai clienti, pena una multa salatissima, fino a 100mila euro. Una misura spacciata per incentivo a ridurre il consumo di sacchetti che, pur biodegradabili, sono per più di metà ancora composti di plastica. Eppure il fine nobile della sanzione durissima è completamente vanificato da un'altra norma: è vietato riciclare i sacchetti. Né, per motivi igienici e di taratura delle bilance, è possibile portarsi da casa borse o contenitori di tipo diverso che finiscano a contatto diretto con gli alimenti e con le bilance. Dunque, se non posso portarmeli da casa e non ho altre alternative che usare quelli forniti dal supermercato, il disincentivo del pagamento, obbligatorio per legge, non può scoraggiare il consumo. I dirigenti di alcune catene di supermercati, sentiti dal Giornale, confermano i dubbi sul meccanismo cervellotico e sugli effetti perversi. E allora, chi ci guadagna? La norma sgrava la grande distribuzione, che in Italia conta un player storicamente legato alla sinistra, la Coop, dal costo degli shopper, riversandolo sul cliente. Ma non è poi un grande vantaggio, perché i negozi dovranno fronteggiare la rabbia dei clienti. C'è anche perplessità sulla scelta di non regolamentare il prezzo dei bio-sacchetti che, essendo un bene ormai obbligatorio per legge, è esposto a possibili speculazioni sul prezzo. Gli unici ad applaudire pubblicamente la norma sono i vertici di Assobioplastiche, il cui presidente, Marco Versari, è stato portavoce del maggiore player del settore, la Novamont, già nota per aver inventato i sacchetti di MaterBi, il materiale biodegradabile a base di mais. E infatti l'azienda di Novara sul suo sito, senza ironia, pubblica un sondaggio secondo cui i consumatori italiani sarebbero in maggioranza contenti di pagare. Intorno a Novamont si concentrano altre coincidenze. L'amministratore delegato è Catia Bastioli, una capace manager che ha incrociato più volte la strada del Pd e di Renzi. Nel 2011 partecipa come oratore alla seconda edizione della Leopolda, quella in cui esplode il fenomeno Renzi. Molti degli ospiti di quell'evento oggi occupano poltrone di nomina politica. E Catia Bastioli non fa eccezione: nel 2014, pur mantenendo l'incarico alla Novamont, viene nominata presidente di Terna, colosso che gestisce le reti dell'energia elettrica del Paese. Con i buoni uffici del Giglio magico, si dice all'epoca. A giugno 2017 Mattarella la nomina cavaliere del lavoro. L'azienda che guida è l'unica italiana che produce il materiale per produrre i sacchetti bio e detiene l'80% di un mercato che, dopo la legge, fa gola: inizialmente i sacchetti saranno venduti in media a due centesimi l'uno. Le stime dicono che ne consumiamo ogni anno 20 miliardi. Potenzialmente dunque, è un business da 400 milioni di euro l'anno. Il 15 novembre scorso Renzi ha fatto tappa con il treno del Pd proprio alla Novamont. Ha incontrato i dirigenti a porte chiuse e all'uscita ha detto ai giornalisti: «Dovremo fare ulteriori sforzi per valorizzare questa eccellenza italiana». Promessa mantenuta.

Sacchetti frutta a pagamento, parla Catia Bastioli, la produttrice assediata: «Brevetto nostro». L’amministratrice delegata Novamont: «Vantaggi personali e favori politici? No, è una tecnologia unica al mondo», scrive Fabio Savelli il 3 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Forse avremmo dovuto investire altrove. Per trasformare impianti vecchi in gioielli nella produzione di granuli da amido di mais e oli naturali. Avremmo dovuto evitare di metterci 500 milioni, spendere risorse in ricerca per brevettare una tecnologia senza eguali. Avremmo dovuto evitare di assumere personale qui, nel nostro Paese». Catia Bastioli, amministratrice delegata del gruppo Novamont, è furibonda. La polemica del costo scaricato su chi fa la spesa per i sacchetti contenitori di frutta e verdura la trova sconcertata. Novamont realizza il cosiddetto Mater-Bi, la materia prima con la quale i produttori, circa 150 aziende in tutta Italia, realizzano sacchetti biodegradabili ultraleggeri.

L’accusa che le muovono è che la scelta introdotta dal governo di far pagare i sacchetti sia un regalo a lei che è a monte della filiera della bioplastica.

«La ritengo una tesi oltraggiosa. Vergognosa. Che si possa connotare politicamente la volontà del governo di recepire una direttiva comunitaria denota a che punto siamo arrivati. Fare carne da macello, per finalità prettamente elettorali, di un brevetto nostro e di una tecnologia patrimonio per il Paese a livello mondiale, offende il lavoro di questi ultimi venti anni».

Lei però ricopre la carica di presidente di Terna. Una nomina al vertice di una società a controllo pubblico arrivata quando al governo c’era Matteo Renzi. Non può nascondere la vicinanza all’ex premier.

«Ho accettato quella nomina dopo grandi perplessità. Me l’hanno chiesto più volte. Ero scettica. Col senno di poi sono orgogliosa di quello che abbiamo costruito. Ho compreso la necessità di una contaminazione tra energia, chimica, agricoltura. È la rivoluzione dell’economia circolare».

Ammetterà che questa misura la avvantaggia.

«Questo è un settore che sta crescendo. Ha cominciato la Francia a permettere l’uso degli shopper biodegradabili nel 2011. Perché sono riciclabili nella raccolta dell’umido. I nostri materiali sono in grado di creare un compost con l’organico in grado di concimare i terreni. Senza disperderlo nelle discariche, con un costo ambientale altissimo. Di smaltimento e di produzione di anidride carbonica».

Caleo (PD): “Io padre della norma sui sacchetti, la rivendico. Non conoscevo la Novamont”, scrive il 24 Mattino il 3 gennaio 2018 su "Tiscali News". "Io mi aspetterei dai commentatori su questa norma un inchino e un saluto importante". Rivendica complimenti, ai microfoni di Luca Telese e Oscar Giannino, nel corso della trasmissione 24 Mattino, Massimo Caleo, senatore del Pd e padre della norma sui sacchetti biodegradabili a pagamento. "Ho fatto quest'emendamento per il semplice motivo che era giusto proseguire su quella strada lì", continua, "io non conoscevo nessun dirigente. So chi è Novamont ma all'epoca, mi creda, io non conoscevo nessun dirigente di quest'azienda", dice rispondendo alle domande di Telese e Giannino, sui rapporti del Pd con l'azienda, titolare del brevetto più diffuso di sacchetti biodegradabili. "Quindi non sapeva che Catia Bastioli - la dirigente di quest'azienda - è una delle relatrici della Leopolda?", insiste Luca Telese. "Non la butti in politica", risponde Caleo, "l'azienda che voi mi dite l'ho conosciuta dopo aver fatto l'emendamento e credo sia una verità assoluta. E siccome siamo in libero mercato credo che sia importante, se vogliamo andare in questa direzione, il mercato si allarghi e non si restringa". Ma il costo, intanto, è giusto? Per Caleo sì: "Sono d'accordo che non bisogna esagerare... ma uno o due centesimi credo che sia il valore giusto, non è una tassa". Qualcosa si può migliorare, però: "Se la grande distribuzione - io l'invito che faccio è questo - volesse regalarli ai propri clienti o anche il singolo commerciante, ben venga ci mancherebbe altro", aggiunge il senatore per cui questa è dunque "una norma di buonsenso, civile che premia l'innovazione e anche l'intuizione che anche questo Paese ha".

I due centesimi che valgono meno di un principio. Due centesimi per le buste biodegradabili. Poca cosa: cinque euro in un anno se ne vengono consumate 250. Ma c'è un principio che vale molto di più. e che non andava venduto per 0,02 euro, scrive Lucio Marziale il 3 gennaio 2018 su "Alessioporcu.it. La normativa sui sacchetti compostabili costituisce la “bustina al tornasole” della sinistra ambientalista italiana e dei disastri che sta provocando. Fino al 31 Dicembre 2017, si poteva imbustare la frutta e la verdura in sacchetti di plastica non biodegradabile e a costo zero. Dal 1 Gennaio 2018, giustamente è stato previsto l’imbustamento in sacchetti compostabili, ma incredibilmente: È stato previsto l’obbligo di usare tali sacchetti, senza lasciare la scelta di servirsi di buste e retine proprie e riutilizzabili, come avviene ormai da tempo per le classiche buste della spesa. E’ stato imposto l’obbligo di pagare tali sacchetti: quindi mentre prima i contenitori inquinanti erano gratis, adesso i contenitori biodegradabili e compostabili sono a pagamento! Il problema non sono i due centesimi, pari a 5 euro all’anno se si ipotizza un uso di 250 sacchetti all’anno. Il problema è che le normative che nascono illiberali producono effetti devastanti, e questa problematica -solo apparentemente minore- riassume tutta una cultura autoritaria ed autoreferenziale di un certo ambientalismo di sinistra, che sta provocando danni devastanti innanzitutto all’ambiente e in special modo alla sinistra. I comportamenti ritenuti virtuosi vengono imposti, e soprattutto tassati. Vale per le inutili e ingenti somme impiegate a disinquinare siti come la Valle del Sacco, e vale per quei protocolli internazionali come Kyoto, che si traducono solo in ulteriore tassazione per le imprese del mondo occidentale, le quali già investono autonomamente somme ingenti nella ricerca e nello sviluppo di fonti energetiche alternative e in accorgimenti tecnico-scientifici che hanno ridotto in maniera drastica i livelli di inquinamento. La cultura pseudo ambientalista, invece, predica il catastrofismo, perché ha bisogno di incutere terrore per garantirsi posizioni ben retribuite di autoreferenziale attività pseudo scientifica “in difesa dell’ambiente”, nelle Università e negli Istituti di Ricerca finanziati con le tasse “ambientali” imposte dalla medesima cultura “pseudo ambientalista”. Questa deriva va fermata al più presto, e l’ambiente deve tornare ad essere il motore della ricerca scientifica e della sua applicazione industriale, con la detassazione e la gratuità dei comportamenti virtuosi, e non con la imposizione di ulteriori e inaccettabili balzelli e gabelle. Anche se di due centesimi.

Sacchetti biodegradabili. Arrigoni: tassa “ambientalista” inaccettabile! Il senatore lecchese della Lega Nord: si tratta di un inganno del Governo, scrive il 3 gennaio 2018 "Resegoneonline.it". “Ho fortissimi dubbi sulla reale sostenibilità delle attuali bioplastiche, ma ho la certezza che non risolvano problemi come la dispersione dei rifiuti in terra e nei mari (littering), e che questo sia un bel business fatto sulla pelle dei consumatori, per la gioia della Novamont cara al PD e al parolaio Renzi”. Così interviene il senatore lecchese della Lega Paolo Arrigoni, membro della Commissione parlamentare Ambiente e Territorio, sulla norma che dall’1 gennaio ha imposto ai consumatori italiani che acquistano frutta e verdura di confezionarle in sacchettini di plastica biodegradabile rigorosamente usa e getta e a pagamento. “La direttiva comunitaria, recepita con un emendamento al Decreto legge Mezzogiorno, consentiva di esonerare dall'obbligo di compostabilità gli involucri destinati agli alimentari, ma in Italia per volere del Governo Gentiloni dal primo gennaio è scattato nei supermercati l’obbligo per legge all’uso di costosissimi sacchetti “naturali” per l’acquisto di frutta e verdura; peraltro preceduto dall’introduzione nelle mense di molte scuole (come quelle di Milano) dello stop all’uso di piatti e bicchieri in plastica tradizionale a favore di quelli realizzati in materiali compostabili, con significativi aumenti dei costi (solo per le scuole di Milano sono stati stimati almeno 300 mila euro in più all’anno…)”. “Il risultato? – fa notare il Senatore - Nonostante in Italia la plastica grazie alla raccolta differenziata abbia ormai raggiunto percentuali elevate di recupero e riciclo, si spinge ora sempre più per sostituirla con plastica biodegradabile, molto più costosa, di precaria funzionalità e che crea problemi di funzionamento a numerosi impianti di compostaggio!”

Un Paese nel sacchetto, scrive Anna Lombroso per "Il Simplicissimus" il 2018/01/03. Con sollievo leggo della crisi dei centri commerciali, coi loro smisurati parcheggi ormai deserti, i lungi corridoi espositivi polverosi, dell’abbandono in cui versano le nuove cattedrali dove si officiava la liturgia del consumo, che avevano sostituito piazze e corsi di paese dove la gente si incrociava e si dava appuntamento in scenari di cartapesta e stagioni artificiali e sempre uguali. E allo stesso modo non mi piacciono i supermercati: meglio il mercato di rione scomparso, perfino la botteguccia sotto casa, sguarnita e cara come bulgari dove con la serranda mezza abbassata implori il cingalese ermetico di darti le sei uova per una frittata d’emergenza, di gran lunga preferibili a quella colonna sonora di annunci e musiche ambient,  a quelle luci che confondono, a mappe incerte che rendono irrintracciabili prodotti e merci tra   meste coppie con lei che vieta al marito l’acquisto di salamini punendo l’eterno fanciullino che risiede in ogni maschio, bimbi che strepitano e il panorama avvilente di carrelli colmi di 4 salti in padella  e patatine surgelate raccomandate da masterchef acchiappacitrulli. E adesso ci andrò ancora più malvolentieri: dall’1 gennaio è entrata in vigore la norma inquattata nel Il decreto Mezzogiorno approvato in agosto, grazie alla quale quei sacchetti leggerissimi di plastica in cui si raccolgono, si pesano e si prezzano i prodotti venduti sfusi come frutta, verdura o affettati devono   essere di plastica biodegradabile, devono essere monouso, devono essere a pagamento a differenza che in gran parte degli altri Paesi europei. Il provvedimento avrebbe una duplice vocazione: quella pedagogica, per stimolare i consumatori a comportamenti più sostenibili, e quella di dare sostegno alle imprese italiane del settore, penalizzate dalla massiccia importazione di shopper da partner europei come Francia e Spagna. E ad una in particolare, ma si tratta certamente di una malignità, che agisce in regime di   monopolio, Novamont, e che fa riferimento a un soggetto ben identificato che gravita con entusiasmo intorno alla cerchia renziana, in veste di testimonial e sponsor. Ora non c’è da avere dubbi che la decisione   di far pagare ai consumatori i sacchetti biodegradabili per la spesa, compresi perfino quelli delle farmacie, nasca da un intento esplicitamente speculativo, altrimenti sarebbe la prima volta che un governo dei tanti che si sono avvicendati non assecondi e appaghi gli avidi appetiti di lobby e imprese a cominciare da eccellenti norcini fornitori delle real case. E dovremmo esserci abituati. Ma non si è mai abbastanza assuefatti alla ipocrita speculazione morale che ben i colloca nel contesto della necessaria e doverosa ubbidienza ai diktat europei, pera poco sentiti nel caso di tortura, norme antiriciclaggio e corruzione, traffico di rifiuti anche a mezzo navi. È che la pretesa e la rivendicazione di tenaci convinzioni ecologiche da parte del partito unico suona davvero come un’offesa per  chiunque si  senta in bilico su una fragile palla appesa e pericolate, e in un paese assoggettato all’impero delle puzze e dei gas in guerra con popoli e col pianeta che li ospita, con governi che hanno licenziato leggi in favore di condoni infausti per il territorio, che hanno bloccato da anni qualsiasi seria misura per il contenimenti del consumo di suolo, che scelgono ostinatamente di investire in grandi e pesanti opere invece di mobilitare risorse per la salvaguardia e il risanamento idrogeologico e per gli interventi antisismici,   che autorizzano le maledette trivelle. Che concedono licenze premio per lo sfruttamento delle spiagge con annesse costruzioni mai abbastanza effimere, manomettono le regole nazionali e europee con l’infame Decreto legislativo 104, che rende la valutazione di impatto ambiente un affare contrattato tra imprese e governo.  Coi sindaci del Pd in prima fila nella cura del ferro perfino sotto le piazze di Firenze e le regioni che come in Sardegna approvano il maxi aumento di volume per hotel e lottizzazioni sul mare, a imitazione del piano casa di Berlusconi. Perfino in questo caso l’ambientalismo di governo si mostra per quello che è. Una montatura retorica a copertura di opachi interessi privati: in barba ai capisaldi ecologici del riuso e del riciclaggio, i sacchetti sono monouso e – se resistono – possono essere usati unicamente per la raccolta domestica dell’umido con gli esiti che qualsiasi regine dalla casa conosce. Ci si accontenta di poco. Gli shopper dovranno essere biodegradabili e compostabili secondo le norme UNI EN 13432 con un contenuto di materia prima rinnovabile di solo il 40%, che diventerà del 50% dal 2020 e del 60% dal 2021, (proprio quella dei sacchetti Novamont?). Sicché viene meno gran parte dell’obiettivo ambientale: la loro vita è lunghissima e pure questi come quelli dell’ancien règime ce li ritroveremo sull’Everest o a soffocare gli atolli tra qualche secolo, ammesso che la terra e noi resistiamo a certi ambientalismi. Un gran numero di anime belle è molto attivo sul web, chi per raccontarci delle sue abitudini virtuose grazie a acquisti equi nel mercatino solidale, chi con la sporta di rete nel biologico a km zero e perfino chi con l’orticello sul terrazzo dell’attico. Poi ci sono quelli che insorgono: vi siete bevuti tutte le baggianate e avete subito tutti gli affronti inferti a lavoro, scuola, pensioni, cure e diritti e adesso improvvisamente vi svegliate per un furtarello che vi costerà 7 euro l’anno? Sarò pure un’arcaica anarchica arruffona, ma in mancanza d’altro vedo come un segnale positivo anche i fermenti per il pane e l’assalto ai forni, considero un risveglio modesto ma non trascurabile quello di gente che dopo essere stata convertita in merce da essere comprata e venduta, con l’unico superstite diritto, quello di consumare, non ha più i beni per esercitarlo e magari si ricorda degli altri perduti, espropriati. E si arrabbia.

Sacchetti frutta biodegradabili, il paradosso della balena. Piangiamo se muore, non spendiamo per salvarla. Siamo pronti a tutto per costringere la Cina a inquinare di meno, ma quando tocca a noi le cose cambiano. La soluzione è un patto tra ambientalismo e modernità, scrive Antonio Pascale il 3 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". L’ambientalismo esiste perché c’è benessere. O meglio esiste laddove è arrivata la modernità. Ambientalismo e modernità non dovrebbero quindi essere nemici, sono gemelli, due facce della stessa medaglia. Entrambi si preoccupano di introdurre buone pratiche per risolvere alcune questioni molto seccanti. La fame, la malattia, la carestia sono tra queste e se per esempio ora avevamo lo stomaco vuoto di certo non avremmo dato credito né alle battaglie né al buon senso ecologista. Il diciannovesimo secolo è stato meraviglioso, ripete spesso Robert Fogel. Come meraviglioso? Due guerre e un olocausto. Si, vero ma siamo riusciti e con poche innovazioni a sconfiggere la fame la malattia e le carestie. Dunque, con un corpo meglio nutrito e con buone pratiche igieniche abbiamo raddoppiato l’aspettativa di vita e triplicato la popolazione (nei primi anni del Novecento eravamo due miliardi), abbassato in gran parte del mondo e quasi a zero la mortalità infantile. Si segnalano poi incoraggianti progressi per la mortalità delle donne per parto (in discesa) e per l’alfabetizzazione femminile (in alcuni Paesi africani è il doppio di quella maschile). Se non è progresso questo allora tocca metterci d’accordo sulla parola. Il benessere ha dato spazio all’ecologismo, se hai fame bruci le foreste per coltivare, se sei molto povero, se troppo ricattato dalle contingenze per permetterti uno sguardo lungimirante. Quindi vista la fratellanza è un peccato che spesso l’atteggiamento ecologista sembri (culturalmente) fondato sui bei tempi andati, oppure, nei casi estremi, esprima una sorta di disgusto per l’uomo: l’uomo è corrotto e la sua impronta ecologica ci distruggerà (che poi forse distruggerà la specie umana ma non la natura nel suo complesso). Da questo atteggiamento derivano alcune fisime, calcoli ad libitum su quanto inquiniamo e su quale pratiche adottare per salvaguardare il nostro habitat. E toccherà prima o poi ammetterlo, spesso l’atteggiamento ecologista è normativo sì ma con il nostro vicino. Quando tocca a noi le cose cambiano. Voglio dire, spinti come siamo dal furore vogliamo risolvere tutto è subito, purificare ogni luogo senza tenere a mente la complessità geopolitica e altri e importanti fattori. Cosi andiamo in Cina per annunciatore agli inquinatori l’aumento di 0,8 gradi della temperatura globale, spingiamo per norme e limiti e ci sentiamo rispondere: d’accordo ma l’avete fatto voi. Vi perdoniamo perché non lo sapevate ma ora dateci la possibilità di raggiungere il benessere così che possiamo impegnarci nelle pratiche ambientaliste. Ambientalismo e modernità sono nati insieme e insieme dovrebbero affrontare le sfide. Invece notiamo sempre più spesso che il benessere ci isola dal mondo e l’ambientalismo pure. Va di moda o rischia di diventare di tendenza un atteggiamento schizofrenico. Piangiamo per varie ed esotiche specie di animali o per le balene vittime della plastica ma ci facciamo afferrare per pazzi qualora ci accorgiamo che il sacchetto bio costa (nemmeno tanto). Salviamo il mondo, la nostra specie o il nostro portafoglio? Ecologismo e modernità devono siglare un patto. Un mondo più pulito (è un mondo più pulito è di fondamentale importanza) necessità di innovazione e ricerca. Il fatto è che entrambe non solo costano ma richiedono collaborazione su vasta scala. La mole di problemi da affrontare è enorme e profonda è la specificità degli stessi, dunque un solo uomo al comando trionfo di buoni propositi pubblicitari non serve allo scopo. Come non serve un ecologismo sempre contro o che si affida a strumenti poco efficaci. Siamo 7, 4 miliardi e presto arriveranno un miliardo di africani e un miliardo di asiatici. Cambierà tutto, e se andrà meglio o peggio dipenderà da noi ma meglio saperlo subito: un nuovo mondo possibile sì certo ma costa.

Eco-tasse. E siamo sempre più poveri e meno liberi, scrive Nicola Porro, Il Giornale 31 dicembre 2017. Siamo arrivati alla tassa sul sacchetto di plastica. Più che al ridicolo, di cui i nostri governanti si rendono poco conto, siamo scesi nell’inferno della schiavitù economica. Un tempo, ahinoi molto lontano, le imposte venivano intese come un corrispettivo per alcuni servizi che lo Stato forniva. La tutela dei più deboli era uno di questi. Era l’imposta di Luigi Einaudi, ma anche del nostro Francesco Forte. Poi è arrivata la tassazione punitiva: togliere ad alcuni per dare ad altri. Il mito della giustizia sociale e della redistribuzione. Un’imposta del tutto velleitaria e fallimentare: le tasse sono altissime, così come il numero dei poveri. Si è arricchito solo l’intermediario, cioè lo Stato. Non funzionando più l’inganno della redistribuzione, si persegue oggi il fine «etico» dell’imposta. Il consumo viene tassato non per fare cassa (che è il vero motivo), ma per il nostro bene, per il futuro green del pianeta. La grande, mostruosa, prova si è avuta con gli incentivi alle energie rinnovabili: sedici miliardi di euro che passano ogni anno dalle tasche delle famiglie italiane a pochi soggetti incentivati. In termini spiccioli su 500 euro di bolletta elettrica annua per una famiglia tipo italiana, la bellezza di 139 euro sono rappresentati da oneri per la cosiddetta sostenibilità. Cerchiamo di essere più chiari: senza pannelli e pale eoliche, oggi gli italiani sopporterebbero una spesa annuale per l’elettricità di 360 euro invece che 500. Si tratta di una tassa occulta che porgiamo, senza accorgercene, sull’altare di un mondo green. Il prossimo passo, non così lontano, sarà di bastonare fiscalmente gli alimenti che il Soviet statale stabilirà dannosi per la nostra salute. L’ipocrisia non vale solo per l’ambiente e la salute. Abbiamo introdotto, praticamente unici in Europa, la Tobin tax. Con l’idea che le speculazioni finanziarie, Soros, Paperon de’ Paperoni e Gordon Gekko, siano dei cattivoni. Il risultato è che le Finanze di Roma hanno incassato un quinto del previsto, ma in compenso abbiamo ucciso i nostri intermediari finanziari e Londra e Francoforte hanno disintermediato l’Italia, facendo affari dove la tassazione sulle speculazioni non ci sono. La morale è che i nostri ricavi (stipendi, redditi da lavoro autonomo) restano stabili mentre le nostre spese legate alla partecipazione alla comunità statale crescono, con il risultato di renderci tutti più poveri e meno liberi. Ieri era per liberare i più poveri dal disagio, oggi per consegnare un pianeta più pulito ai nostri figli. Balle. 

Ancora tasse. Lo Stato ci spreme come gli agrumi, scrive Michel Dessi, il 30 dicembre 20127 su "Il Giornale".

Ora ci fanno pagare anche i sacchetti per la frutta e la verdura. Si, avete capito bene, proprio quelli che utilizziamo per le mele, le banane, i carciofi, le cipolle, le carote… Quei sacchetti ci verranno addebitati sulla spesa di ogni giorno. Incredibile, ma vero. Dal primo gennaio tutto cambia e nulla cambia: le tasse aumenteranno e i poveri rimarranno poveri. D’altronde, cosa potevamo aspettarci da questo governo appena sciolto se non la fregatura? In Italia troppe cose non vanno per il verso giusto. Troppi cittadini Italiani sono stati abbandonati. Rita ne è un esempio, è costretta a vivere con una misera pensione di 260 euro. DUECENTOSESSANTA, l’unica sua entrata. Rita è affetta da mille patologie, eppure è costretta a marcire nella sua povera casa popolare. Dimenticata da tutti. Ha provato a chiedere aiuto allo Stato ma, chiaramente, non ha riposto. Non sa più a chi rivolgersi, è disperata. Per lei non esiste il pranzo o la cena, mangia quello che le capita, quello che le viene offerto. Ormai è abituata a razionare il poco cibo che riceve ad intermittenza dalla Caritas parrocchiale: una piccola busta (tassata) con un pacco di pasta, dei pomodori pelati (se le va bene), pane raffermo e qualche pacco di biscotti. La carne? Non la mangia da mesi e il frigorifero resta vuoto. Eppure a nessuno interessa, neanche al sindaco del suo piccolo paese alle pendici dell’Aspromonte, Cittanova. Come lei tanti altri, anche troppi. La povertà aumenta sempre di più e loro cosa pensano di fare? Aumentare le tasse. Bollette, pedaggi, trasporti, Rc Auto… Tutto questo nonostante i servizi non funzionino. Ne è un esempio la Messina – Palermo, la mulattiera delle autostrade. Il pedaggio costa dieci euro e dieci centesimi. Un po’ troppo per un’autostrada dissestata, piena di buche e trappole mortali. Quando piove si trasforma in un torrente in piena e il rischio per gli automobilisti è sempre dietro la curva. Ma come si può chiedere così tanto ai cittadini? Con quale barbaro coraggio? Non riesco a darmi una risposta. Lo stesso vale per i trasporti, soprattutto al Sud. Qui potremmo prendere come esempio la Calabria. I treni, quando va bene, sono quasi sempre in ritardo. Lo Stato ci spreme proprio come gli agrumi che mettiamo ogni giorno nel sacchetto.

INPS E PENSIONI: VERGOGNA DI STATO.

Prima voce: contributi INPS a carico del datore di lavoro e prima mistificazione totale. Ciò che l’azienda paga per il lavoro effettuato, indicato in busta paga come “lordo annuo” (supponiamo 1200 euro), non è affatto un “valore lordo” come indicato. Facciamo un esempio concreto: se un lavoratore percepisce uno stipendio lordo mettiamo di 100 euro mensili, i contributi definiti “a carico dell’impre­sa”, sostiene Magiar, ammontano a 53 euro che non appaiono in busta paga. Se il lavoratore costa al datore di lavo­ro 100 euro più 53 euro, è evidente che il “vero lordo” è 153 euro. Un terzo di questa prima voce (53 euro, che, lo ripetiamo, è denaro di “proprietà” del lavoratore), se ne va solo per questo contributo “garantito” da una “Promessa di pensione” fatta dall’INPS, un ente gestito da comitati di burocrati e sindacalisti, pagati profumatamente dai lavoratori stessi, che sanno benissimo che nelle attuali condizioni la “promessa” non potrà essere mantenuta né per tutti i lavoratori attuali né per le generazioni future.

La seconda voce del prelievo forzoso dallo stipendio del lavoratore dipendente è costituita dai contributi INPS a carico del lavoratore, definiti ironicamente «volontari», del 9 per cento pagati dall’impresa per conto del lavoratore (calcolati sul “falso” lordo di 100 euro). Come già riportato sopra, abbiamo chiamato “falso” il “lordo” perché il lavoratore non si rende esattamente conto di quanto viene prelevato dal reddito che produce; prelievo che fino ad ora corrisponde esattamente a 62 euro (53 più 9) sui 153 che costa all’azienda per il lavoro da lui svolto; dei 153 euro di sua proprietà adesso gliene restano 91.

Sul portale di Beppe Grillo vi è stato pubblicato un post di Federico Saccani che rende bene l’idea su come lo Stato persegue il piccolo strozzino, ma rende impunita l’usura bancaria e, cosa più grave, è esso stesso usuraio impunito.  Equitalia è la società per azioni, a totale capitale pubblico (51% in mano all'Agenzia delle entrate e 49% all'Inps), incaricata dell'esercizio dell'attività di riscossione nazionale dei tributi e contributi. Vediamo come la cosa è un costo ed un pericolo per il contribuente:- la creazione di questo ente porta in sé un aumento della pressione fiscale, infatti essendo a capitale pubblico ha un costo di gestione (più enti più costi). Se avrà un attivo di bilancio saranno i cittadini con le loro tasse ad averlo realizzato, se avrà un passivo saranno i cittadini con le loro tasse a doverlo risanare. La proprietà è di due "agenzie" pubbliche che, per quanto attiene alle loro riscossioni, sono in esemplare conflitto d'interessi. Esempio pratico dell'aumento della pressione fiscale e del conflitto d'interessi: negli anni passati l'INPS comunicava ad un commerciante che dimenticava il pagamento di una rata, un avviso bonario con la richiesta del saldo e l'aggiunta degli interessi, il tutto prima di provvedere ad azioni onerose per entrambi. Oggi, il contribuente che dimentica il pagamento di una rata si vedrà recapitata dall'Equitalia una cartella di pagamento con l'importo dovuto e l'aggiunta degli interessi (come avveniva prima), ma con l'aggravio dell'aggio di riscossione per l'esattore (circa il 5% dell'importo totale in più, il 9% in caso di ulteriore ritardo). In questo caso il creditore è anche esattore. Vediamo come un ente in conflitto d'interessi (INPS) così facendo aumenta la pressione fiscale su quel cittadino del 5% o più, fino al 100% e oltre.

"Usura di Stato". Cosa accade se il contribuente paga la cartella esattamente un anno dopo:

4% annuo all'ente impositore;

6,8358% annuo interessi di mora;

0,615% annuo all'agente della riscossione (cioè, il 9% sugli interessi di mora, come detto pari al 6,8358% annuo);

totale interessi pari all'11,4508% annuo. Dobbiamo aggiungere la sanzione amministrava del 30% e l'aggio nella misura del 9% per un totale del 50,4508%.

Probabilmente alcuni usurai sono meno onerosi... Se nel frangente Equitalia avrà iscritto un'ipoteca o un fermo amministrativo i costi di accensione e chiusura saranno a carico del debitore e si aggiungeranno al montante, facendo lievitare la spesa totale oltre il 100%. (I costi per le trascrizioni nei registri sono altre tasse da pagare allo Stato). Questo caso evidenzia come nella migliore delle ipotesi, quella della buona fede dell'ente, il cittadino sia comunque taglieggiato; non parliamo di evasori fiscali, ma di contribuenti che hanno dichiarato i propri redditi ed hanno semplicemente saltato un pagamento per errore o per necessità dovuta alla contingenza economica, malattia ecc. I signori del fisco infatti mettono nelle statistiche ed intendono evasori anche quelli che hanno dimenticato una rata o che l'hanno pagata in ritardo, al solo fine di giustificare azioni di recupero immorali e sproporzionate. Sappiamo che molte tasse ed imposte devono essere pagate in anticipo dai contribuenti, significa che lo Stato obbliga alcune categorie ad un prestito forzoso in suo favore. Se non riesco a pagare l'acconto iva (perché non ho denaro da prestare allo stato), al momento in cui avrò incassato la tassa verserò il 50% in più di quanto dovuto. Potrebbe succedere anche che ci sia un errore per dolo o per inerzia, che porti all'iscrizione a ruolo importi non dovuti. Visti i dati sul contenzioso possiamo dire con certezza che nei tre gradi di giudizio il cittadino ha ragione nella maggioranza dei casi. La politica da sempre ha dimostrato pessima capacità di gestione del bene pubblico spendendo molto e male il denaro dei contribuenti, ma anche il denaro che i contribuenti dovranno versare in futuro (debito pubblico). Sappiamo tutti che l'aumento dichiarato della fiscalità generale genera una riduzione dei consensi nei confronti di chi la applica, non appare quindi anomalo che alcune leggi in materia tributaria siano state apportate, dalla classe dirigente, non per ridurre l'evasione come falsamente dichiarato, ma con lo scopo di aumentare le imposte in maniera occulta, vizio peraltro in uso in l'Italia da diverso tempo, (l'iva incorporata nei prezzi, sostituto d'imposta, accise ecc.). La classe politica negli anni ha emanato norme e leggi che diminuiscono fortemente le facoltà di difesa del cittadino contro le richieste economiche sempre maggiori dello Stato nella sua interezza (Regioni, comuni, enti ecc.), costringendo i cittadini a pagare somme non dovute per evitare danni irreparabili al proprio patrimonio.

Hai ragione e ti pignora la casa per pochi euro. Sul “L’Espresso” il dossier.

Un grande falò di cartelle esattoriali sotto la Mole Antonelliana. Parte da Torino la rivolta fiscale contro Equitalia. Sono pronti a migliaia per la prima class action, proprio come nei film americani, che porterà davanti al giudice quello che definiscono il nuovo sceriffo di Nottingham: il fisco impazzito. Non difendono certo gli evasori e le frodi. Anzi, denunciano i metodi della società pubblica che riscuote tasse, contributi Inps, Iva, multe e canone Rai per conto dello Stato. Nel 2006 fu armata dal governo per scucire il dovuto ai più incalliti nemici del fisco, ma sta diventando l'incubo di un'altra categoria: artigiani senza più commesse, commercianti oberati di debiti, famiglie monoreddito stremate dai conti di casa. Secondo i dati diffusi per la prima volta, i 18 milioni di cartelle inviate solo nell'ultimo anno e i 40 milioni fra solleciti, notifiche e avvisi di pagamento colpiscono con la stessa rudezza furbi e imbroglioni, ma pure cittadini con colpe veniali e magari pronti a pagare. Gente che si vede trattare dagli sceriffi di Equitalia come ricercati. E che sfinita si sta ribellando.

Tutta Italia ne ha parlato. In galera per una settimana per aver omesso di versare 134 euro di contributi Inps. Siamo il Paese dove i grandi evasori fiscali quasi mai finiscono dietro alle sbarre, dove in Parlamento siedono liberi deputati e senatori condannati per mafia, dove le pene sono più teoriche che effettive, fatta eccezione per i poveracci e gli sbadati. Lo sa bene l'artigiano trentino che per una micro evasione contributiva rischiava di passare il Natale in carcere, benché certo non sia un delinquente.

Cosa era accaduto? L'uomo, in passato titolare di una ditta individuale, nel 2006 omise un versamento contributivo da 134 euro. Una cosa di poco conto insomma che poteva essere sanata con il pagamento e una piccola sanzione. Per qualche ragione ciò non avvenne e quella che era una bagatella si trasformò in un procedimento penale. All'inizio del 2010 l'artigiano venne processato e l'8 febbraio del 2010 fu condannato in contumacia a tre mesi e 300 euro di multa. Non beneficiò della sospensione condizionale forse perché aveva avuto un'altra condanna simile: un mese per un altro mancato versamento di contributi Inps da 68 euro. Per quella prima condanna l'uomo - padre di famiglia con moglie e una figlia piccola - aveva intrapreso un percorso di "riabilitazione" seguito dall'Ufficio esecuzione pene esterne. Al passaggio in giudicato della seconda condanna - quella più pesante a 3 mesi - all'artigiano venne notificato un ordine di esecuzione pena con sospensione di 30 giorni per permettergli di ricorrere al medesimo servizio. L'uomo però, che in quel momento non era seguito da un avvocato, ha erroneamente creduto che gli avvisi si riferissero sempre al primo procedimento, per cui era già seguito dall'Ufficio esecuzione. Certo l'artigiano ha commesso una grave leggerezza, pagata cara. Infatti, ha ricevuto una telefonata da parte dei carabinieri che gli dovevano notificare degli atti. Dopo aver salutato moglie e figlia convinto di dover solo ritirare una carta, ha scoperto in caserma che per lui si stavano aprendo le porte del carcere. Solo a questo punto è stato chiesto l'intervento di due avvocati di fiducia, ma la "frittata" era ormai fatta.

Il consigliere regionale Alberto Goffi è una specie di Robin Hood che viaggia per Torino su una jeep verde con il numero di cellulare sulla fiancata. È lui che ha chiamato a raccolta questo popolo e ha ingaggiato un duello inedito fra due soggetti pubblici: il locale ufficio di Equitalia Nomos e l'Osservatorio messo in piedi dalla Regione Piemonte, che gli fa le pulci. Un duello che potrebbe allargarsi a macchia d'olio in tutto il Paese. E così in mezzo a chi le tasse non le paga davvero, nasconde capitali all'estero, distrugge le multe e con le bollette riempie i cuscini, c'è sempre più gente come Anna: dopo la crisi della Fiat per mandare avanti l'azienda che faceva componenti per auto ha congelato i versamenti Inps. Aveva un debito da 300 mila euro, che nel frattempo è salito a più di un milione. E non si ferma. La rata da 37 mila euro al mese non la reggeva. Così, adesso che gli ordini sono tornati a salire e avrebbe lavoro per un decennio, sta licenziando e chiuderà baracca: "L'interesse annuale è più alto del debito, così io pago ma non finisco mai. Mi hanno portato via tutto, mobili, macchinari, auto e casa. Mi resta l'orologio che mi regalò mio marito e ho paura che me lo sfilino dal polso. Secondo lei, se volevo evadere mi intestavo tutto?". C'è Francesco, 46 anni, licenziato, bimba a carico. S'è visto ipotecare il mini-appartamento per non aver pagato il canone Rai. C'è Giorgio, 39 anni, cassintegrato: "Il mutuo mi mangia tutto e quelle vecchie multe di quattro anni fa si sono trasformate in un incubo: il debito è triplicato, paghiamo ogni mese e non scende mai". E c'è Giovanni, 60 anni, che fornisce macchinari alle carceri. Stavolta è lo Stato che ha smesso di pagarlo e così lui non ha potuto versare i contributi Inps per i tre dipendenti. Solo che adesso quello stesso Stato è pronto a mettergli all'asta la casa.

Nell'ottobre 2009 Equitalia mandò un preavviso di ganasce fiscali addirittura al Radio Soccorso di Torino, che trasporta i malati di cancro. Il tutto per un debito di 3.058 euro su una vecchia tassa rifiuti. "Una cosa è la caccia ai delinquenti, che ogni anno nascondono allo Stato 120 miliardi di tasse e vanno presi. Altra cosa è infierire su questi poveracci per fare cassa", dice Goffi.

Ecco il punto. Dal 2009 l'Agenzia delle Entrate ha diminuito le "commesse" per Equitalia: meno riscossioni con la forza, più disponibilità a trattare con i presunti evasori per ottenere in via bonaria e in tempi più rapidi il dovuto. In questo modo l'Agenzia incassa direttamente oltre il 67 per cento dei crediti, lasciando alla società di riscossione circa un caso su tre. E così Equitalia si concentra sempre di più su multe, canoni, Tarsu e ritardi di pagamento o sui piccoli imprenditori soffocati dalla recessione. Applicando le stesse ipoteche e pignoramenti previsti per chi evade, anche per poche centinaia di euro. L'effetto pratico è bizzarro: l'evasore consapevole, mimetizzato dietro off shore e conti esteri, senza case da sequestrare né auto da bloccare, se la cava spesso con un concordato. Mentre il cittadino che ogni anno compila il modello Unico, ma non ha i quattrini per saldare, si vede spogliato di tutto. Emblematico il fenomeno della case ipotecate spesso per pochi spiccioli. A "L'espresso" Equitalia ha fornito un primo quadro nazionale. Si parla di oltre 616 mila ipoteche iscritte dal 2007 al 2010. E sarebbero già tante. Eppure Federcontribuenti ripete che il dato non è attendibile e che in Italia le ipoteche sarebbero già oltre un milione e mezzo. "Basta leggere i dati della Provincia di Torino trasmessi alla Regione. Oggi in un territorio di 2 milioni di abitanti ci sono almeno 39 mila ipoteche attive. Impensabile che in Italia siano poco più di 600 mila, soprattutto se si considera che nelle grandi città come Roma e Napoli il fenomeno è storicamente più diffuso", spiega Goffi.

A dimostrare che i provvedimenti non scattano solo nei confronti degli evasori veri, c'è il boom di ricorsi da Roma a Milano. Centinaia di persone si sono trovate l'ipoteca per debiti inferiori ai mille euro, magari per vecchie multe. A chi s'è presentato allo sportello di Equitalia la risposta è stata sempre la stessa: "Noi applichiamo la legge". Lo ripetono tutti. Dal responsabile comunicazione dell'Equitalia, al direttore generale. Peccato che la Cassazione l'abbia smentito, dichiarando illegittima l'ipoteca della casa per meno di 8 mila euro. Equitalia ha preso atto e ha subito promesso di cancellare senza oneri per il contribuente le ipoteche irregolari iscritte dal 2007. Eppure finora non è accaduto nemmeno questo, in un rimpallo su chi debba sborsare i quattrini necessari. C'è pure il caso di chi, come Gianni di Milano, artigiano nel settore del mobile, s'è visto mettere all'asta la sua quota di casa che divideva con la moglie. Il 50 per cento è finito in mano a un estraneo che, pochi giorni dopo, ha cominciato a presentarsi a casa a tutte le ore: "Mi diceva questo: o ti ricompri da me la tua quota al doppio del prezzo o vi rendo la vita impossibile. Per me è cominciato un incubo". "Questi sono problemi che stanno emergendo e su cui è necessaria un riflessione sia a livello politico, sia di sistema", ammettono ai piani alti dell'Agenzia delle Entrate. Che vi sia un abuso lo conferma l'avvocato Carmelo Calderone. Siede in quasi tutte le commissioni tributarie d'Italia, da Trieste a Messina, e da tempo denuncia le storture del sistema: "La vessazione è evidente. Nell'ultimo triennio Equitalia nel Lazio ha attuato l'ipoteca al 69 per cento dei proprietari raggiunti da una cartella. È così che la bandiera della presunta lotta all'evasione sventola fiera sui tetti degli immobili ormai diventati di Equitalia".

Il fatto è che per sopravvivere la piovra di Stato Equitalia deve fare budget. E per riuscirci non guarda in faccia nessuno. Al Capone e la vecchietta con 500 euro di pensione che non è riuscita a pagare la tassa immondizie per loro sono la stessa cosa. "Lo dice la legge", ripetono ai call center. È vero, è una società pubblica (51 per cento di proprietà della Agenzia delle entrate, 49 dell'Inps). Un baraccone all'italiana con 8 mila dipendenti, come un ministero, che ha raccolto i rami secchi del vecchio sistema di riscossione privato abrogato nel 2005 dal ministro Vincenzo Visco. Per mandarlo avanti l'unico introito sono proprio le cartelle esattoriali. Su ogni debito contestato, alla società spetta il cosiddetto aggio, ovvero un interesse del 9 per cento. Una specie di gabella che si calcola sull'importo già maggiorato dalle sanzioni e non sul debito reale che il cittadino ha contratto. Significa che più cartelle spediscono, più notifiche mandano, più avvisi recapitano e più incassi fanno.

Di gente tartassata così ce n'è a migliaia. E l'incubo che grava sul Paese ha i numeri di una catastrofe finanziaria. Basta guardare una cartella esattoriale per capire che il sistema è destinato a esplodere, col debito che aumenta anche di quattro o cinque volte. In un caso documentato, un piano di ammortamento datato 18 dicembre 2009 partiva da circa 350 mila euro. Contributi in ritardo perché l'impresa doveva scegliere fra licenziare a Natale metà dei dipendenti o sospendere l'Inps in attesa di tempi migliori. L'hanno fatto decine di migliaia di aziende del Nord. Per Equitalia è evasione fiscale. Così ha fatto i conti e l'importo iscritto a ruolo è salito a oltre 544 mila euro, poi a 726 mila con gli interessi di mora. In più, su ognuna di quelle cartelle, la società si porta a casa il famoso 9 per cento: 25 mila euro calcolati sull'importo iscritto a ruolo, cioè già gonfiato. A questo punto l'imprenditore accetta di rateizzare e il calcolo riserva l'ultima amara sorpresa: il debito sale a 828 mila euro.

Senza tirare in ballo le migliaia di cartelle "pazze", multe mai ricevute che riappaiono dieci anni dopo con importi cinque volte superiori, capita anche che la contravvenzione annullata dal giudice di pace prosegua comunque il suo iter di riscossione. E che Equitalia ti mandi la cartella esattoriale. Nessuno è tenuto a informarla che quella sanzione sia ormai illegittima. E l'unico che resta fregato è il contribuente. L'importo cresce anche del 120 per cento e, se non viene coperto entro i fatidici 60 giorni, scatta il blocco dei beni. L'avvocato Antonella Nanna della Federconsumatori è in prima linea nel denunciare le storture del sistema. Dal Lazio alla Toscana, da Napoli a Trento sono migliaia le segnalazioni: "Un nostro associato aveva ottenuto l'annullamento di una cartella esattoriale con liquidazione delle spese processuali a suo favore, eppure s'è visto notificare un fermo all'auto", racconta. Un altro, con tanto di sentenza favorevole della commissione tributaria che prevedeva il rimborso di somme che aveva già versato a Equitalia, non ha ottenuto la restituzione dell'importo perché non era possibile stabilire chi dovesse risarcirlo.

E così la rivolta torinese è ormai una rivoluzione nazionale. Dal Veneto alla Lombardia, dalla Toscana alla Puglia, le storie sono tutte simili e drammatiche. Un circolo vizioso, secondo il presidente dell'Api torinese Fabrizio Cellino, il primo industriale italiano a schierarsi apertamente contro Equitalia. "Nelle regioni produttive del Nord oggi pesa perfino più della crisi economica: se un artigiano o un commerciante è in difficoltà, magari perché proprio lo Stato ritarda i pagamenti, Equitalia pignora e segnala la posizione alla centrale rischi. Il debito aumenta e molti chiudono. O finiscono nelle mani degli usurai. Mentre lo Stato non paga mai", spiega. La loro proposta al ministro Giulio Tremonti è una moratoria che consenta ai vessati di uscire dal gorgo dei debiti, per ripartire con la caccia all'evasione quando le regole saranno più eque.

Che il problema esiste, l'Agenzia delle Entrate lo sa. Tanto che ha varato il cosiddetto "bon ton" del fisco. Il gran capo Attilio Befera, che è anche presidente di Equitalia, è dovuto ricorrere a una severa lettera di richiamo per riportare a modi più civili il comportamento dei suoi segugi. Non che gli evasori meritino il guanto di velluto, ma la mossa indica il bisogno di cambiare il clima tra erario e contribuenti, soprattutto in vista della nuova battuta di caccia che si aprirà a breve: tra il 2011 e il 2013 all'Agenzia tocca di scovare 20 miliardi di euro che oggi le sfuggono e riportarli a casa. E se per l'Agenzia il sistema funziona meglio non si può dire che Befera abbia ottenuto grossi risultati con Equitalia, anch'essa con un obiettivo ambizioso: aumentare le riscossioni di un miliardo entro il 2012 (oggi è a quota 8).

Mentre da un lato il mastino di Giulio Tremonti sul fronte del fisco si preoccupa di bon ton, dall'altro si rafforzano i poteri del braccio operativo di Equitalia. Già superiori a quelli della stessa Guardia di finanza. Arrivano, notificano, pignorano, sequestrano, ipotecano, bloccano i conti senza nemmeno la necessità di un giudice che firmi. Ma non è finita. Dal 2011 la società ha anche un'altra arma: quella di agire direttamente sul contribuente infedele con indagini finanziarie che fino a oggi erano riservate all'Agenzia e relegate alla procedura penale, e rispetto alle quali il contribuente godeva di garanzie e tutele. Gli esattori potranno eseguirle in via amministrativa e guardare così nei conti correnti e negli investimenti di chiunque.

Nel 2008 è nato pure il Fondo giustizia, che incamera tutti i denari bloccati da un provvedimento giudiziario e finora depositati nelle banche. Si tratta di 1,7 miliardi, che Equitalia dovrà investire come fosse un gestore finanziario (incassando un aggio del 5 per cento sull'utile). Sempre per il ministero retto da Angelino Alfano, la Spa guidata da Befera dovrà recuperare i crediti delle spese processuali e le sanzioni pecuniarie maturate alla fine di un processo. Fra i pezzi grossi di Equitalia vige la regola del silenzio. A Torino l'amministratore delegato Nicola De Chiara non riceve giornalisti. Al centralino puoi chiamare decine di volte, che tanto nessuno ti passa nessuno. L'unico modo per parlarci e andarci di persona. Ma niente contatto diretto. "Parlate con Roma", rimbalza la segreteria. Eppure, fuori microfono, qualcuno che ammette gli errori c'è. Una mail riservata, partita dagli uffici milanesi, invita a osservare una coincidenza quanto meno bizzarra: mentre Equitalia continuava ad accumulare ipoteche sulle case nei mesi dello scudo fiscale, buona parte dei capitali che rientravano dai conti dei veri evasori all'estero (pagando solo il 5 per cento del dovuto) è finita proprio sul mercato immobiliare. Vale a dire che, oltre a portarsi in Italia milioni di euro con meno di un ventesimo di quello che versano i contribuenti trasparenti, quei soldi sono spesso serviti ad accaparrarsi, sottocosto, ville e appartamenti messi all'asta da Equitalia. Un trend che al quartier generale dell'Agenzia delle entrate a Roma osservano a distanza: "C'è anche un aspetto positivo: quegli evasori rientrati dovranno pagare le imposte e noi ora sappiamo dove sono. E possiamo controllarli". Peccato solo che molte di quelle case le ha perse gente che i redditi li aveva almeno dichiarati.

L’Inps ha revocato il 13% delle pensioni d’invalidità e delle indennità di accompagnamento, con punte di quasi il 22% in Sardegna e Sicilia, del 19% in Calabria e del 15,5% in Campania e Puglia. Le prestazioni sono state annullate per il venir meno o per l’insussistenza dell’invalidità, accertata in seguito a una visita effettuata dai medici dell’Inps. Si tratta, dice il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, di «una campagna senza precedenti».

Come prevede l’articolo 80 della legge 133 del 2008, tutti e 200 mila i controlli previsti saranno conclusi, assicura il presidente. E si può stimare che, con una percentuale di revoche del 12-13%, si potranno risparmiare più di 100 milioni di euro all’anno. Le pensioni d’invalidità sono in tutto 2,6 milioni, per una spesa totale di circa 13 miliardi di euro. Se tutte fossero sottoposte a verifica, e pur scontando una percentuale complessiva di revoche inferiore (visto che il cam­pione sottoposto a controlli e stato selezionato tra le situazioni più a rischio), si potrebbe tranquillamente arrivare a un risparmio di almeno un miliardo di euro all’anno, dicono i tecnici dell’Inps.

Anche alla luce dell’esperienza in corso, annuncia Mastrapasqua, l’Inps presenterà al governo una serie di proposte per migliorare la situazione. «A partire dal contenzioso: oggi ci sono più di 400 mila cause pendenti tra cittadini che rivendicano la pensione d’invalidità e l’amministrazione. E nella maggioranza dei casi noi perdiamo per semplice inefficienza. Per esempio, perché i fascicoli presso le Asl sono ancora cartacei e spesso non si trovano più o perché l’ente in questione non si presenta durante la causa».

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un c.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L'Inps ha i conti in rosso ma ai figli degli statali paga le vacanze all'estero. Mantenuto il privilegio previsto dall'Inpdap, anche se il buco è di 13 miliardi: campus e corsi di lingua estivi per 35mila ragazzi, scrive Antonio Signorini, Domenica 13/03/2016, su "Il Giornale". Vacanze pagate, parzialmente o totalmente, a beneficio di ben 35 mila ragazzi. Il tutto a spese dell'Inps. Per 22.520 studenti si apriranno le porte di corsi estivi di lingua all'estero, altri 12 mila e 730 si accontenteranno di vacanze in Italia. Detta così sembra una notizia fantastica visto che la maggioranza dei genitori, gravati da tasse e contributi, non possono permettersi di sostenere i costi di campus e corsi di lingua. Ma quella di «Estate InpSieme» è un'altra storia italiana, fatta di generosità selettive se non malriposte e di conti pagati da altri. La vacanza finanziata con i soldi della previdenza è infatti offerta esclusivamente ai figli di lavoratori pubblici, attivi o in pensione. Residuo di un'era in cui lo Stato sociale era generoso anche con le giovani generazioni. Salvo poi, una volta tirate le somme, pesare sulle stesse lasciandogli in eredità conti sballati. Prima si chiamava «Valore vacanza» ed era un bastione dell'Inpdap, l'istituto di previdenza pubblica che nel 2012 è stato inglobato dall'Inps con il suo carico di bilanci in perdita e inefficienze. La fusione del mondo pubblico con quello privato non ha portato a una omologazione dei trattamenti e così le vecchie vacanze per i figli degli statali sono state confermate anche dalla gestione Inps, che non aveva e non ha niente di simile per i figli dei dipendenti privati. L'istituto si è perlomeno premurato di dare al «concorso» un nuovo nome. Qualche cambiamento c'è stato nei metodi di compilazione della graduatoria. Ora viene compilata sulla base di nuovi criteri di merito. Impossibile partecipare se lo studente è stato bocciato o se ha debiti. Quasi scontato, verrebbe da dire per chi pensa in termini privatistici. Ma non l'hanno pensata cosi centinaia di statali che tempo fa hanno presentato una class action contro questa novità introdotta dall'Inps e considerata «discriminatoria». Non è cambiato, invece, il numero di giovani che hanno accesso alle vacanze pagate, l'entità dell'aiuto Inps né il tipo di trattamento. L'offerta è rivolta a studenti della scuola secondaria superiore, per soggiorni da effettuare tra giugno e agosto in Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania e Spagna. L'Inps paga aereo, transfer dall'aeroporto, corso, college, vitto e assicurazione per un massimo di 2.400 euro per soggiorni di 15 giorni e di 4.000 euro per quelli di quattro settimane. Il programma italiano è meno generoso (il contributo è al massimo di 1.400 euro), ma l'impegno formativo è meno pressante (solo tre ore al giorno di corsi). Diritto acquisito, prestazione pagata con i contributi è l'obiezione che si potrebbe fare. Giusto, se non stessimo parlando di una gestione, quella dei pubblici dipendenti, che non sta in piedi da sola e che, seguendo una logica di equità, non potrebbe permettersi lussi. Il rosso dell'Inps sfiora i 13 miliardi di euro e la gestione delle pensioni pubbliche contribuisce a questo sbilancio per quasi sei miliardi di euro. La gestione dei parasubordinati, lavoratori con un futuro previdenziale più che incerto, contribuisce in positivo al bilancio Inps per sette miliardi di euro. Sono loro a tenere su la previdenza. E le vacanze dei figli se le pagano di tasca propria.

Baby pensioni: che cosa sono? Tutte persone che sono uscite dal mondo produttivo in base a finestre aperte dalla legge, oggi diventano una sorta di profittatori, gente colpevole di campare troppo a lungo e sulle spalle del sempre più esiguo e spremuto contingente di lavoratori in attività, scrive Stefano Filippi il 4 aprile 2016 su “Il Giornale”. L'Inps ha fatto sapere che in Italia oltre 474mila pensioni sono state liquidate prima del 1980: i relativi titolari, dunque, vivono di rendita da 36 anni e per di più dopo aver lavorato sicuramente meno. I dati sono presi dalle tabelle sugli assegni di vecchiaia e di anzianità e ai superstiti del settore privato (cioè la reversibilità): sono perciò escluse le pensioni di invalidità previdenziale e civile, quelle sociali al minimo e i trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Di conseguenza non sono conteggiati neppure i cosiddetti «baby pensionati», cioè le impiegate del pubblico impiego sposate con figli che fino al 1992 potevano congedarsi con un'anzianità di 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi. L'età media da cui le pensioni hanno iniziato a decorrere è molto inferiore all'attuale: quasi 56 anni per gli assegni di vecchiaia e poco più di 41 per quelle ai superstiti. Nel 2015 le pensioni di anzianità liquidate sono state 238.400 con un'età di decorrenza di 62 anni e mezzo. Nel settore privato supera gli 800mila il numero di pensionati in quiescenza da oltre 30 anni (decorrenza antecedente il 1986) cui si aggiungono altri 527mila assegni di reversibilità. L'effetto mediatico di questi numeri è evidente: sono troppi. Anche perché si tratta di pensioni «pesanti», calcolate con il metodo retributivo basato sugli ultimi stipendi e non sull'ammontare dei contributi effettivamente versati.

Che cosa sono le baby pensioni? Risponde Flavia Amabile il 28 ottobre 2011 su "La Stampa". In questi giorni se ne è parlato molto. Il termine baby pensioni però indica solo quelle godute da lavoratori del settore pubblico che hanno smesso di lavorare a meno di 50 anni di età. Furono introdotte nel 1973 dal governo Rumor e cancellate quasi 20 anni dopo, nel 1992 da Dini.

Chi ne aveva diritto?

Chi aveva 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi se si trattava di donne sposata con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali.

In quanti ne godono?

Sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità concesse in questi anni secondo l’ultimo rapporto della Confartigianato. In media i baby pensionati ricevono un assegno di circa 1500 euro lordi al mese. Cifre di tutto rispetto, se si considera che mediamente incassano la pensione per più di 30 anni, avendo versato pochi contributi. Incassano minimo tre volte rispetto a quanto hanno versato.

Chi sono i baby-pensionati?

Il 78,6% - quasi 8 su 10 - sono dipendenti pubblici. Di questi più della metà (il 56,5%) sono donne. Il restante 21,4% sono persone che godono di regimi speciali. Sono soprattutto persone che vivono al Nord, e non a caso la Lega punta i piedi contro ogni intervento in materia. Il 62,5% è concentrato al Nord. Al primo posto c’è la Lombardia con 110.497 baby pensioni e una spesa di 1,7 miliardi e un record assoluto di 2 baby-pensionati su 10. Al secondo posto c’è il Veneto con 56.785 assegni, il 10,7% del totale. Al terzo e quarto posto Emilia Romagna e Piemonte, rispettivamente con 52.626 e 48.414 assegni, il 9% del totale.

Quanto costano?

Cifre abnormi, se si considerano gli effetti sull’economia di quest’anomalia previdenziale. Costano allo Stato circa 163,5 miliardi, una «tassa» di 6630 euro a carico di ogni lavoratore, sostiene Confartigianato, se si calcola la maggiore spesa che le casse pubbliche sopportano rispetto ai pensionati ordinari. I baby pensionati infatti ricevono un trattamento pensionistico più lungo di 15,7 anni rispetto ad un pensionato medio. Se si calcola la maggior spesa pubblica cumulata per ognuno degli anni di pensione eccedenti alla media, si arriva a 148,6 miliardi di euro. A questa somma bisogna aggiungere la minore contribuzione, pari a 138.582 euro per ogni baby pensionato del settore privato. Sono circa 100 mila e vuol dire 14,8 miliardi di mancate entrate previdenziali. Se invece si vogliono considerare solo le rendite erogate, siamo a una spesa di 9,45 miliardi: 7,43 miliardi per quelle incassate dai lavoratori del pubblico impiego, 2,02 miliardi per i lavoratori sottoposti a regimi speciali. E’ una cifra considerevole, se si tiene presente che nel 2010 la spesa pensionistica, secondo la Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso per i baby-pensionati.

Quanto hanno lavorato?

Forse sarebbe preferibile rovesciare la domanda e chiedere quanto restano in pensione per avere un quadro più chiaro di quello che accade. In media il 48% della vita, ovvero più di 40 anni, se si considera una durata media della vita di 85,1 anni. Ma ci sono 16.953 fortunatissimi baby pensionati che si sono ritirati a 35 anni e che restano in pensione quasi 54 anni, ovvero il 63,4% della vita, molto più della metà della loro esistenza. Da non disprezzare anche la condizione di coloro che sono andati in pensione tra i 35 e i 39 anni: restano in pensione 47 anni, il 55,8% della loro vita.

Esistono baby pensionati famosi?

Sì e sono anche molti e spesso politicamente scomodi. Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, andato in pensione da magistrato a 44 anni (oggi ne ha 60), e che incassa 2.644 euro lordi al mese. La moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone, sposata con il leader della rivolta contro Roma Ladrona, è andata in pensione come insegnante a 39 anni. Su di lei si è scatenata l’ultima lite alla Camera. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che è andato in pensione a 42 anni. E persino Adriano Celentano non si è tirato indietro: è in pensione dal 1988 a 50 anni. A livelli diversi, anche come rendite percepite, l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. Quando compì 48 anni decise di lasciare la Banca d’Italia, di cui era arrivato a ricoprire il ruolo di vicedirettore generale. Un ottimo incarico che si è riflesso sulla pensione: 15 mila euro al mese per 24 anni di lavoro senza che questo impedisca di continuare a ottenere incarichi e stipendi mensili. Un percorso simile quello di Rainer Masera, andato in pensione a 44 anni, dopo una carriera in Banca d’Italia per diventare presidente dell’Imi, l’Istituto Mobiliare Italiano. Da allora lo Stato gli versa 18mila euro al mese.

La Casta dei baby-pensionati Costa 9 miliardi l'anno. Sono oltre mezzo milione gli ex lavoratori che percepiscono vitalizi per i quali non hanno pagato i necessari contributi, scrive Antonio Castro su “Libero Quotidiano" del 25 ottobre 2011. Trenta, quaranta, anche cinquant’anni di vita da pensionato. Paradossi di un Paese, l’Italia, che oggi deve tirare la cinghia. Ma che negli anni Settanta era molto, molto generosa. Mentre si discute se ritoccare per l’ennesima volta l’età pensionabile (ieri la richiesta è e stata reiterata dai giovani imprenditori di Confindustria nel tradizionale meeting autunnale di Capri), di quanti hanno la fortuna di avere un impiego, spulciare i dati dei 535.752 baby pensionati fa salire la pressione e incoraggia una riflessione. Oggi il nostro sistema previdenziale deve sostenere un esborso notevole (9,45 miliardi l’anno) per retribuire un esercito di oltre mezzo milione di (ex) giovani pensionati. E non si tratta di poca cosa, considerando che nel 2010 la spesa pensionistica complessiva, secondo i dati della Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso vero signori e signore che negli anni successivi al 1973 (decreto 1092 varato dal governo Rumor) riuscirono ad andare in pensione con una manciata di anni di lavoro. All’epoca bastavano alle impiegate pubbliche con figli appena 14 anni, sei mesi e un giorno per andare in pensione. E indifferentemente dal sesso tutti i dipendenti statali potevano ambire alla pensione dopo 19 anni, sei mesi e un giorno. Un po’ più sacrificati i dipendenti degli enti locali che potevano ritirarsi con 25 anni di contributi. Vista con gli occhi di oggi - e con la prospettiva di dover lavorare fino ai 70 anni come in Germania - un Eldorado previdenziale. Se a questo regalino previdenziale sommiamo poi l’allungamento dell’aspettativa di vita degli italiani (arrivata a 79,1 anni per gli uomini e 84,3 anni per le signore), ne viene fuori un salasso che rischia di protrarsi per altri 20/30 anni. Già durante la turbolente estate della manovra correttiva si parlò di mettere mano a quest’anomalia tutta italiana. Le tabelle del Tesoro (sulle quali si basa l’elaborazione realizzata per Libero dal Centro Studi Sintesi), sui signori baby pensionati vennero velocemente messe via quando Umberto Bossi oppose categorico il niet della Lega, alleato di peso e indispensabile per la tenuta della maggioranza. E non solo perché la signora Bossi, ex insegnante, è una delle baby pensionate. Manuela Marrone ha fatto l’insegnante fino a 39 anni, e da qualche decennio incassa un assegno mensile di 766 euro. La verità è che in Lombardia (110.497 baby pensionati), Piemonte (48.414), Veneto (56.785) ed Emilia Romagna (52.626), si concentrano una parte importante dei privilegiati. Una mappa che corrisponde più o meno con il bacino elettorale della Lega Nord. Comprensibile quindi i cavalli di Frisia eretti contro qualsiasi intervento dai lumbard. Ma dalle Alpi alla Sicilia la corsa alla baby è uno sport nazionale. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, un tempo sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che ha pensato bene di andare in pensione a soli 42 anni. O Adriano Celentano (in pensione dal 1988 a soli 50 anni). La Cgil - che di fiuto politico ne ha per i possibili interventi governativi che colpiscono i pensionati - ha già messo le mani avanti e ammonito a guardare altrove. Eppure un contributo di solidarietà del 5% su questi assegni (in media 1.357 euro al mese), peserebbe per poco meno di 60/70 euro. Ma consentirebbe di risparmiare quasi cinquecento milioni l’anno. Barricate leghiste a parte, tra gli indefessi paladini dell’assegno pensionistico giovanile troviamo anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che abbandonata la toga e sceso in politica optò per un prematuro pensionamento dalla magistratura e oggi incassa un assegno mensile di 2.644 euro (lordi) al mese. Non se la passa certo male l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, che quando festeggiò 48 anni pensò bene di mettersi a riposo e si deve barcamenare con una pensioncina di 15mila euro al mese. Ma l’Inps ha a libro paga anche banchieri famosi come Rainer Masera (andato in pensione a 44 anni) che devono “sopravvivere” con 18mila euro al mese. Ma l’elenco dei fortunati pubblicato nel libro di Mario Giordano (Sanguisughe, Mondadori), è molto più lungo. Certo questi sono casi limite. Poi c’è la maestra con la pensioncina da 800 euro scarsi al mese. Peccato che chi ha iniziato a lavorare da 20 anni (e dovrà faticare per altri 20) a stento riuscirà a portare a casa una pensione superiore al 60% dell’ultimo stipendio. I signori baby, invece, incasseranno in vita loro, assegno dopo assegno, il 300% di quanto hanno versato.

Baby pensionati, ecco i conti. Fino all’82 per cento in regalo. A chi si è ritirato a 40 anni con contributi per 17 anni il sistema previdenziale «regala» l’82% dell’assegno, scrive Sergio Rizzo il 9 ottobre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «C’è un pezzo d’oro» dentro quasi ogni pensione italiana: ci credereste? Anche nelle più modeste c’è del metallo prezioso, sotto forma di soldi che ci mettono lo Stato e i lavoratori iscritti alla previdenza sociale per compensare la differenza fra l’entità dell’assegno pensionistico e quello che spetterebbe davvero al pensionato sulla base dei contributi versati. Autore della provocazione aurea è Mario Baldassarri, economista ed ex viceministro dell’Economia con il centrodestra, oggi animatore del centro studi Economia reale. Proprio nel momento in cui il tema delle pensioni è di nuovo al centro del dibattito politico, con il governo che vorrebbe aprire a forme di flessibilità e l’Inps che studia una sforbiciatina ai trattamenti retributivi più elevati, lui si è preso la briga di calcolare proprio quella differenza. E i risultati delle sue proiezioni sono decisamente più sconvolgenti di quanto si possa immaginare. Prendiamo il caso dei tanti baby pensionati. Chi avesse cominciato a riscuotere un assegno di mille euro a quarant’anni di età con 17 anni di contributi versati e altri 45 di aspettativa di vita sarebbe stato omaggiato dallo Stato e dagli altri lavoratori con ben 442.800 euro. E non è nemmeno il caso più estremo. Le cosiddette pensioni «baby» sono state eliminate più di vent’anni fa, ma di situazioni simili a questa ne esistono diverse centinaia di migliaia. Per ogni mille euro di pensione, 820 vengono letteralmente regalate al pensionato che si trova in tali condizioni. E se mille euro al mese per un’aspettativa di vita di 85 anni, pari a quella delle donne italiane (per gli uomini è intorno agli 80) fruttano a chi è uscito dal mondo del lavoro a quarant’anni quasi 450 mila euro, per duemila euro si salirebbe a 885.600 euro, per tremila a un milione 328.400 e così via. All’opposto di questa situazione si collocano coloro per i quali la pensione retributiva, calcolata cioè in rapporto allo stipendio, coincide con l’assegno contributivo, vale a dire misurato esclusivamente sui contributi versati. Un punto di equilibrio che nelle proiezioni di Baldassarri calza addosso a pochissimi: almeno 63 anni di età, almeno 43 anni di contributi versati e altri 22 anni di aspettativa di vita. Senza considerare, ovvio, la reversibilità ad eventuali superstiti. I calcoli attuariali del resto sono spietati: riducendo i requisiti anagrafici o i versamenti, il metodo retributivo regala sempre qualcosa. Con questo sistema un lavoratore che si ritirasse a 57 anni con 37 di contributi avrebbe una pensione superiore del 30% a quella contributiva. Un cinquantacinquenne con 35 anni di versamenti, addirittura del 40%. Il che consente di fare anche il ragionamento inverso, e cioè di valutare quanti soldi si dovrebbero rimettere decidendo di andare prima in pensione, come sembrano prevedere alcune proposte in gestazione, ma senza il regalino del metodo e retributivo. A 60 anni e con ben 40 di contributi, il taglio sarebbe del 16,8 % A 58, del 26,9. A 54, del 43,1. «Ad oggi», dice Baldassarri sottolineando che dalla riforma Dini che ha introdotto il metodo di calcolo contributivo sono passati esattamente vent’anni, «oltre il 90% delle pensioni è basato su retribuzioni percepite e meno del 10 % è calcolato sulla base dei contribuiti versati». Non solo. Esistono studi che dimostrano come ancora nel 2050 il 40% degli assegni previdenziali sarà erogato prevalentemente con il metodo retributivo. E questo dà la misura di quella che Baldassarri chiama «una doppia redistribuzione del reddito socialmente perversa: dai giovani agli anziani e dai poveri ai ricchi». I giovani pagano le pensioni agli attuali pensionati e poi, con il metodo contributivo, avranno assegni da fame. E chi ha avuto uno stipendio alto ha oggi una pensione altrettanto elevata senza aver pagato i contributi: un regalo enorme a chi guadagnava tanto, contro un regalino più piccolo a chi guadagnava meno. 

Il presidente dell’Inps Boeri: «Serve un contributo dalle pensioni più alte». Boeri interpellato sul dato delle 500 mila persone in pensione da oltre 36 anni: «In passato sono state fatte concessioni eccessive. Sarebbe opportuno chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani», scrive Raffaella Polato, su "Il Corriere della Sera" del 3 aprile 2016. «Il testo deve essere pronto entro l’8 aprile». Cioè entro venerdì prossimo. Che non è solo la data fissata per la presentazione del Def, il Documento economico e finanziario cui sta lavorando il ministero dell’Economia e che, poi, il governo invierà anche all’Unione europea con l’obiettivo di ottenere il via libera alla «flessibilità» chiesta da Matteo Renzi. Su quel fronte, lascia intendere Tommaso Nannicini, l’esecutivo è certo che onorerà le scadenze. Soprattutto, è convinto di aver raggiunto «la quadra» rispetto ai paletti posti da Bruxelles. Anche se nel frattempo lo scenario generale non è migliorato. Al contrario: la «crescita ancora fragile», come la definisce lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, si vedrà togliere qualche altro «zero virgola». Nannicini non ne fa cenno, dal palco di quel Festival Città Impresa che, poco dopo, assisterà a un nuovo «caso pensioni», sorta di duello a distanza tra il presidente dell’Inps Tito Boeri e i ministri presenti a Vicenza: il primo a sollecitare un «contributo di solidarietà», i secondi a bocciare seccamente l’uscita. Anche questo, d’altra parte, ha a che fare con la «crescita ancora fragile». Se il sottosegretario non la quantifica è perché occorrerebbero dei numeri nero su bianco. Numeri che sono però in arrivo. Venerdì, appunto, insieme al Def. Confermato che il governo aggiornerà le stime sul Pil 2016 e confermato, sebbene non ufficialmente, che la revisione sarà forzatamente al ribasso. Forse non seguirà l’entità dei tagli già annunciati da tutti i maggiori centri di ricerca (dall’Ocse in poi le ultime previsioni non vanno oltre il +1%). Di sicuro, però, una crescita dell’1,6% - cui Palazzo Chigi puntava - non è più un obiettivo raggiungibile. È inevitabile che sia questo quadro, a fare da sfondo ai dibattiti conclusivi del Festival Città Impresa. Il primo — cui partecipano Nannicini, Boeri, Francesco Giavazzi e il capo economista di Intesa San Paolo Gregorio De Felice — lo apre Giavazzi e l’esordio scelto basta a sintetizzare il «filo» dell’intera giornata. Oggi che sono certamente fattori esterni e tensioni internazionali, a frenare i nostri tentativi di ripresa, non dobbiamo dimenticare con quale peso ancora ci presentiamo alla sfida. Ovvero, ricorda l’economista: «I 30 punti di competitività persi in 15 anni rispetto alla Germania». È Nannicini a definirla «una zavorra strutturale», che solo «riforme strutturali potranno buttare a mare». Ma è qui anche — sul tema riforme — che «a lato palco» scoppia il nuovo caso pensioni. L’Inps ha appena diffuso un dato che fotografa oggettivamente l’allegro passato per cui oggi paghiamo il conto: quasi mezzo milione di italiani dev’essere stato a suo tempo un baby-pensionato, se è vero che il relativo assegno lo riceve da più di 36 anni. Su questo Boeri riflette e conclude: «Credo sarebbe opportuno chiedere a chi riceve importi elevati un contributo di solidarietà, per facilitare i giovani e la flessibilità in uscita». «Non è all’esame, né tecnico né politico», replica tranchant Nannicini. Seguito a ruota dal titolare del Lavoro, Giuliano Poletti: «Il contributo c’è già. È a scadenza e dovrà essere valutato, ma non è il caso di alimentare dannose incertezze».

Inps, mezzo milione in pensione da oltre 36 anni. Boeri: "Serve contributo da importi elevati". I dati solo sul settore privato non comprendono i baby pensionati del pubblico impiego, usciti dal lavoro prima del '92 con almeno 14 anni di contributi. Baretta "Legge Fornero va difesa" ma bisogna "agire sulla flessibilità in uscita". Così "è impraticabile", scrive il 3 aprile 2016 la Repubblica". In Italia ci sono oltre 474 mila pensioni liquidate prima del 1980, che quindi ricevono la pensione da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Un dato subito commentato dal presidente dell'Inps, Tito Boeri: "Siccome son state fatte delle concessioni eccessive in passato e queste concessioni eccessive oggi pesano sulle spalle dei contribuenti - dice a margine del convegno Città Impresa - credo che sarebbe opportuno andare per importi elevati a chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani e anche per rendere più facile a livello europeo questa uscita flessibile". Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, esclude però nuovi prelievi: "Il contributo di solidarietà oggi sulle pensioni alte c'è già, è a scadenza, dovrà essere valutato se confermarlo in quella maniera o diversamente, ma non credo che ci sia nulla allo studio. Vedremo cosa fare sulla flessibilità". A Boeri era stato chiesto nel dettaglio se la presenza di una così vasta platea di pensionati di lunga data, non sia il caso anche di andare a rivedere i diritti acquisiti, anche per rendere più sostenibile il sistema pensionistico. "Abbiamo formulato delle proposte molto articolate, che guardano all'età, alla decorrenza della prima pensione - risponde Boeri -. Perché quando si guarda anche agli importi pensionistici bisognerebbe sempre guardare da quanto tempo vengono percepiti questi importi. Possono essere anche importi limitati ma se uno li ha percepiti da quando aveva meno di 40 anni, chiaramente cumulandosi nel tempo vengono a stabilire un trasferimento di ricchezza pensionistica considerevole". Per le pensioni di vecchiaia l'età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l'età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne spostate con figli. L'Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico. Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800 mila persone mentre altri 527 mila assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent'anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L'età media alla decorrenza era molto inferiore all'attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall'essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l'età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l'età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l'età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un'età media alla decorrenza di 73,89 anni. Per quanto riguarda gli importi, dopo le polemiche sull'alto numero di pensionati sotto i 750 euro al mese, quasi 6 su 10, il presidente dell'Inps Boeri invita a "guardare al dato medio per pensionato, e non alla pensione media", perché "la situazione è meno grave di quel che si possa pensare". "C'è stata una informazione errata, bisogna guardare al dato medio per pensionato, non alla pensione media - spiega -. In Italia sono molti i pensionati che percepiscono più di un trattamento, questo non vuol dire che le pensioni non siano basse in Italia, ma la situazione è meno grave di quel che si possa pensare prendendo il dato per pensione singola".

Accompagnatori, ciechi e falsi invalidi: cinque miliardi di welfare clientelare. Gli assegni di invalidità pagati in Calabria sono, in proporzione agli abitanti, almeno il doppio di quelli erogati in Emilia Romagna: l’allarme del commissario alla spending review trova conferma nei dati appena pubblicati dall’Inps, scrive Sergio Rizzo su "Il Corriere della Sera" del 30 marzo 2016. L’inascoltato ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli l’aveva scritto nel suo rapporto. Una «distribuzione territoriale» delle pensioni di invalidità, squilibrata al punto che gli assegni pagati in Calabria sono in proporzione agli abitanti almeno il doppio di quelli erogati in Emilia-Romagna, «suggerisce abusi». Ma forse non ci voleva nemmeno un giudizio così autorevole per rendersene conto. Sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata men che superficiale ai numeri noti da anni. L’Inps ci ha detto ieri che in Italia si pagano 2 milioni 980.799 «prestazioni» agli invalidi civili. Dove per «prestazioni» si intendono pensioni e indennità di accompagnamento oltre agli assegni per ciechi e sordomuti. Ebbene, un milione 335.093 di questi trattamenti di invalidità, pari al 44,8 per cento del totale, riguardano il Sud, dove risiede il 34,4 per cento della popolazione. Nelle Regioni meridionali il rapporto è dunque di un assegno ogni 15,6 abitanti, contro uno ogni 23,5 nel resto del Paese. Mentre se le pensioni di invalidità fossero in proporzione identica rispetto al Centro Nord, il loro numero non dovrebbe superare 890 mila. Quindi ce ne sarebbero 445 mila di troppo: un terzo. Tutti abusi? Sicuramente no. Sappiamo che nel Mezzogiorno le condizioni di vita e di lavoro sono in molti casi ben diverse che nelle altre Regioni. E questo potrebbe forse spiegare alcune differenze. Ma non certi abissi che alimentano il sospetto. In Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ci sono 45 pensioni definite «assistenziali» per ogni mille abitanti. In Campania, invece, sono 84. In Puglia 85, in Sicilia 91, in Sardegna 92 e in Calabria addirittura 97. Il fatto è che al Sud le pensioni di invalidità non hanno mai smesso di rappresentare una forma di sussidio. In una intervista rilasciata alla Stampa nel 2003 lo ammise candidamente uno dei leader meridionali più attrezzati nella raccolta del consenso. «Per un lungo periodo, indubbiamente, alla Cassa integrazione degli operai al Nord corrispondeva al Sud come ammortizzatore sociale la pensione di invalidità che serviva a moderare e mitigare la scarsa presenza dello Stato al Sud. Una forma di equilibrio», arrivò a dire Clemente Mastella. Che per anni, imperterrito, aveva continuato a difendere contro tutto e tutti quel curioso equilibrismo. Anche dal cospetto dei rigurgiti rigoristi dell’Inps: «Il Sud è una polveriera, può esplodere da un momento all’altro. Il clima è preinsurrezionale. Stanno togliendo le pensioni di invalidità in modo indiscriminato». Lamenti del tutto inutili, se è vero che a dispetto dei giri di vite più volte annunciati la spesa per le pensioni di invalidità ha continuato a galoppare. Il rapporto annuale 2014 dell’istituto di previdenza ora guidato da Tito Boeri informa che fra il 2004 e il 2016 l’esborso per quei trattamenti è letteralmente esploso, passando da 8,5 a 15,4 miliardi, con un aumento dell’81,1 per cento. Mentre il loro numero è cresciuto di almeno il 50 per cento, da un milione 980 mila ai quasi tre milioni che abbiamo citato. Questo grazie soprattutto alla progressione delle indennità di accompagnamento, le quali contrariamente alle pensioni non vengono erogate in rapporto al reddito. E se il tasso di crescita ha rallentato negli ultimi anni è una ben magra consolazione al confronto della situazione ereditata dagli anni d’oro. Quelli, per capirci, in cui quella forma di «equilibrio» veniva usata dai politici come leva clientelare. Talvolta anche con risvolti di carattere personalistico. Tre anni fa Amalia De Simone ha raccontato sul Corriere.it che fra i parenti stretti di 30 consiglieri di uno dei dieci municipi di Napoli si potevano contare 60 pensioni di invalidità. Per non parlare dell’epidemia di cecità che tradizionalmente colpisce la Sicilia: Regione che pur contando un dodicesimo circa della popolazione italiana ha un settimo di tutti i non vedenti italiani. Ma che non sia stato fatto nulla, soprattutto in questi ultimi anni, non si può certamente dire. Le indagini giudiziarie hanno portato alla luce tanti di quegli abusi ai quali faceva riferimento Cottarelli. Basta dire che nel 2014 e nella sola Campania, 18.846 controlli hanno fatto scoprire 5.543 irregolarità, con la revoca di altrettante pensioni: quasi il 30 per cento. Sarebbe però poco onesto negare che sopravvivano difficoltà pratiche per combattere e stroncare questo fenomeno. E in cima, inutile negarlo, ci sono anche alcune resistenze della politica. Due anni fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, appena insediato, aveva promesso un taglio «drastico» alle false pensioni di invalidità. Secondo i dati dell’Inps, fra il gennaio 2015 e il gennaio 2016 il numero dei trattamenti di quel genere è aumentato di 94.997 unità.

E poi, per ultimo ci sono i piccoli evasori-truffatori. L'esercito dei finti disoccupati. I costi dei raggiri all'Inps. Inchiesta di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Rimborsi non dovuti, assegni e pensioni di parenti deceduti. L'esercito dei finti disoccupati. I costi dei raggiri all'Inps. Rimborsi non dovuti, assegni e pensioni di parenti deceduti. Quello delle truffe all'Inps è certamente il settore che genera maggiore allarme visto che l'ammontare del deficit continua ad aumentare, nonostante l'intensificazione dei controlli. Perché è vero che il lavoro «nero» rappresenta una vera e propria piaga, ma anche gli illeciti compiuti grazie a false certificazioni o alla complicità di dipendenti dell'istituto di previdenza - soprattutto nelle sedi periferiche - provocano una vera e propria emorragia di fondi pubblici. In attesa dei dati consolidati per il 2011, sono le segnalazioni di infrazione già trasmesse al comando generale della Guardia di Finanza a dimostrare quale sia il livello degli illeciti compiuti. C'è chi ritira la pensione del parente morto e chi continua a percepire l'indennità di accompagnamento nonostante sia ricoverato in una struttura di lungodegenza a totale carico dello Stato. C'è chi ha ottenuto il rimborso per la sospensione della propria attività dopo il terremoto in Abruzzo e ci sono le migliaia e migliaia di falsi braccianti che causano ogni anno una perdita milionaria all'Erario. Il fenomeno è molto più esteso di quanto si creda: nel 2011 la Guardia di Finanza ha scoperto complessivamente più di 6.500 falsi braccianti agricoli che hanno provocato un danno alle casse dell'Inps di oltre 42 milioni di euro. L'indagine più capillare è stata certamente quella condotta dalla tenenza di Capo d'Orlando, in Sicilia, che ha esaminato circa 33.000 istanze di disoccupazione. I risultati sono stati sorprendenti. È stato infatti accertato come «1.759 individui avevano ottenuto circa 7,5 milioni di euro dalle casse dell'Inps, in quanto - pur essendo in realtà titolari di partita Iva e svolgendo attività professionali, commerciali o imprenditoriali - avevano presentato all'Istituto false autocertificazioni in cui dichiaravano di versare nella condizione di "disoccupato". Tutti i soggetti, che hanno percepito assegni che variavano tra i 1.500 e i 9.000 euro annui, sono stati denunciati all'autorità giudiziaria per falso e truffa ai danni dello Stato». Gli stessi reati sono stati naturalmente contestati ai datori di lavoro che, «al fine di dimostrare l'esistenza del rapporto facevano spesso ricorso a transazioni commerciali coperte da fatture false, utili da una parte a giustificare l'operatività di quei braccianti e, dall'altra, ad abbattere il reddito delle imprese». E questo ha fatto anche individuare «69 evasori totali e redditi non denunciati per circa 30 milioni di euro». Chi percepisce l'indennità di accompagnamento deve segnalare un eventuale ricovero in lungodegenza se si tratta di una prestazione erogata dal servizio sanitario nazionale. Una procedura che non sempre viene rispettata, come è stato scoperto dal nucleo di polizia tributaria di Lecce che ha effettuato 1.467 controlli sui «soggetti ricoverati in strutture sanitarie in regime di lungodegenza con retta a totale carico dell'Asl o di altre pubbliche amministrazioni, che risultavano essere anche percettori dell'"indennità di accompagnamento"». Alla fine delle verifiche sono state denunciate 443 persone per aver percepito complessivamente oltre 3 milioni e 800 mila euro di indennità non dovute. In particolare «26 persone hanno riscosso l'indennità di accompagnamento in un periodo durante il quale, di fatto, risultavano ricoverate in strutture di lungodegenza o riabilitative con pagamento della retta di ricovero a totale carico dello Stato. Gli stessi soggetti, attraverso la dissimulazione di circostanze esistenti hanno indotto in errore l'Inps che ha provveduto a erogare loro trattamenti economici complessivamente pari a 270.823 euro. Gli altri 417 soggetti hanno riscosso l'indennità di accompagnamento in un periodo durante il quale erano anch'essi ricoverati in strutture di lungodegenza o riabilitative con pagamento della retta di ricovero a totale carico dello stato. A differenza dei primi, hanno omesso di comunicare all'Inps le informazioni dovute - in particolate l'avvenuto ricovero con pagamento della retta a totale carico dello Stato - e hanno indotto in errore il medesimo Istituto di previdenza che, pertanto, ha provveduto a erogare loro trattamenti economici complessivamente pari a 3.550.892». La più determinata è una donna di Palermo che è riuscita a percepire la pensione della madre morta dieci anni prima. Ma sono decine e decine i casi scoperti dai finanzieri di Palermo di persone che grazie a un'autocertificazione con dati fasulli sono riusciti a riscuotere per lungo tempo la pensione del familiare morto. Le verifiche sono state effettuate ricostruendo i flussi finanziari transitati su centinaia di conti correnti postali e bancari per individuare il reale beneficiario e hanno consentito di scoprire che numerosi soggetti, proprio per sviare eventuali indagini, avevano fittiziamente spostato la residenza in altri Comuni del territorio nazionale o addirittura all'estero. Alla fine degli accertamenti sono state denunciate 441 persone con un danno erariale che supera gli 800 mila euro. «Il sistema di frode - è scritto nella segnalazione - ha consentito agli indagati di percepire le somme di danaro, con riscossione direttamente allo sportello, attraverso la redazione e sottoscrizione di una dichiarazione con cui si attestava falsamente l'esistenza in vita del titolare della pensione. In altri casi, invece, la morte del titolare della pensione veniva completamente taciuta e, quindi, mensilmente, continuava ad avvenire l'accredito diretto su conti correnti postali o bancari». Tra le agevolazioni concesse alle vittime del terremoto in Abruzzo del 2009 c'era anche l'indennità per chi era stato costretto a sospendere la propria attività. Ed è proprio per verificare il rispetto delle procedure che la Finanza ha avviato controlli su tutti coloro che ne avevano fatto richiesta. Si tratta di professionisti, lavoratori autonomi, artigiani e piccoli imprenditori, coltivatori diretti e commercianti, che avevano presentato l'istanza allegando «autocertificazioni attestanti danni a immobili, impianti e macchinari o altri impedimenti». Ma per 56 di loro quella documentazione si è rivelata falsa: gli investigatori hanno accertato che - nonostante avessero percepito indennità per 300 mila euro - avevano continuato a svolgere regolarmente il proprio lavoro». Sciacallaggio come quello compiuto da sei persone, denunciate nel corso della stessa operazione, che hanno ottenuto i 600 euro mensili previsti per chi non aveva più l'abitazione agibile con un danno complessivo già quantificato in 50 mila euro.

Le pensioni dei manager le pagano operai e precari: come stanno davvero le casse dell'Inps. La situazione della previdenza italiana non è drammatica come la dipingono alcuni, almeno per il momento. Ma ci sono categorie che vivono sulle spalle di altre. Vi raccontiamo quali sono e quanto finiscono per costare ai giovani, scrive Gloria Riva il 27 dicembre 2017 su "L'Espresso". Dopo anni di conti sul filo, nel 2017 il patrimonio dell'Inps è sceso sotto zero, a meno 7,9 miliardi. I soldi sono finiti e così, nella legge finanziaria, spunta il maquillage per riportare i conti in territorio positivo e poter continuare a garantire grasse pensioni a chi, durante la carriera, ha versato pochissimo e compromesso sempre più il futuro delle giovani generazioni. Il sistema delle pensioni è in equilibrio o no? Da un lato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, assicura che «il sistema previdenziale italiano è sostenibile nel lungo periodo ed è in equilibrio». Dall'altro c'è la Commissione Europea che presenta un rapporto sulla sostenibilità dell'Inps da far tremare le vene e i polsi. I risultati del dossier di Bruxelles sono terrificanti: dice che l'Italia è il paese messo peggio (insieme all'Austria) e che ogni anno la spesa per le pensioni pubbliche supera i contributi versati di ben 88 miliardi di euro. Se fosse vero, l'Italia sarebbe in default già da un pezzo. Fortunatamente si tratta solo di un colossale equivoco, che lo scorso 26 novembre il Corriere della Sera prende per vero: il giornale lancia l'allarme pensioni, praticamente intonando il de profundis per l'Inps e per l'Italia intera. L'Espresso, che si è andato a leggere i bilanci dell'Inps, vi racconta qual è effettivamente lo stato di salute della previdenza italiana. Partiamo rassicurando pensionati e futuri pensionati: non è vero che ogni anno la spesa delle pensioni supera quella dei contributi versati per 88 miliardi di euro. Quelli, in realtà, sono i soldi che ogni anno lo Stato trasferisce all'Inps per l'assistenza agli italiani in difficoltà, fra cui l'indennità di accompagnamento, la quattordicesima ai poveri, il contributo ai giovani e tutta una serie di aiuti che lo Stato, attraverso provvedimenti legislativi, decide di assegnare a favore delle categorie più svantaggiate. Nel 2016, ad esempio, lo Stato ha trasferito oltre 104 miliardi di euro per coprire quelle spese, di cui 86 utilizzati per l'assistenza e la restante parte (circa 17 miliardi) per l'accompagnamento agli anziani. L'Inps, in questa partita, fa solo da intermediario tra Stato e cittadino, accollandosi compiti che non hanno molto a che vedere con il proprio core business, cioè il pagamento delle pensioni agli anziani, la riscossione dei contributi dei lavoratori e la gestione al meglio di quei quattrini. Dunque, la situazione delle pensioni italiane non è così drammatica come viene dipinta dalla Commissione Europea, ma qualche problema c'è davvero. Ad esempio, nel 2017 il patrimonio dell'Inps chiuderà in passivo di 7,9 miliardi di euro e toccherà allo Stato dare una mano. Tutto deriva dalla pessima annata 2016, quando i lavoratori hanno versato nelle casse dell'Inps circa 314 miliardi, mentre i pensionati hanno incassato poco più di 320 miliardi: all'appello mancano 6,2 miliardi. Per pagare tutte le pensioni l'Inps ha dato fondo alle riserve, cioè al proprio patrimonio che, in base alle previsioni, dovrebbe attestarsi a meno 7,9 miliardi di euro nel 2017. Ad affossare il sistema sono quattro categorie che, per via di pregressi privilegi concessi soprattutto dal vecchio sistema di conteggio retributivo della pensione (che si basava su una stima calcolata in base agli ultimi anni di lavoro e non teneva conto dei contributi versati), ingollano più soldi di quanti ne abbiano accumulati negli anni. Ad esempio, i manager dell'ex cassa Inpdai, confluita nell'Inps nel 2003 perché aveva accumulato un buco da 600 milioni, incassano pensioni fino al 40 per cento superiori rispetto ai contributi versati. I dirigenti non sono gli unici a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Oltre a loro, ci sono altre tre categorie: gli artigiani, i coltivatori, i dipendenti degli enti locali (comuni, province e regioni) si stanno mangiando - e si continueranno a mangiare - sia i risparmi di operai, precari, nonché i quattrini di riserva, che dovrebbero servire per coprire la cassa integrazione – utile in caso di crisi aziendale -, la malattia e la maternità dei dipendenti dell'industria. «Più che uno squilibrio generazionale, c'è un'ingiustizia fra categorie», spiega Gian Paolo Patta, membro del Civ, il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell'Inps che ogni anno verifica la sostenibilità dell'Ente.

Se l'operaio paga la pensione del boss. La gestione principale dell'Inps si chiama Fpld, Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti, e nel 2016 ha chiuso con un leggero avanzo (690 milioni) grazie ai quattrini che gli operai riescono ad accantonare sia per la pensione (oltre 9,2 miliardi), sia per la Gestione Prestazioni Temporanee che sono i risparmi per la cassa integrazione e le indennità di maternità e malattia, che equivalgono a 3,4 miliardi. Peccato che quei soldi siano stati tutti spesi per la pensione degli ex fondi (trasporti, elettrici, telefonici) e per l'ex fondo Inpdai, quello dei manager e dei dirigenti d'azienda, che nel 2016 segna una voragine di 4,3 miliardi. Proprio i manager negli anni hanno accumulato un debito di 38 miliardi che crescerà sempre di più: «Diventeranno 138 miliardi nel 2035», dice Patta, leggendo un documento prodotto dall'Inps a proposito delle previsioni patrimoniali delle varie casse gestite dall'Inps. Ma il record assoluto di disavanzo lo produrranno gli artigiani. Nel 2016 chiudono con un rosso di 5,2 miliardi, che si aggiungono ai 61,3 miliardi accumulati negli anni «e che nel 2035 diventeranno ben 220 miliardi di passivo», spiega Patta. Altre gestioni amministrative in affanno sono quelle dei commercianti, dei coltivatori diretti e dei dipendenti pubblici. Chi tiene in piedi la baracca dell'Inps? Oltre alle tute blu, in soccorso all'ente corrono i parasubordinati, cioè i precari, i meno tutelati di tutti, che nel 2016 hanno creato un tesoretto da 6,7 miliardi, che nel 2025 diventerà di 190 miliardi. Un bel gruzzoletto che i collaboratori possono ammirare solo con un potente binocolo perché, stando alla nuova legge pensionistica (la controversa Legge Fornero), andranno in pensione superati i settantanni e con assegni piuttosto modesti, soprattutto per chi, nei primi anni di carriera, avrà versato contributi a singhiozzo per colpa di un arido mercato del lavoro. Sacrifici che vengono chiesti alle nuove generazioni proprio per coprire gli squilibri prodotti in passato e nel presente. Fra le casse più compromesse c'è quella dei lavoratori degli enti locali, che nel 2016 registra un risultato negativo di 7,1 miliardi e un buco patrimoniale di 12,9 miliardi che, nel 2025 diventeranno oltre 157 miliardi. «Sull'attività di comuni, province e regioni non c'è alcuna attività ispettiva e l'Inps non ha mai dato ascolto alla nostra richiesta di verificare se, effettivamente, le amministrazioni locali versano i contributi ai dipendenti», spiega Patta. Dunque, complessivamente il sistema, che si sostiene grazie agli accumuli di operai, parasubordinati e degli accantonamenti speciali, come quello per la cassa integrazione e per la malattia, produce ogni anno dei debiti che vengono coperti con delle anticipazioni dallo Stato. Nel 2016, ad esempio, le casse pubbliche hanno girato all'Inps 3,9 miliardi.

Avevano promesso trasparenza. Invece i signori della gestione privata continuano a governare 80 miliardi di euro senza controlli. E le regole per evitare investimenti sbagliati sono ferme da tre anni. «In circa settant'anni di attività lo Stato ha versato all'Inps circa 100 miliardi di anticipazioni, che con la Finanziaria 2018 verranno cancellati», racconta Patta, aggiungendo che, in questo modo, il governo Gentiloni intende riportare in segno positivo il bilancio dell'Inps e ridurre il debito pubblico, rimediando a un pasticcio nella stesura del bilancio dello Stato. Infatti da un lato la Tesoreria segnava quei cento miliardi anticipati all'Inps tra le spese definitive. Dall'altro lato l'Inps continuava a indicare quel prestito fra i debiti. «Dal momento che il bilancio dell'Inps fa parte di quello dello Stato, il debito pubblico risultava più alto di 100 miliardi». Il governo Gentiloni, con una norma inserita nella Finanziaria 2018 (quella in fase di approvazione in questi giorni), ha cancellato 88,8 miliardi di debito nei confronti dell'Inps. La mossa consentirà anche di alleggerire i conti in rosso che ogni anno l'Italia presenta a Bruxelles. E dal 2019, grazie alla cancellazione dei debiti, il patrimonio dell'Inps tornerà in territorio positivo. Magie di Stato.

Pensioni a rischio: ecco cosa stanno combinando le casse di previdenza. Avevano promesso trasparenza. Invece i signori della gestione privata continuano a governare 80 miliardi di euro senza controlli. E le regole per evitare investimenti sbagliati sono ferme da tre anni, scrivono Luca Piana e Gloria Riva il 14 dicembre 2017 su "L'Espresso". Nei cassetti del ministero dell’Economia c’è un dossier definito da tempo, pronto per diventare operativo, ma bloccato da un letale scontro d’interessi. Riguarda le regole che dovrebbero impedire alle casse pensionistiche private di sprecare i quattrini versati dai lavoratori, bruciandoli in investimenti opachi o sconsiderati. Il regolamento era previsto da una legge del 2011, governo di Silvio Berlusconi, varata quando stavano emergendo le ingenti perdite accusate dalle casse di molti professionisti - medici, agenti di commercio, ingegneri, agricoltori e altri ancora - con la crisi finanziaria globale, e in particolare con il fallimento della regina dei titoli tossici, la banca americana Lehman Brothers. Dopo un lungo periodo di gestazione, le nuove norme erano state messe nero su bianco nell’autunno 2014, con Matteo Renzi al governo e Pier Carlo Padoan al ministero dell’Economia, ed erano state sottoposte con una consultazione pubblica all’esame delle parti. Da allora non si è mosso più nulla. Il regolamento non è stato approvato; nessun obbligo è stato imposto alle casse; nessun sistema di vigilanza sui loro investimenti è diventato effettivo. Il risultato è uno di quei paradossi tipici delle istituzioni italiane. I fondi pensione integrativi, quelli dove finisce ad esempio il Tfr di molti lavoratori, sono sottoposti a un rigido sistema di controlli, addirittura con un’autorità di vigilanza ad hoc, la Covip. Le casse previdenziali no, nonostante gestiscano il grosso della pensione futura di due milioni di persone, commercialisti e notai, infermieri e medici, ingegneri e geometri, e così via. Nel grafico il rendimento annuo del patrimonio immobiliare e degli altri investimenti delle principali casse previdenziali private italiane. Complessivamente gestiscono circa 80 miliardi di euro per conto di due milioni di lavoratori. I dati sono tratti dai bilanci 2016; non tutte le casse indicano il rendimento netto, mentre in alcuni casi non possiedono immobili. Nel regolamento per la trasparenza della gestione delle casse, predisposto dal governo nel 2014 e mai entrato in vigore, era previsto un limite del 30 per cento del patrimonio agli acquisti in mattoni. Non è comunque facile comprendere l’effettiva salute degli investimenti immobiliari: molte casse hanno comprato quote di fondi chiusi, il cui rendimento sarà calcolabile solo alla scadenza del fondo. I motivi per cui il regolamento è stato impallinato in dirittura d’arrivo sono molteplici. Ce n’è uno ufficiale: le casse previdenziali sono contrarie. Essendo istituzioni private, temono di veder compromessa «la loro autonomia nelle politiche d’investimento», come hanno avuto modo di dire durante la consultazione del 2014 e ripetuto in ogni altra occasione possibile. Anche lo Stato, però, ha valide ragioni. Le casse, anche se private, gestiscono denari che i contribuenti sono obbligati a versare. Il fatto che non vengano dilapidati è cruciale, perché gli stessi lavoratori che oggi pagano i contributi avranno diritto a ricevere in cambio la loro pensione dopo molti anni, se non decenni. In più, quando una cassa va a rotoli, il costo ricade sulla collettività, cioè lo Stato, com’è accaduto qualche anno fa con l’Inpdai dei dirigenti d’azienda, confluita nell’Inps. Oltre a queste ragioni di principio, ad alimentare lo scontro hanno contribuito anche altri fattori. Il governo, o meglio, i governi hanno le loro colpe, perché hanno dato l’impressione di ritardare l’adozione di regole più stringenti su trasparenza, conflitti d’interessi e qualità degli investimenti in cambio di un tornaconto politico. Da sempre gli 80 miliardi di euro depositati nelle casse fanno gola ed è forte la tentazione di metterci le mani sopra per poterli dirottare su scopi politicamente sensibili. L’ultimo esempio è uno degli innumerevoli tentativi che sono stati fatti per salvare le banche in crisi. L’anno scorso l’associazione delle casse, che si chiama Adepp ed è presieduta da Alberto Oliveti, aveva condotto una trattativa per convogliare 500 milioni di euro nel fondo Atlante II, che avrebbe dovuto contribuire al salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. L’intervento era certamente ben visto dal governo Renzi, che faticava nel trovare una soluzione alla crisi dell’istituto toscano. Il piano di Oliveti non andò in porto, anche perché diverse casse decisero di non aderire, rispondendo picche alla chiamata della politica. Anche le casse, però, hanno delle responsabilità. Dietro alla resistenza contro il regolamento insabbiato c’è la determinazione dei vertici di alcune di loro a non fare trasparenza sul modo in cui sono gestiti gli investimenti, una questione delicata che nel tempo è stata oggetto di diverse indagini della magistratura. Questo lato oscuro è descritto dalla relazione che la Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione guidata da Mario Padula, si è adoperata a scrivere, spulciando i bilanci delle casse previdenziali. Dice l’autorità che i documenti relativi agli investimenti e alle scelte fatte dalle casse sono caratterizzati da «scarsa chiarezza, incongruenze e duplicazione dei contenuti» e che alcune di loro «non hanno ancora adottato una propria disciplina» su come investire i quattrini. Ecco perché, al governo, l’impresa di varare il nuovo regolamento non viene abbandonata, pur con mille cautele: «Una norma di questo tipo ha senso se è condivisa dai soggetti coinvolti. Negli ultimi mesi si è fatto un buon lavoro per trovare l’intesa necessaria a tirar fuori il decreto dal cassetto», dice all’Espresso Pier Paolo Beretta, sottosegretario all’Economia, secondo il quale «il decreto ha senso solo se siamo d’accordo tra la conduzione privatistica e la vocazione pubblica delle casse». Che è uno dei temi più spinosi: il governo vorrebbe contabilizzare gli 80 miliardi di patrimonio delle casse nel bilancio pubblico; ma queste non ci stanno, perché se così fosse rischierebbero, tra l’altro, d’incorrere nella spending review. Baretta mostra fiducia sulla possibilità di un accordo in extremis, anche negli ultimissimi giorni di vita del governo in carica: «In questi giorni abbiamo avviato contatti con i rappresentanti delle casse e contiamo di concludere l’iter di approvazione della norma entro la fine della legislatura, anche a Camere sciolte». Ma quali sono, nella vicenda, i nervi scoperti delle casse? Gli aspetti degni di nota sono diversi. Con le nuove regole, avrebbero avuto maggiori vincoli nell’assegnazione dei mandati di gestione, che avrebbero dovuto essere affidati garantendo «trasparenza e competitività», limitando la discrezionalità di presidenti, consigli di amministrazione e direttori generali, ai quali ancora oggi non vengono richieste particolari competenze finanziarie. Se si scorre l’elenco dei gestori ai quali, oggi, gli enti si affidano, balza agli occhi il successo ottenuto da società di piccole dimensioni, a volte fondate in anni relativamente recenti. Nomi come Optimum Asset Management, Eos Investment Management, Valeur, dicono poco a milioni di lavoratori, ma gestiscono quote rilevanti dei loro risparmi previdenziali. E hanno, spesso, in comune la caratteristica di essere state costituite da soggetti italiani che, per operare, hanno scelto di aprire uffici in Lussemburgo, a Londra o in Svizzera. Non mancano, però, anche nomi della prima repubblica, tornati improvvisamente sulla cresta dell’onda, come mostra il caso di Giancarlo Elia Valori e della sua Centrale Finanziaria, che di recente ha acquistato la società di gestione Serenissima Sgr. Un altro argomento bollente è quello del mattone, uno degli investimenti più tradizionali. La legge disegnata nel 2011 rappresentava un vero e proprio terremoto per le abitudini delle casse pensionistiche. Prevedeva infatti un limite del 20 per cento agli investimenti diretti in immobili, sul totale del patrimonio. Uffici pubblici, palazzi di abitazioni, edifici di importanza storica sono da sempre uno dei simboli del potere delle casse, ma la loro gestione è stata spesso oggetto di critiche, se non di inchieste giudiziarie, a causa di compravendite poco redditizie. Rientrare sotto il 20 per cento avrebbe voluto dire far piazza pulita di gran parte di questi investimenti, magari lasciando emergere le perdite dovute ai prezzi di carico troppo elevati con cui molti edifici sono iscritti a bilancio. Le casse hanno subito chiesto tempi lunghi per rientrare nei limiti, e sono poi riuscite a ottenere un innalzamento del tetto al 30 per cento. Nel frattempo, anche se il regolamento non è entrato in vigore, hanno iniziato a cedere parte del patrimonio. Anche qui, però, la situazione è intricata. Lo fa intuire il caso dell’Inpgi: l’ente previdenziale dei giornalisti sta vivendo una fase difficile: ogni 100 euro che incassa in contributi, ne spende 127 in pensioni. Il bilancio 2016 è stato chiuso con un avanzo di 9,4 milioni grazie alla cessione di una parte del patrimonio immobiliare. Una vendita particolare, anche se di un genere diffusissimo tra gli enti: i palazzi sono stati ceduti al Fondo Amendola, le cui quote sono di proprietà dell’Inpgi stesso. Nel passaggio c’è stato un notevole effetto di bilancio: il valore degli immobili è passato da 221 a 303 milioni, permettendo alla cassa dei giornalisti di segnare a bilancio la plusvalenza che le ha permesso di non chiudere in rosso. Molti fondi immobiliari sono spesso del tipo “chiuso”, che non prevede la quotazione in Borsa e rende difficile capire come questo genere di investimenti stia effettivamente andando. Un esempio viene dalla Cassa Forense, quella degli avvocati. A fine 2013 ha iniziato a girare i propri immobili - valutati 722 milioni - al Fondo Cicerone, gestito da Fabrica Immobiliare sgr, che fa capo al gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone. Come sta andando l’attività del fondo? Non è dato saperlo. «Non essendo disponibile il rendiconto del fondo Cicerone a fine 2016 in via di approvazione da parte di Fabrica sgr non è possibile al momento fornire ulteriori dettagli contabili», spiega una nota del bilancio di Cassa Forense dello scorso anno. Anche in questo quadro, c’è chi non rinuncia però al mattone. Nel 2016 Ofer Arbib, il gestore del fondo Ippocrate della cassa dei medici Enpam, ha acquistato metà del Principal Place di Londra, che ospiterà i dipendenti di Amazon. Costo dell’operazione 245,7 milioni di sterline, un investimento che, alla vigilia della Brexit e della conseguente svalutazione della sterlina, potrebbe rivelarsi un affare poco lungimirante. Qualche mese dopo, Amazon ha annunciato la nuova sede di Milano: anche qui in un immobile di Ippocrate. L’Enpam, dunque, ha ancora fame di immobili. Non contenta dello sbarco a Londra, proprio nelle scorse settimane ha comprato la sede di Banca Carige a Milano, investendo altri 107 milioni. Per la banca ligure, alle prese con un difficile aumento di capitale, è stata certamente una bella boccata d’ossigeno. Per le pensioni future dei medici, chissà.

DALLA PARTE DEI CONSUMATORI E DEGLI OPERAI?

IL SINDACATO OGGI: LA NUOVA CASTA. ESISTE ANCORA IL SINDACATO, NEL SENSO CLASSICO DEL TERMINE, CHE DIFENDE GLI INTERESSI DEI LAVORATORI?

ITALIA - Provate a fare una ricerca in un qualsiasi motore di ricerca e digitate la parola “sindacato”, troverete subito la definizione data Wikipedia, la grande enciclopedia online: “I sindacati sono organismi che raccolgono i rappresentati delle categorie produttive.

Esistono così sindacati dei lavoratori e sindacati dei datori di lavoro. La storia dei sindacati è però soprattutto la storia dei lavoratori (operai, contadini, impiegati) che si riuniscono allo scopo di difendere gli interessi delle loro categorie.” Quando parliamo di sindacato difficilmente pensiamo al sindacato degli imprenditori, poiché l’associazione è nei confronti dei lavoratori, in effetti i sindacati sono nati per difendere i lavoratori e non le altre categorie, i tempi poi però hanno fatto il resto.

Tralascio volutamente la parte puramente storica di questi organismi ed i collegamenti più o meno diretti coi vari partiti e mi prefisso solamente un obiettivo, parlare del sindacato ai giorni nostri.

Esiste ancora il sindacato, nel senso classico del termine, che difende gli interessi dei lavoratori?

I sindacati e le loro società ed enti controllati, sono finanziati da una parte dallo Stato e dall’altra dalle varie attività da essi svolte per un totale di circa 556 milioni di euro. Nello specifico, le entrate arrivano dalle ritenute sulle pensioni, dalle quote sulle prestazioni di disoccupazione agricola, dal tesseramento dei lavoratori in attività, dal finanziamenti statali ai patronati e sui distacchi sindacali.

Non finisce qui, altri introiti arrivano dai “privilegi” concessi in esclusiva dallo Stato di cui possono godere i sindacati, con questi intendo la presentazione della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche (730 e UNICO) e i redditometri sulle pensioni (RED). Gli importi sborsati dallo Stato per ogni pratica vanno dai 14 ai 29 euro, un’uscita di circa 85milioni di euro.

Se aggiungiamo poi che il cittadino che si rivolge al sindacato per la compilazione della dichiarazione paga una certa cifra, l’affare è ancor più grosso. Le cifre sopra esposte sono del 2003, possiamo solo immaginare come in 5 anni possano essersi gonfiate, ovviamente poi tutti questi soldi sono divisi soprattutto tra CGIL e CISL, i due maggiori sindacati, segue poi la UIL e una miriade di mini-sigle. Prima ho parlato di distacchi sindacali, ma cosa sono? Ebbene, quando un lavoratore decide di non lavorare più per un’azienda per prestare la sua opera in un’associazione privata qual e’ il sindacato, i contributi glieli paga lo Stato.

In generale comunque i privilegi sindacali non sono solo distacchi ma anche permessi e aspettative e, almeno nella Pubblica Amministrazione, il sindacato sembra avere una certa buona dose di libertà, tutti questi “privilegi” sono uno strumento che conferisce ai dirigenti sindacali la facoltà di svolgere la loro attività esonerandoli dell'obbligo della prestazione lavorativa. Sarà per questo che nel settore pubblico c’è un vero e proprio pullulare di sigle sindacali? Proseguiamo oltre ed arriviamo ai tesseramenti.

C’è una strana tendenza oggi giorni per quanto concerne le iscrizioni al sindacato, il 60% degli iscritti sono pensionati, molto strano davvero visto che in linea generale i sindacati sono per lo più associazioni nate per la difesa e la tutela dei diritti dei lavoratori.. con questo non voglio dire che i pensionati non debbano avere i loro rappresentati che li tutelino, tuttavia non c’è trucco e non c’è inganno ma solo un semi-inganno, la stragrande maggioranza di chi presenta la domanda di pensione lo fa attraverso i sindacati e questi li iscrivono automaticamente.

Difficile togliersi, un esempio molto personale, sono riuscita a far togliere la trattenuta dell’iscrizione sindacale degli artigiani dalla pensione di mia madre dopo sei anni e ben tre richieste di disdetta. Ovviamente, ma non ci sarebbe manco bisogno di dirlo, il rinnovo della tessere vive sul silenzio-assenso. Continuiamo nella nostra analisi, arriviamo ai beni immobili dei sindacati. Inizialmente questi beni erano di proprietà dello Stato e concessi solamente in godimento, nel corso degli anni ’70 però, come una sorta di risarcimento morale dal ventennio fascista, il governo decide di trasferirne la proprietà alla maggior parte delle associazioni sindacali (legge n. 902 del 18 novembre 1977).

Di questo provvedimento riescono però anche a godere le associazioni sindacali imprenditoriali quali Confindustria, Confartigianato, Coldiretti e Lega Coop (che per dovere di cronaca fattura tanto quanto la Sony), solo per citarne alcuni, ovviamente tali beni dovevano essere esenti dal pagamento di qualsiasi tassa o imposta.. non lamentiamoci poi se la Chiesta non paga l’Ici sui suoi immobili! I privilegi dei sindacati, se non riguardano proprio l’ente in se e per se, riguardano sicuramente i sindacalisti e le loro pensioni. La prima legge del 1974 di un certo Giovanni Mosca, ex socialista e soprattutto ex Cgil, ha fatto in modo che con una semplice dichiarazione del rappresentante nazionale del sindacato (o del partito, la Legge riguardava anche questi organismi), potessero venire riscattati, al costo dei soli contributi figurativi, decenni di attività a partire dagli anni ’50. Ancora una volta, e ancora ovviamente, a suon di proroghe, la Legge si protrae fino agli anni ’80 e questa piccola sanatoria compie il miracolo!

Come Gesù moltiplicò pane e pesci, qualche centinaia di casi si moltiplicarono e divennero 40mila! Ringraziano sentitamente Napolitano, Cossutta, Marini, D’Antoni, Ochetto e Del Turco solo per citarne alcuni famosi e in orbita sindacale, nonché coloro che hanno dichiarato di aver iniziato a lavorare a 5 anni (inchiesta della Magistratura). Saldo Inps per i sanati: 10 miliardi di euro, e perché si capisca meglio lo trasformo in lire, 19.362.700.000.000. Proseguendo, arriviamo al 1996, decreto n. 564 del 16 settembre, il Tiziano Treu, Ministro del Lavoro in forte odor di Cisl, prevede che per i sindacalisti in aspettativa e distaccati, oltre ai normali versamenti dei contributi a carico dell’Inps, vi sia un ulteriore versamento stavolta però da parte del sindacato, risultato: pensione doppia per 1800 sindacalisti, dei quali ben 1300 Cgil.

Da notare come per entrambe le leggi, nessun politico o sindacalista abbia sollevato una qualsiasi contestazione. Il sindacato però è anche un ottima base di lancio verso la carriera politica, non solo Marini e Bertinotti sono gli ex sindacalisti più in vista del momento, ricordiamo tra gli altri anche molti ex Ggil tra i quali il Ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero, Cesare Damiano titolare del Ministero del Lavoro, l'ex segretario nazionale Sergio Cofferati è l’attuale sindaco di Bologna, Ottaviano Del Turco il Governatore dell'Abruzzo, il vice Ministro per lo Sviluppo Economico è Sergio D'Antoni (ex numero uno della Cisl).

La lista potrebbe proseguire ma siccome non ho intenzione di annoiarvi, passo direttamente a dirvi che oltre a questi nomi, ce ne sono almeno un’altra dozzina che ricoprono un ruolo non proprio indifferente nelle politica italiana. Sembra dunque che tra politica e sindacato ci sia davvero feeling, in particolare sembra che la politica sia il porto di attracco della nave dei sindacalisti.

Tuttavia ci sono anche ex sindacalisti che sono passati dalla parte del nemico, ossia si sono dati al mondo dell’impresa: Mauro More ex Cgil è al vertice delle Ferrovie, Natale Forlani attuale amministratore delegato di Italialavoro; Raffaele Morese già deputato e sottosegretario al Lavoro, nominato al vertice di Confservizi, questi ultimi due entrambi ex Cisl.

A fronte di una fortissima crisi di legittimazione dei partiti tradizionali, c’è per contro una legittimazione politica da parte del sindacato che è riuscito a conquistarsi un importante ruolo nella vita politica italiana. Ultimo aspetto che voglio portare alla vostra attenzione è il sindacato come impresa. Avendo migliaia di dipendenti, il sindacato è un vero e proprio datore di lavoro, ma, udite udite, esso non è obbligato ad applicare lo statuto dei lavoratori con i propri dipendenti.

Cosa vuol dire? Che se un impiegato del sindacato non piace ad un sindacalista abbastanza influente anche solo a livello locale, può essere licenziato senza giusta causa, senza preavviso e senza eventuale reintegro. Questa è una legge parlamentare del 1990. Aziende e pubbliche amministrazioni per essere trasparenti, dovrebbero avere l’obbligo di presentare i bilanci, tuttavia i bilanci dei sindacati non sono affatto trasparenti, e per come sono le cose ora, essi non possono essere messi sotto controllo. Avete mai sentito parlare di bilanci consolidati dei sindacati? Nel 1998 un deputato ci provò a far firmare un provvedimento che obbligasse i sindacati a far luce sui loro conti, ma questo voleva dire, oltre ad portare alla luce i veri introiti, anche censire un patrimonio immobiliare che ancora nessuno sa con precisione a quanto ammonti realmente.

Ma un po’ di malizia ce la possiamo anche mettere e se facciamo uno più uno, si può anche pensare che il sindacato paga alcuni dei propri lavoratori o collaboratori, in nero, del resto se nessuno controlla, o meglio, se nessuno può controllare, ogni ipotesi potrebbe anche non essere poi così assurda. Riassunto: entrate altissime, attività monopolistiche, privilegi e belle pensioni, patrimonio immobiliare immenso (e non conosciuto), nessun obbligo di bilanci trasparenti e di adesione allo statuto dei lavoratori, trampolino di lancio per la politica, questi sono diventati oggi i difensori dei lavoratori italiani. A che punto siamo dunque arrivati? Ritengo doveroso sottolineare come certe questioni riguardino solamente i sindacalisti di un certo livello, poiché il classico rappresentante sindacale di fabbrica forse è l’unico che davvero fa il sindacalista.

In nove anni di lavoro in un sindacato ne ho viste tante di cose, soprattutto, di tutti i sindacalisti, solamente uno ho visto fare questo lavoro con vera e propria passione, perché ci crede davvero e tiene a cuore i diritti dei lavoratori. Questo organismo è una vera e propria azienda e non c’è nessun privilegio per chi ci lavora come normalissimo dipendente, anzi! Nel novero delle caste, oltre a quella dei politici per eccellenza, possiamo ormai annoverare anche questa dei sindacalisti. Esultate metalmeccanici che come me questo mese avete avuto più di 100 euro in busta paga grazie alla mediazione dei sindacati. Ringraziate nuova la casta che continuate a pagare voi (e me) senza saperlo con lo 0,226 % dell’ammontare complessivo dei contributi sociali riscossi dagli istituti previdenziali. Ringraziate la nuova casta che dovrebbe fare i nostri interessi e che nemmeno sa quant’è ricca.

Ringraziate la nuova casta che ingrandisce il buco che noi lavoratori, piccole e microscopiche imprese dobbiamo riempire con le nostre tasse, con gli aumenti della benzina, il rincaro dei mutui e del grano. La nuova casta vive di gloria di 30 anni fa’, eppure gli anni ’70 sono passati da un bel po’, come pure lo spirito per il quale sono nati.

COSTANO QUASI 2 MILIARDI DI EURO ALL'ANNO.

Al posto di tutelare i lavoratori pensano ai soldi: privilegi, carriere, misfatti e fatturati da multinazionale. La denuncia di Stefano Liviadotti nel suo libro "L'altra casta"

Casta dopo casta si è arrivati alla fine a parlare di quella dei sindacati. Le granitiche confederazioni dei lavoratori Cgil, Cisl e Uil hanno fatturati da multinazionali, sono l'ottavo gruppo industriale per numero di lavoratori e costano al sistema-Paese un miliardo e 854 milioni di euro all'anno. A denunciarlo è Stefano Livadiotti nel suo libro "L'altra casta" edito da Bompiani nella collana Grandi Passaggi.

I privilegi del potere sono molto diffusi, praticamente ogni giorno spunta fuori una casta diversa, di recente quella dei membri della Corte costituzionale, o quella dei bidelli. Ma in che Paese viviamo?

Ci sono differenze rispetto alla casta politica. Nel mondo sindacale non si può parlare di arricchimento personale come per la politica. Parliamo di casta perché in Italia fare sindacato diventa una professione e questa è un'anomalia tutta italiana. In Italia quando inizi a fare il sindacalista lo fai per tutta la vita. "I delegati sono incentivati a rimanere nel ruolo" dice la Cgil. Il 35% lo fa da più di 8 anni ed è disponibile a farsi rivotare. Ecco perché nel sindacato non ci sono i giovani. Nel sindacato c'è un eccesso di burocratizzazione: i 3 sindacati hanno 20mila dipendenti a tempo indeterminato, come se fossero l'8° gruppo industriale. Poi c'è l'esercito dei delegati sindacali (700mila, sei volte più dei carabinieri che sono 110mila). I permessi sindacali dei delegati equivalgono a 1 milione di giornate lavorative al mese che costa al Paese un miliardo e 854milioni di euro all'anno. Per quello alla fine viene fuori il termine casta: e per dimensioni e per il fatto che a differenza dei politici non vengono votati, ma è un sistema basato sulla cooptazione.

Per fare nomi e cognomi chi sono i sindacalisti che hanno anteposto la propria carriera agli interessi dei lavoratori?

Nella passata legislatura la seconda e la terza carica dello Stato erano ricoperte da sindacalisti. Se hai la pazienza di leggerti tutte le biografie di deputati e senatori, avrebbero costituito il terzo gruppo alla Camera e il terzo al Senato. Se ci metti quanti erano i sottosegretari, i viceministri… A un certo punto c'è una stima di Cassese degli Anni '80 di 80-100mila posti occupati da sindacalisti nel 50% degli organi collegiali amministrativi.

Nel tuo libro "L'altra casta" si parla dei fatturati da multinazionale che hanno i sindacati? Ma se ci sono sempre meno iscritti, come fanno a fare così tanti soldi?

Innanzitutto perché trovano nuovi terreni di raccolta del denaro. Uno dei paragrafi è quello del 5 per mille: hanno creato una serie di Onlus e raccolgono denaro così. C'è il nuovo business degli immigrati, ci sono i Caf e i Patronati che gli fanno guadagnare dei bei soldi. E non è vero, come dicono che i Caf hanno guadagno zero. E infatti c'è la fila per accaparrarsi i contributi che lo Stato versa ai Caf. Il problema è la mancanza di trasparenza, non tanto le somme. Il sindacato non vuole che gli venga imposto di presentare un bilancio consolidato. Le proposte di legge sul tema sono rimaste tali. Non ci sono dei bilanci. L'articolo da cui nasce il libro che si intitolava "L'altra casta" diceva che la sola Cgil ha un bilancio stimato da 1 milione di euro. E forse è una stima al ribasso se l'Ugl (me lo diceva Renata Polverini che ho intervistato di recente) si attribuisce un giro di affari da 100 milioni di euro. Facendo le dovute proporzioni…

Nel tuo libro dici che grazie alla legge 30 l'occupazione è cresciuta del 13% negli ultimi 10 anni. Quella di Epifani sul precariato è davvero soltanto una crociata alla Beppe Grillo come scrivi?

Ti segnalo che è uscita un'intervista interessante sul Corriere del 9 maggio a Gennaro Delli Santi, numero 1 di Assolavoro, che dice che in media tra i lavoratori interinali 2 su 5 trovano un posto fisso. È meglio un lavoro precario o stare ai giardinetti? I dati dicono che da quando è stata introdotta prima la legge Treu e poi la legge Biagi, c'è stato un aumento dello 0,4% dall'86 al '90. Dal '90 al '95 la variazione annua è stata negativa, -1,1%. Tra il '97 e il 2006 in 10 anni secondo i dati Istat l'occupazione è cresciuta del 12,97% sono nati 2 milioni e 660mila posti di lavoro. La disoccupazione è calata di 479 unità tra le donne e di 431mila tra gli uomini. L'occupazione quindi è cresciuta. Dal libro, pagina 61, per una volta l'Italia ha fatto meglio dei partner continentali. Sono dati. Anche Pietro Ichino ha sfidato Grillo a un incontro pubblico perché i suoi esempi sul precariato non rientrano nella legge Biagi. Ma Grillo si è rifiutato.

Uno dei capitoli del tuo libro si intitola "Il fantastico mondo del pubblico impiego", vera roccaforte dei sindacati. Ci spieghi perché?

Un'anomalia importante, tutta italiana, dei sindacati è che la metà degli iscritti sono pensionati. La seconda anomalia è che una percentuale molto alta degli iscritti attivi è nel pubblico impiego. Alla Cgil il 14,9% degli iscritti è pubblico impiego, alla Cisl il 26,6% e alla Uil il 28%. Il mondo del pubblico impiego è fantastico perché il casino è tale che i dati della Corte dei conti non concordano neanche su quanti sono i pubblici impiegati: alla fine si prende per buono il dato di 3,6 milioni. Ci sono 62 travet ogni 1000 abitanti, in Germania ne bastano 39. Per farti un esempio, in Italia ci sono 1,5 milioni di agricoltori diretti, i travet che si occupano di agricoltura sono 1 milione e 200mila, praticamente uno ogni contadino. C'è un sondaggio che dice che il 70% sono troppi e sono troppe anche le famiglie che hanno un lavoratore pubblico al loro interno.

Poi c'è il problema dell'assenteismo e dei fannulloni…

Al catasto hanno un tasso di assenteismo 4 volte superiore a quello dei minatori. Questo tasso secondo i calcoli di Confindustria costa al Paese 14 miliardi e 120 milioni all'anno. Il discorso era che in Italia il pubblico impiego era una sorta di ammortizzatore sociale. Lo Stato diceva, ti assumo però ti pago poco. Non è più neanche vero però che sono pagati poco: negli ultimi anni le retribuzioni medie degli impiegati statali sono cresciute del 5% l'anno, più o meno il doppio dell'inflazione. A parità di qualifica un pubblico dipendente guadagna il 37% in più di un lavoratore privato.

Questo capitolo ha come epigrafe una frase di Sabino Cassese: "Chi vuole lavora, chi no, se ne astiene". Cioè?

È sotto gli occhi di tutti. Ogni giorno ne esce una nuova. Qualche mese fa Prodi parlando di assenteismo si è indignato. In una riunione ufficiale gli hanno detto che contro l'assenteismo si potrebbe istituire un premio di presenza. Allora Prodi ha sbottato e ha detto: e allora lo stipendio cos'è? Il fatto è che il premio di presenza esiste davvero.

Poste, Ferrovie, Alitalia, scuola pubblica. Se le cose vanno male è colpa dei sindacati?

Non è nello stesso modo in tutti quanti i posti. Ma nel caso di Alitalia i sindacati da sempre hanno un fortissimo peso sulla gestione. Se tu ti guardi queste cose che fanno infuriare i piloti (i privilegi come la giornata da 33 ore, ndr), sono tutte cose che hanno un peso sul bilancio. Quest'azienda che ha bruciato 15 miliardi di euro in 15 anni (270 euro di tassa per ogni cittadino italiano compresi i neonati), nel 2007 ha perso 364 milioni in 365 giorni. I sindacati sono riusciti a fare scappare prima Lufthansa e poi il più grande gruppo del mondo Air France-Klm. Si è anche parlato di una trattativa con la russa Aeroflot che ha scritto a Prodi nero su bianco che i sindacati italiani sono peggio di quelli dell'ex Unione Sovietica.

L 'ALTRA CASTA di Stefano Livadiotti

Fatturati miliardari. Bilanci segreti. Uno sterminato patrimonio immobiliare. E organici colossali, con migliaia di dipendenti pagati dallo Stato. I sindacati italiani sono una macchina di potere e di denaro.

Non trattiamo con la calcolatrice... Così, nei giorni scorsi, il grande capo della Cgil Guglielmo Epifani ha replicato a brutto muso alle pretese rigoriste di Tommaso Padoa-Schioppa sulla riforma delle pensioni. Il numero uno di corso d'Italia non è l'unico ad essere allergico ai moderni derivati del pallottoliere. Della stessa idiosincrasia fanno mostra i suoi pari grado di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, almeno quando si tratta di affrontare l'annosa questione dei conti dei sindacati, che continuano a promettere bilanci consolidati, tranne poi guardarsi bene dal metterli nero su bianco. Forse perché i numeri racconterebbero come le organizzazioni dei lavoratori, difendendo con le unghie e con i denti una serie di privilegi più o meno antichi, si siano trasformate in autentiche macchine da soldi. Con il benestare di un sistema politico giunto ai minimi della popolarità e spaventato dalla loro capacità di mobilitazione. Che a sua volta dipende proprio, in grandissima parte, da un formidabile potere economico alimentato a spese della collettività: se c'è un problema di costi della politica, allora il discorso vale anche per il sindacato. Se non di più.

Quasi dieci anni fa, alla fine del 1998, un ingenuo deputato di Forza Italia, ex magistrato del lavoro, convinse 160 colleghi a firmare tutti insieme appassionatamente un provvedimento che obbligava i sindacati a fare chiarezza sui loro conti. Dev'essere che nessuno gli aveva ricordato come solo pochi anni prima, nel 1990, Cgil, Cisl e Uil fossero state capaci di ottenere dal parlamento una legge che concede loro addirittura la possibilità di licenziare i propri dipendenti senza rischiarne poi il reintegro, con buona pace dello Statuto dei lavoratori. Fatto sta che, puntuale, la controffensiva di Cgil, Cisl e Uil scattò dopo l'approvazione del primo articolo con soli quattro voti di scarto. "È antisindacale", tuonò con involontario umorismo l'ex capo cislino Sergio D'Antoni, oggi vice ministro per lo Sviluppo economico. Lesti i deputati del centro-sinistra azzopparono la legge, mettendosi di traverso alle sanzioni (tra i 50 e i 100 milioni) previste in caso di violazioni. Alla fine la proposta di legge è rimasta tale, così come tutte quelle presentate in seguito, anche in questa legislatura. "È il sindacato che detta tempi e modalità", titolava del resto nei giorni scorsi il confindustriale 'Sole 24 Ore', all'indomani dell'accordo sullo scalone pensionistico.

Il risultato è che i bilanci dei sindacati, quelli veri, non sono mai usciti dai cassetti dei loro segretari. "Il giro d'affari di Cgil, Cisl e Uil ammonta a 3 mila e 500 miliardi di vecchie lire", sparò nell'ottobre del 2002 il radicale Daniele Capezzone, "e il nostro è un calcolo al ribasso". Non ci deve essere andato molto lontano, se è vero che oggi Lodovico Sgritta, amministratore della Cgil, si limita a non confermare che il fatturato consolidato di corso d'Italia abbia raggiunto il tetto del miliardo di euro. E ancora: se è vero che quello del sistema Uil, non paragonabile per dimensioni, metteva insieme 116 milioni già nel 2004, esclusi Caf, patronati e quant'altro. Fare i conti in tasca alle organizzazioni sindacali, che hanno ormai raggiunto un organico-monstre dell'ordine dei 20 mila dipendenti, è difficile, anche perchè le loro fonti di guadagno sono le più disparate. Ma ecco quali sono i principali meccanismi di finanziamento. E le cifre in ballo.

Il sostituto d'incasso

La maggiore risorsa economica di Cgil, Cisl e Uil ("I tre porcellini", come ama chiamarli in privato il vice premier Massimo D'Alema) sono le quote pagate ogni anno dagli iscritti: in media l'1 per cento della paga-base; di meno per i pensionati, che danno un contributo intorno ai 30-40 euro all'anno. Un esperto della materia come Giuliano Cazzola, già sindacalista di lungo corso della Cgil ed ex presidente dei sindaci dell'Inps, parla di almeno un miliardo l'anno. Secondo quanto risulta a 'L'espresso', il solo sistema Cgil ha incassato nel 2006 qualcosa come 331 milioni. Una bella cifra, per la quale il sindacato non deve fare neanche la fatica dell'esattore: se ne incaricano altri; gratuitamente s'intende. Nel caso dei lavoratori in attività, a versargli i soldi ci pensano infatti le aziende, che li trattengono dalle buste paga dei dipendenti. Per i pensionati provvedono invece gli enti di previdenza: solo l'Inps nel 2006 ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil. Nel 1995 Marco Pannella tentò di rompere le uova nel paniere al sindacato, promuovendo un referendum che aboliva la trattenuta automatica dalla busta paga (introdotta nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori). Gli italiani votarono a favore. Ma il meccanismo è tuttora vivo e vegeto: salvato, in base a un accordo tra le parti, nei contratti collettivi. Le aziende, che pure subiscono dei costi, non sono volute arrivare allo scontro. E lo stesso ha fatto il governo di Romano Prodi quando, più di recente, Forza Italia ha presentato un emendamento al decreto Bersani che avrebbe messo in crisi le casse sindacali. In pratica, la delega con cui il pensionato autorizza l'ente previdenziale a effettuare la trattenuta sulla pensione, che oggi è di fatto a vita, avrebbe avuto bisogno di un periodico rinnovo. Apriti cielo: capi e capetti di Cgil, Cisl e Uil hanno fatto la faccia feroce. Il governo, a scanso di guai, ha dato parere contrario. E l'emendamento è colato a picco.

Lo strapotere dei Caf

I Centri di assistenza fiscale rappresentano per i sindacati un formidabile business. Per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati vengono pagati dagli enti previdenziali. Solo l'Inps per il 2006 verserà ai 74 caf convenzionati 120 milioni. A fare la parte del leone saranno le strutture di Cgil, Cisl e Uil, che insieme totalizzeranno circa 90 milioni. Non basta. Per i lavoratori in attività i Caf incasseranno dal Fisco 15,7 euro per ognuna delle 12.261.701 dichiarazioni inviate agli uffici nel 2006. Il ministero sborserà dunque 186 milioni e spicci. Anche in questo caso, secondo i conti che 'L'espresso' ha potuto esaminare, la fetta più grande della torta andrà a Cgil (38 milioni, 195 e 177 euro), Cisl (30 milioni, 763 mila e 485) e Uil (12 milioni, 78 mila e 793 euro). Un piatto ricco, considerando che i Caf ricevono inoltre, come contribuzione volontaria, una media di 25 euro dalle tasche dei contribuenti aiutati nella compilazione del 730 (per un totale di 175 milioni, secondo Cazzola) e mettono insieme un'altra cinquantina di milioni per il calcolo di Ise e Isee (i redditometri per le famiglie che chiedono prestazioni sociali). Considerando le cifre in ballo, i sindacati hanno fatto fuoco e fiamme pur di tenersi ben stretto il giocattolo. Nel 2005, sotto l'incalzare della Corte di Giustizia europea, convinta che il monopolio dei Caf rappresentasse una violazione ai trattati comunitari, il governo di Silvio Berlusconi aveva aperto la porta a commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro. Una manovra talmente timida che la Commissione europea ha inviato all'Italia una seconda lettera di messa in mora. Sull'argomento gli uomini di Bruxelles hanno preteso e ottenuto, ancora nel gennaio scorso, un vertice a palazzo Chigi. Concluso, naturalmente, con un niente di fatto.

Intoccabili patronati

Se il monopolio dei Caf è sotto assedio, resiste saldo quello dei patronati, le strutture (quelle convenzionate con l'Inps sono 25) che assistono i cittadini nelle pratiche previdenziali (ma anche, per esempio, per la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione): una rete capillare, dall'Africa al Nordamerica passando per l'Australia, che alcuni sospettano abbia un ruolo non indifferente anche nell'indirizzare il voto degli italiani all'estero. Nel 2000 i radicali hanno lanciato l'ennesimo referendum abrogativo, ma si sono visti chiudere la porta in faccia dalla Consulta. Più di recente Forza Italia ha cercato, con un emendamento al decreto Bersani, di liberalizzare il settore. Se l'armata berlusconiana non fosse stata respinta con perdite, per il sindacato sarebbe stato un colpo mortale. I patronati, infatti, sono fondamentali per il reclutamento di nuovi iscritti tra i pensionati, che quando vanno a ritirare i moduli si vedono sottoporre la delega per le trattenute: "Con i patronati e gli altri servizi nel 2005 la Cgil ha raggranellato 450 mila nuove iscrizioni", sostiene Cazzola. Non bastasse, i patronati assicurano un gettito che non è proprio da buttare via: in pratica si dividono (in base al lavoro svolto) lo 0,226 del totale dei contributi sociali riscossi dagli enti previdenziali. A lungo questa cifra è stata calcolata solo sui contributi dei pensionati privati, per l'ottimo motivo che a quelli pubblici le scartoffie per l'assegno le ha sempre curate l'amministrazione (e proprio per questo motivo pochi di loro sono iscritti al sindacato). Poi, però, nel 2000, per gentile concessione del parlamento (con un voto a larghissima maggioranza) nel monte-contributi sono stati fatti confluire anche quelli dei lavoratori statali. E la cifra ha iniziato a lievitare: 314 milioni nel 2004, 341 nel 2005, 349 nel 2006. Solo l'Inps nel 2006 ha speso per i patronati (che ora, per arrotondare, si occupano anche del rinnovo dei permessi per gli immigrati) 248 milioni, 914 mila e 211 euro. Alla fine, secondo quanto risulta a 'L'espresso', l'Inca-Cgil ha incassato 82 milioni e 250 mila euro, l'Inas-Cisl 66 milioni e 150 mila euro e l'Ital-Uil 26 milioni e 600 mila euro.

Forza lavoro gratuita

È quella distaccata presso il sindacato dalla pubblica amministrazione, che continua graziosamente a pagarle lo stipendio. Compresi, e vai a capire perché, i premi di produttività e i buoni pasto. Oggi i dipendenti statali dati in omaggio al sindacato sono 3.077 e costano al contribuente (Irap e oneri sociali compresi) 116 milioni di euro. Ai quali vanno sommati 9,2 milioni per 420 mila ore di permessi retribuiti. Di regalo in regalo, per i dipendenti che utilizza in aspettativa, ai quali deve invece pagare lo stipendio, il sindacato usufruisce comunque di uno sconto: non paga i contributi sociali, che sono considerati figurativi e quindi a carico dell'intera collettività. Un privilegio che hanno perduto perfino le assemblee elettive (a partire dal parlamento). Ma i sindacati no.

Business formazione

Dall'Europa piove ogni anno sull'Italia circa un miliardo e mezzo di euro per il finanziamento della formazione professionale. In più ci sono i circa 700 milioni dell'ex fondo di rotazione, alimentato dallo 0,30 per cento del monte-contributi che le aziende versano agli enti previdenziali. Un tempo, non meno del 40-50 per cento di queste somme passava attraverso enti di emanazione sindacale, che non incassavano direttamente un euro ma gestivano comunque le assunzioni e la distribuzione degli incarichi. Oggi la concorrenza s'è fatta più dura. Ma i sindacati non mollano l'osso. Dieci dei 14 enti che si distribuiscono ogni anno circa la metà dei finanziamenti nazionali sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil.

Casa mia, casa mia

L'assenza di bilanci consolidati non consente di far luce sull'immenso patrimonio immobiliare accumulato negli anni dai tre sindacati confederali, cui lo Stato a un certo punto ha pure regalato i beni delle corporazioni dell'epoca fascista. Fino a pochi anni fa i sindacati non potevano possedere direttamente gli immobili: li intestavano a società controllate. La legge che ha consentito loro il controllo diretto ha garantito anche un passaggio di proprietà al riparo dalle pretese del fisco. Oggi la Cgil dichiara di avere, sparse per tutto il Paese, qualcosa come 3 mila sedi, tutte di proprietà delle strutture territoriali o di categoria. "Non so stimare il valore di mercato di un patrimonio che non conosco ma", afferma l'amministratore della Cgil, "deve trattarsi di una cifra davvero impressionante". La Cisl dichiara addirittura 5 mila sedi, tra confederazione, federazioni nazionali e diramazioni territoriali (pensionati compresi), quasi tutte di proprietà. La Uil è l'unica che ha concentrato il grosso degli investimenti sul mattone in una società per azioni controllata al 100 per cento. Si chiama Labour Uil e ha in bilancio immobili per 35 milioni e 75 mila euro (a valore storico; quello di mercato è tre volte superiore), ma non, per esempio, la sede romana di via Lucullo, che lo stesso tesoriere nazionale Rocco Carannante stima tra i 70 e gli 80 milioni di euro.

Il fatto certo, alla fine, è che Cgil, Cisl e Uil sono ricchi. Quanto, però, nessuno lo sa davvero. "Ci sono situazioni che talvolta non sono pienamente trasparenti", ha scolpito Epifani lo scorso 27 febbraio. E però si riferiva allo scandalo del calcio.

SINDACALISTI POTENTI. Il più potente sindacalista italiano, il capo della Cgil Guglielmo Epifani, guadagna 3.500 euro netti al mese. I 12 segretari confederali, la prima linea di corso d'Italia, circa 2.400 euro. La Cisl e la Uil pagano poco di meno i loro numeri uno (3.430 euro per Raffaele Bonanni e 3.300 per Luigi Angeletti), ma sono più generose con i dieci segretari confederali (2.850 quelli di via Po, 2.900 quelli di via Lucullo).

La mancanza di un bilancio consolidato non consente di fare chiarezza sugli stipendi dei circa 20 mila sindacalisti a tempo pieno delle tre grandi confederazioni. Della Cgil si sa solo che ne conta 14 mila (per il 40 per cento dirigenti, qualifica che scatta a partire dal grado di funzionario) e che il costo del lavoro è pari a circa il 40 per cento del fatturato. Ma un calcolo si può azzardare sull'organico del quartier generale. Dove i dipendenti sono 178 e il costo del lavoro è pari a 9 milioni e 109 mila euro: la media fa 51 mila euro.

Quanto ai benefit, in corso d'Italia ce ne sono pochi: se si escludono i segretari confederali, gli altri dipendenti dotati di cellulare hanno un tetto di spesa di 750 euro l'anno. Più fortunati, sotto questo aspetto, i 180 dipendenti della sede nazionale romana della Cisl (nella confederazione di Bonanni il costo del lavoro è un po' più del 30 per cento del giro d'affari), che dispongono di uno sconto sui trasporti pubblici e stanno per ottenere un asilo nido.

Dove i sindacalisti godono di più che un privilegio è in un sistema di welfare molto particolare. Come quello garantito dagli enti previdenziali, da sempre riserva di caccia quasi esclusiva per ex dirigenti di Cgil, Cisl e Uil in pensione. Solo all'Inps sono a disposizione 6 mila e 222 tra poltrone e strapuntini.

SINDACATO E CARRIERA POLITICA. La Cisl ha conquistato la seconda carica dello Stato con Franco Marini alla presidenza del Senato. La Cgil s'è accaparrata la terza con Fausto Bertinotti sullo scranno più alto di Montecitorio. In Italia il sindacato è un buon trampolino di lancio. Lo conferma la pattuglia di ex sindacalisti che ha trovato posto nel governo di Romano Prodi e che ha la sua roccaforte nel ministero del Lavoro: il titolare Cesare Damiano viene dalla Cgil, così come il sottosegretario Rosa Rinaldi, mentre l'altro sottosegretario Antonio Montagnino ha un passato nella Cisl. A completare la squadra governativa ci sono poi il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero (ex delegato Fiom-Cgil) e il suo sottosegretario Franca Donaggio (ex Cgil Trasporti); il vice ministro per lo Sviluppo Economico Sergio D'Antoni (ex numero uno della Cisl); il vice ministro degli Esteri Patrizia Sentinelli (già alla Cgil Scuola); il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che viene dalla Cgil come il suo collega all'Economia Alfiero Grandi. Nutrita anche la rappresentanza parlamentare: la sola Cgil può schierare sei tra deputati e senatori: Titti Di Salvo, Teresa Bellanova, Pietro Marcenaro, Andrea Ranieri, Gianni Pagliarini e Maurizio Zipponi. Anche negli enti locali il primato è della confederazione di corso d'Italia: l'ex numero uno Sergio Cofferati ha conquistato il municipio di Bologna e Gaetano Sateriale (ex chimici e poi metalmeccanici) quello di Ferrara, mentre l'ex segretario aggiunto Ottaviano Del Turco è governatore dell'Abruzzo.

Se la politica è lo sbocco naturale, non mancano gli ex sindacalisti che si sono riciclati nel mondo dell'impresa. A partire da Mauro Moretti, ex Cgil, salito al vertice delle Ferrovie; Fulvio Vento, ex Cgil Lazio, diventato presidente dell'Atac; Natale Forlani, ex Cisl, planato sulla poltrona di amministratore delegato di Italialavoro; Raffaele Morese, anche lui ex Cisl, già deputato e sottosegretario al Lavoro, nominato al vertice di Confservizi, la confederazione tra le aziende che gestiscono i servizi pubblici locali.

Stipendi sindacalisti: quanto guadagnano Susanna Camusso e gli altri leader? Le buste paga dei segretari nazionali dei maggiori sindacati italiani, scrive Francesco Minardi il 2 Febbraio 2017 su "NANOPRESS". A quanto ammontano gli stipendi dei sindacalisti italiani? Quanto guadagnano i leader dei maggiori sindacati? La Cgil ha rivelato lo stipendio di Susanna Camusso. La Cisl, dopo lo scandalo sul reddito percepito dall’ex segretario nazionale Raffaele Bonanni, ha pubblicato le buste paga sul proprio sito. Così come la Fiom di Fabrizio Landini. Mistero, invece, attorno alla Uil delle presunte crociere a spese del sindacato.

CGIL: QUANTO GUADAGNA SUSANNA CAMUSSO? Nell’autunno 2015 la Cgil ha dato il via all’operazione trasparenza, svelando lo stipendio del segretario generale. Susanna Camusso, come ha rivelato il segretario confederale dell’organizzazione Nino Baseotto, guadagna 3.850 euro netti al mese. I segretari nazionali, invece, prendono poco meno di 2.800 euro. «Il regolamento del personale e i livelli stipendiali previsti sono disponibili sul nostro sito web: non ci si stupisca se risalgono al 2008. Non è un errore – ha spiegato Baseotto – La segreteria e il direttivo della Cgil hanno deciso di non procedere ad adeguamenti salariali, da allora ad oggi, per rispetto alle migliaia di lavoratrici e lavoratori colpiti duramente dalla crisi». La segretaria del più influente sindacato italianoguadagna quindi il triplo di un operaio e quattro volte un precario.

FIOM: QUANTO GUADAGNA MAURIZIO LANDINI? Qual è la situazione alla Fiom, la Federazione Impiegati Operai Metallurgici che fa capo alla Cgil? Lo stipendio di Maurizio Landini, battagliero segretario nazionale, ammonta a 2.250 euro netti al mesi. Gli stipendi sono pubblicati sul sito. Il doppio, più o meno, del metalmeccanico che difende.

GLI STIPENDI DELLA CISL. Passiamo alla Cisl, la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori di ispirazione cristiana. Il segretario generale Anna Maria Furlan, secondo la busta paga di febbraio 2016, guadagna 3.964 euro al mese. Poco meno degli altri segretari confederali. Insomma, un sindacalista Cisl guadagna circa 4mila euro al mese. Gli stipendi sono stati pubblicati sul sito della Cisl, dopo la bufera che ha travolto Raffaele Bonanni. L’ex segretario generale, dal 2006 al 2011, è arrivato a percepire un reddito lordo annuale di 336mila euro. Come i grandi manager. Per non parlare della pensione d’oro. Lui si difese: «Voglio precisare che la mia pensione netta ammonta a 5.122 euro mensili, dopo 47 anni di regolari contributi e frutto del calcolo sugli ultimi dieci anni di versamenti. Questa è l’unica cifra vera. Tutto il resto sono illazioni farneticanti».

STIPENDI SINDACALISTI UIL. E alla Uil? Mistero. Carmelo Barbagallo, segretario generale dell’Unione Italiana del Lavoro, affermò piccato: «Il mio compenso lo rileverò ai nostri iscritti e all’organizzazione. Guadagno molto meno di chi mi interroga». Ha però fatto sapere di percepire una pensione di 2.797 euro con 47 anni di contributi. Ricordiamo che Barbagallo, insieme al predecessore Luigi Angeletti e altri dirigenti, è indagato per appropriazione indebita: secondo l’accusa avrebbero usato soldi del sindacato per viaggi in crociera e acquisti personali.

LA CASTA DELLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI

Associazioni dei consumatori, una mappa per orientarsi nella jungla dell’offerta. Quelle nazionali sono vincolate al rispetto dei requisiti fissati dal codice del Consumo e possono partecipare a bandi per i fondi pubblici, dove "non c'è competizione". Attenzione ai procacciatori d'affari, alla qualità e al costo dei servizi e alla trasparenza dei conti, scrive Luigi Franco il 16 giugno 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Le associazioni dei consumatori proliferano, non c’è che dire. Altroconsumo, Federconsumatori, Assoutenti, Adoc, Lega consumatori, solo per citare quelle con più iscritti a livello nazionale. Ma a queste se ne aggiungono decine e decine attive a livello locale. Così scegliere quella a cui affidarsi diventa un grattacapo. Tanto più che si può finire in cattive mani. Come è successo quattro anni fa a una coppia di Udine che, dopo essersi rivolta al Movimento difesa del cittadino del Friuli Venezia Giulia per opporsi a un pignoramento, è stata messa in contatto con l’allora responsabile del dipartimento Fisco e finanza dell’associazione e con una sedicente avvocatessa cancellata dall’albo, entrambe finite alla sbarra per truffa. La coppia infatti è stata convinta a fare causa alla banca e a pagare un anticipo da oltre 4mila euro sulla parcella. Con un finale a sorpresa: finta avvocatessa irreperibile e causa finita male, nonostante le possibilità di successo fossero state spacciate per concrete. Il processo, iniziato ad aprile, stabilirà se si è trattato di raggiro. Ma il paradosso è chiaro: il consumatore si è ritrovato a doversi difendere proprio da chi avrebbe dovuto tutelarlo. Come fare a evitarlo? Ecco le cose da sapere per scegliere meglio la propria associazione. Fondi pubblici alle associazioni iscritte a elenco nazionale e registri regionali – Il grande mondo delle associazioni dei consumatori può essere diviso in tre livelli. Quelle più importanti sono iscritte all’elenco del ministero dello Sviluppo economico e fanno parte del Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (Cncu), un organismo presieduto dello stesso ministero. Per ottenere tale riconoscimento le associazioni devono soddisfare i requisiti previsti dal Codice del consumo (decreto legislativo 206 del 2005): tra le altre cose, devono essere attive da almeno tre anni, avere un numero di iscritti superiore al 5 per mille della popolazione nazionale, essere presenti in almeno cinque regioni e avere uno statuto che preveda una certa democraticità interna. Il riconoscimento pubblico a livello nazionale dà alcuni vantaggi, come la possibilità di rappresentare gli iscritti nelle conciliazioni paritetiche, una modalità stragiudiziale di risoluzione delle controversie, e la possibilità di partecipare ai bandi per i progetti a favore dei consumatori finanziati dal governo con parte delle sanzioni dell’Antitrust. Sul rispetto dei requisiti vigila il ministero – Niente che sia comunque in grado di garantire fino in fondo i consumatori, come dimostra il caso in cui è rimasto coinvolto il Movimento difesa del cittadino, una delle associazioni che fa parte del Cncu. Soddisfare i requisiti, inoltre, non è per nulla una missione impossibile, a guardare il numero delle associazioni iscritte all’elenco ministeriale: addirittura 19. “Un numero assurdo”, commenta Stefano da Empoli, docente di Economia politica e politica economica all’università Roma Tre e presidente dell’I-Com, l’Istituto per la competitività che cura un rapporto annuale sui consumatori. “Perché le associazioni possano avere la massa critica necessaria a svolgere un ruolo significativo, il quadro dovrebbe essere meno parcellizzato. La loro integrazione andrebbe incentivata”.

Ma non finisce qui. Oltre all’elenco del ministero, gran parte delle regioni ha un proprio registro a cui si possono iscrivere le associazioni attive a livello locale. Spesso queste sono le ramificazioni territoriali delle 19 nazionali, ma ce ne sono anche di nuove. Così si arriva a casi come quello del Lazio, dove le organizzazioni registrate sono più di 40. E forse non è un caso che proprio qui ne siano di recente finite sotto inchiesta quattro: Federconsumatori Lazio, Adoc Lazio, Unione nazionale consumatori Lazio e Coniacut, tutte sospettate di aver certificato prestazioni inesistenti per ottenere i finanziamenti regionali. “Alcune associazioni nascono solo per aggiudicarsi i soldi pubblici”, sostiene Marco Pierani di Altroconsumo, secondo il quale il problema non si limita al livello regionale, ma tocca anche quello nazionale: “Tutti i progetti presentati dalle associazioni appartenenti al Cnuc di solito vengono approvati e finanziati. Non c’è una vera competizione e alcune associazioni puntano strutturalmente ai fondi pubblici, con cui si mantengono in vita. Un effetto distorsivo, perché a beneficiare dei progetti deve essere il consumatore finale, non la struttura dell’associazione”.

Il terzo livello: le associazioni fuori dagli elenchi – Completano il quadro tutte le associazioni a cui di prassi non sono destinati i bandi per i progetti finanziati da Stato e regioni, perché non iscritte ad alcun elenco. Spesso sono piccole organizzazioni attive a livello locale o specializzate in determinati settori, come l’usura bancaria. Anche queste hanno tutto il diritto di esistere, sebbene non siano sottoposte a quel minimo di controlli previsti invece per iscriversi ai registri. Il loro è un modello alternativo: la mancata appartenenza al ‘sistema pubblico’ – fanno sapere dal ministero – non va considerato come punto di demerito.

Occhio ai procacciatori di affari. Un consiglio? Chiedere il bilancio – Tra i rischi per gli utenti, uno su tutti. Che l’associazione dei consumatori si trasformi in un sistema per procacciare affari agli avvocati a essa legati. Vale per tutte le organizzazioni, siano queste riconosciute o meno da ministero e regioni: “Definirsi paladini dei consumatori – spiega da Empoli – può essere una mossa di marketing dietro cui si nascondono gli interessi di singole persone, per esempio i professionisti”. Da valutare c’è poi la qualità e il costo dei servizi offerti, che insieme alle quote di iscrizione possono essere un’altra fonte di finanziamento. Ma su questo non c’è alcuna regolamentazione, come spiegano dal ministero: “Se un’associazione diventa esosa, non è lo Stato che lo deve dire. Il mondo associativo deve essere libero. Se un associato non è più soddisfatto, come arma ha quella di cancellare la propria iscrizione”. Ma allora come fare a scegliere l’associazione giusta? “L’adesione non va mai fatta la buio – rispondono dagli uffici del dicastero -. Può essere utile dare un’occhiata allo statuto e al sito dell’associazione. Si può provare anche a chiedere il bilancio. Se non viene mostrato, quantomeno è sinonimo di poca trasparenza”.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente lettera di Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino: Il Movimento difesa del cittadino (MDC) per statuto e prassi ormai trentennale limita la sua attività all’informazione e assistenza extragiudiziale dei cittadini, aiutandoli a tutelare i loro diritti attraverso strumenti come la conciliazione. Non “mette in contatto” e non indirizza nessuno ad avvocati, come si evince chiaramente anche dallo statuto e dal sito; non “procaccia affari” a nessuno studio legale. Indichiamo a chi ci contatta solo sedi provinciali e regionali dell’associazione, alle quali ci si può rivolgere. Del caso citato la sede nazionale era assolutamente all’oscuro e quindi non ha mai indicato e non poteva indicare alcun avvocato. Naturalmente chi si rivolge alle sedi locali e non può risolvere il suo problema in via conciliativa a volte chiede consiglio per la scelta di un avvocato. Il responsabile della sede di MDC Friuli Venezia Giulia ha ritenuto nella sua autonomia di indirizzare questi cittadini, che peraltro non sono mai stati iscritti all’associazione, ad un avvocato che ha agito come professionista e non certo come “responsabile del dipartimento Fisco e finanza”. Sull’operato di questo professionista e sulle vicende che hanno portato al procedimento penale si pronuncerà il giudice. Proprio facendo tesoro di questa vicenda, e per evitare casi analoghi peraltro mai successi in passato, ci siamo dotati di una convenzione con i legali di fiducia (che le allego), per garantire i cittadini sia riguardo la qualità delle prestazioni professionali che per gli onorari richiesti. In nessun caso comunque l’associazione entra nel rapporto professionale, che nasce e si sviluppa tra il cittadino e il professionista. MDC si è sempre caratterizzata come un’associazione che ha fatto della trasparenza la sua caratteristica. Pubblichiamo da molti anni il bilancio nazionale on line, insieme con il Cud del presidente. Negli ultimi anni abbiamo fatto battaglie per la legalità nella politica, ultime quelle ancora in corso per l’applicazione della Severino nei casi De Magistris e De Luca; in anni recenti contro la Giunta regionale del Lazio e la presidente Polverini che non volevano dimettersi dopo gli scandali dei rimborsi; ma anche contro il Consiglio regionale della Puglia (presidente Vendola) che voleva aumentare il numero degli eletti in contrasto con lo statuto regionale, interpretato in modo errato. I cittadini che si rivolgono a MDC possono stare tranquilli e continuare a rivolgersi ai nostri sportelli, certi di essere aiutati a risolvere al meglio i loro problemi. Prendiamo atto dei chiarimenti che tuttavia non smentiscono quanto scritto. Del resto, riguardo al caso che ha coinvolto l’avvocato Dalila Loiacono, ex responsabile del dipartimento Fisco e finanza del Movimento difesa del cittadino, nel decreto che ha disposto il suo rinvio a giudizio si legge che due dei soggetti che hanno presentato denuncia “si erano rivolti al Movimento difesa del cittadino del Friuli Venezia Giulia per un parere legale in ordine ad una procedura di pignoramento immobiliare”. Il presidente Longo scrive che “il responsabile della sede di MDC Friuli Venezia Giulia ha ritenuto nella sua autonomia di indirizzare questi cittadini ad un avvocato”. Al di là dell’autonomia del responsabile della sede di MDC Friuli Venezia Giulia, resta il fatto che questi cittadini si erano rivolti a lui proprio per il suo ruolo all’interno dell’associazione. Come dice il presidente Longo, il giudice si pronuncerà sulle vicende che hanno portato al procedimento penale. Procedimento in cui il difensore di Loiacono ha chiesto di essere autorizzato a citare 91 testimoni, 23 dei quali in virtù del loro ruolo all’interno degli organismi dirigenti del Movimento difesa del cittadino. Tra di loro anche il presidente Longo, che avrà modo di portare la sua testimonianza anche in tribunale. (Luigi Franco)

Associazioni di consumatori. Stretta sui finanziamenti. Il governo studia nuove regole per ridurne il numero. Obiettivo, spingere le associazioni a confederarsi, scrive Melania Di Giacomo il 24 agosto 2012 su "Il Corriere della Sera". Finora l'avevano scampata bella alla crisi. Le associazioni dei consumatori, nate sull'onda del movimento di Ralph Nader negli Usa nel '70, e proliferate nel nostro Paese dal decennio successivo in poi, potrebbero conoscere un drastico ridimensionamento, in stile spending review. Tutta colpa di un regolamento, cui sta lavorando il ministero dello Sviluppo economico, che completerà il Codice del consumatore, e che richiederà una stringente procedura di tracciabilità degli iscritti di cui andranno ad esempio allegate le generalità e i codici fiscali. Un modo per rendere più rigoroso l'iter che lega le attività svolte ai finanziamenti pubblici. Oggi infatti per figurare nell'elenco del Cncu, il Consiglio nazionale dei consumatori, che è una sorta di patente di esistenza in vita, e dà tra l'altro diritto ai finanziamenti per i progetti, servono almeno 30 mila iscritti. Ora, anche se nessuno lo dice ufficialmente, sarebbe in atto una moral suasion da parte del ministero perché le associazioni si confederino, indirizzando i finanziamenti (residui) per i progetti a pochi anziché disperderli in mille rivoli. Anche qui siamo dunque a una forma di revisione della spesa. «Stiamo facendo un nuovo regolamento interno», conferma Giuseppe Tripoli, capo del Dipartimento per l'impresa e l'internazionalizzazione: «Non è una cosa contro le associazioni dei consumatori, tutt'altro. È un modo per aumentare la trasparenza». Si tratta di un meccanismo coerente con quello usato per le Camere di Commercio al cui interno siedono anche rappresentanti delle associazioni, che per dimostrare i requisiti devono consegnare tutta la documentazione. E si vuole garantire così anche i consumatori che aderiscono alle class action, in quanto i soggetti legittimati ad agire in forma collettiva sono proprio le associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale. E quelle iscritte al Cncu lo sono di default. Uno schema di regolamento circola già in via informale negli uffici delle associazioni. E i segretari delle stesse sanno che anche di questo si discuterà nella prossima riunione del Cncu, il 12 settembre, con il sottosegretario Claudio De Vincenti. Dal 2003 le associazioni dei consumatori hanno cominciato a contare su una parte delle multe incassate dall'Antitrust e dall'Autorità per l'energia elettrica. Fino al 2007 ben 47,7 milioni per finanziare progetti di informazioni ai consumatori. Poi sono cominciate le ristrettezze e la finanziaria 2010 ha destinato quasi l'intera somma alla gestione delle emergenze. A maggio di due anni fa l'ultimo importo stanziato: 4,5 milioni per il finanziamento di «interventi diretti a facilitare l'esercizio dei diritti dei consumatori e la conoscenza delle opportunità e degli strumenti di tutela». Le associazioni si sono consorziate in quattro gruppi intorno a altrettanti progetti: «Diogene. La lanterna del consumatore», finanziato con 1.013.704 euro, «Guarda che ti riguarda», per 1,2 milioni, come per «Informa-con», e «Check-up diritti» per i quali lo stanziamento è 988 mila euro. Circa 250 mila euro ad associazione. Sempre dai proventi delle multe, altri 13 milioni vengono destinati alle Regioni per i loro progetti per i consumatori, dagli sportelli alle brochure, molti dei quali sono attuati proprio in collaborazione con le associazioni. Ma se i fondi vengono stanziati a fronte dei progetti svolti, che c'entra il numero delle tessere? Ai progetti possono partecipare solo le associazioni del Cncu, secondo l'articolo 137 del Codice del consumo che richiede quale requisito per l'iscrizione nell'elenco, tenuto presso il ministero, un numero di iscritti «non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale e una presenza sul territorio di almeno cinque regioni, con un numero di iscritti non inferiore allo 0,2 per mille degli abitanti». Il punto è: chi certifica gli iscritti? Per adesso esiste solo un'autocertificazione del rappresentante legale dell'associazione. E, inutile dirlo, qualcuno gioca al rialzo. «La Federconsumatori è la più rappresentativa - garantisce Rosario Trefiletti, che è d'accordo con i criteri più pressanti - abbiamo 160 mila iscritti. E i nostri sono veri, non come quelli che ne dichiarano 300 mila. La riduzione può avvenire se c'è un controllo sulle associazioni, se hanno sedi territoriali, se lavorano, se hanno iscritti o se sono tre quattro avvocati che si mettono assieme». Paolo Martinello di Altroconsumo premette che «il proliferare delle associazioni è dovuto all'assenza di controlli». Quindi appoggia anche lei l'operazione? «Certo, non si può arrivare al punto che le associazioni nascano solo per avere quei 200 mila euro l'anno». «Quando ci sono di mezzo soldi pubblici bisogna essere trasparenti», dice Pietro Giordano di Adiconsum, e «se noi lo richiediamo a partiti e pubblica amministrazione, dobbiamo esserlo per primi». Possibile che nessuno dica una parola contro? «Beh, certo. Se ci sono meno associazioni...». Ecco: quelle che restano ci guadagnano. 

Consumatori, 47 milioni per fare da anti-Stato. Finanziate dal governo con i soldi delle multe dell’Antitrust, le associazioni dei consumatori sopravvivono solo grazie ai contributi statali, scrive Matthias Pfaender, Lunedì 14/07/2008, su "Il Giornale". Votate alla difesa del consumatore: agguerrite, preparate, specializzate; capaci di minacciare cause contro tutto e tutti. Le associazioni dei consumatori, i cani da guardia nel mercato dei beni e servizi, per difendere il cittadino che si barcamena tra beni e servizi non guardano in faccia a nessuno. Tranne che allo Stato. Perché da Roma le associazioni sono massicciamente finanziate.

FINANZIAMENTI A PIOGGIA. Eccola un’altra casta. Diversa, ma sempre casta: 47,7 milioni di euro in cinque anni, distribuiti a pioggia a partire da gennaio 2003, da quando alle associazioni va parte del ricavato delle multe dell’antitrust. Le società sbagliano, l’Authority le punisce e quei soldi che dovrebbero andare allo Stato vanno alle associazioni dei consumatori. Cioè quelle sigle che dal 1998 fanno parte del Cncu (consiglio nazionale dei consumatori e utenti, che ha sede presso il ministero dello Sviluppo economico). Fino all’80-85% dei bilanci delle associazioni, secondo una ricerca del Sole24Ore, sono garantiti dal denaro pubblico. «In queste condizioni - ha dichiarato Palo Martinello, presidente di Altroconsumo - è difficile contestare le scelte di governo o regioni. Così si rischia di diventare la foglia di fico delle amministrazioni». Quindi la domanda è immediata: ma se i soldi li prendono dallo Stato, come faranno a fare azioni e operazioni contro tutto quello che lo Stato controlla come Poste, servizi idrici, ferrovie, smaltimento, gestione rifiuti?

UN PROGETTO PER TUTTI. I soldi pubblici servono a finanziare molte cose, sostengono i vertici delle associazioni. Quali? Siamo andati a leggere i documenti dei finanziamenti dei progetti delle associazioni del 2005 per avere un’idea. Ne abbiamo trovati 27 e la prima cosa strana è che praticamente tutti hanno un contributo standard: mezzo milione di euro. E così, a prescindere dal lavoro svolto, tutti finiscono col portare a casa la stessa cifra (12 milioni nel solo 2005). Non ci dev’essere grande comunicazione tra le varie associazioni, poi, se in un anno tre progetti diversi hanno avuto però lo stesso contenuto: la lettura delle etichette. Un milione e mezzo di euro, quindi, per insegnare a leggere. Ma i soldi basta averli, se è vero che Carlo Rienzi, presidente del Codacons ha dichiarato all’Espresso: «Stare nel Cncu non serve a niente. È una scatola per dare soldi. E per fortuna li dà».

LE ISCRIZIONI FALSE. I consumatori insegnano a non fidarsi di nessuno. Seguendo questa logica non bisognerebbe farlo neanche con loro. E forse non sarebbe poi tanto sbagliato. «Gran parte degli iscritti sono falsi», ammettono gli stessi presidenti. Tanto nessuno controlla. Così si deduce che i 300mila iscritti spacciati da qualcuno, i 100mila da qualcun altro e così via, siano solo numeri in libertà, con buona pace della tanto invocata trasparenza.

GLI INTRECCI CON LA POLITICA. Molte sigle sono nate e cresciute all’ombra di poteri politico-sindacali: Federconsumatori è strettamente legata alla Cgil, mentre Adiconsum e Adoc rispettivamente alla Cisl e Uil. Il movimento Arci ha la sua organizzazione «personale» nel Movimento consumatori, mentre la Lega consumatori è collegata alle Acli. Ma c’è anche chi ha giocato la carta della politica pura: dal Codacons è nata la Lista Consumatori, che alle politiche del 2006 riuscì a far eleggere in Calabria addirittura un senatore, Pietro Fuda. Il presidente di Adusbef, Elio Lannutti, è tutt’ora in parlamento, senatore dell’Italia dei Valori e personaggio ammiccante all’antipolitica visto che ha in programma l’uscita di un libro La Repubblica delle banche, con introduzione di Beppe Grillo. Di centrodestra è la «Casa del consumatore», il cui presidente Alessandro Fede Pellone è un ex consigliere lombardo di Forza Italia. Era collaboratore del ministro Livia Turco, Stefano Inglese, ex presidente del Tribunale dei diritti del malato e legato a Cittadinanzattiva, mentre Donatella Poretti dagli uffici dell’Aduc è passata direttamente agli scranni di Montecitorio, nelle file della Rosa del Pugno. Infine Mara Colla, già sindaco socialista di Parma, eletta alle scorse elezioni regionali con l’Ulivo, continua a tenersi stretta la presidenza della Confconsumatori. Alla faccia della libertà.

Prendono soldi pure i soldi pubblici sull’editoria.

Contributi pubblici ai giornali: cosa prevede la nuova legge sull’editoria, scrive Andrea Zitelli su "Valigia Blu il 27 marzo 2017. Venerdì 24 marzo, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo che ridefinisce la disciplina dei contributi diretti alle imprese editrici di quotidiani e periodici. Il provvedimento punta a rafforzare i requisiti di accesso alle risorse pubbliche ("richiedendo fra l’altro che l’edizione cartacea sia necessariamente affiancata da quella digitale, e prevedendo obblighi riguardo l’applicazione dei contratti di lavoro") e chiarisce quali imprese editrici possono essere destinatarie dei contributi all'editoria:

– Cooperative giornalistiche che editano quotidiani e periodici;

– Imprese editrici di quotidiani e periodici il cui capitale è detenuto in misura maggioritaria da cooperative, fondazioni o enti senza fini di lucro, limitatamente ad un periodo transitorio di cinque anni dall’entrata in vigore della legge di delega;

– Enti senza fini di lucro ovvero imprese editrici di quotidiani e periodici il cui capitale è interamente detenuto da tali enti;

– Imprese editrici che editano quotidiani e periodici espressione di minoranze linguistiche; imprese editrici, enti ed associazioni che editano periodici per non vedenti e ipovedenti;

Associazioni dei consumatori che editano periodici in materia di tutela del consumatore, iscritte nell’elenco istituito dal Codice del consumo;

– Imprese editrici di quotidiani e di periodici italiani editi e diffusi all’estero o editi in Italia e diffusi prevalentemente all’estero. Il decreto elenca anche chi non può accedervi:

– Imprese editoriali quotate in Borsa. – Imprese editrici di organi d’informazione dei partiti, dei movimenti politici e sindacali.

– Le pubblicazioni specialistiche. Riguardo i criteri di calcolo dei contributi, questi verranno calcolati in parte come rimborso dei costi e in parte in base al numero di copie vendute. Nel comunicato stampa di Palazzo Chigi si legge che "al fine di sostenere la transizione dalla carta al web", ai costi connessi all'edizione digitale sarà riconosciuta una percentuale più alta. Inoltre, verranno previsti parametri diversi a seconda del numero di copie vendute e verrà introdotto un limite massimo al contributo, che in ogni caso non potrà superare il 50% dei ricavi conseguiti nell’anno di riferimento. Il decreto legislativo è stato approvato in attuazione della legge n.198 del 2016, che spiega il Post, istituiva un fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione e dava deleghe al governo per la ridefinizione, tra le altre cose, della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria.

Finanziamento pubblico proporzionale alle tessere.

Quello strano giro di tessere tra Cgil e Federconsumatori. Capita che iscrivendoti al sindacato di lady Camusso ti arrivino a casa due "card". Una, ça va sans dire, non richiesta. Peccato che l'associazione di Trefiletti percepisca finanziamenti statali in base al numero di iscritti, scrive Francesca Carrarini il 28 ottobre 2017 su “L’Intraprendente”. Si può avere dei sindacati l’opinione che si vuole, ma risulta normale e conveniente rivolgersi a loro per sbrigare le più diverse pratiche burocratiche che a noi privati cittadini, diversamente, ci farebbero perdere intere giornate di lavoro senza risultati certi. Ovviamente, dal canto loro, niente per niente, quindi per avvalersi delle proprie consulenze è necessario tesserarsi: compilare il modulo con i dati personali, firmare il permesso dell’utilizzo dei dati sulla privacy, pagare la quota di iscrizione e per l’anno in corso e attendere l’arrivo della tessera a casa. O meglio, attendere l’arrivo delle tessere a casa. Plurale. Eh sì, perché pare esser divenuta abitudine per alcune di queste associazioni utilizzare formule del tipo “paghi uno prendi due”. A raccontarcelo è un cittadino padovano, che nel parlarci della sua esperienza cita due importanti sigle associative del territorio: la Cgil, Confederazione generale italiana del lavoro rappresentata pubblicamente dal segretario Susanna Camusso (è la maggiore confederazione sindacale italiana con oltre 5 milioni e 750mila iscritti – di cui 3 milioni sono pensionati – e circa 5 milioni di bilancio dichiarati nel 2011 tra fondi attivi, passivi e patrimoniali) e la Federconsumatori, altra associazione no profit presieduta da Rosario Trefiletti che, per informare e tutelare gli utenti iscritti nel registro regionale, dichiara un bilancio attivo di poco meno di 400mila euro solo in Veneto (poi ci sono tutte le altre regioni). «Qualche settimana fa mi sono recato con mia madre al Caaf della Cgil per sbrigare alcune pratiche relative l’atto di successione e, in quella sede, ho firmato tutti i documenti relativi il tesseramento» racconta il padovano. «Dopo qualche tempo mi arriva a casa una lettera speditami dalla Cgil. L’ho aperta, sapendo che vi avrei trovato la tessera che avevo richiesto ma, con sorpresa, mi sono accorto che le tessere contenute all’interno della busta erano in realtà due: quella della Cgil e quella della Federconsumatori». Tessera, quest’ultima, che il padovano non ricorda di aver mai richiesto: «Ho chiamato l’ufficio della Cgil per segnalare l’errore e la centralista mi ha risposto che non c’è stato nessun errore: prassi, mi ha detto». All’uomo nessun costo aggiuntivo, il tesseramento all’associazione di Trefiletti è avvenuta in modo del tutto automatico e gratuito, ma non indolore per le tasche dei contribuenti. Viene infatti da chiedersi perché la spedizione della doppia tessera associativa: «Oltre a riscontrare una palese violazione della privacy, esiste la questione dei finanziamenti – afferma Marco Paccagnella, presidente di Federcontribuenti, associazione che agisce a difesa dei contribuenti su tutto il territorio nazionale e che ha rifiutato ogni finanziamento pubblico – lo Stato calcola i contributi alle associazioni in base al numero di tessere sottoscritte: più sono le adesioni, più alti sono i finanziamenti. Se Federconsumatori associa a sé ogni nuovo iscritto Cgil, capisce bene che gli zero a bilancio crescono in modo esponenziale». Ma il problema non finisce qui, perché oltre ai finanziamenti (la cui spesa inevitabilmente ricade sui contribuenti) vi è anche una questione di convenienza e etica: «C’è da dire che la maggior parte delle persone iscritte alla Cgil non sanno di essere anche associati Federconsumatori, e quindi non fruiscono dei servizi che possono essere offerti dall’associazione – commenta ancora Paccagnella, che aggiunge – l’associazione in questo trae il massimo guadagno dai soldi pubblici, non dovendo muovere un dito per aiutare i suoi iscritti che potremmo definire fantasma. Ma poi l’altro problema, forse il più grave: il CNCU». CNCU: Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti, organo dello Stato che fa capo al ministero per lo Sviluppo Economico e presieduto dallo stesso ministro, oggi Flavio Zanonato: «Il CNCU ha funzioni consultive sugli argomenti relativi ai diritti dei consumatori e presiede spesso i tavoli istituiti quando l’ira civile minaccia tempesta sulla casta politica» dice ancora il presidente di Federcontribuenti, che spiega che tutte le associazioni in Italia possono fare richiesta di entrare in questo organo e che tutte quelle fino ad oggi iscritte ricevono soldi pubblici: «Queste associazioni, tutte rigorosamente no profit, ricevono pochi se non pochissimi controlli. È vero che associarsi è una libertà inviolabile, ma è anche vero che tale organo limita ampliamente e arbitrariamente il diritto di ogni associazione di agire in piena libertà. Recenti visure camerali che abbiamo analizzato – infatti – hanno messo in evidenza gravi anomalie: noi temiamo che questo sistema alimenti i così detti bacini di voto e che organismi come il CNCU siano più vicine a lobby che a istituzioni a servizio del cittadino» conclude Paccagnella. Insomma, un affare per associazioni come Federconsuamatori o Cgil che incrementano il loro bilancio sfruttando pochi nominativi. Un affare per Zanonato, che in qualità di Presidente del CNCU potrebbe usare il suo incarico per far muovere consensi e un affare per lo Stato, capace così di mantenere inalterato il suo potere sul territorio. Un problema solo, per i cittadini, ma questo si sa, non fa più notizia.

Federconsumatori, Trefiletti lascia il testimone a Viafora, scrive Enrico Cinotti il 22 giugno 2017 su "Il Salvagente". Emilio Viafora è il nuovo presidente della Federconsumatori e subentra a Rosario Trefiletti, per 17 anni alla guida dell’associazione promossa dalla Cgil. “Una decisione importante e condivisa di cambiamento”, ha detto Trefiletti, che questa mattina al termine del direttivo nazionale dell’associazione ha lasciato il testimone nelle mani di Viafora, 64 anni, una lunga attività sindacale alle spale. Non c’è dubbio come in questi anni la Federconsumatori sia diventata un punto di riferimento per il consumerismo italiano e, sotto l’impulso della presidenza Trefiletti, sia diventata la più diffusa e presente associazione in Italia.

“Serve una vera rappresentanza europea”. “Un gioiellino”, come l’ha definita Trefiletti, che ora passa nelle mani di Viafora il quale ha riassunto in quattro direttrici il suo impegno programmatico. “Bisogna far fare un salto continentale al consumerismo: serve una forza di rappresentanza a livello europeo. Lo si vede anche sulla ratifica del trattato Ceta: è in Europa che bisogna essere in grado di far sentire la propria voce”. In seconda battuta “serve una nuova rappresentanza dei consumatori in Italia ovvero una normativa più stringente”. Più in generale, poi, “bisogna dare nuovi strumenti alla rappresentanza sociale” e rendere sempre più concreto il “dialogo con l’associazionismo: il nostro paese ha compiuti passi in avanti importanti quanto più sono state forti le reti di relazione”. Viafora ha poi ribadito l’importanza del dialogo con i soggetti economici ma ha anche rivendicato “l’autonomia e l’indipendenza dalle aziende” e la volontà di “pesare sempre più nelle scelte, ovvero di intervenire non solo a danno fatto rivendicando un risarcimento ma in modo preventivo, cioè per evitare che i danni avvengano”.

Il bilancio di Rosario. Durante alla conferenza stampa Rosario Trefiletti ha tracciato un bilancio della sua lunga e proficua esperienza. Quali sono stati la vittoria più bella e la sconfitta più cocente in questi 17 anni? “La vittoria più importante all’inizio degli anni 2000 quando vincemmo la battaglia della ricontrattazione dei mutui in Ecu consentendo a 2 milioni di persone di poter risparmiare tanti soldi. La sconfitta che più brucia quella recente al Tribunale di Trani contro le società di rating. In mezzo naturalmente tante battaglie, quelle condotte con Adusbef contro il risparmio tradito e le banche in primis, e tanti progetti che siamo riusciti a portare avanti a tutela del cittadino-consumatore”. L’impegno di “Rosario” prosegue alla presidenza dell’Iscon, l’Istituto per lo studio del consumo promosso dalla Federconsumatori ma al momento non in politica nonostante i rumors legati al suo dinamismo social e non solo: “Voglio solo stare nel dibattito politico perché sono in stato confusionale”.

Un “salto” continentale. La “mission” europea sembra comunque il punto principale di questo avvicendamento nella continuità alla guida della Federconsumatori. “I cittadini non possono essere rappresentati nell’Unione europea da imprese che si spacciano per associazioni”, ha rimarcato Trefiletti. “Vogliamo – conferma Viafora – continuare a difendere chi ha pagato di più la globalizzazione ma ha meno diritti. Nella regolazione dei nuovi mercati vogliamo portare il punto di vista dei consumatori, liberi da condizionamenti e consapevoli che dobbiamo tutti quanti far fare un salto continentale al consumerismo”.

IL PESCE D’APRILE DEL CODACONS ALLA FEDERCONSUMATORI, scrive il 3 aprile 2013 "Consumerismo.it". Questo sì che è un Pesce d’Aprile! Come sempre simpatica e geniale l’idea del Codacons di sottolineare la storica diatriba, tra il modello non sindacale e le associazioni di matrice sindacali (CGIL, CISL E UIL), da sempre ostili al cosumerismo attivista e di lotta giuridica, e più propensi alla “concilializione” e alla trattativa. Basta ripercorrere un po’ di storia per capire come stanno le cose. Molti ricorderanno il dossier di PANORAMA, oppure la recente discussione sul nuovo regolamento appena entrato in vigore che il Ministero dello Sviluppo Economico ha adottato, con un’evidente linea per l’associazionismo di matrice sindacalista, così come sottolinea il seguente articolo pubblicato sul Corriere della Sera. Tornando ai fatti odierni leggiamo il simpatico pesce d’Aprile con un comunicato di CODACONS.

COMUNICATO STAMPA. Cronaca nazionale 1 aprile 2013. CONSUMATORI: ROSARIO TREFILETTI NOMINATO PORTAVOCE DEL CODACONS. Rosario Trefiletti, già presidente di Federconsumatori, è stato nominato portavoce ufficiale del Codacons. Lo ha deciso sabato scorso l’assemblea dei soci del Codacons, riunita per individuare un nuovo nome che rappresentasse l’associazione. Trefiletti, che ha accolto con entusiasmo il nuovo incarico – spiega il Codacons – è stato scelto per le sue indubbie qualità’ di comunicatore, mai demagogico o populista, e per la sua immensa competenza su temi legali e consumeristici. La nomina è stata inoltre decisa dopo che il Pd, commettendo un gravissimo errore, non ha accolto l’autocandidatura di Trefiletti a portavoce del partito, scelta che forse avrebbe evitato l’attuale impasse politica del nostro paese (di seguito il twitter ufficiale con l’autocandidatura di Trefiletti: “Rosario Trefiletti‏@3filetti5 Mar Ma quando avrò l’incarico di rappresentare le posizioni PD nei media essendo il meglio per chiarezza concisione e determinazione? Mai? Peccato”). A partire da oggi, quindi, Rosario Trefiletti rappresenterà il Codacons in tutte le occasioni pubbliche, nei rapporti con le istituzioni e nelle partecipazioni ai programmi radiotelevisivi. Ovviamente un vero e proprio pesce d’Aprile. Come sanno gli addetti ai lavori, tra l’AVV. Rienzi e l’ex sindacalista Trefiletti, oggi Segretario uscente della Federconsumatori, non ci potrà mai essere un’associazione in comune, tanto-meno la stessa, figuriamoci poi se è il Codacons. Forse il Codancos avrà voluto ironizzare sul fatto che Trefiletti (noto per la sua costante presenza televisiva come opinionista) da tempo si diceva in corsa per una poltrona parlamentare per il PD, o sulle voci che lo davano accreditato a candidato Sindaco di Roma sempre per il PD, poi palesemente smentito dalla candidatura dell’ex giornalista Rai Sassoli.

Rosario Trefiletti CV su “Federconsumatori”.

INFORMAZIONI PERSONALI Nome Nazionalità Data di nascita Attuale impiego

Rosario Trefiletti Italiana 12 novembre 1943 Presidente Federconsumatori

ESPERIENZA LAVORATIVA Date (da – a) Nome e indirizzo del datore di lavoro Tipo di azienda o settore Tipo di impiego Principali mansioni e responsabilità

1963 - 1975 Raffineria di Rho Capo Impianto

1975 Sindacato CGIL Incarichi a livello nazionale nei sindacati dei settori: chimico, energia, telecomunicazioni e poste.

1996 SLC - CGIL È tra i fondatori del Sindacato dei lavoratori delle comunicazioni della CGIL.

1980 Delegato a Istanbul alla Conferenza Mondiale ONU sull’energia e lo scambio delle tecnologie. CGIL Responsabile Nazionale CGIL “Quadri ed Alte professionalità”, di cui ha curato anche le pubblicazioni.

1989 – 1993 CNEL Componente del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), Settore Politico – Economico.

2002 Mensile Robin della Federconsumatori Direttore Redazione di articoli ed editoriali.

2005 Consiglio Nazionale Consumatori Utenti Delegato È stato delegato del CNCU presso il WTO.

2006 CNCU Delegato Agroalimentare preso la Presidenza del Consiglio a Palazzo Chigi.

2008 Settimanale Federconsumatori News Direttore Redazione di articoli ed editoriali.

ISTRUZIONE E FORMAZIONE Date (da – a) Nome e tipo di istituto di formazione Principali materie oggetto dello studio Qualifica ottenuta

1961 Ha svolto stage in Olanda ed in Australia Diploma in Chimica

2007 Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna Autorevole riconoscimento per la competenza e la profonda conoscenza delle problematiche relative all’agricoltura italiana, raggiunte grazie all’attività di ricerca, di informazione e di riforma svolta in questi anni nel settore agroalimentare. Accademico Corrispondente

CAPACITÀ E COMPETENZE PERSONALI PRIMA LINGUA SECONDA LINGUA Capacità di lettura Capacità di scrittura Capacità di espressione orale

Italiano Inglese Eccellente Eccellente Eccellente Elevata capacità di pubbliche relazioni e di comunicazione attraverso tutti i mass media.

CAPACITÀ E COMPETENZE RELAZIONALI CAPACITÀ E COMPETENZE ORGANIZZATIVE/TECNICHE.

Ottima conoscenza del Sistema operativo Windows e degli applicativi pacchetto Office (Word, Excel, Power Point). Ottima conoscenza di Internet Explorer e dei programmi di gestione posta elettronica.

REDDITO.

Reddito Il Presidente Rosario Trefiletti matura un reddito netto annuo per pensione di vecchiaia pari a 30.102 Euro. Non percepisce alcun compenso dalle presenze televisive o per ogni altro evento a cui partecipa.

Giampiero Pettinari‎ chiede a Federconsumatori il 13 novembre 2012: “relativamente a Rosario Trefiletti è possibile conoscere i suoi emolumenti annui complessivi (stipendio, indennità, premi, rimborsi spese, ecc.)?

Questo non è dato sapere, ci si riporta solo e soltanto alla sua pensione.

Federico Rufolo il 25 luglio 2017 su "Italiaspa.org": "Molto interessante. Con quel po'po' di palmares (tipico di chi attraverso il sindacato ottiene in questo paese incarichi a dritta e a manca come chiaramente si evince) questo signore - che pressochè quotidianamente compare in tv e salotti mediatici vari, s'incazza e nervosamente distribuisce stentoree invettive populiste - ha lavorato per 12 anni in una raffineria di Rho (opreaio, quadro, o altro?) fruisce di una pensione di vecchiaia di soli 2.550 euro netti al mese (pensione d'oro?)".

Pensioni, ecco le bufale smerciate in tv, scrive Giuliano Cazzola su "Formiche.net" il 5 novembre 2014. La sera scorsa ho cenato con un amico che, come me, si occupa di previdenza. Era scandalizzato per aver assistito ad una puntata di ‘’Quinta Colonna’’: una trasmissione che io non guardo perché la trovo di una demagogia vomitevole, come tante altre del resto (infatti ho sempre la televisione spenta). L’eroina di quella serata – per come mi è stato raccontato – era un’anziana signora che lamentava di dover tirare avanti con una pensione di 500 euro mensili. Intorno a quel caso si è costruita la puntata e scatenata la polemica sui vitalizi dei parlamentari e dei consiglieri regionali, che diversamente dalla signora percepiscono laute pensioni. E’ bene, allora, di fare un po’ di chiarezza. Si vogliono abolire gli assegni vitalizi ben oltre le modifiche che già sono state previste e attuate? Nessun problema. Vuol dire che – per il periodo del mandato (visto che non si può negare che si tratti di un lavoro a tempo pieno) – si pagheranno i contributi sulla precedente posizione individuale del soggetto. Cominciamo, però, a riconoscere che – se qualche comune mortale percepisce pensioni modeste – ci sono delle ragioni che, almeno in parte, investano la sua responsabilità. La signora, eroina di ‘’Quinta colonna’’, aveva versato contributi per 19 anni, poi aveva smesso di lavorare. Il suo calcolo della pensione è stato fatto con il metodo retributivo e la collettività sull’assegno a cui avrebbe avuto diritto ha aggiunto un importo per assicurare il livello della pensione minima. Questa azione solidaristica nei confronti delle persone che, con i loro versamenti, non arrivano a percepire la pensione minima legale, costa alla collettività, attraverso le tasse, ben 25 miliardi all’anno. Il trattamento pensionistico è un diritto costituzionale riconosciuto ai lavoratori, per determinare il quale sono previsti dei requisiti di età e di anzianità contributiva. In sostanza, la pensione ce la costruiamo durante la vita lavorativa. Purtroppo quell’ambìta prestazione non è una sorta di vendicatore mascherato che si presenta al nostro cospetto, da anziani, a raddrizzare tutti i torti che abbiamo subito o ci siamo fatti con le nostre mani. Il sistema non funziona così: ‘’dimmi quanto ti serve e io te lo garantisco’’. Sarebbe bene, allora, che i conduttori delle trasmissioni populiste approfondissero di più i casi personali che ‘’sbattono’’ sul video, perché nessuno campa con 500 euro al mese. E se lo dice, mente. Ci basti far notare un solo aspetto: in Italia i pensionati sono 16,5 milioni, le pensioni e gli assegni circa 23 milioni. Vogliamo usare la media del pollo e calcolare quante sono le pensioni (quasi sempre di reversibilità nel 90% dei casi erogate a donne) che si redistribuiscono sulle stesse persone?

Nella medesima puntata di "Quinta colonna’’ l’esimio Rosario Trefiletti, imperituro leader di Federconsumatori, in uno slancio di demagogia a buon mercato ha dichiarato che lui il parlamentare lo farebbe gratis. Perché non comincia a svolgere gratis la sua missione al servizio dei consumatori italiani?

Mediaset alla ricerca del suo Santoro, scrive Aldo Grasso il 12 settembre 2012 su "Il Corriere della Sera". «Quinta colonna» punta su demagogia e populismo: Del Debbio punta ad assecondare gli umori della piazza. Facessi l'analista politico non avrei dubbi: Silvio Berlusconi si presenterà alle prossime elezioni. Altrimenti non andrebbe in onda un programma come «Quinta colonna» condotto da Paolo Del Debbio (Rete4, lunedì, ore 21.10). Mi occupo d'altro e dal punto di vista televisivo il talk è molto istruttivo. Mediaset è alla ricerca del suo Santoro e «Quinta colonna» fa di tutto per pestare i tasti della demagogia, del populismo, della piazza berciante. Il fine ultimo del programma sembra essere questo: entrare nel ventre molle del Paese, scatenare gli umori più incontrollabili per screditare il governo Monti. E dunque l'inviata Nausica Della Valle è a Roma, nel cuore del Tufello, a raccogliere gli sfoghi più sanguigni sul caro-casa (Imu, mutui); Roberto Poletti accende i peggiori istinti di un gruppo di veronesi (a proposito, non riesco a capacitarmi di come Poletti, visti i suoi testacoda politici e professionali, possa essere finito a Mediaset); Valerio Minelli e la piazza di Battipaglia. Certo se non si fa pagare l'Ici si vincono le elezioni, ma poi i Comuni vanno in rosso e si devono per forza aumentare le tasse. Ovviamente questo ragionamento non sfiora né il conduttore né i suoi ospiti: il peggiore di tutti pare Rosario Trefiletti, come se le disgrazie del Paese lo rafforzassero nel suo ruolo, seguito a ruota dai vagheggiamenti politici di Maurizio Zamparini (nessuno in studio, ovviamente, gli chiede conto della gestione del Palermo calcio). Mai vista una trasmissione Mediaset così impegnata ad assecondare gli umori della piazza, a cavalcare il malcontento, a intercettare le suggestioni emotive della folla, indossando ora la maschera di Santoro ora, comicamente, quella delle Iene. Certo, la parte del leone la fa lui, Paolo Del Debbio, grande cultore della tv trash, ma sempre con quell'arietta compunta del vecchio liberale della Lucchesia che si trova nella mischia solo per salvare il mondo.

Rosario Trefiletti in tv fa ampia visibilità, autopubblicità e autopromozoione politica e sindacale, con la sua demagogia (a dire di Giuliano Cazzolla).

Trefiletti, consumatori e tv E' l'ultimo sosia di Tonino. Rosario Trefiletti, di Federconsumatori, dice la sua in ogni trasmissione tv. E fa il tribuno anti-Cav con la scusa del caro-prezzi. Critica il governo su clandestini, Rai e pure sulla social card. A costo di dire il contrario di quanto sosteneva durante l’era Prodi, scrive Marco Zucchetti, Venerdì 22/01/2010 su “Il Giornale”. Narra la leggenda che la forza di Rosario Trefiletti, la virulenza con cui difende i consumatori dall’iniquità dei governi, affondi le sue radici all’ufficio anagrafe. Pare che in realtà il presidente di Federconsumatori fosse registrato come Seifiletti, ma che un infame emendamento in una Finanziaria (ovviamente di centrodestra) gli abbia dimezzato il potere d’acquisto del cognome, dando il via alla sua ira funesta. Non si spiegano altrimenti la ferocia e la costanza da asceta con cui si presenta in ogni trasmissione per lanciare strali e maledizioni contro ministri, istituzioni e compagnia legiferante. Eloquio lucido e sferzante, allergia alla cravatta, accento lombardo e gestualità da karateka pronto a spezzare mattoni e reni ai potenti: Trefiletti è quel signore che fa capolino dal vostro televisore snocciolando numeri e anatemi ogni volta che l’Istat fa una rilevazione. Lo fa a Cominciamo bene prima che Frizzi annunci una canzone di Shel Shapiro, lo fa mentre voi bevete il caffelatte mattutino sbirciando una puntata di Omnibus sugli eccessi del calciomercato, lo fa pure dopo che Sveva Sagramola ha lanciato un servizio sui leoni marini a Geo&Geo. È più presente lui in tv che le merendine del Mulino Bianco a scuola. E, d’accordo che la visibilità fa parte del ruolo di paladino del popolo acquirente, ma quello della sua immagine è ormai l’unico consumo in costante crescita. Trefiletti, nomen omen, ha un proprio peculiare rosario televisivo, che sgrana soprattutto durante il Tg3 Linea notte condotto da Maurizio Mannoni. Lì, complice l’antiberlusconismo latente, si lascia andare e viene definito «L’Implacabile», come Schwarzenegger: «Ci indignano le forze politiche troppo impegnate a cercare soluzioni per l’immunità». Lì, Trefiletti si esalta e ogni sera abbatte un totem nuovo, senza peritarsi di ricordare se in passato aveva sostenuto qualcosa di opposto. L’aumento dei limiti di velocità in autostrada? «Nettamente contrari, perché aumenta i consumi, aumenta l’effetto serra ed è pericoloso». Peccato che proprio lui avesse chiesto di «eliminare l’obbligo di accendere i fari di giorno». Il pericolo, in quel caso, non era il suo mestiere. La questione è che ogni tribuno deve saper alzare la voce quando serve. E a Trefiletti riesce bene, quasi sempre senza perdere la sobrietà e il sorriso. C’è il numero uno di Mediolanum Ennio Doris in collegamento? E lui lo incalza tonitruante sui rimborsi, sempre insufficienti. Propongono di armare i vigili di Roma? E lui sbotta: «Aberrante. Mi meraviglio non ci sia stata un’opposizione più forte». Forse i consumatori rapinati li difenderà lui, a colpi di karate e cifre sulla stagflazione. Insomma, ne ha una per tutti. O meglio, per tutti quanti stanno al governo. Loro nel mirino ci finiscono anche per vicende che con Federconsumatori c’entrano poco. «In Italia c’è una regressione della cultura, i tagli al Fus sono abominevoli, non si può ridurre tutto a economicismo», spiega appena dopo aver finito di citare una decina di percentuali catastrofiche e subito prima di sostenere «il diritto all’accoglienza». Già, perché a lui non basta il compitino di segnalare gli aumenti di benzina, pane, latte, pasta ed elettricità. No, Trefiletti ha una verità per ogni argomento, di norma annunciata da un «lo chiediamo da anni», «ce ne eravamo accorti da parecchio». Critica il nucleare «furbata incredibile», propone di coniare il reato di clandestinità finanziaria per chi usa lo scudo fiscale, critica perché nessuno ha commissariato i Comuni del Messinese teatro della frana, critica perché i palinsesti Rai mancano «di informazione plurale», critica per le scelte «sgangherate» sui prefetti messi a vigilare le banche, fa ricorso contro la Caf, chiede «una moralità nuova». Fatto del giorno, Raidue; Domenica In...sieme, Raiuno. «Indignatissimo», «indecente», «inaccettabile». Mattina in famiglia, Raidue; Italia allo specchio, Raidue; Radio Anch’io, Radiouno. Un fiume in piena. Intendiamoci, parte dei suoi interventi e delle sue battaglie è fondata. L’idea di «non assegnare il Nobel per l’economia per tre anni» dopo la crisi, è pure sagace. I consigli sulle vacanze, sui risparmi energetici e sui ricorsi, sono utili. Poi, però, a forza di sentirlo, per inerzia o per osmosi, ti accorgi che qualcosa non torna. Il decreto Ronchi sulla liberalizzazione dei servizi come acqua e rifiuti dovrebbe portare alla concorrenza e quindi al calo dei costi. No, per Trefiletti è «improponibile». Detassare gli straordinari? «Una sciocchezza». La Social Card per i consumi dei nuclei familiari disagiati, però, è un segno concreto. No, per Trefiletti «è inadeguata e incide sulla dignità delle persone: non è nulla e comunque quei soldi sono stati ripagati dai consumatori con gli aumenti sui carburanti Eni». Bah. Sorge il dubbio: o è masochista, o il paladino di chi fa la spesa si sta preparando un futuro politico nel Partito Preso.

Indizio numero uno: dopo il caos rifiuti in Campania, con i napoletani esasperati, la sua firma si trova accanto a quella di Dario Fo e Asor Rosa in un manifesto di solidarietà al ministro Pecoraro Scanio. Indizio numero due: sulle intercettazioni, illo tempore dichiarava: «Meglio un mascalzone libero piuttosto che un danno a un cittadino incolpevole, vanno distrutte le registrazioni illegali»; oggi, invece, bolla il ddl che le regolamenta come «inaccettabile, un regalo ai truffatori». Indizio numero tre: spigolando tra le pieghe dei suoi peana televisivi, si trova la seguente dichiarazione: «In Italia bisogna essere sempre forcaioli perché si vuole giustamente che sia fatta giustizia e qualche manetta in più non guasterebbe». Puro dipietrese.

Tre indizi, una prova. Per cui si trova pure riscontro investigativo. Basta dare un occhio alla conferenza di presentazione di Franco Leone, presidente regionale abruzzese di Federconsumatori, candidato nel 2008 per l’Idv. Ovviamente presente Trefiletti, che - forse sperando di seguire le orme del fondatore di Adusbef Elio Lannutti (ora senatore Idv) - ringrazia i dipietristi «per l’opportunità» e nega di voler creare un partito proprio: l’Idc, Italia dei Consumatori, per adesso è rinviata. Che Trefiletti sia palesemente schierato, lo si evince anche dalla lunga carriera nelle file della Cgil (responsabile quadri e poi segretario generale dei postelegrafonici) e dal fatto che la sua associazione ha annunciato azioni legali a supporto de L’Unità e La Repubblica nella causa per diffamazione intentata da Berlusconi. Nonché dalla nota contro Mara Venier che nel 2005 lodò la «generosità» del premier in diretta. Per tacere del tono diverso di cui faceva sfoggio nelle dichiarazioni durante il governo Prodi, da cui fu nominato delegato agroalimentare presso la presidenza del Consiglio. Allora, Trefiletti si esprimeva tra un «siamo soddisfatti» e un «non capiamo l’opposizione», senza dimenticare i ripetuti «bene Bersani». D’altronde è facile: le cifre del consumo sono così tante e così eterogenee che possono servire a sostenere ogni tesi. È il dramma del cane da guardia che abbaia al lupo solo quando il predatore in agguato ha il pelo di un certo colore. Mentre quando ha tonalità più gradevoli, lo scambia per un cerbiatto. A meno che Trefiletti non voglia convincere i consumatori che i morsi dei lupi di centrosinistra sono più gradevoli dei morsi di centrodestra. Potrebbe cercare di parlarne la prossima volta che sarà invitato a Geo&Geo.

Nuovo governo fisso. Dopo le dimissioni di Renzi Mattarella affida l’esecutivo a Trefiletti, che però dura solo 10 giorni. L’arrivo di monsignor Ravasi a Palazzo Chigi salva l’Italia (forse). Nel dubbio, vado a Tenerife, scrive Maurizio Milani il 6 Dicembre 2016 su “Il Foglio”. Mattarella, su consiglio anche del colonnello dei Corazzieri (mio zio) convoca Rosario Trefiletti (presidente dei Federconsumatori) per un incarico esplorativo. Trafiletti dice Sì subito, senza sapere quale maggioranza sosterrà il suo governo. Il presidente Mattarella rimane perplesso, però gli dice: “Ok, vediamo cosa combina”. Trefiletti chiede subito la fiducia alla Camera. Il suo governo passa. Votano a favore: 5 stelle, Lega, Bersani, Cuperlo e 200 deputati Pd, Forza Italia. Al Senato uguale (tranne Carlone Rubbia). Subito Trefiletti va a Francoforte per obbligare (urlando) Mario Draghi a fare una cosa: rimborsare le obbligazioni del Centro Tori di Magenta (Mi), il più grosso crac di una municipalizzata, 152 miliardi di bond emessi e mai restituiti. Anche i quattro tori che facevano da garanzia patrimoniale sono spariti. Qualcuno comincia a parlare di conflitto d’interesse del premier: il presidente Trefiletti era fino a ieri difensore dei risparmiatori truffati (non per vantarmi, io ci sono). Draghi non si spaventa, anzi fa causa a Trefiletti e alla sua associazione di consumatori per avere sabotato l’economia italiana dal 1986. Trefiletti si offende e rassegna le dimissioni a Mattarella. Vengono respinte. Trefiletti scappa, ma viene catturato e obbligato. Ecco la composizione del governo Trefiletti (1 bis). Alla Farnesina Delrio. Al Viminale Jakov (veggente di Medjugorje) con delega ai Servizi. Alla Giustizia il rettore del seminario vescovile di Venezia. Alla Difesa Oscar Farinetti. Ai Lavori pubblici il rettore del seminario vescovile di Acireale. All’Economia (Bilancio, Tesoro, Funzione pubblica Cultura) monsignor Gianfranco Ravasi. Al Commercio estero Padellaro, con delega all’industria. Il più attivo e autorevole di questo curioso esecutivo si dimostra subito monsignor (vescovo) Ravasi: molto ascoltato a Bruxelles, Mosca, Washington e Nuova Delhi. Qui riesce a far comprare al governo indiano 2.000 miliardi di cct (garantiti dal Tesoro) con scadenza rimborso tra 500 anni. Questo solleva le finanze dall’enorme debito pubblico. In India alcuni chiedono perché il governo ha firmato un accordo così sbilanciato a favore dell’Italia. Il primo ministro indiano risponde: “Se non ci aiutiamo tra noi terrestri che scopo ha la vita?”. Il Parlamento indiano approva il prestito (garantito anche da Berlusconi). Finalmente in qualità di ministri i veggenti veggenti di Medjugorje vengono ricevuti dal Papa, che a sorpresa li nomina vescovi (i due maschi) e superiori generali dell’ordine delle carmelitane. Trefiletti è contro. La Consob e Bankitalia a favore.

Trefiletti va da Mattarella e rassegna le dimissioni. Il suo governo è durato dieci giorni. Visto il parere favorevole di tutte le forze politiche Mattarella dà l’incarico a monsignor Ravasi. Maggioranza totale a Camera e Senato. Ministri confermati tutti, al Lavoro mette Stefano D’Orazio dei Pooh, che prende il posto di Fassina (che si lamentava, non si capisce questa volta per cosa). Lo spread scende a zero. Facebook, Instagram, Google e Twitter decidono di mettere la sede centrale a Pomezia (Roma) e anche la British Petroleum, la miglior marca di benzina dopo l’Agip. Vengono bandite le auto elettriche, solo il rumore mi dà fastidio, che bello il rumore dei motori a scoppio. Rispettando il volere degli elettori il governo fa tenere la sanità alle regioni (ma non tutti i disturbi). Da oggi alle regioni compete interessarsi delle seguenti malattie: tromboflebile, mal di palle. Tutto il resto passa al governo centrale: le regioni avranno competenza totale su caccia e pesca e basta. La conferenza stato-regioni viene abolita. Se vogliono lamentarsi i presidenti di regione che si facciano uno staterello a parte come a Montecarlo.

Qui, dispiace dirlo, i profughi non vanno: infatti un cono gelato che a Ventimiglia costa 2,5 euro a Monaco uguale viene 30 euro. Come si fa a campare con questi prezzi? Puoi sempre ciulare la barca a Montezemolo, ma dopo a chi la vendi? Finisci che la smonti e vendi il rame del frigo bar. Conviene fare un reato così per 10 kg di rame? Per me sì, ma per tanti no. [Maria Elena, amore, spero che diventi tu commissaria europea per i rapporti con il Terzo mondo, così ti vedo ancora in tv: sei stata la più bella ministro della storia.] Nel frattempo il Pd si spacca in diversi tronconi. Pippo Civati va a disturbare l’attività del sindaco Sala (mettendo in difficoltà la giunta). Massimo D’Alema va a disturbare l’attività della Serracchiani: non va bene, vuole farlo lui il presidente del Friuli. Bersani va a disturbare la giunta dell’Emilia-Romagna: pur essendo Bonaccini del Pd, vuole andare lui a cavallo dell’asino (già stato, ma non si accontenta). Gotor invece va a vantarsi con altri disfattisti (Speranza, eccetera) in Campania: De Luca non va bene. Ragazzi, ma questi cosa vogliono? Trump intanto che loro discutono è arrivato, e noi stiamo con lui. Grande delusione il nostro Berlusca: ma non poteva telefonare a Putin per far vincere il Sì? Risponde Cicchitto: “No, l’avrei stoppato io tramite Fabio Capello”.

Parto oggi per Tenerife, vi seguo da là. Mi raccomando continuate a disfare e spaccare fuori tutto. Come divertimento è sano. Dispiace che i fondi locusta ci saltano addosso dicendo: “Ragazzi noi pensavamo che gli italiani facevano apposta a rappresentarsi come Tafazzi, invece sono così davvero. A questo punto saccheggiamo i loro risparmi, Tremonti permettendo”. In seguito all’esito referendario viene sostituito il ct della Nazionale Ventura e il suo posto rimane vacante. Le convocazioni a Coverciano le fa monsignor Ravasi, che delega Beppe Di Corrado. Beppe Di Corrado per cortesia istituzionale riconferma l’ultima rosa di mister Ventura, che intanto va ad allenare il Nottingham Forest senza avvertire prima la società.

Arriva al campo di allenamento all’improvviso e per cortesia viene ingaggiato. A “Porta a Porta” spiegherà i motivi che l’hanno spinto a votare 5 stelle alle ultime elezioni a Roma. La Raggi rimane delusa per non essere stata nominata ministro per le Aree metropolitane e fa apposta a sbagliare, cioè firma tutto senza leggere. Per me fa bene: tutti i sindaci dovrebbero firmare ogni genere di atto senza leggerlo. Tanto cosa cambia? Per questa fase di transizione, su benestare di Lega e 5 stelle entra in vigore il tallero ugandese: ogni esercizio commerciale sarà obbligato per legge ad accettare anche questa moneta. Il tallero ugandese, garantito dalla Banca Centrale d’Uganda, vale mezzo euro. Per le prime volte il consumatore si deve abituare: se qualche ambulante al mercato vede il tallero come pagamento te lo tira dietro. Per questo rivolgersi al consumatore, che giustamente fa causa all’ambulante e lo fa chiudere fisso. Così sarete contenti, cari i miei comunisti miliardari.

PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.

Così Pellizza mise il popolo ​al centro dell’opera d’arte, scrive Vittorio Sgarbi, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Giuseppe Pellizza da Volpedo, nel 1901, dipinge Il quarto stato, oggi esposto al Museo del Novecento a Milano. In questa tela di grandi dimensioni abbiamo di fronte il popolo italiano, pochi decenni dopo l’Unità d’Italia, raffigurato come un popolo di lavoratori. Un dipinto che non solo apre cronologicamente il ventesimo secolo, ma conclude anche una grande tradizione figurativa che vede l’espressione artistica al servizio di una concezione religiosa nella quale l’uomo è protetto da Dio. Da Giotto in avanti, le pale d’altare si sviluppano verso l’alto, in verticale, perché l’umanità si rivolge al cielo per ricevere protezione. Nella parte superiore sono raffigurati la Madonna, Cristo, i Santi, tutto quello che rappresenta l’aiuto celeste all’uomo. All’inizio del secolo senza Dio, che è ancora il nostro tempo, l’immagine religiosa non è più protagonista della pittura, le avanguardie – Cavaliere azzurro, Cubismo, Futurismo, Dadaismo – sono travolte da un formalismo che è più importante del contenuto. IlQuarto Stato di Pellizza da Volpedo risolve la lunga esperienza delle pale d’altare con un rovesciamento: la pala non è più verticale ma orizzontale. Guardiamo un dipinto che si svolge nel senso della larghezza, in cui l’umanità avanza verso il proprio destino senza la protezione di Dio. Non è detto che Dio non sia presente nella coscienza degli individui, ma è l’umanità a conquistare, attraverso la forza dei lavoratori, quello che le spetta. Conquista nuovi diritti, conquista un salario, e avanza senza che ci sia più nessuno a proteggerla. Questo quadro è lafine di un’epoca e l’inizio di un’epoca nuova. Non è ancora un dipinto d’avanguardia, ma è un’opera in cui l’unico dio che l’uomo ha è se stesso, e il taglio ribaltato, orizzontale invece che verticale, lo testimonia chiaramente. Per di più, quel popolo sembra marciare verso il Palazzo, per entrare e conquistare il potere. «Palazzo» è una parola che Pasolini fu il primo a usare, in un intervento sul Corriere della Sera nel 1975, per indicare il luogo del potere, un termine che ricorda il Palazzo d’Inverno dimora degli zar. La marcia dei lavoratori del Quarto stato è propriamente una conquista di uno spazio del potere da parte del popolo. Fedele a questa lettura, nel 2007 trasportai il dipinto dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, dov’era conservato all’epoca, alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. L’idea di allestimento che avevo prevedeva di eliminare l’altare e appoggiare il quadro direttamente a terra, in maniera tale che chi entrava in quella sala andasse incontro al popolo che andava verso di lui. Si stabiliva un rapporto allo stesso livello tra le persone reali e le persone dipinte. Mettendo il quadro in posizione rialzata si sarebbero visti i personaggi calare. L’allestimento giusto per quel quadro era a terra. L’effetto della collocazione dell’opera in una sala che porta ancora i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era straordinario, perché realizzava l’occupazione del popolo che distrugge i simboli del potere, il soffitto caduto come il cielo infranto. Giuseppe Pellizza da Volpedo, nato nel 1868, studiò all’Accademia di Brera, fu influenzato dalla Scapigliatura e da Daniele Ranzoni; a Bergamo fu allievo di Cesare Tallone e a Firenze (1893-95) frequentò Silvestro Lega e Plinio Nomellini. Interessato al realismo sociale divenne noto con Fienile (esposto a Milano nel 1894), nel quale sperimentò la tecnica divisionista, stimolato da Angelo Morbelli; aderì quindi al Simbolismo, influenzato da Gaetano Previati (Lo specchio della vita, 1895-98). Attento alle problematiche sociali e ispirandosi a Emilio Longoni, dipinse Ambasciatori della fame (1891-92), poi Fiumana (1896), e infine Il cammino dei lavoratori o Quarto stato (1896-1901), di cui sono notevoli anche i bozzetti e i disegni preparatori. Il sole nascente (1904, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) è l’opera nella quale Pellizza apre alle nuove avanguardie e, in particolare, ai futuristi che vedranno in lui un profeta.

Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.

Cosa si nasconde dietro la targa Unesco. Il marchio di Patrimonio dell'umanità garantisce fama e soldi. Ma la selezione dei siti è un trionfo di sprechi e burocrazia, scrive Emanuela Fontana, Lunedì 01/08/2016 su “Il Giornale”. L'unico brivido è arrivato dal golpe. E non è stata una suspense piacevole, né prevedibile per la quarantesima assemblea del World Heritage Committee dell'Unesco. Il comitato ogni anno decreta i nuovi siti artistici e naturali da inserire nella lista del Patrimonio mondiale dell'agenzia Onu. Un paio di settimane fa era riunito a Istanbul: mentre il verdetto stava per essere emesso, i carri armati occupavano le strade e Recep Tayyp Erdogan parlava via smartphone da un luogo ignoto. Panico, interruzione dei lavori per una giornata, ma, colpo di Stato a parte, era tutto già scritto: sempre più organismo politico (sono i diplomatici, da qualche anno, a far parte delle delegazioni, non i tecnici), con un budget che destina al lavoro di scelta dei siti e alle riunioni più soldi che all'assistenza internazionale, l'organismo dell'Onu delegato alla tutela della bellezza mondiale decretava i «vincitori» del 2016: ventuno nuovi siti che da ora avranno il marchio Unesco, garanzia di visibilità, turismo e soldi. Soldi che però, almeno per i Paesi occidentali, non arrivano dal World Heritage, che pure li inserisce nel gotha della bellezza universale, ma in gran parte dagli Stati di appartenenza. Mettersi all'occhiello il logo di Patrimonio dell'umanità Unesco è ormai un prezioso richiamo turistico e l'inserimento nella world list è diventato una sorta di vittoria nel Risiko della cultura mondiale, ma in realtà il bilancio del fondo speciale dedicato alla salvaguardia dei luoghi più preziosi dell'umanità rappresenta meno del 5% del budget complessivo dell'organizzazione: circa 30 milioni di dollari contro gli 802 del mastodontico conto economico dell'agenzia dell'Onu, in cui il 45% delle spese, quasi 400 milioni, sono destinate al personale. Dei 30 milioni del fondo 7,8 vengono spesi per la valutazione delle candidature e i meeting, 5,5 milioni per l'assistenza. Rivolti quasi esclusivamente ai Paesi più bisognosi. A ricevere la fetta maggiore dei finanziamenti sono Tanzania, con oltre un milione e trecentomila dollari, Costarica, Ecuador, Brasile, Perù, Egitto e Cina (45 programmi, quasi un milione di dollari). Quanto all'Italia, come la maggior parte delle nazioni europee e gli Stati Uniti, non percepisce fondi dalla speciale riserva che si occupa del patrimonio planetario. L'ultimo versamento al nostro Paese nel capitolo International assistance risale al 1994: 20mila dollari per un corso di formazione. Proprio la Penisola è stata la grande assente nelle nomination 2016, e per di più ha ricevuto una sorta di ammonizione relativa a uno dei suoi gioielli, Venezia, a rischio esclusione dai patrimoni del globo terrestre se non si corre ai ripari (vedi anche l'altro articolo in pagina). Eppure dall'Italia va all'Unesco un fiume di soldi: siamo il secondo contribuente dopo il Giappone con 52 milioni di euro di versamenti complessivi. A questi si aggiungono quelli previsti da una legge italiana, la 77/2006, che dispone il finanziamento di una selezione annuale di progetti presentati dai cinquantuno siti della Penisola riconosciuti come patrimonio dell'umanità. Dal 2011 a oggi, il ministero dei Beni culturali ha versato 11 milioni 82mila euro totali alle località patrimonio Unesco. In vetta alla classifica dei super premiati figurano due siti: «I Longobardi, i luoghi del potere» (un milione di euro in un quinquennio; vedi le tabelle in queste pagine) e Siena con val d'Orcia, San Gimignano e Pienza, dove si è svolto il Festival Unesco delle Terre di Siena (un milione 54mila euro totali, 273mila al festival). Seguono i dipinti rupestri della val Camonica, Mantova con Sabbioneta, e le residenze sabaude. Scendendo nella classifica dei siti maggiormente finanziati si trovano poi Modena (515mila euro), sotto i 500mila euro ci sono Venezia, Matera e Piazza Armerina. Mantova e Sabbioneta hanno avuto quasi il doppio di Assisi (357mila), mentre i trulli se la sono cavata con 324mila euro. A pagare l'onore di ricevere il marchio Unesco è dunque l'Italia. Anche qui, però, la crisi si è fatta sentire. Fino a cinque anni fa gli elenchi dei beneficiari dei fondi per i siti premiati erano lunghi almeno tre pagine. Oggi un paio di righe. Il fiume è diventato un rivolo e per il 2016 nel bilancio dello Stato italiano solo 143mila euro sono stati per il momento assegnati. La maggior parte a «Modena, cattedrale, torre civica e piazza Grande per la riqualificazione del bookshop e della biglietteria» e per «un nuovo ingresso per la Ghirlandina», il resto ad Assisi. Per fare qualche confronto, solo nel 2011 i fondi avevano superato i sei milioni e mezzo. E nel 2012 ci si poteva permettere di versare a Siena 63mila euro per pulire le strade e i vicoli «dagli escrementi dei colombi». O a Monte San Giorgio, confine italo-svizzero, 98mila euro per il progetto «Paleontologi per un giorno». Anche oggi, comunque, e nonostante la stretta finanziaria, entrare nella lista dell'Unesco dà un vantaggio tutt'altro che irrilevante: poter accedere al fondo riservato del ministero dei Beni culturali passando davanti ad altri potenziali rivali. Senza contare i finanziamenti regionali e i progetti dei comitati privati: Venezia ne ha da sola 26. In più c'è la ricaduta in termini di maggiore afflusso turistico. Secondo uno degli ultimi studi, svolto dall'Accademia Aidea su Villa Adriana a Tivoli, Pompei e val Camonica, i maggiori guadagni legati al marchio Unesco sono pari a circa il 30%. Tivoli, per esempio, con oltre 224mila visitatori, avrebbe una spesa turistica riconducibile solo al marchio Unesco di 480mila euro. Pompei addirittura di 9,4 milioni. Perfino in Valcamonica, dove i visitatori sono pochi, circa 44mila, il maggiore incasso ottenuto tramite il «logo» è di 90mila euro. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Un recente studio di Pricewaterhouse Coopers rileva che i siti Unesco del nostro Paese godono di uno scarso ritorno commerciale: sedici volte inferiore a quello dei siti americani (che sono la metà), sette di meno di quello dei beni inglesi e quattro di quello dei francesi. Forse perché grande contribuente dell'Unesco in generale, l'Italia non compare tra i finanziatori volontari dello specifico fondo World Heritage dell'organismo della Nazioni Unite (ci sono Francia e Germania). Il nostro Paese ha ridotto anche i contributi obbligatori a 122mila euro annui (non ancora versati al 30 giugno 2016). Quattro anni fa erano 163mila. Il Giappone ne versa 316mila, l'Inghilterra appena più di noi, la Cina, che ci tallona per numero di siti (50), paga il doppio della Penisola. Sono cifre comunque minime, che non condizionano le scelte dell'organizzazione dell'Onu. A concorrere alla decisione sulla lista dei siti vincitori sono in realtà un insieme di fattori: la dimensione della delegazione, i rapporti sottotraccia che vedono gli ex Paesi del Terzo mondo regolarmente schierati in opposizione all'Europa, la capacità di creare candidature di sistema. Insomma, contano diplomazia e relazioni. Più la politica che la bellezza. Tra versamenti obbligatori e volontari degli Stati e finanziamenti per progetti dedicati, le entrate del World Heritage Fund per il biennio 2014-2015 ammontano a 8,2 milioni. Ma mamma Unesco destina al WHF altri 22 milioni di euro, di cui sei solo per il personale. Ci sono anche contributi privati, come i centomila euro della giapponese Evergeen Digital, che realizza documentari sul patrimonio mondiale in partnership con l'Unesco, o come l'agenzia pubblicitaria, sempre giapponese, Kobi Graphis (altri centomila dollari). In cinque anni il fondo del World Heritage ha perso oltre un milione di contributi volontari. E anche quelli promessi arrivano a rilento: a marzo 2016 le quote versate erano appena il 15%. Come vengono spesi questi soldi? Con tutte le deformazioni tipiche dei bilanci delle pachidermiche agenzie sovranazionali. Solo per l'organizzazione delle riunioni, compreso il meeting annuale (a Istanbul è stata rinnovata la proposta di svolgerlo ogni due anni per risparmiare), si superano i due milioni di spesa. A questi costi «burocratici» si aggiungono quelli per la selezione dei siti candidati: altri 5,74 milioni. Il totale si avvicina agli otto. Una cifra che supera di gran lunga le spese dedicate all'assistenza internazionale, indicate nel bilancio consuntivo in 5,51 milioni per il biennio, di cui meno di un quinto strettamente riservati ai Sites in danger, i siti in pericolo. Due milioni e mezzo vanno a programmi di comunicazione e promozione di partnership. Quanto ai report di controllo sui siti per verificarne la conservazione, si sfiora il milione e quattrocentomila dollari. Le spese maggiori sono insomma assorbite dalla frenetica attività degli ispettori spediti in giro per il mondo. Nel 2015 le uscite per le missioni sui siti candidati alla World List si sono aggirate tra i 20 e i 45mila dollari per ogni singolo dossier. Per il 2017 la valutazione itinerante di 24 nomination richiederà 1,3 milioni. Nel bilancio preventivo è inserito anche un viaggio in Italia: la visita alle «fortificazioni veneziane costruite tra il XV e il XVII secolo», candidatura della Penisola, costerà intorno ai 31mila dollari.

Il giallo dei gettoni d’oro alla Rai. «In ogni chilo 5 grammi in meno». L’inchiesta sui premi dei giochi in tv. Il fornitore? Banca Etruria. Tutto inizia con la signora Maria nel 2013: ha vinto 100 mila euro e ne incassa poco più di 64 mila, scrive Sergio Rizzo il 23 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”. Dove vanno a finire quei cinque grammi spariti da ogni chilo d’oro fino che la Rai compra per distribuire fin dal lontano 1955 gettoni di metallo prezioso ai concorrenti dei giochi a premi, è mistero. Non meno misterioso è il modo in cui spariscono. Ma che qualche vincitore si sia ritrovato in mano gettoni d’oro taroccati, e che lui e la Rai abbiano subito una frode bella e buona, è fuor di dubbio. La sconcertante vicenda l’ha scoperta Sigfrido Ranucci, autore di un servizio televisivo che Report di Milena Gabanelli manda in onda stasera su Raitre. Tutto comincia quando alla signora Maria Cristina Sparanide, che nel 2013 ha vinto 100 mila euro alla trasmissione Red or Black su Raiuno arriva una lettera della Zecca, incaricata dalla Rai di coniare quattro gettoni d’oro del valore unitario di 20 mila euro per saldare il conto. Perché 80 mila euro e non 100 mila? Semplice: ci sono le tasse, ma questo il concorrente lo sa. Quello che invece apprende solo quando legge la lettera del Poligrafico dello Stato è che deve pagare pure l’Iva sebbene, spiega il servizio di Ranucci, l’imposta non sia dovuta sull’oro per investimento, cioè quello definito da una direttiva comunitaria come «lingotto o placca». E non ha ragione forse la Treccani a definire il gettone d’oro una «placca»? A questa domanda, però, a quanto pare nessuno sa, può o vuole rispondere. Non il ministero dello Sviluppo. Non le Finanze. Né l’Agenzia delle Entrate. Oltre alle tasse, all’Iva e al costo del conio del gettone c’è poi un’altra voce a carico del vincitore: il calo del 2 per cento dovuto alla fusione. Come se su un chilo d’oro si perdessero 20 grammi ogni volta che si fonde il metallo. Decisamente curioso. A conti fatti, la vincita di 100 mila euro si riduce così a poco più di 64 mila. Ma se l’Iva e quel fantomatico calo, sono questioni legate a interpretazioni astruse di norme astruse, ben altra storia è quella della qualità del metallo. I gettoni che escono dalla Zecca sono marcati come oro fino: 999,9. Quando però la signora Sparanide li porta a un’azienda orafa per farli valutare, il risultato la lascia di stucco: non è oro purissimo. Lo conferma anche un laboratorio specializzato accreditato dal ministero per le analisi legali. Il risultato è identico: si tratta di oro 995. Significa che per ogni chilo ci sono 5 grammi di altro metallo non prezioso. Il bello è che la Rai, c’è scritto nero su bianco nel contratto, l’ha acquistato (e pagato) come oro 999,9. Dunque, in questa incredibile vicenda, è chiaramente parte lesa. La faccenda è pelosissima. Milena Gabanelli precisa che la Rai compra ogni anno dai 6 ai 10 milioni di euro di gettoni d’oro dalla Zecca, che a sua volta si rifornisce del metallo in lingotti sul mercato. Da chi? Da Banca Etruria, fornitore storico degli orafi di Arezzo. Da quell’istituto travolto da una bufera nei mesi scorsi per le obbligazioni subordinate la Zecca ha acquistato «milioni di euro in lingotti d’oro per trasformarli in gettoni della Rai», dice Ranucci, «per anni e senza bando di gara». Perché «è la banca che ci fa il prezzo più basso», replica la Zecca. Aggiungendo che dei lingotti forniti da Banca Etruria «il 20 per cento è stato controllato in ingresso, secondo le nostre procedure di qualità, ed è risultato oro 999». Saranno dunque le procedure, ma resta il fatto che l’80 per cento non è stato controllato. A scanso di equivoci la Zecca si è premurata di presentare un esposto alla procura. E la cosa non finirà qui.

Checco Zalone, La prima Repubblica è la colonna sonora di Quo Vado? Scrive Giulio Pasqui lunedì 21 dicembre 2015. Checco Zalone non solo ci ha aiutati a film sbanca-botteghino, ci ha abituati anche a colonne sonore, scritte e cantate dallo stesso, degne di nota. E Quo Vado?, il nuovo film prodotto da TaoDue e distribuito da Medusa, poteva farne a meno? Ovviamente no. Domenica 20 settembre, in occasione dell'ospitata a Che tempo che fa, il comico barese ha presentato La prima Repubblica. "E' una canzone che ho scritto per Adriano Celentano - ha detto, scherzando - è il mio mito di sempre. Ma c'è un problema: lui non lo sa. Ha un ritornello orecchiabile...". E in effetti alcuni passaggi del brano/colonna sonora ricordano tanto lo stile del Molleggiato eFatti mandare dalla mamma. La Prima Repubblica viene definito come "un brano apocrifo che racconta con nostalgia quello che era il modo di vivere in Italia negli anni ‘80. Lo stile di vita di un paese che durante la Prima Repubblica viveva spensierato, godendo di un modo di fare diffuso in tutta la penisola. E’ un coro di persone felici che cantano allegramente la bellezza di quei momenti passati, non potendo scordare le consuete modalità che per un ventennio hanno caratterizzato l’Italia, diventando così il DNA del nostro Paese. Perché tutto cambia, ma in realtà nulla cambia veramente".

Checco Zalone, La prima Repubblica, Lyrics

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei quarantenni pensionati 

che danzavano sui prati 

dopo dieci anni volati all'aeronautica 

e gli uscieri paraplegici saltavano 

e i bidelli sordo-muti cantavano 

e per un raffreddore gli davano 

quattro mesi alle terme di Abano 

con un'unghia incarnita 

eri un invalido tutta la vita

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu cosa ne sai

Dei cosmetici mutuabili 

le verande condonabili 

i castelli medioevali ad equo canone 

di un concorso per allievo maresciallo 

sei mila posti a Mazzara del Vallo 

ed i debiti (pubblici) s'ammucchiavano

come i conigli 

tanto poi 

eran cazzi dei nostri figli

Ma adesso vogliono tagliarci il Senato 

senza capire che ci ammazzano il mercato 

senza Senato non c'è più nessun reato 

senza reato non lavora l'avvocato 

il transessuale disperato 

mi perdi tutto il fatturato 

ed al suo posto c'è un Paese inginocchiato

Ma il Presidente è toscano 

ell'è un gran burlone 

ha detto “eh, scherzavo” 

piuttosto che il Senato 

mi taglio un coglione

La prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

era bella assai 

la prima Repubblica 

non si scorda mai 

la prima Repubblica 

tu che ne sai 

Ma davvero Quo Vado di Checcho Zalone racconta l'Italia di oggi? Il 1° gennaio arriva l'attesissimo nuovo film di Checco Zalone, "Quo vado?", atteso dai fan ma anche dagli esercenti dal momento che il suo ultimo film ha incassato la cifra record di 51 milioni di euro. Il nuovo film racconta la storia di Checco, un ragazzo che ha realizzato tutti i sogni della sua vita: vivere con i suoi genitori evitando così una costosa indipendenza, rimanere eternamente fidanzato senza mai affrontare le responsabilità, un lavoro sicuro ed è riuscito a ottenere un posto fisso nell’ufficio provinciale caccia e pesca. Un giorno però tutto cambia: uìil governo vara la riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province, Checco viene trasferito al Polo Sud. Il regista e attore barese ha scelto però di non fare promozione tradizionale e al posto del trailer sta diffondendo sulla sua pagina Facebook dei piccoli spot ironici autopromozionali. Il film comico spiega il Paese meglio degli studiosi secondo alcuni osservatori. Abbiamo chiesto a uno di loro, Ilvo Diamanti, che ne pensa, scrive Ilvo Diamanti il 15 gennaio 2016 su "L'Espresso". Ho assistito con attenzione “professionale” alla proiezione di “Quo vado?”, il film di Checco Zalone, diretto da Gennaro Nunziante. Naturalmente, io non sono un critico cinematografico. E neppure un esperto. Lo ero, di più, da giovane, quando seguivo e, a volte, conducevo i cineforum, nella provincia veneta. Ma, poi, il lavoro e i viaggi (per lavoro: insegno in sedi universitarie diverse, lontane da dove risiedo) hanno preso il sopravvento. E ho ripiegato sui dvd e sugli streaming. Che ti seguono nei viaggi e in ogni trasferta. Anche se i film vanno guardati nelle sale cinematografiche. Al buio, in silenzio. Così, da qualche anno, anzi, da molti anni, al cinema ci vado saltuariamente. Spinto da mia moglie. Perlopiù, a vedere film diretti o interpretati da amici. Io, peraltro, ho perfino partecipato all’ultimo film di Carlo Mazzacurati. Amico carissimo (e in-dimenticato). “La sedia della felicità”. Dove, per venti secondi, ho recitato la parte di… me stesso. L’esperto che analizza la società (del Nordest). Così, ho accettato di vedere e commentare il film di Zalone con l’occhio dell’analista sociale. E politico. Come di fronte a un ritratto dell’italiano medio, dei suoi miti, dei suoi desideri, dei suoi valori. D’altronde, com’è noto, è già avvenuto in passato. La commedia all’italiana: ha raccontato l’Italia della ricostruzione e del miracolo. Con realismo e ironia. Ma ciò è avvenuto anche in tempi recenti. Basti pensare a Paolo Villaggio e al suo personaggio più noto: Fantozzi rag. Ugo. Io stesso, nell’ambito del mio corso di Comunicazione Politica, all’Università di Urbino, ho organizzato un seminario intitolato: “Politica e spettacolo”. Anzi, “Politica è spettacolo”. Dove ho invitato, fra gli altri, Antonio Albanese. Inventore e attore di alcune straordinarie maschere del nostro tempo. Delineate, oltre che interpretate, con la cura del sociologo. O dell’antropologo. Penso a Ivo Perego, idealtipo del piccolo imprenditore della provincia lombardo-veneta. O, per altro e diverso “verso”, a Cetto La Qualunque. Maschera esemplare del politico-politicante del Sud (ma non solo), buffo e un po’ buffone. Al proposito, Albanese rivelò ai miei studenti, che «nessuna parola e nessuna frase è mia. Ho raccolto registrazioni in occasione di diverse elezioni locali. Nel Sud. La sceneggiatura è loro. Dei Cettilaqualunque presenti sul nostro territorio». E che dire di Neri Marcorè (anch’egli invitato ai miei corsi). Autore di “imitazioni” di successo, imitate dagli stessi imitati. Come Maurizio Gasparri. Ma lo stesso discorso, oggi, vale per Maurizio Crozza. Come dimenticare l’indimenticabile maschera di Bersani? Più efficace dell’originale, purtroppo per l’interessato. Mi accorgo, ora, che il tentativo di spiegare il motivo per cui un in-esperto di cinema, come me, venga invitato a commentare un film, per quanto “eccezionale”, per numero di spettatori e volume di incassi, mi ha portato lontano. Tanto lontano, che ora rischio di perdermi. D’altronde, Francesco Anfossi, su “Famiglia Cristiana”, ha scritto che «Zalone e il regista Nunziante spiegano l’Italia meglio di Ilvo Diamanti o Giuseppe De Rita». Naturalmente, De Rita non ne ha bisogno, ma io ci tengo a imparare dai maestri. Tanto più se realizzano analisi di successo, come “Quo Vado?”. Così ho guardato il film cercando di capire quanto l’Italia di Nunziante e Zalone coincida con le mie rappresentazioni. E interpretazioni. Premetto che mi sono divertito. Ho riso molto. E ho provato a riflettere. Su quanto sia realistica e attuale «l’Italia malinconica e meschina di Checco Zalone», come la definisce Goffredo Fofi su “Internazionale”. L’Italia fondata sul “posto fisso”. («Cosa vuoi fare da grande»? Chiede il maestro al giovane Checco. E lui, prontamente: «Il “posto fisso”»). L’Italia che, mira, anzitutto, al pubblico impiego, nei servizi dello Stato. Checco Zalone, impiegato alla Provincia (chiusa per legge), disposto a girare per il mondo, fino in Norvegia, fino ai ghiacci del Polo Nord, pur di non rinunciare al “posto fisso”. Come gli ripete e gli “raccomanda” il suo amico e protettore politico, interpretato da Lino Banfi. L’Italia fondata sulla mamma e sulla famiglia. Ebbene, la prima impressione è che questa raffigurazione è, forse, puntuale, ma caricaturale. Ancora: valida soprattutto per alcuni settori sociali e territoriali (gli adulti, il Mezzogiorno). E, comunque, datata. Perché l’Italia dei giovani, è “precaria”. Non si ferma in un “posto fisso”. I giovani, appena possono, se ne vanno dalla famiglia. Si trasferiscono altrove. In Europa, nel mondo. Non per imposizione. Nessuno li caccia. In un Paese di figli unici, figurarsi... Partono per scelta e necessità. Perché 7 italiani - e 8 giovani - su 10 ritengono che, per fare carriera, per trovare un impiego adeguato alle loro aspirazioni, i giovani debbano andarsene. All’estero. Tuttavia, a guardare i sondaggi realizzati da Demos, che utilizzo regolarmente per le mie ricerche, l’Italia di Nunziante e Zalone pare meno manierista e fantastica di quel che si potrebbe pensare. Proviamo a scorrere alcuni dati. Fra le caratteristiche che orientano la scelta del lavoro, secondo gli italiani (aprile 2015), la più importante è (appunto…) «che sia sicuro, senza rischio di perderlo e rimanere disoccupati». La prima, per il 39% degli intervistati. La seconda, per un altro 22%. Se sommiamo i due principali requisiti del lavoro, dunque, oltre il 60% degli italiani attribuisce effettivamente al “posto fisso” un ruolo importante. Anche se tra i giovanissimi (15-24 anni) conta di più la “soddisfazione”. Potendo scegliere un’occupazione per sé o i propri figli, inoltre, il 29% preferirebbe «un lavoro alle dipendenze di un ente pubblico». (La quota sale a circa il 32% nel Sud.) Anche in questo caso, si tratta della scelta più apprezzata. Seguita dal «posto in una grande impresa» (22%). E dal lavoro in proprio o da libero professionista (18%, in entrambi i casi). Di nuovo, però, la gerarchia delle preferenze cambia fra i giovanissimi. Attirati soprattutto dalla libera professione. Infine la famiglia. Secondo il 36% degli italiani, è ancora il soggetto che tutela maggiormente i lavoratori. Più dello stesso sindacato, indicato dal 16% del campione. D’altronde, «cosa distingue maggiormente gli italiani dagli altri popoli»? Naturalmente la famiglia (28%). Poi, «l’arte di arrangiarsi» (17%). Anche perché, agli italiani, è possibile “arrangiarsi”, soprattutto grazie alla famiglia. È interessante osservare che il ruolo della famiglia è riconosciuto anche dai giovani. E dai giovanissimi. In misura maggiore della media. Il profilo che emerge da questi dati, dunque, rende il “ritratto dell’italiano medio” secondo Zalone meno caricaturale del previsto. L’Italia appare ancora ispirata dal mito del lavoro fisso, nei settori pubblici, statali. Attaccata alla famiglia. Soprattutto se facciamo riferimento alle generazioni adulte e, ovviamente, anziane. A maggior ragione (ma non solo) del Sud. Questo modello, però, si adatta molto meno ai più giovani. Abituati alla flessibilità, alla precarietà. Al nomadismo. Per motivi di studio e lavoro. Ma, ormai, anche per passione. Eppure anch’essi possono sperimentare la condizione di “professionisti dell’incertezza” perché alle spalle hanno una famiglia. Un genitore o (meglio) due con lo stipendio fisso. Impiegati, magari, nel settore pubblico. Un nonno o una nonna con la pensione. Con una casa di proprietà. L’Italia di Zalone riflette, dunque, i valori e i riferimenti economici e sociali che hanno accompagnato la nostra società, nel dopoguerra. Oggi erosi dall’incertezza e dalla crisi. Ma ben piantati nella nostra storia. E ancora resistenti. Appigli necessari per vivere e sopravvivere. A chi resta - i più anziani. E a chi se ne va - i più giovani. I quali sanno, comunque, di poter tornare. A casa. Dove c’è sempre qualcuno ad attendere.

"Vinsi un miliardo di lire 35 anni fa al Totocalcio, ma non mi hanno mai pagato. Ora voglio 10 milioni di euro". Parla Martino Scialpi il miliardario mancato: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione...", scrive Giuseppe Caporale il 3 marzo 2016. Ora che i suoi “nemici” di una vita sono finiti nel registro degli indagati, ora che un pezzo di Stato (presidenti e dirigenti del Coni, cancellieri e giudici di diversi tribunali e avvocati) è dentro una inchiesta giudiziaria che promette di mettere la parola fine alla sua assurda vicenda, Martino Scialpi tira finalmente un sospiro. “Sono 30 anni che lotto, dottore... non so se lei può comprendere la mia amarezza. La mia rabbia”. Non si è mai trasformato in un assegno circolare il 13 al Totocalcio fatto nel 1981 da questo commerciante di Martina Franca (Taranto). Di quel miliardo di lire vinto sulla carta, non ha mai ottenuto nemmeno un centesimo. Ed ora che sono trascorsi tre decenni e si ragiona ormai da un bel pò in euro, lui spera di incassare parecchi soldi in più: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Guardi, non sono pochi. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione... Non mi crede? Ho dovuto sostenere 33 cause. Perfino quando un tribunale di Roma ha chiesto al Coni di trovare una conciliazione con il sottoscritto, questi signori si sono negati. E ora per tutti i loro tentativi maldestri di non pagarmi sono finiti nei guai con la giustizia penale....” Il Coni sostiene che la matrice del tagliando non sia mai arrivata all’archivio corazzato del Totocalcio, ma la schedina, dopo una serie infinita di traversie giudiziarie, nel 1987 fu dichiarata autentica. Scialpi denuncia invece una serie di “anomalie e discrasie” che avrebbero “influenzato” la decisione del tribunale civile di Roma che, il 25 novembre del 2014, ha accolto l’istanza presentata dal Coni di sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo sul quale si fonda il pignoramento presso la Bnl, conto terzi, della somma di 3,9 milioni di euro nella disponibilità del Coni: “Come è possibile - dice ancora Scialpi - che questa somma sia ancora bloccata grazie, tra l’altro alla presentazione di documenti falsi, quando è ormai acclarato che quei soldi me li devono dare. Quanto vogliamo ancora andare avanti con questa farsa”. Nella denuncia si rammenta che il 14 febbraio del 2012 un giudice civile ordinò al Coni di pagare nei confronti di Scialpi la somma di oltre 2 milioni e 300mila euro, ma l’efficacia esecutiva del titolo fu sospesa (dopo l’opposizione dello stesso Coni) dal giudice Massimiliana Battagliese il 2 agosto 2013. Il provvedimento però non fu “mai notificato” allo scommettitore, al suo legale e all’avvocato domiciliatario a Roma. Secondo i denuncianti il Coni avrebbe presentato documenti falsi per attestare l’avvenuta notifica dello stesso provvedimento alle controparti e condizionare la sentenza del giudice. Il Coni però ribatte e fa presente che “pretese economiche del sig. Scialpi sono già state respinte con sentenze del Tribunale di Roma del 1983 e della Corte d’appello di Roma del 1985, passata in giudicato. Avverso tale ultima pronuncia il sig. Scialpi ha proposto ben tre domande di revocazione, tutte respinte dalla Corte d’appello di Roma, con sentenze confermate dalla Corte di Cassazione (da ultimo nel gennaio 2012). L’unico provvedimento, a carattere provvisorio (si trattava di un’ingiunzione di pagamento), che ha condannato il Coni, adottato dal Tribunale di Roma il 9 febbraio 2012, è stato revocato dallo stesso Tribunale pochi giorni dopo, con ordinanza del 14 marzo 2012. Pertanto, il sig. Scialpi non ha diritto di pretendere alcunché dal Coni”. Ora però è intervenuta la procura di Potenza: sono 36 gli indagati per abuso d'ufficio legati all'infinita vicenda giudiziaria della mancata corresponsione della vincita. Tra gli indagati vi sono i vari presidenti del Coni che si sono succeduti in oltre 30 anni di cause, 11 magistrati dei tribunali di Taranto, Bari e Roma, ufficiali della Guardia Finanza, un dirigente dell'Azienda Monopoli di Stato e alcuni avvocati del foro di Roma, di Taranto e dell'Avvocatura dello Stato. L’inchiesta penale è approdata a Potenza perché la sede giudiziaria competente ad indagare su vicende che riguardano magistrati in servizio presso il distretto della Corte di appello di Lecce, al quale Taranto appartiene.

Corruzione, Italia bocciata. Nella Ue fa peggio solo la Bulgaria. La pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con "gravi problemi". Rispetto al 2014 siamo migliorati di un punto, ma non basta per la sufficienza. Ecco come funziona l'indicatore, che misura reputazione e competitività, riconosciuto a livello mondiale, scrive Gianluca De Feo il 27 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Come è lontano l'Occidente. Certo, l'Italia dell'onestà nell'ultimo anno ha fatto qualche passo in avanti. Ma la distanza dai paesi “normali” è ancora abissale. E la pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con “gravi problemi di corruzione”. Il voto è migliorato rispetto al 2014: un punto in più, arrivando a 44. Che però non basta per la sufficienza, fissata a quota cinquanta. Il risultato ci fa salire nella classifica mondiale, superando altri otto stati fino alla sessantunesima posizione. Ma l'Europa resta un miraggio: solo la Bulgaria è considerata peggio di noi, tutti gli altri ci guardano dall'alto in basso. E sullo stesso scalino ci ritroviamo in compagnia di Lesotho, Senegal, Montenegro e sud Africa. Insomma, siamo messi decisamente male. La questione non è secondaria. Ormai l'indice di Transparency è diventato un indicatore riconosciuto a livello internazionale, con un peso nella valutazione di un paese e della sua competitività. La bocciatura incide nella capacità di attrarre investimenti, perché una nazione corrotta non dà garanzie nei contratti, non offre correttezza nelle gare di appalti. E non è un caso se oggi i capitali che entrano sul mercato italiano arrivano soprattutto da nazioni che sono addirittura considerate peggio di noi in quanto a moralità, come la Cina (posizione 83), la Russia (posizione 119) o il Kazakhistan (posizione 123). Qualche dubbio può nascere se andiamo a vedere alcune petrolpotenze arabe, tutte posizionate più in alto di noi: il Qatar (posizione 22), Emirati (23), Arabia Saudita (48), il Kuwait (55). Possibile che anche gli sceicchi siano più rigorosi di noi? Il cuore della questione però è la natura di questo indicatore di moralità: non misura la corruzione, la quantità di tangenti o il numero di arresti per bustarelle, ma un valore immateriale come la percezione della corruzione. È un termometro della nostra reputazione, del modo in cui veniamo visti. Così gli arbitri della nostra immagine di legalità diventano una serie di istituti privati, che pongono domande a esperti qualificati e poi elaborano i sondaggi fino a distillare una loro classifica. Gli specialisti di Transparency a loro volta fondono le singole hit fino a stilare la graduatoria finale, con “metodologie perfezionate nel corso degli ultimi venti anni”. Nella giuria c'è per esempio la Fondazione Bertelsmann, con il suo indice di governance sostenibile, che valuta più elementi: se esiste “un meccanismo di integrità legale, politico e pubblico che efficacemente previene gli abusi dei funzionari pubblici”; “fino a che punto chi viola le leggi viene perseguito e condannato”; “quali sono i risultati del governo nel contrastare la corruzione”. E qui è difficile che l'Italia non venga stroncata, tra processi lenti, sentenze inefficaci o vanificate dalla prescrizione, condannati che riescono a farsi eleggere governatori di regioni chiave. C'è poi l'analisi dei rischi formulata dall'Intelligence Unit del centro ricerche del settimanale britannico Economist, focalizzata sulla gestione dei fondi pubblici, sull'indipendenza dei funzionari che si occupano di appalti ed enti, sull' “esistenza di una tradizione nel pagare mazzette per vincere i contratti e ottenere favori”. Un parametro quest'ultimo che automaticamente ci mette in cattiva luce, perché la nostra storia ha le mani poco pulite la questione morale è uno slogan che non si è mai trasformato in battaglia, neppure tra gli eredi di Enrico Berlinguer. Un report simile viene stilato dal gruppo di informazione economica Ihs che stima l'incidenza della corruzione nelle attività delle compagnie private mentre la business school svizzera Imd misura la competitività di un paese “attraverso 333 criteri”. Ci sono poi le analisi della Political Risk Services statunitense che stabiliscono i rischi politici, economici e finanziari prendendo in esame pure le mazzette. Quindi il World Economic Forum, con l'attenzione all'abuso di fondi pubblici, alle bustarelle per evadere le tasse, per vincere gli appalti e per comprare le sentenze dei tribunali. Più mirato lo screening del World Justice Project che cerca di capire la ricerca di profitti da parte di governi, magistrati, polizie, militari e parlamentari. Insomma, un gran calderone di centri studi – tutti privati, tutti con buona reputazione accademica - da cui poi Transparency distilla le sue pagelle. All'Italia quest'anno è stato dato quello che i professori spesso chiamano “un voto di incoraggiamento”. L'alchimia statistica degli arbitri internazionali sembra catturare il riflesso di alcuni cambiamenti, legati al pieno funzionamento dell'Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone e alle norme sulla trasparenza nella pubblica amministrazione, ma per scalzare la pessima fama bisogna fare molto di più. Perché all'estero arriva più spesso l'eco degli scandali, dalle retate di Mafia Capitale a quelle di Expo, che non l'efficacia delle indagini che li hanno svelati. Ma soprattutto perché è inutile cercare alibi negli arcani che muovono la graduatoria: nel nostro paese la corruzione c'è, ovunque, le gare d'appalto sono lente e oscure, le figure che gestiscono gli enti statali e locali spesso hanno più meriti politici e interessi di cordata che non professionalità. E questa è una tassa occulta che tutti paghiamo, un freno allo sviluppo che mette in discussione il nostro benessere presente e futuro. «Per compiere un salto di qualità importante occorre un ruolo più forte della società civile che deve acquisire la consapevolezza che un sistema dove è grande la corruzione non crea ricchezza e alimenta profonde distorsioni del mercato», dichiara il presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello. Gli scandinavi, gli stessi che a Bruxelles ci fanno di nuovo le pulci sul debito statale, possono vantare un pedigree di rigore irraggiungibile: la Danimarca è la prima della classe, con 91 punti su cento, mentre Finlandia e Svezia la tallonano con 90 e 89. Ma persino la Grecia della grande crisi, forse per merito della Troika teutonica, si mostra dinamica e ci distanzia di tre posizioni. La Spagna a quota 58 è lontanissima, Polonia e Portogallo hanno venti punti più di noi. Ma anche ungheresi, sloveni, croati, romeni sono visti come più integerrimi. Nella Ue, ci è dietro soltanto la Bulgaria.  «Come dimostra la cronaca, la strada è ancora molto lunga e in salita, ma con la perseveranza i risultati si possono raggiungere», commenta Virginio Carnevali, presidente di Transparency Italia: «In questi giorni la Camera ha approvato le norme sul whistleblowing, le pubbliche amministrazioni stanno diventando via via più aperte e trasparenti, una proposta di regolamentazione delle attività di lobbying è arrivata a Montecitorio». Insomma, la rotta è questa ma bisogna proseguire fino a trasformare le buone intenzioni in riforme concrete. E – parafrasando una frase attribuita ad Alcide De Gasperi – aggrapparci all'Europa per non scivolare nell'Africa.

Truffe degli statali tra sanità e appalti. In 10 mesi un buco da 4 miliardi. Appalti truccati, assenteismo e consulenze inutili: i dipendenti pubblici infedeli finiscono nel dossier della Guardia di Finanza per il 2015, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 31 gennaio 2016. Ormai si sfiorano i quattro miliardi di euro, cifra record di «buco» nei conti dello Stato. È la voragine creata dall’attività illecita di circa 7.000 dipendenti pubblici infedeli. Funzionari corrotti oppure impiegati che non hanno rispettato la legge nello svolgimento delle proprie mansioni e dunque hanno compiuto illeciti che vanno dalle omissioni agli abusi. Ci sono le truffe nel settore sanitario, i mancati controlli nell’erogazione di pensioni, indennità ed esenzioni, le procedure truccate per la concessione degli appalti. Ci sono gli appalti gonfiati e i medici assenteisti, le consulenze inutili e i doppi incarichi tra i casi più eclatanti scoperti dagli investigatori della Guardia di finanza. Sono gli ultimi dati relativi alle verifiche compiute nel 2015 a raccontare l’Italia dell’illegalità e degli sprechi che provoca danni alla collettività. Mostrando un andamento che inquieta: in soli quattro mesi, da giugno a ottobre dello scorso anno, la cifra contestata è salita di oltre 500 milioni di euro. Vuol dire oltre 100 milioni ogni trenta giorni a dimostrazione che molto ancora c’è da fare — soprattutto negli uffici pubblici più periferici — per stroncare il malaffare. Basti pensare che sono ben 3.590 le persone denunciate per aver compiuto reati nel settore delle gare pubbliche.

A Modena è stato denunciato un medico che — pur risultando in servizio — rimaneva in ospedale appena un paio d’ore. Da almeno cinque anni «la regolare presenza veniva garantita solo una volta a settimana» e per cercare di giustificarsi «ha portato i tabulati del marcatempo di un’altra struttura ospedaliera dove svolgeva attività libero professionale intramoenia». Gli sono già stati sequestrati 40 mila euro, ma i controlli sono tuttora in corso. A Imperia i dottori del dipartimento di Medicina legale «certificavano la morte delle persone pur non avendo effettuato alcuna analisi perché erano altrove». Sono decine i documenti falsi trovati nel corso delle perquisizioni.

La truffa scoperta a Milano nel giugno scorso era ben più articolata e ha provocato un danno immenso. In una struttura sanitaria convenzionata con il servizio nazionale «sono stati eseguiti oltre 4.000 interventi chirurgici in violazione delle norme di accreditamento relative alla presenza minima di operatori e anestetisti, nonché di impiego di medici specializzandi». L’azienda ha comunque «autocertificato il mantenimento dei requisiti richiesti per l’accesso al rimborso della prestazione sanitaria offerta, ottenendo indebiti rimborsi per oltre 28 milioni di euro». A Brindisi si è scoperto che la prescrizione di 15.541 farmaci per l’ipertensione era stata compiuta in maniera illecita. Sono 482 i medici denunciati per un danno alla Asl pari a 194 milioni di euro.

Quello dei benefit percepiti grazie a certificazioni false è ormai un vero e proprio affare che coinvolge migliaia di persone in grado di contare sui dipendenti pubblici amici o parenti. A Potenza si è scoperto che molti anziani prendevano l’assegno sociale previsto per i residenti, pur avendo deciso di trasferirsi all’estero, grazie agli impiegati che avevano contraffatto i documenti. Soldi rubati: 259 milioni di euro. Addirittura 500 milioni di euro sono stati sottratti alle casse dell’Inps a Viterbo dove venivano «modificati i moduli per il riscatto della laurea o la ricongiunzione di periodi contributivi per ottenere indebitamente un notevole “sconto” sull’effettiva somma da versare all’Istituto previdenziale, per il riconoscimento di ulteriori periodi contributivi utili ai fini pensionistici». A Potenza un dipendente del Comune svolgeva attività privata negli orari in cui avrebbe dovuto essere in servizio. Faceva il geometra. Compensi rubati: 70 mila euro. A Milano un dirigente della Regione truccava gli appalti e in cambio riceveva favori personali. L’ultimo, la ristrutturazione da favola del suo appartamento. Valore accertato: 150 mila euro.

Auto dei vigili senza assicurazione: Striscia la Notizia arriva a Capaccio. L'inviato del tg satirico di Canale 5 è tornato in provincia di Salerno per chiarire il caso scoppiato sulla mancata copertura assicurativa di diversi veicoli in dotazione alla locale amministrazione, scrive il 29 gennaio 2016 "Salerno Today". Dopo il blitz di qualche settimana fa al Comune di Agropoli, l’inviato di Striscia la Notizia Luca Abete è tornato in provincia di Salerno. Questa volta si è recato nella città di Capaccio per occuparsi del caso scoppiato su alcune volanti dei vigili urbani e dello scuolabus, che verrebbero utilizzate nonostante prive di copertura assicurativa. Il tg satirico di Canale 5, spulciando il “portale dell’automobilista” del Dipartimento Trasporti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha scoperto infatti che, digitando il numero delle targhe delle auto in dotazione alla polizia municipale capaccese, queste ultime risultavano essere senza assicurazione. Il comandante dei vigili urbani e una funzionaria dell’amministrazione, intervistati da Abete, hanno confermato davanti alle telecamere, invece, che tutte le macchine dell’amministrazione "sono in regola". Sul posto sono giunti anche i carabinieri, che dopo un vertice con i dirigenti comunali, hanno spiegato al simpatico giornalista di Canale 5, che si sarebbe verificato un ritardo di comunicazione del rinnovo delle polizze tra la sede centrale dell’Agenzia assicurativa e l’Ania (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici). Dopo un po’ di tempo Abete è tornato a controllare le targhe sul “portale dell’automobilista” e tutte le auto improvvisamente sono risultate assicurate.

Vigili in giro con l’assicurazione scaduta. Nel deposito dei Monti Tiburtini 9 auto su 14 hanno il contrassegno non valido dal 31 ottobre, scrive Silvia Mancinelli il 17 novembre 2014 su “Il Tempo”. Ma se i vigili fanno le multe, a loro – in giro con l’assicurazione scaduta – la contravvenzione chi la fa? La domanda sorge spontanea, senza un velo di sarcasmo, laddove le auto della Polizia Locale di Roma Capitale circolano senza copertura assicurativa. Nel caso specifico dell’autoparco di via dei Monti Tiburtini, ad esempio, nove macchine su quattordici – parliamo di quelle in leasing e utilizzate dagli agenti dei Gruppi Tiburtino e Sapienza – espongono l’assicurazione scaduta il 31 ottobre 2014, oltre i quindici giorni di tolleranza. «Mentre alcune pattuglie erano chiamate a controllare il rispetto del blocco del traffico, le stesse erano in violazione di legge – conferma Stefano Giannini, sindacalista Sulpl -. Per una violazione del genere qualsiasi cittadino sarebbe stato multato. A noi le contravvenzioni dal terminale non spariscono di certo. Tra l’altro una situazione identica è riscontrabile anche nei Gruppi Aurelio, Appio e I Trevi. Solo ad Ostia i vigili possono stare tranquilli: a loro le assicurazioni scadono nel 2015. Alcuni colleghi già domani si stanno rifiutando di uscire in macchina, e d’altronde chi gliele paga le sanzioni da 41 euro?». «Questa incredibile vicenda segna un’ulteriore drammatica accelerazione dello sfacelo amministrativo che sta vivendo Roma – commenta Sveva Belviso, leader di Altra Destra e consigliere capitolino -. La macchina comunale è completamente impazzita, non funziona più nulla, la città è totalmente allo sbando e senza guida. E sarebbe ignobile prendersela con la polizia municipale, cui va anzi la nostra solidarietà essendo i vigili senza copertura assicurativa. L'unica responsabilità è di tipo politico e di un sindaco inetto che sta distruggendo ogni tessuto civico e amministrativo della città. Ormai siamo a livelli di pericolosità sociale, e se il Pd non caccia Marino si assumerà una responsabilità morale enorme. I romani non li perdoneranno mai». «Non vogliamo essere multati al posto del sindaco Marino – ribadisce Giannini, Sulpl - . Lui può non pagarle alcune contravvenzioni, noi non ce lo possiamo permettere». Ma le assicurazioni scadute non sono certo l’unico problema con il quale devono convivere gli agenti della Polizia Locale. Senza un vestiario adatto, spesso in servizio con giubbotti gialli in mancanza di altro. Costretti a fotografare gli incidenti con i propri cellulari, succede agli uomini del Gruppo Intervento Traffico, in attesa di una nuova macchinetta digitale, e in giro con mezzi di servizio non idonei al trasporto degli arrestati o troppo piccoli, con i furgoni per i rilievi degli incidenti stradali fermi per manutenzione. Senza visite mediche che attestino la loro idoneità al servizio in strada, impossibilitati ad usare mascherine che li proteggano dallo smog, «ma soprattutto insufficienti, considerata la cronica carenza di personale, a coprire le esigenze di una Capitale europea – aggiunge Giannini -. Per noi Roma, se non è in grado di essere Capitale, può chiudere i servizi come un Comune qualsiasi alle 20 del venerdì. Sfidiamo il Sindaco su questo tema: basta straordinari e servizi notturni per la Polizia Locale. Ci pensasse lo Stato».

“E il tagliando dell’assicurazione?”. Le auto dei vigili ne fanno a meno. Il comandante Donati: “Una dimenticanza, mica siamo a Napoli. Ora provvederemo ad esporli”, scrive Vincenzo Chiumarulo il 7 febbraio 2013 su “La Repubblica”. Che ogni auto sul suolo pubblico debba tenere bene in vista il contrassegno dell'assicurazione, ce lo confermano due vigili urbani in piazza Umberto, appena usciti da un'auto di servizio: una Punto blu col parabrezza talmente pulito, che gli agenti devono aver pensato fosse un peccato rovinarlo con il porta assicurazione. Ma questa non è l'unica vettura dei vigili col parabrezza spoglio in giro per la città. Davanti alla Prefettura ci sono tre auto e un furgoncino della polizia municipale, ma del contrassegno dell'assicurazione non c'è nessuna traccia. Perfino fuori dal comando della polizia municipale, al quartiere Japigia, seduto nella sua auto senza contrassegno, se ne sta un agente incurante di violare lo stesso codice della strada che è tenuto a far rispettare ai cittadini. Se un comune mortale dimenticasse di esporre il contrassegno dell'assicurazione, infatti, si beccherebbe una multa che, secondo l'articolo 181 del Codice della strada, oscilla tra i 24 e i 94 euro. E poiché la legge è uguale per tutti, almeno sulla carta, come mai la polizia municipale di Bari non usa esporre l'assicurazione? "E' stata una nostra mancanza", spiega il comandante dei vigili urbani, Stefano Donati che assicura: "Dopo la vostra segnalazione, stiamo provvedendo a far esporre i contrassegni in tutti i mezzi": un parco auto di un centinaio di autovetture. Le nostre, aggiunge, "sono auto come tutte le altre e quindi anche noi abbiamo l'obbligo di esporre l'assicurazione". Fino a ieri, però, "la prassi era un'altra e il contrassegno lo tenevamo nel libretto e, all'occorrenza, lo tiravamo fuori". Un'usanza di cui sono convinti anche gli agenti in servizio ai quali chiediamo spiegazioni sul contrassegno fantasma: "Non siamo obbligati a esporlo", dicono contraddicendo il loro stesso comandante: "Tanto si sa che le auto pubbliche sono assicurate". Eppure Donati tiene a precisare che "non siamo mica a Napoli, dove non c'erano i soldi per assicurare le auto: la nostra è stata una dimenticanza ma ora è tutto a posto". Non proprio tutto, però, dal momento che mentre parliamo con lui ci sfreccia davanti un'altra auto senza tagliandino. "Non è possibile", tuona il co-mandante che ci invita "a controllare anche le auto delle altre forze dell'ordine, della Prefettura e del Comune di Bari", per verificare che la "prassi di non esporre il contrassegno" è diffusa "tra le auto pubbliche". Seguiamo il consiglio e troviamo subito un'auto della polizia di Stato, in via Piccinni, in effetti senza il tagliando sul parabrezza. Mentre altre tre vetture, due del Comune e una della Prefettura, in piazza Libertà, espongono il contrassegno in bella vista. Proseguendo la passeggiata a caccia di tagliandi, incrociamo anche il sindaco di Bari, Michele Emiliano, al quale chiediamo spiegazioni: "Probabilmente -  dice  -  la polizia municipale non ha l'obbligo di esporre il contrassegno ma garantisco che le auto sono assicurate, altrimenti la responsabilità ricadrebbe sui dirigenti del Comune, i quali, stia sicuro, preferirebbero non far uscire le auto piuttosto che mandarle in giro senza assicurazione". Non "avevo idea di questo problema fino a oggi, ma credo si tratti di una mancanza grave della polizia municipale", rileva il direttore generale del Comune, Vito Leccese, promettendo che "darà disposizioni affinché siano immediatamente esposti i contrassegni dell'assicurazione in tutte le vetture dei vigili urbani".

Quei burocrati che salvano se stessi, scrive Sergio Rizzo il 28 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera". In nessun Paese al mondo le burocrazie si suicidano. Fra tutte le leggi fondamentali che regolano l’esistenza della pubblica amministrazione, ecco la più importante. Dunque per impedire che una riforma abbia successo c’è un metodo infallibile: affidarne l’applicazione agli stessi burocrati. Viene deciso che la pubblica amministrazione si deve avvalere per i rapporti con i cittadini della posta elettronica certificata? Ecco che salta fuori qualche misteriosa disposizione interna per cui la richiesta agli uffici si può certamente fare per mail, ma la domanda è ritenuta valida solo se presentata di persona o tramite raccomandata con ricevuta di ritorno. Si introduce lo sportello unico per le imprese, che dovrebbero poter svolgere tutte le pratiche per via telematica con un risparmio enorme di tempo e denaro? Ecco allora che qualche Regione alza un muro a difesa della propria piattaforma informatica, ovviamente diversa da quella della Regione accanto: con il risultato di complicare ancora di più le cose. Vale per le burocrazie locali, come per le amministrazioni centrali. Vale per aprire un’attività, dismettere un’utenza, ottenere una cartella clinica, chiedere un permesso di costruzione, regolare i conti con il fisco... E la politica, qui, ha enormi responsabilità. Non perché siano i politici a scrivere regolamenti e circolari che stabiliscono come si devono compilare i moduli o le procedure per smaltire una tettoia di eternit. Ma perché la politica delega decisioni frutto della volontà popolare, come le leggi approvate dal Parlamento, agli stessi che dovrebbero subirle. Il caso del regolamento edilizio unico per tutti i Comuni italiani è una micidiale cartina tornasole. Finalmente il governo prende atto che è impossibile far funzionare come in tutti i Paesi civili un sistema per cui ognuno degli 8.003 municipi italiani amministra questa materia con norme differenti l’uno dall’altro, sovente contraddittorie. Si arriva all’assurdo che neppure le circoscrizioni di uno stesso Comune capoluogo applicano le stesse regole. Non sono diverse soltanto le altezze dei parapetti o le cubature minime delle stanze, ma le definizioni stesse: in un Comune con «superficie utile» si indica una determinata cosa, mentre nel Comune confinante lo stesso termine indica una cosa diversa. Per non parlare di certe follie di cui è disseminato lo sterminato panorama di articoli, commi e lettere, conseguenza quasi sempre di qualche solerzia amministrativa la cui logica è però raramente ritracciabile nelle pieghe del buon senso. Un caso? L’articolo 31 del regolamento edilizio del Comune di Fiumicino afferma che «è permessa la costruzione di cortili secondari o mezzi cortili allo scopo di dare luce e aria a scale, latrine, stanze da bagno, corridoi e a una sola stanza abitabile per ogni appartamento, nel limite massimo di quattro stanze, per ciascun piano, sempreché l’alloggio, di cui fanno parte, consti di non meno di tre stanze oltre l’ingresso e gli accessori». Tutto questo, però, «fatta eccezione per le case di tipo popolare». Il che starebbe a significare che il cortile, a parte la maniacale descrizione dei limiti (perché al massimo quattro stanze per piano, e perché l’alloggio deve averne almeno tre?) è una cosa da ricchi. Insomma un guazzabuglio infernale, al quale si ritiene di mettere conclusione imponendo, come in Germania, regole uniche valide su tutto il territorio nazionale. Regole semplici e facilmente attuabili. L’intenzione è lodevole. Si commette però il solito errore: siccome la questione è molto complicata e oltre alle leggi nazionali ci sono di mezzo centinaia di norme locali per decine di migliaia di disposizioni, il compito di mettere a punto il testo viene assegnato a un pool di funzionari competenti. Ma sono gli stessi che hanno le chiavi del labirinto, i custodi dei segreti delle burocrazie regionali e comunali, il cui potere e la cui funzione verrebbero meno se il regolamento unico vedesse effettivamente la luce, fosse semplice e facilmente applicabile in tutti i Comuni italiani. Cominciano allora le eccezioni, i distinguo, i cavilli. Ognuno butta in faccia all’altro un dpr, una legge regionale, un ingorgo urbanistico, una specifica costruttiva, un divieto lessicale, un ostacolo strutturale, un compendio normativo, una deroga altimetrica... E dopo un anno tutto è ancora fermo. La burocrazia ha raggiunto il suo obiettivo. Il resto degli italiani, che però sono la stragrande maggioranza, purtroppo no. Che serva di lezione, ma sia l’ultima. Lo diciamo ai politici: le riforme non possono esaurirsi, come quasi sempre accade, in un annuncio roboante che all’atto pratico si sgonfia miseramente. Se vogliono davvero cambiare le cose, si rimbocchino le maniche assumendosi l’onere di compiere le scelte. Perché di scelte politiche si tratta. Se poi la materia, come in questo caso, appare troppo complicata, si facciano pure aiutare dagli esperti, ma indipendenti: ce ne sono dappertutto, bravissimi e con le idee chiare. Basta guardarsi intorno, le nostre università abbondano di intelligenze pronte all’uso. Di sicuro non si può pretendere che a semplificare sia chi è pagato per complicare, e complicando assicura la sopravvivenza al proprio ruolo. Perché allora è assicurato anche il fallimento. 

Il licenziamento del professore perché fece pipì in un cespuglio. Padre di tre figli, insegnava filosofia a Bergamo. L’episodio risale a 11 anni fa, scrive Gian Antonio Stella il 3 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. La scure della giustizia, che troppe volte aveva graziato bancarottieri, ladri, trafficanti di droga e truffatori, s’è finalmente abbattuta. Implacabile. E ha mozzato la testa a un professore padre di tre figli che undici anni fa, alle due di notte, in un borgo di poche anime, aveva fatto pipì in un cespuglio. Licenziato in tronco. Vi chiederete: è uno scherzo? Magari! Il protagonista di questa storia (meglio: la vittima di questa giustizia ottusamente ingiusta) si chiama Stefano Rho ed è nato 43 anni fa a Lacor, in Uganda, dove il padre e la madre facevano i medici volontari per quella straordinaria organizzazione che è il Cuamm-Medici con l’Africa. Anzi, loro stessi avevano messo su un piccolo ospedale dopo essersi sposati e aver chiesto agli amici, nella «lista nozze», il dono di «22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio...». Rientrato con i genitori in Italia, a Bergamo, Stefano si è laureato in Filosofia alla Cattolica e si è messo in coda, di concorso in concorso, di supplenza in supplenza, per avere un posto da insegnante. Problemi? Zero. Lo dichiara lo stesso «Certificato penale del Casellario giudiziale» dove è scritto chiaramente: «Si attesta che nella Banca dati del Casellario giudiziale risulta nulla». Torniamo a scriverlo: «nulla». Undici anni fa però, qualcosa successe. Un episodio così marginale, in realtà, che quasi tutti ce lo saremmo dimenticati. O ne avremmo riso con gli amici: «Pensate che una notte...». È la sera di Ferragosto 2005. Il paesello di Averara, un pugno di case con 182 abitanti in una valle laterale della Val Brembana, ha organizzato per i concittadini e la gente dei dintorni una sagra paesana con un ospite d’onore, un cabarettista di Zelig. Pienone. Al punto che molti giovani, tra cui Stefano e il suo amico Daniele, non riescono a entrare. Gironzolano nei dintorni, e finalmente, sul tardi, un attimo prima che lo stand chiuda, riescono a bere una birra. Poi, come tutti i ragazzi del pianeta, si fermano un po’ a chiacchierare e tirano tardi. Alle due di notte, mentre gli ultimissimi nottambuli risalgono sulle loro auto per andarsene, «gli scappa». Si guardano intorno. La festa ha chiuso. Il paese, salvo un lampione qua e là, è immerso nel buio. Non c’è un bar aperto a pagarlo oro. Men che meno dove stanno, al limite della contrada. Che fare? Stefano e Daniele fanno pipì su un cespuglio. In quell’istante passa una pattuglia di carabinieri. «Ci hanno visto, chiesto i documenti, fatto una ramanzina bonaria rimproverandoci perché secondo loro c’era un lampione che un po’ di luce la faceva e ciao». Un anno dopo i due si ritrovano imputati, davanti al giudice di pace di Zogno, «perché in un piazzale illuminato adiacente alla pubblica via compivano atti contrari alla pubblica decenza orinando nei pressi di un cespuglio». Duecento euro di multa: «Non abbiamo neanche fatto ricorso e neppure preso un avvocato di fiducia. Ci sembrava una cosa morta lì». Il 2 settembre 2013 il professor Rho, da quattordici anni precario come insegnante di filosofia in varie scuole superiori della bergamasca, firma per il Ministero un’autodichiarazione dove spunta la voce in cui dice «di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi scritti del Casellario giudiziario ai sensi della vigente normativa». Tra mesi dopo, il dirigente scolastico gli comunica che da un controllo è risultato che lui, il professor Rho, risulta «destinatario di un decreto penale passato in giudicato». E lo invita a presentarsi a fine gennaio del 2014 per spiegarsi. Avute le spiegazioni, il dirigente riconosce che «appaiono plausibili le motivazioni addotte a propria discolpa» e che «se anche il prof. Rho avesse correttamente dichiarato le condanne avute le stesse non avrebbero inciso sui requisiti di accesso al pubblico impiego». Per capirci: a dichiarare il falso, perfino se fosse stato in malafede, non ci avrebbe guadagnato nulla. Anzi. Quindi, «tenuto conto del principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni in rapporto alla gravità delle mancanze», decide di dare al malcapitato il minimo del minimo: la censura. Buon senso. Ma la legge italiana, che riesce a sbattere in galera un trentacinquesimo dei «colletti bianchi» incarcerati in Germania e arriva a scarcerare sicari mafiosi perché ha scordato una scadenza dei termini e non ce la fa quasi mai a processare i bancarottieri prima che cada tutto in prescrizione, decide che no, Stefano Rho non può cavarsela così. E la Corte dei conti, del tutto indifferente al tipo di condanna, che non prevede neppure l’iscrizione nella fedina penale (rimasta infatti candida) né un «motivo ostativo» all’assunzione nei ranghi statali, ricorda alle autorità scolastiche che Rho va licenziato. E così finisce. Il dirigente scolastico di Bergamo, Patrizia Graziani, prende atto della intimazione dei giudici contabili e dichiara la decadenza «senza preavviso» dell’insegnante, la perdita delle anzianità accumulate negli ultimi anni insegnando con continuità negli istituti bergamaschi «Natta» e «Giovanni Falcone», la cancellazione del «reo» da tutte le graduatorie provinciali eccetera eccetera... Il tutto in un Paese dove, per fare un solo esempio fra tanti, i dipendenti pubblici furbetti (agenti di custodia, bidelli, maestri...) che grazie alle clientele politiche riuscirono a farsi piazzare nel Cda dell’area sviluppo industriale di Agrigento (così da avere il trasferimento vicino a casa) sono stati assolti nonostante avessero firmato di loro pugno di avere la laurea (falso) ed «esperienza almeno quinquennale scientifica ovvero di tipo professionale o dirigenziale» o addirittura la «qualifica di magistrato in quiescenza». Assolti! Il che impone una domanda: la legge italiana è davvero uguale per tutti o dipende dal giudice che capita? Non manca, in coda a questo pasticciaccio brutto, il dettaglio paradossale: il professor Rho, che come dicevamo ha una moglie e tre figli da mantenere ed è stato buttato fuori con così feroce solerzia l’11 gennaio da un pezzo dello Stato, era stato definitivamente assunto da un altro pezzo di Stato il 24 novembre. Della serie: coerenze...

Assenteismo alla Asl, in servizio i 36 condannati a Brindisi: un oculista è stato promosso. Non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, scrive il 25 gennaio 2016 "La Repubblica" e "La Gazzetta del Mezzogiorno". Le immagini delle microcamere nascoste furono proiettate nell'aula di giustizia in cui è iniziato due anni fa e si è concluso la scorsa estate il processo di primo grado per assenteismo: si scorgevano le addette alle pulizie che strisciavano i badge altrui nella macchinetta marcatempo, all'ingresso di una delle sedi della Asl di Brindisi. Ma anche medici, infermieri, tecnici, fisioterapisti che dopo aver timbrato il cartellino si recavano a casa, a fare la spesa al discount, ad accompagnare i bambini a scuola. Per quei fatti 36 dipendenti pubblici sono stati condannati in primo grado, nel giugno scorso, a pene comprese tra sei mesi e tre anni: le accuse formulate dal pm Milto Stefano De Nozza sono a vario titolo truffa in danno dello Stato e violazione del decreto Brunetta. Inizialmente erano 48 gli imputati. Sono tutti ancora in servizio presso la stessa azienda sanitaria. Anche coloro i quali sono stati ritenuti assenteisti. Uno di essi, un oculista, ha ottenuto perfino una progressione di carriera. Uno scatto in avanti previsto dal contratto nazionale del lavoro: atto dovuto che non è stato possibile evitare, a quanto si è appreso dalla direzione generale Asl, proprio perché per i lavoratori in questione non c'è stato alcun provvedimento punitivo. I procedimenti disciplinari avviati nel 2010, quando nell'ambito della stessa inchiesta furono eseguite 26 ordinanze di custodia cautelare dai carabinieri dei Nas di Taranto, furono già allora congelati in attesa di un verdetto definitivo che è però ancora lontano dall'essere emesso. Ci sono però le motivazioni della sentenza di primo grado depositate a settembre, in cui il giudice monocratico Giuseppe Biondi ha fatto una disamina puntuale di ogni singola posizione. Le difese hanno già impugnato la decisione del tribunale e attendono che venga fissato l'appello. Viene attribuito dal giudice un rilievo di maggiore gravità ai medici coinvolti, a uno dei quali, un odontoiatra, è toccata la pena massima inflitta: tre anni di reclusione. In quanto dirigenti avrebbero dovuto controllare, a quanto è riportato, il rispetto delle regole da parte dei sottoposti. E avrebbero dovuto dare l'esempio. Tutti, poi, sottraendo ore che avrebbero dovuto essere di esclusiva proprietà del datore di lavoro, avrebbero provocato all'Azienda sanitaria locale, quindi a una pubblica amministrazione, un danno patrimoniale. Oltre che un danno di immagine dovuto - si legge - al fatto che avrebbero agito sempre "alla luce del sole". Per altro il fatto che non fosse emersa durante il dibattimento la prova di conseguenze dirette nella qualità del servizio, non avrebbe avuto alcun valore riguardo le contestazioni per cui si è proceduto: la truffa e le irregolarità nell'utilizzo del cartellino marcatempo. Nel frattempo nulla è cambiato in quel di via Dalmazia e più in generale presso l'Azienda sanitaria di Brindisi. "I procedimenti disciplinari - ha spiegato il direttore generale Giuseppe Pasqualone - sono stati riaperti". Ma non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, che prevede una linea durissima, ancor di più rispetto al passato, per i cosiddetti furbetti del cartellino.

Palermo, inquinamento: tre anni di processo inutile. "Il pm ha sbagliato imputati". Le motivazioni dell'assoluzione per gli ex governatori Cuffaro e Lombardo. Il presidente del tribunale: “Alla sbarra dovevano andare i dirigenti, non i politici”, scrive Alessandra Ziniti il 26 gennaio 2016 “La Repubblica”. Per anni in tutto il territorio siciliano c’è stato un superamento sistematico dei limiti di inquinamento ambientale e per anni c’è stata "una evidente e macroscopica negligenza dell’apparato regionale e dell’Arpa, dando prova di palese negligenza a danno di tutti i cittadini siciliani". Ma il processo che vedeva alla sbarra gli ex governatori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo e gli ex assessori al Territorio e Ambiente Cascio, Interlandi, Sorbello e Di Mauro è finito in un nulla di fatto perché la procura ha sbagliato imputati e imputazioni. Sono durissime le motivazioni della sentenza con le quali il presidente della quarta sezione del tribunale Vittorio Alcamo ha motivato l’assoluzione di tutti gli imputati. "Tenuto conto della delicatezza della materia e della serietà delle possibili conseguenze a carico della salute collettiva, avrebbero meritato un ben più centrato procedimento a carico dei soggetti realmente responsabili", scrive Alcamo. Rifiuto di atti d’ufficio era il reato che la procura aveva contestato ai politici per "essersi indebitamente rifiutati di predisporre e far approvare" i piani per combattere l’inquinamento ambientale. I pm avevano invece chiesto l’archiviazione per i dirigenti e i funzionari amministrativi. Ma — sottolineano i giudici — erano proprio loro i soggetti competenti ad istruire e predisporre i piani mentre ai presidenti della Regione e agli assessori la legge assegna il compito di "esercitare le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e definire gli obiettivi ed i programmi da attuare". Nel corso del processo, i giudici si sono ben presto resi conto di ritrovarsi davanti come testimoni quelli che avrebbero dovuto essere gli imputati (cioè i dirigenti e i tecnici) e come imputati i politici che avrebbero dovuto essere testimoni. O ai quali, in alternativa, avrebbe dovuto essere contestata un’altra condotta: "L’unico potere-dovere previsto in capo agli assessori ed al Presidente della Regione — scrivono i giudici — è quello, residuale ed eccezionale, di fissazione di un termine perentorio nell’eventualità

di gravi inerzie da parte dei dirigenti ed, in caso di ulteriori inerzie, di nomina di un commissario ad acta". Contestazione che la procura ha provato a rivolgere loro ormai in prossimità della sentenza, quando — contestualmente — il gip ha rigettato la richiesta di archiviazione nei confronti dei dirigenti sollecitata dalla procura. Ora il reinvio degli atti ai pm è sostanzialmente vano perché i fatti contestati sono già andati in prescrizione.

Il record dei voltagabbana ai tempi di Renzi. Dall'inizio della legislatura 234 parlamentari hanno cambiato casacca: l'inchiesta di copertina di Panorama in edicola dal 18 febbraio, scrive il 17 febbraio 2016 "Panorama". Dal 2013 ben 234 parlamentari hanno cambiato casacca e tradito il mandato dei cittadini, lasciando il gruppo parlamentare di appartenenza. E non solo una volta: alcuni di questi senatori e deputati si sono infatti riposizionati più volte con il risultato che i cambi di casacca totali risultano essere 329. Un record mondiale. È questo il risultato di un’indagine condotta da Panorama e pubblicata sul numero in edicola da giovedì 18 febbraio. Il caso è particolarmente accentuato a Palazzo Madama, dove il 30 per cento dei senatori ha cambiato casacca, alcuni anche cinque o sei volte. Il 43,6 per cento dei transfughi ha scelto di allearsi con il Partito democratico e i loro voti sono spesso fondamentali per il governo Renzi. Sono nati anche nuovi gruppi parlamentari. Sempre a Palazzo Madama, su 10 gruppi, soltanto 4 hanno partecipato alle elezioni con proprie liste. Il recordman di questa legislatura è il senatore Luigi Compagna con sei passaggi da una sigla all’altra.

Il M5S e Grillo: uno, nessuno, centomila. Da Rodotà a Farage. Dal Mein Kampf fino all'ultima capriola sulle unioni civili. La schizofrenia a 5 stelle riflette la personalità del suo leader, scrive il 17 febbraio 2016, Paolo Papi su "Panorama". Grillo, quale? Quello che candidò, non appena i suoi misero piede in parlamento, l'esimio e laicissimo professore Rodotà al Colle? O quello che, dopo aver assicurato che i suoi senatori avrebbero votato la legge sulle unioni civili purché non venisse stralciata dalla stepchild adoption, ha compiuto una stupefacente piroetta sul blog, garantendo assoluta libertà di voto ai suoi parlamentari? Grillo, chi? Quello che tuonava contro lo scandalo dell'esenzione dell'Ici per le proprietà immobiliari della Chiesa e giunse persino a proporre nel 2012 una radicale revisione dei Patti lateranensi? Oppure il Grillo trasformista che giunse nel 2009, ben prima che si insinuasse l'idea di fondare un movimento nazionale, acandidare Tarcisio Bertone al soglio di Pietro? Grillo, quale? Quello che nel 2005, ai tempi del governo Berlusconi, difendeva con le unghie l'articolo 67 sull'assenza del vincolo di mandato in Costituzione o quello che, nel 2015, sostiene che solo il vincolo di mandato può salvare la democrazia italiana? Dicono che i movimenti carismatici riflettano vizi e virtù della personalità dei loro leader-fondatori. Nel caso del M5S, un partito che fino a qualche giorno fa aveva fatto di una laicità con venature anticlericali una delle sue tante bandiere politiche, questa apparente schizofrenia - giustificabile a teatro per un'artista, ma assai meno in Parlamento - trova la sua plastica rappresentazione in una serie di vignette che stanno facendo il giro dei social network. Come questa. Il M5s, quale? Quello che, per bocca di uno dei suoi volti più noti, Alessandro Di Battista, giunse a sostenere, all'indomani dell'esecuzione del reporter James Foley, che la "violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dal giornalista Usa è figlia della violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dai detenuti nel carcere di Abu Ghraib"? È lo stesso Di Battista che sulla crisi dei profughi, anziché sostenere per coerenza logica che le grandi ondate migratorie dai Paesi mediorientali sono figlie (anche) delle scelte occidentali, è giunto a sostenere sempre su Facebook, come avrebbe detto il Gianfranco Fini ai tempi del Msi, che "i fratelli africani devono stare a casa loro, e per farli stare a casa loro devono avere risorse e sviluppo a casa loro"?  E ancora, Grillo, quale? Quello stesso Grillo che dieci anni orsono scriveva un post con un'intera citazione del Mein Kampf di Adolf Hitler, definendolo una "voce del passato per capire il nostro presente"? Quello che si è alleato in Europa con gli ultranazionalisti xenofobi di Nick Farage, dopo aver candidato Rodotà al Colle? È lo stesso leader del MoVimento che ha fatto arrampicare i suoi sul tetto di Montecitorio in nome del rispetto della Costituzione repubblicana e antifascista? Qualcosa forse non torna. Non solo nel M5S, ma in tutta la politica italiana. Ma le capriole grilline fanno pensare a Pirandello: uno, nessuno, centomila. Un partito dalle mille identità, riflesso della personalità bifronte del suo leader, straordinario Zelig, ma solo sul palcoscenico.

SCANDALO ENI TOTAL. La Procura di Potenza indaga per disastro ambientale. Il riferimento è al «risparmio dei costi - scrive il gip nell’ordinanza - del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli» con «rifiuti speciali pericolosi» che venivano «dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 3 aprile 2016. Interrogatori, agenda da riempire e un ricorso da depositare: la settimana che comincia domani sarà per i pm di Potenza impegnati nell’indagine sul petrolio - che ha risvolti politici non meno delicati di quelli giudiziari - molto importante proprio per il futuro dell’inchiesta stessa, che ha portato giovedì scorso sei persone agli arresti domiciliari con due ordinanze del gip e all’iscrizione di 60 persone nel registro degli indagati. Gli interrogatori di garanzia e l’agenda dei pubblici ministeri sono collegati: prima cominceranno quelli degli arrestati, ma l’attenzione generale è già concentrata sull'interrogatorio dell’ex ministra Federica Guidi - che si è dimessa il giorno stesso degli arresti - e della ministra Maria Elena Boschi, citata dalla sua collega quando era prossimo l'inserimento nella legge di stabilità di un emendamento necessario a far procedere i lavori a Corleto Perticara (Potenza), dove la Total sta costruendo il secondo centro oli lucano per sfruttare 50 mila barili di petrolio all’anno dal 2017. All’emendamento era molto interessato l’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli, compagno della Guidi, che, infatti, appena la compagna gli confermò che sarebbe stato inserito, telefonò al dirigente di una società petrolifera. Guidi e Boschi saranno sentite a Roma: nei prossimi giorni sarà fissata la data, mentre riguardo al premier Renzi, che in tv ha dichiarato «l'emendamento è mio, se vogliono i pm mi ascoltino», in ambienti vicini alla procura si apprende che i pubblici ministeri di Potenza «non pensavano» di sentirlo. Attesa, da domani, anche per il ricorso dei pm contro la decisione del gip, Michela Tiziana Petrocelli, che ha rigettato la richiesta di arresto per Gemelli. Dalle parole dei sei arrestati - l’ex sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino (Pd), e cinque dipendenti dell’Eni (sospesi dalla compagnia) - i pm si aspettano elementi utili per portare avanti altri accertamenti e approfondimenti. Vicino è finita ai domiciliari nell’ambito del filone di inchiesta che riguarda la costruzione del centro oli di Corleto; gli altri cinque in relazione all’accusa di traffico illecito dei rifiuti prodotti nel centro oli dell’Eni di Viggiano (Potenza), dove da giovedì è sospesa la produzione di 75 mila barili al giorno di petrolio (con centinaia di operai e tecnici in ansia per il lavoro e migliaia di abitanti della zona e ambientalisti soddisfatti). La compagnia ha preso una posizione netta: gli accertamenti che ha fatto condurre da esperti nazionali e internazionali parlano di «qualità dell’ambiente ottima» e di operazioni di smaltimento rispettose delle leggi. I pm aspettano altre analisi dei Carabinieri del Nucleo operativo ecologico: diranno loro se l’ombra dell’accusa di disastro ambientale potrà concretizzarsi. Infine, il filone per il momento meno chiaro dal punto di vista delle notizie trapelate e su cui il riserbo degli investigatori è più stretto: lo scenario è il porto di Augusta, punto di riferimento di diverse compagnie petrolifere. Fra gli indagati vi sono Gemelli e il capo di stato di maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi: da mesi i pm di Potenza, Laura Triassi e Francesco Basentini, indagano per associazione per delinquere e traffico di influenze sullo stesso Gemelli, su De Giorgi, su Nicola Colicchi, considerato un "lobbista», e su un consulente del Ministero dello Sviluppo economico, Valter Pastena. E’ la parte dell’inchiesta che potrebbe riservare rilevanti sorprese.

Il «comitato d’affari» e i politici: così venivano favorite le aziende. Le conversazioni tra Colicchi e Gemelli. E il ministro si preoccupa per due assunzioni. Il compagno della Guidi «si mostra attento agli emendamenti del settore energetico», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Un vero e proprio comitato d’affari che si muoveva dietro le quinte di governo e Parlamento per garantire gli interessi delle aziende petrolifere, prima fra tutte la Total. Su questo si concentrano le indagini della magistratura di Potenza, come viene ben ricostruito nelle carte processuali su quanto accaduto per il progetto «Tempa Rossa». Rivelando come l’emendamento che ha costretto il ministro Federica Guidi alle dimissioni — visto che ne parlava come un «favore» fatto al compagno Gianluca Gemelli — non fosse l’unico che gli imprenditori volevano far approvare. I giorni chiave per gli affari messi in piedi dallo stesso Gemelli sono quelli di metà dicembre 2014, quando il provvedimento viene inserito nella legge di Stabilità. Il 12 parla con Nicola Colicchi, consulente della Camera di Commercio di Roma, indagato in uno dei filoni dell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata al traffico d’influenza e all’abuso d’ufficio. Gli chiede delucidazioni su un emendamento presentato dal parlamentare di Ala, il braccio destro di Denis Verdini Ignazio Abrignani. Si preoccupa che possa danneggiare i suoi «soci». Colicchi lo rassicura. Annotano gli investigatori della squadra mobile che trascrivono le intercettazioni: «Non è una cosa di sistema... capito? Cioè, cioè alle imprese, allora per capirci, alle imprese serie quelle grosse, di avere il finanziamento con la garanzia non gliene frega niente, perché quelli... chi fa, chi fa sto lavoro qua, i soldi non può non averli, capito?». Sottolinea il giudice: «La conversazione rileva più che altro per il semplice fatto che Gemelli si mostra particolarmente attento a degli emendamenti che interessano comunque il settore energetico. E la circostanza che il Colicchi abbia rassicurato Gemelli che l’emendamento in questione (presentato da Abrignani) non interessasse i “grossi”, lascia presumere che l’intento di quest’ultimo fosse proprio quello di sincerarsi che non si trattasse dello stesso emendamento di cui aveva pur avuto modo di discutere con Cobianchi Giuseppe della Total, lo stesso emendamento che sarebbe dovuto essere ripresentato al Senato in sede di approvazione della legge di stabilità, o in ogni caso di qualsiasi altro e ulteriore emendamento che sarebbe tornato utile ai “grossi”, vale a dire alle grosse realtà imprenditoriali». Per questo, dopo aver interrogato gli arrestati, gli inquirenti convocheranno anche i componenti della «rete» che si muoveva per indirizzare i provvedimenti. Dovranno chiarire la propria posizione, alcuni come Walter Pastena, dirigente della Ragioneria di Stato, dovranno difendersi dall’accusa di associazione per delinquere. Tra le «contropartite» pretese da alcuni amministratori locali — prima fra tutte Rosaria Vicino, il sindaco di Corleto Perticara finita agli arresti proprio per aver pilotato le autorizzazioni sul progetto — ci sono le assunzioni di parenti e amici. Lo stesso Gemelli cede alla richiesta del primo cittadino. Lo rivela lui stesso in una conversazione con la compagna, l’allora ministro Guidi, quando si preoccupano per aver saputo che è stata aperta un’inchiesta. È il 23 gennaio 2015. Annotano gli investigatori: «Guidi chiedeva se lui avesse già preso della gente locale (anche in questo caso si ritiene che il riferimento fosse fatto alle assunzioni di personale da parte della società ITS da inviare nei cantieri della Total a Corleto Perticara). Gemelli rispondeva di sì, di aver preso due persone, che non erano neanche del posto, ma di Comuni limitrofi e precisava che si era trattato peraltro di curricula da lui inviati e poi scelti dal cliente (Tecnimont). La Guidi gli chiedeva se fossero dei contratti personali. Gemelli rispondeva di sì, che si trattava di persone assunte da lui direttamente, che il rapporto era tenuto con il singolo professionista segnalato dal cliente».

Il fastidio di Renzi con i pm per la convocazione di Boschi. Lo sfogo con i collaboratori: Abbiano il coraggio di chiamarmi, così ci divertiamo un po’, scrive Maria Teresa Meli su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Davanti alle telecamere, con Lucia Annunziata che lo incalza con abilità e tenacia, Matteo Renzi non si lascia sfuggire i suoi più reconditi pensieri sulla vicenda giudiziaria che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi. Dice di non credere ai complotti e alla giustizia a orologeria. Ma ha un’aria di sfida che non passa inosservata quando invita i giudici a chiedergli di ascoltarlo. Non solo su quella storia, ma anche su «tutto il resto: la Salerno-Reggio Calabria, la Napoli-Bari, la Variante di Valico». Ed è proprio da quel «tutto il resto» che traspare il tono della sfida nei confronti dei pm della Procura di Potenza. I quali, non a caso, più tardi fanno filtrare che non è nelle loro intenzioni ascoltare il premier. Renzi è con i collaboratori quando arriva quella replica e sorride: «Perché non vogliono interrogarmi? Ho detto che quell’emendamento era mio, abbiano il coraggio di chiamarmi, dopo quello che ho detto, così ci divertiamo un po’. Visto che vogliono sentire la Boschi proprio per quell’emendamento, perché non me? Forse avrebbero bisogno di una lezione su come funziona il Parlamento... È allucinante voler ascoltare Maria Elena...». I collaboratori che gli stanno di fronte annuiscono. Non capiscono il motivo per cui i pm della Procura di Potenza abbiano deciso di tirare in ballo la Boschi. Ma il premier ha un’idea del perché. E la illustra ai fedelissimi. È un convincimento andato maturando dopo che è scoppiato il «caso Guidi» e che non formulerebbe mai ad alta voce di fronte ai giornalisti. È l’unica spiegazione che è riuscito a darsi: «La verità è che c’è un disegno organico dietro tutto ciò. L’obiettivo è quello di far raggiungere il quorum al referendum sulle trivelle nella speranza di darmi un colpo». Il presidente del Consiglio non contesta l’inchiesta: «Non spetta a me mettere bocca su un’indagine». Ma è la decisione dei magistrati di coinvolgere la ministra che rappresenta in modo più significativo la novità dell’esecutivo Renzi che lo ha lasciato perplesso. Come lo ha sconcertato anche il fatto che dopo aver pubblicamente detto che l’emendamento era opera sua, ora i pm non chiedano di ascoltare pure lui. Della sua «performance» in tv è contento: «Pensavano che mi presentassi tutto intimorito e piagnucolante e invece no. Ho voluto dare un messaggio molto duro». Questa volta il presidente del Consiglio si riferisce ai grillini, ai leghisti e a tutti quelli che hanno «utilizzato questa vicenda per fare un polverone pazzesco». Renzi ce l’ha in particolar modo con i Cinque Stelle. Ma per loro ha già pronta la controffensiva: «Domani (oggi per chi legge, ndr) Bonifazi sarà a Milano per chiedere il risarcimento danni a Grillo e David Ermini sarà a Massa Carrara per querelare Di Maio, che ha avuto la faccia tosta di dire che prendiamo i soldi dai petrolieri. A lui il Pd chiederà di rinunciare all’immunità. Del resto, loro sono sempre pronti a dire che bisogna rinunciarci...». Non una delle parole che vengono pronunciate al chiuso di una stanza, davanti a persone di assoluta fiducia del premier, è stata proferita in televisione. Ma dall’Annunziata Renzi si è lasciato sfuggire qualche indizio sul suo stato d’animo. Quando ha detto di sperare che l’indagine sia «una cosa seria». E ha fatto l’esempio del senatore Salvatore Margiotta, accusato e condannato, sempre a Potenza, per la costruzione del Centro Oil della Total e poi assolto dalla Cassazione. Non è escluso che oggi, in direzione, citi di nuovo questo esempio. Senza fare nessun attacco ai magistrati, però.

L’ammiraglio De Giorgi indagato per una fornitura. La sindaca: ho solo aiutato. Parte il ricorso per l’arresto di Gemelli. Trucchi per celare i veleni, scrive Virginia Piccolillo su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. «Ma quando vengono i magistrati a sentire Rosaria Vicino?». A Corleto Perticara, da una settimana passata dalla tranquillità di paesino da 2.500 anime a centro delle cronache giudiziarie, si accomuna la ex sindaco ai domiciliari che deve subire l’interrogatorio di garanzia al ministro delle Riforme che, per cortesia istituzionale, riceverà la visita dei magistrati a Roma. Lei no. Dovrà uscire dalla villa videosorvegliata e fare i 60 chilometri di tornanti che portano a Potenza. La sua difesa la ripetono in molti: «Ha solo aiutato i ragazzi a trovare un posto di lavoro». Altrettanti però replicano: «Solo quelli che voleva lei. Ad altri, magari più preparati, ha impedito che gli venisse dato». E ripetono quella intercettazione in cui Rosaria Vicino, all’offerta di un posto per un geologo, rilancia con un suo protetto: «È geometra. Ma è sveglio». Oggi a Corleto ci sarà anche una manifestazione dei Cinquestelle ed è atteso Di Maio. Ma i riflettori sono tutti puntati sulla Procura di Potenza. Sarà una settimana di interrogatori per l’indagine sul petrolio lucano, ma non ci sarà quello del premier Matteo Renzi. Che i magistrati «non pensavano» proprio di ascoltare. Da ambienti investigativi filtra che questo non è un «processo all’emendamento allo sblocca Italia», all’origine dei guai dell’ex ministra Guidi. Lei lo aveva annunciato in anteprima al suo compagno Gianluca Gemelli, in un’intercettazione nella quale diceva di averne parlato anche con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Informazione poi spesa da Gemelli per ottenere, secondo la Procura, utilità. Su quella frase verrà ascoltata, come atto dovuto, la Boschi, già nei prossimi giorni assieme alla Guidi. E, a microfoni spenti, si raccomanda di non confondere le ricostruzioni giornalistiche con le carte dell’inchiesta. Né sul filone politico, né su quello della «lobby» che agiva in vista del business del «dopo emendamento». In questo ambito è stato indagato per abuso d’ufficio il capo di Stato maggiore della difesa, Giuseppe De Giorgi per una vicenda legata a forniture. Per Gemelli, molto attivo a facilitare affari, oggi stesso potrebbe essere presentata la richiesta di appello conto la mancata autorizzazione all’arresto. Intanto c’è da ascoltare anche i cinque arrestati dell’indagine sui veleni spacciati per acqua sporca, nel centro Oli di Viggiano. È una tranche delicatissima che, dopo i risultati dell’indagine epidemiologica, potrebbe portare all’incriminazione per disastro ambientale. Per ora a testimoniare i trucchi compiuti per trasformare i codici dei rifiuti tossici e reiniettarli così nel pozzo di smaltimento delle acque reflue oppure degli «incidenti» ripetuti per il malfunzionamento dell’impianto con lavoratori finiti intossicati al pronto soccorso ci sono le parole degli stessi funzionari Eni intercettati. Anche se la compagnia parla di «qualità dell’aria ottima» e certificata.

Guidi, due incontri con i petrolieri. Poi i "favori" a Gemelli. I verbali. Il compagno della ministra avrebbe ottenuto commesse pure a Augusta. E in cambio l'ammiraglio De Giorgi puntava allo sblocco dei fondi per le nuove navi militari, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati il 04 aprile 2016 su " La Repubblica". Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi. Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell'ex ministro che va ben oltre l'ingenuità di una chiamata di troppo. In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della "lobby petrolifera", promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio "cortesie" destinate a favorire gli affari del compagno. Il mafioso. Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare "fornitore di servizi ingegneristici" per la compagnia del petrolio, per il futuro. Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell'23 ottobre 2014. Al telefono ci sono Franco Broggi - capo ufficio appalti della Tecnimont l'azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata - e Gemelli. Quest'ultimo ha appena chiesto di poter "fare tutto ciò che riguarda l'ingegneria per eventuali lavori successivi". Broggi risponde in maniera netta: "Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c'è quell'incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu... Tutto si fa nella vita". Gemelli ringrazia: "Tu sei un mafioso siciliano!". "Da una telefonata successiva - scrive il gip - si capisce come l'incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont". Insomma, l'accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro. La coppia Gemelli-Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l'emendamento) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore "spingendo" le ditte di Gemelli. Mimì e Cocò. Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. "Senti - chiede Broggi - sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?". "No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante", risponde Gemelli svelando che "questo tizio", l'uomo di Tecnimont, aveva rinviato l'appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo. "I due dell'Ave Maria si sono visti", esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po' infastidito perché la cosa è "adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l'istituzione che dice 'prendi una società italiana'; però c'è modo e modo". "La Guidi li stanerà". L'altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest'ultimo è l'interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l'inserimento dell'emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stabilità. L'incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: "Nathalie le ha rappresentato le difficoltà con le Regioni Basilicata e Puglia". "E il ministro - scrive il gip - ha detto che avrebbe convocato le Regioni (...) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati". In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta "assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto"". "L'incontro è andato bene", riferirà in un'altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica "a me ha detto che è andato tutto bene", la risposta. Lo sblocco dei fondi navali. Sull'asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal "programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa". Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi. L'ipotesi dell'accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi - presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis - fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa. "Venne da me Colicchi - racconta Pastena - e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi". Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi - che transitavano presso il Mise della Guidi - per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena. Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell'intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno "Schema di decreto ministeriale concernente le modalità di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale" (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il "parere preliminare delle Commissioni". Parere che la Guidi definisce "urgente", auspicando che l'iter si concluda "al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa". Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà fatto un contratto come consulente del Mise.

Estrazioni del petrolio, la ministra Guidi pilotava il governo per aiutare il fidanzato. La responsabile dello Sviluppo economico e l'imprenditore Gemelli parlano anche di accordo con la ministra Boschi Ecco le intercettazioni agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". «E poi dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, se è d'accordo anche “Mariaelena” (il ministro Boschi ndr), quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte...! Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempra Rossa, dall'altra parte si muove tutto»: così parlava la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidial telefono con il suo compagno, Gianluca Gemelli, a proposito dell'emendamento che il governo stava per inserire nella Legge di Stabilità relativo ai lavori per il centro oli della Total in contrada “Tempa rossa”, a Corleto Perticara (Potenza), nei quali Gemelli stesso aveva interesse essendo alla guida di due società del settore petrolifero. L'imprenditore chiedeva alla sua compagna-ministro se la cosa riguardasse pure «i propri amici della Total, clienti di Tecnimont» e la Guidi rispondeva: «Eh certo, capito? Certo, te l'ho detto per quello!». Gemelli a questo punto, dopo aver parlato con la ministra Guidi chiama al telefono Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total e gli svela la notizia della volontà del governo di inserire nella legge di Stabilità, in discussione all'epoca in Senato, l'emendamento che avrebbe sbloccato “tempra rossa”, tirando in ballo anche la ministra Boschi: «La chiamo per darle una buona notizia, si ricorda che tempo fa c'è stato casino, che avevano ritirato un emendamento, per cui c'erano problemi su Tempra rossa, pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato, ragion per cui, se passa... e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni... è tutto sbloccato». Le intercettazioni sono agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere. Guidi, che non è indagata nell'inchiesta, informa spesso il compagno, per il quale il gip di Potenza ha rigettato la richiesta di arresto, sui provvedimenti del governo per quanto riguarda le estrazioni petrolifere. Per questi affari Gemelli è indagato per aver sfruttato l'interesse della sua compagna-ministro e di aver fatto affari per oltre due milioni e mezzo di euro. Secondo il giudice per le indagini preliminari, che commenta queste intercettazioni sull'emendamento ritirato, precisa che: «non essendo stato possibile farlo “passare" nel testo del decreto "Sblocca Italia" il Governo (per iniziativa del ministro Guidi con l'intesa del ministro Boschi (“è d'accordo anche Mariaelena”), lo aveva sostanzialmente riproposto nel testo del disegno della legge di Stabilità (“Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità”), finendo con l'essere, unitamente alla legge di Stabilità, approvato a fine dicembre 2014. Il nuovo tentativo di inserimento, infatti, aveva esito positivo». La ministra Guidi si interessa del lato economico e finanziario del suo compagno Gemelli, al quale chiede come è messo “economicamente” e perché “è sempre sofferente in banca”. Guidi però insiste, vuole capire meglio e l'imprenditore spiega che ha “troppi mutui” da pagare. A questo punto la Guidi suggerisce: «Eh, per quello dico che dovresti riuscire a prendere altri lavori Gianluca...!»; Gemelli rispondeva "eh lo so gioia, non è che mi sono fermato, l'hai visto...».

Quella clamorosa intercettazione della Guidi. Le opposizioni: «Ora si deve dimettere». La ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi rassicura il compagno, interessato ai lavori, sul destino di un impianto di estrazione di Total in Basilicata: verrà approvato un emendamento alla legge di Stabilità. «È d’accordo anche Maria Elena», dice riferendosi a Boschi. Le opposizioni gridano al conflitto di interessi: «Si dimetta. E al referendum votiamo Sì», scrive Luca Sappino il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Non è nuova alle polemiche sul conflitto d’interessi, Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi. Appena nominata, il 22 febbraio 2014, in molti notarono la scarsa opportunità della scelta del presidente del consiglio di mandare negli uffici di via Molise proprio la vicepresidente di Confindustria, figlia di Guidalberto Guidi, anch’egli a lungo vicepresidente di Confindustria e presidente della Ducati Energia, azienda di famiglia. Federica Guidi lasciò ogni incarico formale, ovviamente, e si difese dicendo di non esser socia ma solo dipendente delle varie aziende: «Sto battendo ogni record», si vantò, «il governo ha appena ottenuto la fiducia e contro di me sta già arrivando la prima mozione di sfiducia individuale». Mozione però mai calendarizzata. È però adesso un’intercettazione di una telefonata avuta con il compagno Gianluca Gemelli, a riaprire il dibattito. Gemelli, interessato ai subappalti per le sue aziende, stava infatti seguendo con attenzione il destino dell’impianto Total di Tempa Rossa, giacimento petrolifero nell'alta valle del Sauro, nel cuore della Basilicata, e viene chiamato dal ministro per ricevere rassicurazioni. Nella telefonata, negli atti di un'inchiesta in cui è indagato anche lo stesso Gemelli, per "traffico di influenze illecite" perché avrebbe "sfruttato la relazione di convivenza che aveva col Ministro allo Sviluppo Economico”, Guidi rassicura il compagno sul destino di un emendamento alla legge di stabilità che risolverà ogni problema. Nello scambio il ministro dice così: «Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se... è d'accordo anche Mariaelena la... quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte. Alle quattro di notte... Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa... ehm... dall'altra parte si muove tutto!». A quel punto, Gemelli può chiamare subito il rappresentante della Total con cui era in contatto e farsi valere con l’informazione ricevuta dal contatto privilegiato: «La chiamo per darle una buona notizia. ehm.. Si ricorda che tempo fa c'è stato casino. Che avevano ritirato un emendamento… ragion per cui c'erano di nuovo problemi su Tempa ross ... pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato...ragion per cui…se passa...e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni...(...) se passa quest'emendamento... che pare... siano d'accordo tutti… perché la boschi ha accettato di inserirlo... (...) è tutto sbloccato! (ride, ndr)...volevo che lo sapesse in anticipo! (...) e quindi questa è una notizia...». Immancabili sono a questo le reazioni politiche. Il Movimento 5 stelle, con una dichiarazione congiunta dei capogruppo di Camera e Senato, Michele Dell’Orco e Nunzia Catalfo, chiede le dimissioni di entrambi i ministri citati, di Guidi e però anche di Boschi. Più su Guidi si concentra invece Sinistra Italiana che annuncia una mozione di sfiducia, sperando che questa volta venga discussa. Tutti però girano la notizia sul prossimo referendum sulle trivelle: «La miglior risposta a queste indecenze», dicono i 5 stelle, «oltre alle dimissioni di Guidi e Boschi è andare tutti a votare domenica 17 aprile e votare sì contro le trivellazioni marine». Sconcertata si definisce anche Forza Italia, almeno per bocca di Alessandro Cattaneo, già sindaco di Pavia: «Se ciò che stiamo leggendo in queste ore fosse vero, è chiaro a tutti che siamo di fronte ad un caso sul quale il Governo non può non fare chiarezza». «Sempre garantisti», dice ovviamente Cattaneo, «ma di fronte a certe parole e fatti non si può che restare sorpresi ed agire di conseguenza. Le intercettazioni sul Ministro Guidi sono sconcertanti».

Caso Guidi, quella notte in cui l'emendamento uscì dalla legge (e poi rientrò). Presentato il 17 ottobre del 2014, scatenò le proteste dei Cinque Stelle e di Sel. E venne precipitosamente ritirato. Mentre il Pd diceva di non saperne niente. Il grillino Cioffi: “Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?” Ecco la storia della modifica che ha portato alle dimissioni della ministra, scrive Susanna Turco l'1 aprile 2016 su "L'Espresso". Presentato dal governo in una notte d’ottobre 2014, poi precipitosamente ritirato ("… quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte", dice la Guidi nelle intercettazioni), dopo le proteste dei Cinque stelle e Sel, durante la discussione in commissione Ambiente sul cosiddetto Sblocca Italia. Presentato poi di nuovo, in dicembre, e approvato nel maxiemendamento alla Legge di stabilità: anche qui tra le proteste dei Cinque stelle. La storia dell’emendamento che è all’origine delle dimissioni della ministra Guidi, quello che dava il via libera al progetto di estrazione di petrolio Tempa Rossa, sul quale il compagno della titolare allo Sviluppo economico aveva forti interessi, è nei resoconti di quella notte in commissione ambiente. E, poi, nell’intervento in Aula al Senato, quando il grillino Andrea Cioffi domanda: "Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?". Tutto comincia all’ora di cena del 17 ottobre. E’ un venerdì, e il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci, "avverte che il rappresentante del Governo ha testé presentato l’emendamento 37.52 del Governo". Dopo l’annuncio, Realacci dice subito che i sub-emendamenti andranno presentati entro le 22.  Poi fa slittare il termine alle 23. Sia il deputato di Sel Filiberto Zaratti, che la deputata grillina Claudia Mannino, dicono infatti che ci vuole tempo "per valutarne attentamente il contenuto". Poco dopo, avendo letto l’emendamento, è la grillina Mirella Liuzzi ad aprire il fuoco: "L’emendamento 37.52 del Governo rappresenta una vergogna sotto il profilo del rispetto della tutela ambientale, tanto più essendo stato presentato da un Governo che si dichiara di centrosinistra", dice. La Mannino protesta: il testo "introduce poteri di intervento inconciliabili con lo stato di diritto". Zaratti (di Sel) ci mette un altro carico: "L’emendamento autorizza procedure di esproprio in ambiti di particolare rilevanza ambientale, non è degno del Parlamento di uno Stato civile". Ecco la protesta grillina in commissione Ambiente contro l'emendamento pro-Tampa Rossa che, nella notte dell'ottobre 2014, ha portato alla precipitosa marcia indietro del governo. Le urla, gli interventi concitati. “E' una assoluta vergogna, una cosa pericolosissima, e la fate qui in commissione, alle dieci di sera. Neanche Berlusconi era arrivato a tanto”, dice Liuzzi. E Mannino: “In un paese civile questo emendamento è irricevibile”. Mentre il Pd Borghi, placido chiarisce: “Il mio gruppo non era a conoscenza della presentazione di questo emendamento”. Alla fine il Cinque stelle De Rosa invita il presidente della commissione Realacci a “rivalutare l'ammissibilità dell'emendamento”. Cosa che, dopo essersi consultato col governo, Realacci farà. Dichiarandolo inammissibile. Interessante, a questo punto, la puntualizzazione del Pd Enrico Borghi: fa presente come "il gruppo del Partito democratico non era stato preventivamente messo a conoscenza della presentazione da parte del Governo dell’emendamento 37.52. Chiede pertanto che su di esso possa essere aggiornata la discussione ad un successivo momento". A questo punto, Realacci sospende la seduta. Chi c’era, racconta che subito dopo in commissione arriva anche Claudio De Vincenti, allora viceministro allo Sviluppo Economico, e che nell’ora e mezza di pausa dei lavori, c’è un lungo conciliabolo tra lui e Realacci. Un deputato Cinque Stelle dice di aver notato la cosa perché "è strano che un viceministro venga in commissione di notte", e ricorda che "De Vincenti si portò via Realacci per parlarci: era evidentemente alterato, molto arrabbiato. Come se sapesse benissimo cosa stava succedendo a quell'emendamento: altro che disinteressarsene". La seduta riprende alle 21.35. E il presidente Realacci cambia improvvisamente orientamento. Dichiara infatti "inammissibile" l’emendamento, per "estraneità di materia": in sostanza, dice, perché nell’articolo 37 l’estensione delle "procedure autorizzative derogatorie" era prevista per "aumentare la sicurezza delle forniture di gas" e quindi non c’entra con "le opere relative al trasporto e allo stoccaggio di idrocarburi". La Liuzzi però protesta: dice che Realacci non è stato "corretto", perché avrebbe dovuto valutare l’ammissibilità dell’emendamento, prima di dare un termine per la presentazione dei subemendamenti. "A questo punto l’emendamento dovrebbe essere discusso e votato", conclude la Liuzzi. Realacci replica di aver agito così "in considerazione dell’ora tarda e della necessità di lasciare tempi adeguati ai gruppi per la presentazione dei subemendamenti". A quel punto è il grillino De Rosa ad "avanzare il dubbio" che si sia fatto così "nella speranza che nessun deputato si accorgesse della portata dell’emendamento 37.52 e si opponesse alla sua votazione". Realacci ribadisce le sue ragioni e la discussione passa oltre. Poi, però, l’emendamento si riesce a "rimetterlo dentro" (sempre parole della Guidi) nella legge di Stabilità. E il 18 dicembre il senatore grillino Cioffi in Aula lo definisce un "emendamento con nome e cognome". "Ma cosa c'è dentro questa finanziaria? Tante cose. Ci sono alcuni emendamenti presentati dal Governo che hanno nome e cognome. Ce n'è uno che si chiama «Total». Se volete, possiamo usare «Total» sia come nome che come cognome: «Total Total». (Applausi dal Gruppo M5S). Quando voi inserite nella legge che rendiamo opere strategiche anche i tubi che servono per portare il petrolio di Tempa Rossa (che è una concessione data alla Total), nonché le infrastrutture che verranno realizzate nel porto di Taranto, stiamo facendo un regalo alla Total. Ci verrebbe allora da chiedere: ma la Total ha soffiato nell'orecchio di qualcuno, che è il Governo, e gli scrive un emendamento? La Total per caso - lo pongo come ipotesi, signora Presidente, mi consenta; sa, «mi consenta» si porta - ha agevolato il percorso per presentare un emendamento a suo favore? La Total ha contribuito economicamente - in maniera trasparente, perché non si possa mai pensare che lo faccia in maniera non trasparente, nel qual caso sarebbe un reato e i reati li accerta la magistratura, ed è il caso che li inizi ad accertare, magari su questa cosa - la Total, dicevo, ha dato dei contributi al Governo che gli fa un regalo?"

Guidi, le guerre nel Pd della Basilicata. Indagini, una talpa aveva avvisato il compagno. Le intercettazioni dimostrano nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio. Scontri fra Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute e il governatore della Regione Marcello Pittella, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Dietro all'estrazione petrolifera emergono in Basilicata guerre intestine al Partito democratico. Le intercettazioni dell'inchiesta di Potenza hanno permesso di registrare nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio (il comprensorio dei comuni di Corleto Perticara, Guardia Perticara, Gorgoglione, Gallicchio ed Armento) coinvolto direttamente o indirettamente nell'attività di estrazione petrolifera, «da fare campo di conquista anche attraverso vere e proprie guerre intestine tra le vari anime dello stesso Partito», scrive il gip. Da un lato vi è la figura di Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute, punto di riferimento politico dell'ex sindaco del Pd di Corleto Perticara, Rosaria Vicino, arrestata oggi dai carabinieri, e dall'altra parte il governatore della Regione Basilicata, Marcello Pittella, il quale con la sua azione politica «avrebbe cercato di mettere le “bandierine” (per richiamare il termine utilizzato da Vicino nelle intercettazioni) sui territori da “conquistare”». Gli investigatori hanno documentato come spesso Vicino ha utilizzato l'auto dei vigili urbani del paese per fare la spesa, e poi ancora per raggiungere il cantiere, e i vari imprenditori interessati all'esecuzione dei lavori legati al Centro Oli di Tempa Rossa «al solo fine di segnalare agli stessi le persone da assumere». Vicino poteva contare su un notevole consenso elettorale ottenuto «da ricondursi anche ai posti di lavoro che la stessa riesce a far ottenere attraverso le pressioni esercitate nei confronti delle imprese impegnate nella costruzione del Centro Oli di Tempa Rossa, che si vedono costrette (in alcuni casi colluse) nell'assumere persone segnalate dal primo cittadino, in cambio del rilascio delle necessarie autorizzazioni comunali o in cambio di una più celere trattazione delle pratiche annesse (permessi di costruire), ovvero in cambio di vantaggi economici anche solo promessi derivanti da concessioni, delibere». In questo modo Vicino avrebbe ottenuto non solo «il controllo dell'elettorato attivo in vista delle prossime elezioni amministrative locali», ma anche «l'impegno del sottosegretario De Filippo a far assumere il figlio all'Eni». Più volte nelle intercettazioni De Filippo ha rassicurato la Vicino di un suo intervento «presso una non meglio specificata Azienda con sede in Roma (seppure mai menzionata espressamente, la stessa è facilmente individuabile nell'Eni spa)», scrive il giudice. Il compagno della ministra Guidi, l'imprenditore Gemelli indagato in questa inchiesta a Potenza, durante alcune intercettazioni si soffermava sul ruolo politico di Pittella, e sui contatti "forti" che suo fratello, l'europarlamentare Gianni Pittella, aveva con il premier Matteo Renzi: «ma lui tramite il fratello che è al parlamento europeo ha dei contatti fortissimi con Renzi e quindi riesce a bloccare cose che altri non ci arriverebbero, ma comunque... ! Speriamo che funzioni questo Sblocca Italia». Un cenno ai due fratelli Pittella, Gemelli lo avrebbe fatto, a distanza di qualche tempo, anche insieme alla propria compagna, il ministro Federica Guidi, quando avevano appreso da una talpa la notizia delle indagini in corso da parte della procura di Potenza che potevano in qualche modo interessare pure Gemelli proprio in relazione ai lavori che aveva ottenuto in Basilicata.

“Potenza, ecco come funziona il sistema degli affari petroliferi”. Il pm Woodcock fu il primo ad avviare le inchieste sul “Totalgate”. La maledizione in Basilicata è: tante indagini, poche condanne, scrive Guido Ruotolo il 4 aprile 2016 su "La Stampa". L’ultimo caso sulle estrazioni petrolifere, che ha visto indagato anche il compagno della ministra Guidi, incrocia la “maledizione di Potenza”, dove si sono fatte tante indagini ma si celebrano pochi processi. Sono tornate telecamere e microfoni. E il bivacco di giornalisti da oggi affollerà di nuovo il palazzo di giustizia. Come ai vecchi tempi di Henry John Woodcock, il pm anglonapoletano famoso per le sue retate «eccellenti», dal fotografo di gossip Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele (di) Savoia. Proprio lui, Woodcock, con tre diverse inchieste (2001,2004,2008) accese i riflettori su quelli che negli atti giudiziari venivano definiti «gli affari petroliferi». Impressionante il sistema di corruzione già scoperto quindici anni fa dal pm che poi traslocò alla Procura di Napoli. Va subito detto che la maledizione di Potenza è che si fanno le indagini ma non si celebrano i processi. I dibattimenti delle prime due inchieste sugli «affari petroliferi» infatti sono stati sospesi con la sopraggiunta prescrizione. Per la terza, il “Totalgate”, è iniziato il processo di primo grado. Finora sono cambiati per tre volte i collegi giudicanti per cui il dibattimento è stato azzerato per due volte. Anzi ha rischiato di dover ripartire da zero un’altra volta per gli stretti rapporti - pare di natura sentimentale - intrecciati dai due giudici a latere. Comunque prima dell’estate anche “Totalgate” è destinato alla prescrizione. Dunque nel 2008 il gip di Potenza ha accolto le richieste di arresto anche dell’amministratore delegato di «Total Italia», Lionel Lehva. E la stessa “Total” fu affidata in gestione commissariale a Piero Sagona, storico consulente della Banca d’Italia. Quasi un anno senza illeciti e violazioni del Codice penale, dall’aprile 2009 al febbraio 2010. Poi, a leggere le cronache giudiziarie di questi giorni, si è tornati, per dirla con il gip di Potenza, «a pratiche antiche e accettate». Per Woodcock, gli affidamenti degli appalti da parte del colosso petrolifero francese erano «pilotati e predefiniti negli esiti dai protagonisti del “comitato d’affari” costituito, appunto, dal manageament di “Total Italia”, da imprenditori, da pubblici ufficiali, politici e faccendieri, “istituzionalmente” deputati a mediare un numero indeterminato di transazioni illecite». Rileggendo gli atti delle tre inchieste colpiscono alcuni elementi che si ritrovano nelle diverse indagini. Il punto di partenza è riassunto da Woodcock: «La corruzione e la collusione tra potere economico, potere politico e frange deviate di istituzioni dello Stato - persino i Vigili del fuoco, ndr - costituiscono il modus operandi ordinario nel settore degli appalti delle opere pubbliche. Il flusso di denaro pubblico rappresenta l’occasione di corruzione e di arricchimento illecito a favore di imprenditori senza scrupoli, faccendieri e funzionari pubblici corrotti». Ma questo sistema di corruzione ambientale è solo della Basilicata? Colpisce che in ogni inchiesta sono coinvolte politici e funzionari pubblici, un’amministrazione comunale, una impresa locale. Prendiamo appunto l’inchiesta “Totalgate”. Al centro delle indagini del pm Woodcock c’erano tre appalti: due per la fornitura del trattamento e dello smaltimento dei fanghi di perforazione; un appalto per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa. Bene, quelle gare furono truccate. Il 20 dicembre del 007 si precipita a Potenza l’amministratore delegato di Total, Lionel Lehva, per «pianificare la sostituzione delle buste contenenti le offerte»: «Quando si arriva - registrano le cimici degli investigatori - a far vincere Ferrara (l’imprenditore prescelto, ndr), è vinta». Sempre Lehva detta le incombenze da assolvere: «La busta D, dì che la cambino.... Ok?». L’impresa Ferrara, secondo l’intesa con i francesi, «deve sottoscrivere un contratto di cinque anni di fornitura di olii lubrificanti e carburanti per 15 milioni di euro. E Total si impegna a far vincere la gara per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa all’Associazione temporanea di imprese “Ferrara” «sostituendo fraudolentemente le buste contenenti le offerte presentate e depositate alterando i verbali di gara». Colpisce che tra gli attuali indagati di Potenza vi sia anche Roberta Angelini, responsabile Sicurezza e Salute dell’Eni di Viggiano. Colpisce perché fu arrestata per corruzione dal pm Woodcock nella inchiesta «Oro nero» del 2004. Arrestata per corruzione, ma il processo è stato prescritto. E, dunque, per l’Eni dirigente da promuovere. Infatti era una specialista in autorizzazioni e relazioni pubbliche del distretto di Ortona, nel 2004, quando imponeva alle ditte contrattiste l’assunzione di certo personale su indicazione del sindaco di Calvello.  

Tempa Rossa, fino a 7 anni di carcere per i vertici Total. Il processo si riferisce all'inchiesta condotta nel 2008 dall'ex pm Woodcock, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 aprile 2016. Il Tribunale di Potenza ha condannato in tutto nove persone - imputate a vario titolo per corruzione, concussione e turbativa d’asta per l’esproprio dei terreni e i lavori di realizzazione del Centro oli di «Tempa Rossa» - nell’ambito del processo allora chiamato «Totalgate», per pene che complessivamente ammontano a 47 anni e sei mesi di reclusione. In particolare, sono stati condannati l’ex ad di Total Italia Lionel Lehva (tre anni e sei mesi di reclusione) e l’ex manager della Total Jean Paul Juguet (tre anni e sei mesi), due ex dirigenti locali della Total, Roberto Francini e Roberto Pasi (sette anni di reclusione ciascuno), l’imprenditore Francesco Rocco Ferrara (sette anni di reclusione), l’ex sindaco di Gorgoglione (Matera) Ignazio Tornetta (sette anni), l’ingegnere Roberto Giliberti e il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Corleto Perticara (Potenza) Michele Schiavello (cinque anni ciascuno), e l’imprenditore Nicola Rocco Donnoli (due anni e sei mesi). Per Lehva e Juguet è stata disposta l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, mentre per Pasi, Francini, Ferrara, Tornetta, Schiavello e Giliberti l’interdizione è perpetua. Per 18 imputati è stata disposta l’assoluzione. Nel dispositivo il giudice, Aldo Gubitosi, ha inoltre disposto la restituzione al pm degli atti relativi alle posizioni di Total, Sogesa e Impresa Ferrara «per nuove valutazioni». Il pm, Veronica Calcagno, aveva chiesto pene per un totale di circa 90 anni di reclusione. La vicenda si riferisce a un’inchiesta condotta nel 2008 dal pm Henry John Woodcock - ora in servizio a Napoli - sulla realizzazione del Centro oli di "Tempa Rossa», in particolare per le procedure di esproprio dei terreni che avrebbero poi dovuto ospitare la struttura, e la concessione degli appalti per i lavori. Il Comune di Corleto Perticara (Potenza) è stato condannato in solido «quale responsabile civile» al risarcimento dei danni alla parte civile (con Schiavello, Pasi, Francini e Giliberti). «Non posso che esprimere la mia più viva soddisfazione per un verdetto che conferma la bontà dell’impianto accusatorio da me costruito grazie al lavoro di un gruppo affiatato di ragazzi della polizia giudiziaria (la squadra mobile e la polizia municipale di Potenza e i carabinieri del Noe del capitano Ultimo) che hanno collaborato con me». Così il pm Della Dda di Napoli Henry John Woodcock commenta l’esito del processo a Potenza scaturito dall’inchiesta Tempa Rossa, coordinata negli anni scorsi dal magistrato quando era sostituto alla procura del capoluogo lucano.

Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo». Scontro con la minoranza. M5S presenta la mozione di sfiducia, scrive Alessandro Trocino su "Il Corriere della Sera” il 4 aprile 2016. «Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza». Conclude così la sua replica Matteo Renzi, a una direzione del Partito democratico più nervosa del previsto e che, dopo i duri attacchi della minoranza, approva la relazione del segretario con 98 voti favorevoli e 13 contrari. Renzi rivendica lo sblocco del progetto Tempa Rossa, che è costato le dimissioni del ministro Federica Guidi e sul quale c’è un’inchiesta della magistratura: «Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». Parole che arrivano qualche minuto dopo che il ministro Maria Elena Boschi, in un ufficio decentrato di Palazzo Chigi, è stata sentita dai magistrati come persona informata dei fatti. E pochi minuti prima della condanna degli ex vertici della Total per turbativa d’asta e corruzione nella vicenda Tempa Rossa. Renzi difende appassionatamente l’operato del governo: «Noi schiavi delle lobby? Ma le multinazionali oggi creano 1,2 milioni di occupati, il 14% del Pil e il 25 dell’export». Le inchieste: «Noi non siamo come gli altri. Se qualcuno ruba, si proceda e si metta in galera». E rivendica la diversità anche su altro: «Non farò più di due mandati. Fuori di qui ci sono due nemici: populismo e demagogia». Renzi deve subire il duro attacco di Gianni Cuperlo: «Matteo, penso che tu sia profondamente onesto. Ma non ti stai mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo». E ancora: «Sento il peso di stare in questo partito». Il governo dovrà fare fronte anche alla mozione unitaria presentata dal centrodestra e a quella del Movimento 5 Stelle. Che recita: «L’inchiesta petrolio svela l’operato di un articolato e consolidato comitato d’affari».

Inchiesta Petroli in Basilicata, quello che sappiamo. Dai nomi dei personaggi coinvolti fino alle ipotesi di reato: una guida per capire l'indagine che sta facendo tremare il governo Renzi, scrive il 4 aprile 2016 "Panorama".

Quali sono le conseguenze politiche? Dopo che è caduta la testa del ministro Federica Guidi, Maria Elena Boschi, 35 anni, è finita nel mirino delle opposizioni e sarà interrogata dagli inquirenti. Le chiederanno con ogni probabilità se era conoscenza del legame tra il ministro e l’imprenditore indagato e se sapesse della convenienza che questa ne avrebbe ricavato dallo sbloccamento dell’operazione Tempa Rossa della Total. Il ministro Boschi ha non solo per ora negato di sapere chi fosse l'imprenditore siracusano che sollecitava l'introduzione dell'emendamento che avrebbe consentito alla sua azienda di aggiudicarsi alcuni appalti milionari, ma ha difeso la ratio del provvedimento: «Conosco molto bene il provvedimento, atteso dal 1989. Era ed è sacrosanto. Se poi il compagno della Guidi o chiunque altro ha violato la legge è giusto che ne risponda. Noi abbiamo semplicemente fatto la cosa giusta per l’Italia». Sono già state presentate due mozioni di sfiducia al governo: una dei Cinque Stelle e un’altra di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. L’indagine della Procura di Potenza che ha provocato le dimissioni del ministro Guidi, nota come Scandalo Petroli, fotografa un quadro politico inquietante. Un affresco, secondo l'accusa, costruito attorno agli interessi lobbistici e ai perversi intrecci tra la politica e i vertici industriali dell'Eni e della Total, all'interno di un sistema clientelare del quale i soggetti-chiave erano non solo i dirigenti dei colossi petroliferi, ma anche uomini delle amministrazioni locali e del governo centrale che avrebbero dovuto vigilare, nonché ditte appaltatrici che avrebbero goduto di trattamenti di favore. Partita dai carabinieri del NCO che stavano indagando su un traffico di rifiuti tossici prodotti negli stabilimenti petroliferi in Basilicata, l'inchiesta muove da un'ipotesi: che i rifiuti liquidi prodotti dall’attività estrattiva degli impianti petroliferi presenti in Basilicata venissero sistematicamente classificati come non pericolosi e dunque versati nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, al fine di abbattere i costi di smaltimento. Con ovvie ricadute sull'ambiente e sulla qualità della vita della cittadinanza. E con la complicità interessata di uomini della Politica.

Quali sono le ipotesi di reato? L’ipotesi di reato, in generale, è quello di disastro ambientale, una fattispecie specifica introdotta nella nuova legislazione del maggio 2015 che prevede dai 5 ai 15 anni di carcere per chi se ne renda responsabile. Il disastro ambientale viene definito dal codice penale come «l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo». Ma ci sono altre ipotesi di reato, perché attorno al reato principale - il disastro ambientale - si muovevano ditte appaltatrici e pezzi di politica locale e regionale, in un quadro corruttivo e apparentemente privo di controlli adeguati. 

In quali filoni è composta l'inchiesta? Il primo, affidato ai carabinieri del Noe, riguarda l'impianto Eni di Viggiano, operativo in Basilicata, che secondo l'accusa - e con la complicità degli organismi di controllo e della politica nazionale e locale - avrebbe continuato a sversare nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, i suoi rifiuti tossici, sforando anche sistematicamente sui limiti delle emissioni previste per legge. Il secondo filone di indagine, seguito dalla squadra mobile della Polizia di Stato, ha al centro l'iter che ha portato all'autorizzazione del giacimento Tempa Rossa della Total, nell'alta valle del Sauro, sempre in Basilicata, e che secondo i giudici avrebbe dato il via a un sistema oliato di corruzione e tangenti per l'assegnazione degli appalti e dei subappalti in relazione alla costruzione e ai lavori dell'impianto.   Il terzo filone riguarda il porto di Augusta, attorno all'ipotesi di traffico di influenze e traffico illecito di rifiuti, all'interno di una più vasta associazione a delinquere alla quale facevano parte, secondo la procura, il capo di Stato maggiore della marina Giuseppe De Giorgi, il compagno dell'ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, per il quale la procura potrebbe chiedere l'arresto, il capo ufficio bilancio della Difesa e consulente del ministero per lo Sviluppo Economico, Valter Pastena, e il facilitatore-lobbista Nicola Colicchi.

Che cosa ha portato alle dimissioni del ministro Guidi? In una telefonata intercettata il 13 dicembre 2014 il ministro Guidi rassicura il compagno che un emendamento alla Legge di stabilità sbloccherà l’operazione Tempa Rossa, sottolineando anche il voto favorevole di Maria Elena Boschi, cui era interessato lo stesso Gianluca Gemelli, 42 anni, commissario di Confindustria siracusana e noto imprenditore edile siciliano, nonché compagno del ministro dello Sviluppo.

Perché è coinvolto anche il sindaco di Corleto Perticara? La Procura di Potenza ha dedicato a Rosaria Vicino, Pd, 62 anni, 800 pagine di ordinanza di custodia cautelare e 13 capi di accusa, tra cui corruzione, peculato e voto di scambio. Dalle intercettazioni emergerebbero pressioni per far assumere il figlio all’Eni e quali fornitori utilizzare. Ma il sindaco – stando ad alcune telefonate intercettate -  si sarebbe mosso anche per raccomandare altre personaggi e far loro avere gli appalti necessari alla prosecuzione dei lavori dell'impianto Tempa Rossa di Corleto Perticara, la cittadina di cui era sindaco. È coinvolto nell'inchiesta, secondo l'intercettazione, anche il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo che - per i servigi resi - «avrebbe a sua volta ricevuto dall'Eni un hotel a Milano».

Quali possono essere le conseguenze economiche della vicenda? Dopo l'apertura dell'inchiesta, che ha svelato un sistema ben oliato di corruzione e omessi controlli, l'Eni ha deciso di sospendere le estrazioni del petrolio in Basilicata, in particolare in Val D’Agra dove si estraggono 75 mila barili al giorno e dove c'è il giacimento di Viggiano, il più importante d’Europa dopo quelli russi. Anche i dipendenti coinvolti nell’inchiesta sono stati sospesi.

Un dossier anonimo contro l’ammiraglio De Giorgi: “Ecco tutte le spese pazze”. Inchiesta di Potenza, spuntano documenti sul capo di stato maggiore della Marina: «Festini e scambi di interessi con il fidanzato della ministra Guidi», scrive Grazia Longo il 12 aprile 2016 su “La Stampa”. La stagione dei veleni è appena cominciata. Non si sono ancora placate le polemiche per il dossier contro il ministro Graziano Delrio, che ne spunta fuori un altro. Stavolta nel mirino c’è il capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, al centro del filone siciliano dell’inchiesta sulle estrazioni petrolifere in Basilicata. È probabile che di questo dossier si discuta venerdì alla Procura di Roma nell’incontro previsto fra il procuratore Pignatone e il collega di Potenza Luigi Gay quando verrà affrontato anche il dossier che riguarda il ministro. Questa tranche in particolare verrà trasferita a Roma, mentre si stanno ancora valutando eventuali altri passaggi. Contro di lui c’è un dossier anonimo che è stato consegnato alla procura di Potenza, alla presidenza del Consiglio e al ministero della Difesa. Documenti, allegati, che contestano l’operato e le spese folli dell’alto ufficiale della Marina, in pole position, fino a poco prima dello scandalo, per diventare il nuovo capo della Protezione civile. Festini e spese pazze sono denunciate dalla gola profonda che accusa De Giorgi. Si legge ad esempio dei «festini da lui organizzati da comandante a bordo della nave Vittorio Veneto... con tanto di trasferimento a mezzo elicottero, di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da comandante della nave Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati a un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco». Grande amante del lusso, secondo il dossier, l’ammiraglio fece spendere 42 milioni di euro per rifare l’area delle cabine degli ufficiali della nave Bergamini, dopo una visita a Fincantieri. Nell’inchiesta di Potenza - il procuratore Luigi Gay, l’aggiunto Francesco Basentini, la pm Laura Triassi e Elisabetta Pugliese della Dna - l’ammiraglio è accusato di abuso d’ufficio. Il sospetto è che ci sia stato uno scambio di «interessi» tra lui e il fidanzato dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi. L’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli - anche in questo caso indagato per traffico d’influenza illecita, proprio per aver speso la posizione dell’ex ministra - avrebbe avuto il suo tornaconto grazie alla costruzione di un pontile per lo stoccaggio del petrolio. In cambio avrebbe speso la posizione della Guidi per uno stanziamento del ministero delle Finanze. Più in particolare, si trattava di gestire spese per 5,4 miliardi di euro: il progetto del rimodernamento dell’intera flotta italiana, inserito nella cosiddetta legge navale. Nelle pagine del dossier anonimo (che come tale va preso con tutte le cautele), viene rappresentato un capo di stato maggiore che folleggiava a champagne, intimoriva i sottoposti, i quali solo per paura non ne denunciavano l’atteggiamento. Fango e menzogne contro l’ammiraglio? La sua carriera militare è senza macchia. Venerdì mattina, intanto, verrà interrogato in procura a Potenza in merito all’accusa di abuso d’ufficio. Inevitabilmente, anche se non c’entra con le indagini, l’attenzione ricadrà sul dossier e sulla sua immagine in sella al cavallo bianco. La gola profonda sostiene di essere un militare della Marina che preferisce restare anonimo per paura: «Non ho il coraggio di venire allo scoperto perché ho già abbondantemente pagato per non essermi piegato alle richieste del capo di Stato maggiore». De Giorgi, secondo quanto stigmatizzato nel dossier, volle spendere cifre da capogiro per il quadrato e le cabine degli ufficiali. Ben 42 milioni e 986.000 euro che l’ammiraglio «cercò di coprire con un auto investimento da parte di Fincantieri che invece non aveva alcuna intenzione di finanziare neanche parzialmente e quindi si spesero decine di milioni del contribuente». C’è poi un altro importante business nel campo dei mezzi navali per attività di spionaggio e che fa parte del rinnovamento della flotta navale per oltre 5 miliardi all’attenzione della procura di Potenza: «la produzione di unità sottili stealth ad altissima velocità, con scafi e strutture di carbonio trattato con l’applicazione delle nanotecnologie». De Giorgi ci teneva tantissimo, al punto che «propose con una lettera al capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli, chiedendogli l’approvazione a firmare una convenzione con la società As Aeronautical». È quanto riportato in una lettera del 30 novembre 2013, allegata al dossier. La gola profonda denuncia che «l’Aeronautical Service tecnicamente non esiste e non dispone di apparecchiature, né di maestranze all’altezza. Il suo responsabile, ingegner Bordignon, millanta coperture illustri come De Giorgi e Valter Pastena». Proprio quel Pastena, consulente dell’ex ministra Guidi, anche lui indagato a Potenza. Per quanto concerne invece i party con i soldi pubblici, l’anonimo racconta: «Famosi sono stati i festini organizzati dal comandante a bordo della Vittorio Veneto in navigazione, con tanto di trasferimento a mezzo elicottero di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da Comandante della Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati ad un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco appositamente noleggiato. Tutti sapevano e tutti, per paura delle sue vendette, tacevano circa l’uso improprio che l’ammiraglio, una volta diventato capo delle Forze Aeree della Marina, faceva degli elicotteri e soprattutto del velivolo Falcon 20 che in versione Vip lo trasportava continuamente come in un taxi, spesso in allegra compagnia da una parte all’altra dell’Italia, per l’esaudimento di interessi personali ma a spese del contribuente».

AMM.DE GIORGI: CALUNNIE, QUERELO STAMPA Tweet 12 aprile 2016 22.17. "I fatti riportati sui giornali e nei servizi televisivi, attribuiti alla mia persona, sono del tutto infondati e ledono l'onore ed il decoro del sottoscritto. Sentito il mio avvocato, non ho potuto esimermi, per la mia posizione pubblica, dal querelare gli autori". Così in una nota il capo di stato maggiore della Marina, De Giorgi, sul dossier anonimo nei suoi confronti. "La cosa mi amareggia, per il mio ben noto rispetto verso gli organi di stampa e verso la libertà di informazione. Auspico l'individuazione dei calunniatori".

“Coprì le carte sui marò”: ecco le nuove accuse nel dossier su De Giorgi. L’anonimo insinua: tangenti per appalti milionari e feste allegre. La difesa dell’ammiraglio annuncio un contro esposto per individuare la gola profonda: “Solo fantasiose illazioni”. Spregiudicato al punto di «ripulire le carte che avrebbero danneggiato l’ammiraglio Binelli nell’inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone». «Arrogante e dittatore» verso i colleghi che non si piegavano al suo volere, tanto da esasperare un collega fino al suicidio. Malignità e attacchi gratuiti? È impietosa la ricostruzione dello stile disinvolto del capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, fornita dal dossier anon...continua Grazia Longo.

Nuove ombre su De Giorgi: ​"Ha coperto le carte sui marò". La mano dell'Ammiraglio De Giorgi avrebbe ripulito le carte che incastravano il collega Binelli sulla responsabilità che portarono alla consegna dei marò Latorre e Girone alle autorità indiane, scrive Gabriele Bertocchi, Mercoledì 13/04/2016, su "Il Giornale". "Solo fantasiose illazioni" così la difesa De Giorgi cerca di annegare le accuse contro l'ammiraglio. Ma tra i festini, le allegre signorine e gli elicotteri usati a suo piacimento viene a galla anche un retroscena che coinvolge i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Nel dossier anonimo spedito, tra gli altri, alle procure di Roma e Potenza, il Capo di Stato Maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi viene descritto come un dittatore, arrogante e spregiudicato a tal punto di "ripulire le carte che avrebbero danneggiato l'ammiraglio Binelli nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone". Un retroscena, riportato da La Stampa, che viene fuori dal progetto per i finanziamenti della flotta navale. Una situazione a cui l'ammiraglio dovrà rispondere dopodomani davanti ai pm di Potenza che lo hanno indagato per abuso di ufficio nel filone dell'inchiesta al Porto di Augusta. La gola profonda che ha steso il dossier scrive, a proposito dei finanziamenti, "in Marina è nota come la tangente De Giorgi-Passarella". Quest'ultimo è il dirigente pensionato della Ragioneria dello Stato piazzato al Mise come consulente dell'ex fidanzato di Federica Guidi, Gianluca Gemelli. L'anonimo inoltre rivela che "i toni delle critiche in seno allo stato maggiore della difesa erano talmente alti - Aeronautica ed Esercito avevamo maldigerito ammodernamento della flotta - che l'Ammiraglio Binelli, pur riconoscente nei confronti di De Giorgi per avergli ripulito molte carte che lo avrebbero danneggiato nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei marò Latorre e Girolamo, si affrancò dall'impresa suggerendo a De Giorgi di evitare di andare oltre". Nonostante le dettagliate accuse la Marina bolla i "fatti contenuti nel dossier come inesistenti".

Scoppia il caso sulle caprette di De Giorgi. "Noi, zimbelli della Nato". Le caprette tosaerba all'Arsenale militare di Venezia. Animali che brucano per risparmiare sui giardinieri. Svelata un'altra stravaganza del militare ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina. E i colleghi francesi, inglesi e spagnoli emettono sarcastici belati se si trovano in missione con un marinaio italiano, scrive Fabio Tonacci il 13 aprile 2016 su “La Repubblica”. "I marinai fanno “beee...”. Grazie alle caprette tibetane di Giuseppe De Giorgi, i nostri militari della Marina sono diventati lo zimbello della Nato. Perché l'idea di sostituire i giardinieri di alcune basi con delle capre, magari ha pure una sua ragione ecologista. E magari fa risparmiare qualche spicciolo sulla manutenzione dei prati. Ma il punto è che da un anno a questa parte, i colleghi francesi, inglesi e spagnoli sfottono senza pietà, emettendo dei dolorosi e sarcastici belati appena si trovano in missione con un marinaio italiano. Ora, questa storia delle caprette inserite nell'organico dell'Arsenale militare di Venezia (tre capre alpine), nella stazione aeromobili di Marina di Grottaglie e in una base a Cagliari (una trentina in tutto, di specie tibetana), rientra nel ventaglio delle stravaganze a cui De Giorgi ha abituato i suoi sottoposti, ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina nel dicembre 2012. E paragonata alle accuse che gli vengono ora rivolte dai pubblici ministeri di Potenza (abuso di ufficio e traffico di influenze per il porto di Augusta) e da un esposto anonimo su presunte commesse milionarie poco chiare della Marina, qui siamo nel campo del colore. Ma fino a un certo punto. Perché le povere caprette sono diventate un problema serio. Sporcano, ovviamente. Hanno bisogno delle cure dei veterinari, ovviamente. E non rispettano le consegne del codice militare, ovviamente, per cui una di queste è rimasta incinta, altre vagano nelle basi in cerca di cibo. Costringendo i marinai a fare i pastori. Era stato il Fatto Quotidiano, ad ottobre scorso, a raccontare la loro presenza nelle caserme. Tutto era nato da una battuta, che battuta non era, pronunciata da De Giorgi durante alcune visite ufficiali alle basi. A chi gli faceva notare l'erba alta causata dalla mancanza di fondi per pagare i giardinieri, il capo di Stato Maggiore rispose: “Metteteci delle capre, che sono anche ecologiche”. Così un sottoufficiale dell'arsenale di Venezia preposto alla salute, con 22 anni di servizio alle spalle, racconta a Repubblica quello che successe dopo la visita di De Giorgi: “Ci siamo visti recapitare tre caprette nell'agosto scorso, forse donate da qualche allevatore veneto. C'erano una decina di marinai nell'Arsenale in quel momento, e alcuni di loro si sono dovuti occupare della gestione degli animali. Oltretutto, erano state vaccinate? Erano capi registrati all'ufficio sanitario? E c'era un ordine di servizio per cui ci dovevamo mettere a spalare il letame? Cosa fare nel caso di decesso, visto che ci potrebbero essere rischi di brucellosi? Nessuno mi dava risposte, e allora mi sono permesso di scrivere al mio superiore osservando che le capre starebbero molto meglio in libertà sulle Dolomiti. Risultato? Tre giorni di rigore e procedimento disciplinare. Ora sono in attesa di trasferimento”. Le caprette di De Giorgi sono intoccabili, come le vacche in India. “L'ultima volta che sono andato all'Arsenale per alcune pratiche amministrative – dice il sottoufficiale – ne ho viste due, diverse rispetto alle prime che abbiamo avuto”.

Nell'imbarazzo generale, la questione è arrivata anche in Parlamento, grazie all'interrogazione rivolta al ministero della Difesa dall'onorevole di Sel Donatella Duranti. E' questa è la risposta del sottosegretario Domenico Rossi: “E' vero, in alcune basi sono presenti capre di tipo alpino o misto tibetano oggetto di donazione, nonché alcuni daini prelevati dalla tenuta di San Rossore. In virtù delle loro abitudini alimentari, esse si nutrono di erba contribuendo in tal modo a tenere sotto controllo la crescita della vegetazione, anche in funzione antincendio. Sono ospitati in ampie, dedicate e circoscritte aree verdi all’interno delle quali sono garantite adeguate coperture e ricoveri per preservarli dalle intemperie, dalle piogge e dai rigori termici. Sono stati regolarmente vaccinati ed è stato richiesto il rilascio del codice di identificazione, come previsto dalla normativa vigente. Possono essere considerati, a buon titolo, delle vere e proprie «mascotte». Adesso basta solo spiegarlo ai marinai francesi. 

MAFIA, PALAZZI E POTERE. Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.

Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avereinfluenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votinoe gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta i retroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.

Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..

Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?

V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…

L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?

V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.

L: Eh certo! (ride)

V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…

L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…

Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.

Questo è il sistema per la nomina dei funzionari pubblici?

Burocrazia, Aforismi e citazioni.

“Burocrazia, ovvero un gigantesco meccanismo azionato da pigmei”. Honoré de Balzac

“Non c’è furia all’inferno che eguagli la rabbia di un burocrate disprezzato”. Milton Friedman

“I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza e il loro orgoglio risiedono nella lealtà verso le regole, non già nella lealtà verso le leggi del cuore umano”. Frich  Fromm

“I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata. . . .”. Franz  Kafka

“Quando il mondo verrà distrutto non sarà ad opera dei pazzi, ma dagli esperti e dai burocrati”. John Le Carré

“Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati”. Herbert  Marcuse

“La burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale è lo spiritualismo dello Stato”. Karl Marx

“La burocrazia tende a diventare una pedantocrazia”. John Stuart  Mill

“Ciò che la gente rifiuta non è la burocrazia come tale, quanto piuttosto l’intrusione di essa in tutte le sfere della vita e delle attività umane”. Ludwig von Mises

“I burocrati sono una malattia. Si suppone che siano necessari, così come si suppone che siano necessarie alla vita certe sostanze chimiche, ma provocano la morte se crescono oltre un certo limite”. Ezra Pound

 “Burocrazia. . . . una difficoltà  per  ogni  soluzione”. Herbert Samuel

“Burocrazia, ovvero l’incapacità addestrata”. Thorstein Veblen

“La burocrazia è tra le strutture sociali più difficili da distruggere”. Max Weber

Burocrati..Dal francese “BUREAUCRATE”, impiegati, funzionari della pubblica amministrazione  che esercitano  le mansioni  con eccesivo  scrupolo . Per estensione, chi è formalista, gretto e rigido, nato soltanto per fare il Burocrate. 〈〈 La vera Casta è rappresentata dagli alti burocrati di Stato, che sopravvivono ai ministri e ai governi mantenendo intatto il loro potere per anni luce…〉〉

5 pareri sui burocrati:

Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile. (Carlo Dossi)

I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza  e il loro orgoglio  risiedono  nella lealtà  verso  le regole, non già  nella  lealtà  verso  le leggi  del cuore umano. (Erich Fromm)

Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati. (Herbert Marcuse)

Non c’è furia all’inferno che uguagli la rabbia di un burocrate disprezzato. (Milton Friedman)

I burocrati sono numerosi come i granelli di sabbia in riva al mare. Con la differenza che la sabbia non prende  lo stipendio. (Ephaim Kishon)

Burocrazia "stalker": la musicista, il barista e il contadino, quelle vite in ostaggio. C'è chi perde il lavoro per una carta bollata e chi deve spostare una maniglia. La semplificazione resta un miraggio, scrive Michele Serra il 20 marzo 2016 su “La Repubblica”. Ognuno ha la sua goccia che fa traboccare il vaso. Per me la goccia è stato il riscatto dell'automobile che avevo preso in leasing: otto (otto!) i documenti richiesti, da spedire per raccomandata, per ribadire che io sono io a chi già mi ha come fedele cliente da cinque anni e di me sa tutto, a cominciare dall'Iban. Per la mia amica musicista la goccia è stata un lavoro saltato in aria perché il Registro provinciale di Qualcosa non aveva mai trasmesso non so quale fondamentale pratica al competente Registro regionale ("Non farmelo spiegare, ti prego: sono esausta"). Per il mio amico barista l'intimazione della Asl di spostare di dieci centimetri (!!) una maniglia non a norma, pena la mancata agibilità del locale. Per il mio amico agricoltore il disperato sforzo di pagare poche ore di lavoro stagionale con i voucher, che dovrebbero essere moneta corrente e sono invece buro-denaro riscuotibile solo dopo code agli sportelli, telefonate ai call center, decifrazione di clausole, scadenze, modifiche di legge...Se c'è una parola che incarna gli inganni della politica (e l'impotenza della politica) questa parola è semplificazione. Una parola-beffa di fronte alla costante lievitazione dei faldoni, delle incombenze, delle compilazioni, degli iter, delle fotocopie, dei solleciti, delle intimazioni, degli ostacoli imprevisti, di quelli prevedibili, dei ritardi, dei rinvii. La supposta transustanziazione elettronica della massa cartacea non ha avuto luogo; e anzi la burocrazia elettronica (avete mai provato a compilare una Fepa, fattura elettronica per la pubblica amministrazione?) spesso si somma a quella tradizionale, è una promessa di liberazione che si rivela un nuovo vincolo, per giunta non facile da padroneggiare ("Per me è come essere obbligato a imparare una lingua straniera a sessant'anni suonati", parola di artigiano obbligato per legge a fornirsi di Pec, posta elettronica certificata). Non so se sia mai stato calcolato quanto costa alla comunità, in termini di ore di lavoro, mattinate perse, giornate scialate alla ricerca di un bandolo, il vero e proprio stalking burocratico al quale siamo sottoposti. Ne sono certo, si tratta di miliardi di euro. E altri miliardi di euro (e migliaia di posti di lavoro) si perdono con la rinuncia di molti aspiranti imprenditori a fronteggiare la montagna orrenda delle adempienze burocratiche: una salita che non ha mai fine, quando credi di essere arrivato in cima la vetta si allontana, conosco chi, pur di farla finita, ha mollato tutto. "Non è solo fatica - mi dice un'amica ex imprenditrice - è proprio umiliazione. È come se qualcuno volesse punirti per avere osato alzare la testa e aprire bottega". "Umiliazione" non è una parola che si usa con leggerezza. Non appartiene alla sfera delle convenienze economiche, del daffare tecnico-amministrativo, della prassi sociale ordinaria. Appartiene alla sensibilità profonda, alla dignità personale, appartiene all'io. Parla di adulti che si sentono trattati come bambini, rimbrottati per una marca da bollo mancante, multati per un abbaino chiuso invece che aperto o viceversa, costretti per qualunque allacciamento o contratto di servizio ad allegare, confermare, dimostrare, comprovare, rispedire, leggere contatori, rileggerli perché i contatori sono pieni di numeri e codici, chissà quali sono quelli giusti... I tagli di personale conducono a un crescente bisogno (delle aziende) di autocertificazione, ma l'autocertificazione è quasi sempre incompleta, da perfezionare e da rispedire. È come se un intero sistema (pubblico, ma anche privato) di vincoli e di accertamenti ricadesse sull'unico soggetto che non è in grado di sottrarsi: il cittadino, il cliente, che si ritrova a essere esattore di se stesso, certificatore dei consumi, lettore di contatori, dichiaratore di redditi, ascoltatore di musichette di attesa, per giunta continuamente sottoposto a un rischio di errore che ricade sempre e solo su di lui. Gli esami non finiscono mai. L'esempio macroscopico e arcinoto è l'impossibilità di presentare la dichiarazione dei redditi senza l'ausilio di un professionista, augurandosi che almeno lui sappia orientarsi nella foresta delle leggi (e successive modifiche). Molte delle quali "da interpretare", sperando che l'interpretazione non sia contestata innescando un nuovo diluvio di raccomandate, ingiunzioni, ricorsi, un nuovo fronte burocratico che si aggiunge ai cento già aperti. Ma ci sono poi decine di micro-esempi, di minute incombenze, di reiterate richieste che compongono una specie di fitta nube perennemente sospesa sulle nostre giornate. Lo stalking burocratico è fatto soprattutto di questa sensazione: che nessuna pratica sia mai veramente chiusa, che il dover certificare ci accompagnerà alla morte e anche oltre. Ricevo ancora oggi una bolletta intestata a mio padre, che è morto nel 2002. Ho pregato di correggere il nome del destinatario, che è stato così aggiornato: Franco Serra, presso Michele Serra. Mi tiene compagnia. Non è per l'esborso di denaro (anche se quello, specie se non si hanno le spalle forti, conta eccome). È soprattutto per il tempo. Il tempo della vita (della nostra vita) che ci urge, ci appartiene, e invece viene sequestrato da code, telefonate, consultazioni, ricerche su internet, compilazioni, richieste di accesso. E i pin, e le password, un mazzo di chiavi virtuali che si ingrossa giorno dopo giorno. Tempo rubato al lavoro e dunque alla produzione di reddito e di idee. Oppure all'ozio, al riposo, al far niente, che sono anch'essi un diritto della persona libera. E non sembri, la liberazione del tempo dalla prigionia burocratica, solamente una rivendicazione "filosofica". Ha anche profonda rilevanza economica. C'è un "nero" di puro malaffare, di sottrazione alla comunità di quanto le è dovuto. Ma c'è un "nero" di pura semplificazione (semplificazione dal basso, visto che dall'alto non ce n'è traccia), che discende dall'enorme difficoltà di stare dentro la regola. Se pagare a qualcuno poche ore di lavoro "in chiaro" comporta non solamente pratiche e contropratiche, ma addirittura l'obbligo di frequentare un corso sulla sicurezza (indipendentemente dal fatto che il lavoratore sia in cima a un'impalcatura, in fondo a un pozzo oppure seduto in ufficio davanti al suo computer), la tentazione di allungargli tre o quattrocento euro brevi manu è inevitabile. Molta economia sommersa (chissà in quale percentuale: ma non piccola) non discende dalla disonestà, ma dall'esasperazione per i troppi ostacoli lungo il cammino che conduce all'onestà. Se l'onestà diventa un campo minato, c'è chi decide di tenersene alla larga. Quanti onesti potenziali sarebbero recuperabili alla causa, in presenza di un vero processo di semplificazione delle leggi e della burocrazia? Per buttarla in politica: sappiamo tutti che le regole devono esserci, e spesso le regole sono seccature. Ma se le regole sono poche e chiare ci si adegua, e chi non si adegua è un fuorilegge e basta. Se invece le regole sono milioni, e incerte, e per essere rispettate chiedono di essere decifrate, risolte come un rebus, affrontate come un esercito nemico, e mettersi in regola diventa un traguardo continuamente spostato in avanti, allora il gioco cambia. E anche a un legalitario/statalista come me a volte capita, di notte, quando non riesco a prendere sonno perché temo di avere compilato male un modulo, o di essere in mora con un ente di bonifica, di guardare con occhi sognanti quei documentari sulle famiglie pazzoidi che fuggono in Alaska, nel profondo delle foreste, là dove non esiste catasto e non esiste anagrafe. Costruiscono una capanna di tronchi e vivono di pesca e di caccia, spariti al mondo e restituiti al mondo.

Regolamento edilizio, una Babele. Più facile scrivere la Costituzione. Nulla di fatto dopo 21 mesi, per approvare la Carta ne bastarono 18. I ritardi nell’elaborazione del testo, previsto dalla legge Sblocca Italia sulla semplificazione, che dovrebbe unificare le norme in uso in ciascuno degli 8 mila Comuni italiani, scrive Sergio Rizzo il 26 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Dice tutto, a proposito della deriva imboccata dalla burocrazia made in Italy, un paragone. In 18 mesi, settant’anni fa, abbiamo fatto la Costituzione; in 21, oggi, non siamo in grado di scrivere nemmeno un regolamento edilizio uguale per tutti i Comuni italiani. Altri tempi, certo. Ma anche altra classe dirigente. La Carta costituzionale fu scritta dall’Assemblea costituente, che con tempi contingentati e una volontà di ferro riuscì a superare barriere ideologiche apparentemente insormontabili. La redazione del regolamento edilizio unico, previsto dalla legge Sblocca Italia, è invece affidata a un pool di burocrati tanto eterogenei quanto litigiosi, e siamo adesso appena all’elenco delle cosiddette «definizioni uniformi». Per capirci: si sono messi finalmente d’accordo sulle parole, convenendo che il «sottotetto» è «lo spazio compreso tra l’intradosso della copertura dell’edificio e l’estradosso del solaio del piano sottostante». Oppure che un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» si identifica con il termine «veranda». E non è stata una passeggiata. Sul concetto di superficie, per esempio, la Regione Lombardia ha piantato una grana tale che alla fine di definizioni ne sono venute fuori ben sei: superficie lorda, totale, complessiva, utile, calpestabile e accessoria. Dove, per avere un’idea dell’imbuto in cui i burocrati incaricati di semplificare si sono infilati, la differenza fra «totale» e «complessiva», parole che a prima vista sembrerebbero indicare la stessa cosa, è che la seconda è la somma della superficie «utile» (differente da quella «calpestabile», ovvio) più il 60 per cento di quella «accessoria». Il regolamento edilizio unico comunale, previsto dalla cosiddetta legge Sblocca Italia approvata dal Parlamento l’11 novembre 2014, potrebbe rappresentare un’autentica rivoluzione mettendo fine una volta per tutte al dedalo incredibile di norme locali in un Paese dove ognuno degli oltre ottomila Comuni ha proprie regole per stabilire come si tirano sui muri, quanto può essere grande una stanza da letto o un cortile, come si deve calcolare la grandezza di un ambiente. Con prescrizioni surreali. A Lamezia le porcilaie non possono essere costruite a meno di 30 metri dalle abitazioni. A Catanzaro è obbligatorio depositare le tinte in cantiere prima della verniciatura per consentire la verifica della rispondenza al progetto. A Bologna tollerano un’eccedenza costruttiva del 2 per cento rispetto al progetto; a Pescara del 3 per cento: a Lucca quattro centimetri per lunghezze da otto centimetri a due metri; a Firenze 10 centimetri rispetto alla scala 1:100. A Fiumicino è possibile fare i cortili solo nei condomini non popolari. Mentre a Piacenza è tassativo prevedere uno spazio di 30 metri quadrati per i giochi dei bambini ogni nove alloggi... Ventuno mesi, dicevamo, ci sono voluti solo per stabilire come chiamare le cose. Ora si è arrivati all’intesa sulle definizioni, che fa «auspicare» alla ministra della Semplificazione e della Pubblica amministrazione Marianna Madia «che lo schema tipo» del regolamento edilizio «si concluda rapidamente». Auguri. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, come dimostra il caso surreale delle sei definizioni di superficie, è d’obbligo incrociare le dita. Non sfugge affatto la complessità della questione. Né che non si può evitare, in casi come questi, di ascoltare tutte le campane. Il problema però è di fondo: ogni volta che si vuole fare una riforma si commette sempre il medesimo errore. Quello di farla fare ai burocrati. Perché affidare a loro il compito di riformare se stessi è come chiedere al tacchino di organizzare il pranzo di Natale. Ogni semplificazione vera toglie inevitabilmente a una burocrazia congegnata come la nostra (malissimo) un pezzetto di potere: il rischio è dunque che le semplificazioni non procedano o che dietro una semplificazione si nasconda in realtà una nuova complicazione. Tanto più vero, questo, se la riforma riguarda temi sui quali si intrecciano competenze di più burocrazie. In questo caso specifico le burocrazie statali, regionali e comunali. Un delirio di interessi contrapposti ben rappresentati nel pool incaricato di sciogliere i nodi del regolamento edilizio unico. Il bello è che tutto questo meccanismo infernale rientra nell’agenda governativa battezzata, pensate un po’, «Italia Semplice». Gli ottimisti che l’hanno congegnato hanno scritto nel sito ufficiale che doveva essere tutto finito «entro novembre 2015».

La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili 21 mag 2014 di Paolo Bracalini (Autore). C'è il ristoratore multato per aver servito troppi spaghetti. Ci sono le 118 procedure da compilare per legge se si vuole aprire un'attività da estetista. C'è la famigerata "tassa sull'ombra", dovuta allo Stato per l'ombra che le tende dei negozi proiettano sul suolo pubblico, e la dichiarazione "peli di foca" per chi esporta un prodotto. C'è Equitalia con il suo "aggio", l'interesse praticato sulle temibili cartelle esattoriali, e le sue vittime. E poi l'Agenzia delle entrate con i premi per chi tartassa di più (spesso a torto). Ogni anno la burocrazia italiana costa 31 miliardi di euro: due punti di Pil persi in scartoffie e pratiche inutili. Si può dire che tutto manchi all'Italia, tranne le regole. Al contrario, i proverbiali lacci e lacciuoli, il groviglio di leggi - statali, regionali, provinciali, comunali - è così intricato che la giungla normativa italiana non ha paragoni in Europa e contribuisce all'indebolimento dei diritti dei "sudditi". I "mandarini", invece, comandano nell'ombra, con un potere enorme: nei ministeri, nella Ragioneria di Stato, nelle segrete stanze del Tesoro e del Quirinale, ma anche nei Tar che paralizzano il Paese. Paolo Bracalini ci guida nel mastodontico intreccio della burocrazia italiana con un'inchiesta che è anche un pugno allo stomaco: storie vere, testimonianze, documenti, cifre e resoconti di una follia tutta nostrana... Prefazione di Edward N. Luttwak.

Libri, la Repubblica dei Mandarini: lo Stato non siamo noi, scrive Giacomo Zucco il 3 giugno 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. “Lo Stato siamo noi? No, sono loro!”. Queste sono le prime parole che ho potuto leggere aprendo il nuovo libro di Paolo Bracalini, “La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell’Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili”. E per un teapartysta è come un invito a nozze. Da quattro anni, ormai, andiamo ripetendo che lo Stato è altro da noi, perché se fossimo davvero noi, citando un amico, allora di certo ci tratteremmo meglio (pensateci: se noi fossimo lo Stato non ci ammazzeremmo a colpi di tasse, non ci complicheremmo la vita con tutta questa burocrazia, non faremmo di tutto per far fallire le nostre aziende, non ci metteremmo Equitalia alle calcagna)! Se a ciò aggiungiamo che nella prefazione il professor Luttwak cita direttamente i nostri cugini americani, riconoscendo i meriti delle loro battaglie, ecco che questo libro-inchiesta si va a posizionare automaticamente nella biblioteca degli attivisti del movimento. Scrive Luttwak (forse con un piccolo eccesso di ottimismo verso l’attuale situazione politica ed economica americana) che “il movimento dei Tea Party ha giocato un ruolo fondamentale in Usa permettendo di raggiungere un livello di crescita, superiore a quello italiano del 250%, con relativo crollo della disoccupazione, semplicemente tagliando la spesa pubblica. Democratici e repubblicani hanno fatto proprie le idee del Tea Party: se si licenziano 100 dipendenti pubblici e si tagliano le tasse, con il risparmio la disoccupazione non aumenta di 100, ma diminuisce di 300”. E conclude: “Il libro di Bracalini non è mera protesta. Offre l’unica soluzione possibile: tagliare lo Stato”. Ad ufficializzare questa vicinanza tra il libro e le idee del movimento, Tea Party Italia a partire dal 20 giugno inizierà un tour di presentazione del libro in diverse città della penisola (similmente a quanto già fatto con il precedente best seller di Bracalini: “Partiti S.p.a.”), in compagnia dell’autore e di Nicolò Petrali, un giovane e bravo giornalista che ha collaborato alla stesura dell’opera. Non vorrei comunque si pensasse che “La repubblica dei mandarini” sia una lettura consigliabile solo per chi ha delle idee simili alle nostre. Anzi, oserei dire che è proprio il contrario. Un antistatalista convinto, infatti, può solo “divertirsi” a vedere come, pagina dopo pagina e di capitolo in capitolo, le sue idee di partenza vengono confermate. Può scoprire nuovi dettagli e curiosità con un sorriso amaro stampato sul volto, crogiolandosi comunque in quello che è il suo habitat naturale. Al contrario, proprio gli statalisti (ovvero coloro che costituiscono purtroppo la gran parte della società italiana) potrebbero ricavare il miglior beneficio dall’approccio a questo libro. Perché per una volta ascolterebbero una musica diversa dal solito e una voce fuori dal coro. Il mio “consiglio alla lettura” si rivolge allora soprattutto a questi ultimi: se davvero siete così superstiziosi da credere che “lo Stato siamo noi”, che “se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero meno”, che “se l’Italia è in difficoltà è colpa dell’evasione fiscale”, affrettatevi a leggerlo: potreste scoprire qualcosa.

BENVENUTI NELLA REPUBBLICA DEI MANDARINI - NEL NOSTRO PAESE LA VERA CASTA E' RAPPRESENTATA DAI BUROCRATI. E' PER QUESTO CHE E' ARDUO SE NON IMPOSSIBILE CAMBIARE VERAMENTE LE COSE IN ITALIA. Come racconta Bracalini, Bassanini, presidente della Cdp, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione verso le imprese private. Ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto…Testo tratto dal libro di Paolo Bracalini, giornalista del Giornale, "La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili" (Marsilio, 198 pagine, 14 euro), in libreria da pochi giorni. Da "il Foglio". Ispettorato generale del bilancio della Ragioneria dello Stato. Mai sentito nominare? Probabilmente no. Eppure è l'ufficio che governa la spesa pubblica italiana, un enorme centro di potere al riparo da sguardi indiscreti, nella penombra in cui ama stare la grande burocrazia italiana, quel "mandarinato" pubblico che è il vero governo occulto del paese.  "Ho fatto quattro volte il ministro e qualsiasi cosa tu possa scrivere per denunciare quanto contano queste persone sarà sempre una parte infinitesimale della realtà. Lo stato sono loro e la Repubblica è appesa alle loro decisioni", racconta Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture, parlando dei superburocrati che decidono tutto nei ministeri. "Nel 2001 nominai capo di gabinetto ai Lavori pubblici un professore, Paolo Togni, e la Corte dei conti rifiutò di registrarlo perché, dissero, non aveva i titoli. Chiesi allora che titoli servissero. Muta risposta. Ma nel silenzio fecero pressioni su Palazzo Chigi per far nominare uno dei loro: un magistrato contabile o uno del Consiglio di Stato o uno del Tar". Ci volle un mese perché Togni fosse messo nelle condizioni di ricoprire l'incarico. Ma non sempre si vince il braccio di ferro con la burocrazia ministeriale, più spesso sono loro a trionfare. "Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia", spiega l'economista Francesco Giavazzi. "Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l'interesse a mantenerlo". Giavazzi ha imputato alla scelta di mantenere al loro posto, "quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri", il vero motivo dell'insuccesso di Mario Monti nel taglio alla spesa pubblica. Ma il professore ricorda come questo problema sia una costante per i ministri. Anche quelli più lontani dall'apparato burocratico pubblico finiscono inevitabilmente per sbatterci la testa. Successe a Giancarlo Pagliarini, primo ministro delle Finanze della Lega Nord, nel 1994. Un marziano a Roma, un fiscalista del Nord che mai aveva avuto a che fare con quel mondo. Al suo primo giorno di lavoro Pagliarini si trovò di fronte un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile: "Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno". Inutile dire chi, tra la Ragioneria e Pagliarini, ha vinto la battaglia. L'ex ministro del Bilancio leghista ricorda perfettamente l'enorme potere di interdizione della burocrazia ministeriale. "Prendiamo come esempio la legge più importante che approva il governo", spiega Pagliarini, "e cioè la legge finanziaria. Negli ultimi anni la legge finanziaria è sempre passata con il maxiemendamento. Bene, il Parlamento lo approva di fatto senza averlo letto. Ma non l'ha letto perché non è scritto. Sì, ci sono dei punti generali, ma poi sono i burocrati che lo scrivono due o tre mesi dopo l'approvazione. E quindi come si fa a sapere come lo scrivono? In sostanza il testo che tu approvi, magari come ministro, quindi anche con delle responsabilità importanti, non lo leggi nemmeno perché non c'è, non esiste ancora". E a proposito delle sorprese che i burocrati possono riservare nell'implementare una legge, ecco che Pagliarini ci porta un esempio davvero sconcertante. "Quando si parla di burocrazia amo raccontare la storia dei Giochi del Mediterraneo di Bari. Ecco come è andata: il giorno prima del Consiglio dei ministri va in scena il preconsiglio dei ministri. Al preconsiglio ci vanno i vari capi di gabinetto che discutono e poi tornano dal ministro e gli riferiscono i risultati dell'incontro. Quindi vengono da me e mi dicono che ci sarebbero queste venti leggi da approvare e che mi consigliano di farlo poiché ci sono dei problemi da approfondire l'indomani. Il problema principale è che la destra vorrebbe 5 miliardi di lire per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari. Al che mi dicono che è inutile far casino per 5 miliardi, anche perché, se il ministro si dovesse impuntare su ogni singola voce di spesa, non se la caverebbe più e che quindi sarebbe consigliato concederglieli. Il giorno dopo la prassi vuole che si approvino le voci non problematiche, si leggano solo i titoli e si approvino. C'è una cartellina con i documenti, ma di solito non si guarda mai. Bene, io quel giorno per curiosità la guardo e cosa scopro? Una cosa incredibile! Mi avevano detto 5 miliardi, ma qualcuno di notte aveva aggiunto uno zero ed erano diventati 50! E la frase non era più... "per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari", ma... "per consentire l'inizio dei Giochi del Mediterraneo di Bari". Io di queste cose ho le fotocopie a casa. Così funziona la burocrazia. E i giochi di Bari, dovete moltiplicarli per mille. Qualcuno negli uffici, a livello amministrativo cambia le carte in tavola! Loro sono consapevoli che nemmeno il Padre Eterno riuscirebbe a leggere sempre tutta la documentazione e se ne approfittano. Sanno che il linguaggio burocratico lo capiscono solo loro e che il politico è sostanzialmente obbligato ad approvare anche per via di pressioni esterne. Perché, per esempio, a me dicevano che bisognava approvare entro una certa scadenza sennò scattava l'esercizio provvisorio". Un po' più ottimista è invece Adriano Teso, sottosegretario del ministero del Lavoro e della previdenza sociale nel 1994. Uno che, con il ruolo che aveva, di magagne burocratiche ne ha viste parecchie. "Hai il potere di cambiare tutto", ha spiegato Teso, "se porti in Parlamento politici di una certa pasta. Ci vuole etica e capacità. Certo che se parti con politici con etica e capacità discutibili, il risultato è scarso. Pensate che io avevo addirittura portato nel mio gabinetto una mia persona per controllare i testi di legge perché capita che i tuoi dirigenti ti preparino delle leggi diverse rispetto a quelle che tu dicevi che dovevano essere fatte. E vi assicuro che sono degli artisti in questo, con il loro linguaggio criptico (come da decreto, rinviato al, la legge del... ecc.). E se un giorno ti impunti e dici di non voler firmare più niente e che vuoi vedere le carte, ti arrivano carrelli di roba alti un metro e mezzo per leggi anche di una pagina. Secondo me", prosegue, "esistono due aspetti di questa burocrazia deleteria. Uno che parte dal legislativo, perché hai un'infinità di leggi che poi, per gestirle e implementarle, ti portano per forza a un eccesso di burocrazia. Non per niente nel nostro paese c'è un eccesso legislativo. Abbiamo un impianto legislativo senza paragoni nel mondo. Poi c'è la parte organizzativa della burocrazia e quello è un processo interno dei burocrati. In più c'è anche un discorso di buona fede. Perché spesso la burocrazia non è allineata con gli obiettivi della legge, ma con obiettivi propri". A detta di Sabino Cassese, invece, il sabotaggio burocratico è una prassi. "Ricordo che Andreotti si portò come capo di gabinetto a Palazzo Chigi l'ex ragioniere generale Milazzo, e non c'è dubbio che Milazzo avesse un potere enorme", racconta Cassese intervistato da Andrea Cangini sul "Quotidiano Nazionale". "Persino Stammati, ministro del Tesoro ed ex ragioniere a sua volta, faticava a farsi ascoltare. Il fenomeno del sabotaggio burocratico è stato ampiamente studiato, accade quando le burocrazie si sostituiscono al potere politico e decidono cosa fare e quando farlo. Ricordo il caso di un noto capo di gabinetto contrario a certi cambiamenti nell'amministrazione previsti da una legge appena varata. Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge. L'Italia è caratterizzata dal fatto che i governi o durano poco, o hanno una scarsa coesione e una modesta capacità di leadership, o entrambe le cose contemporaneamente. Tutto ciò, unito all'incultura e all'inesperienza di certi ministri, fa sì che si formino sacche di amministrazione che vanno in direzione diversa da quella voluta dalla politica". La precarietà dei ministri, in confronto all'eternità dei burocrati, rende questi ultimi spesso molto più potenti dei politici, trattati con sufficienza dai mandarini di Stato che sanno di essere più forti. L'oscurità e la complessità delle leggi, invece, è fatta apposta per perpetuare il potere della casta burocratica. "I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili", dice a Cangini un ex ministro che vuole restare anonimo. Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti, la cassaforte finanziaria del paese, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione italiana verso le imprese private, ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto. La soluzione era una semplice cartolarizzazione: i debiti, garantiti dallo Stato, vengono trasferiti dalle imprese alle banche, che liquidano immediatamente le imprese immettendo così miliardi nell'economia. Poi lo Stato garantisce, attraverso la Cassa depositi e prestiti, che le banche vengano rimborsate dalla Pa, con un piano di rientro distribuito in un arco di più anni. "Le banche italiane avrebbero comprato volentieri i 90 miliardi di euro di debiti garantiti dallo Stato", racconta Bassanini, intervistato da Alan Friedman. "Sarebbe stata un'operazione virtuosa che immetteva in un colpo solo 60-70 miliardi nell'economia italiana e dava benzina all'economia, senza incidere sul deficit neanche dello zero per cento". Le imprese verrebbero pagate subito (dalle banche), lo Stato potrebbe ripagare i debiti nel tempo, mentre le banche avrebbero la convenienza di poter compensare i propri crediti con le imprese. Tutti contenti, dunque. La Spagna lo ha fatto e ha funzionato, nel Parlamento italiano, poi, c'era la maggioranza pronta a votare il piano Bassanini. E allora, come mai non si è fatto? "C'è stata una forte resistenza burocratica... In questo caso specifico la tesi (dei vertici del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato) era che l'Europa non ce lo avrebbe permesso. La burocrazia italiana, tanto più quando è preparata e forte, spesso usa l'Europa come pretesto per non fare le cose che non vuole si facciano. Ci sono diverse cose che servirebbero alla crescita del paese e che trovano resistenze non politiche ma burocratiche". La vera casta sono i burocrati. Per questo è arduo, se non impossibile, cambiare veramente, in Italia. Prova ne sia il documento di "passaggio di consegne" affidato dal ministro dell'Economia uscente, Fabrizio Saccomanni, a quello entrante, Pier Carlo Padoan. Ventisei fogli A3, meticolosamente annotati, che illustrano la bellezza di 465 fra decreti e regolamenti previsti dalle riforme dei governi Letta e Monti, ancora da attuare, alcuni fermi da due anni. Su quel macigno di leggi immobili i funzionari dei ministeri spesso specificano: "L'attuazione (del decreto per una piattaforma elettronica per i debiti Pa, ndr) presenta oggettive difficoltà attuative". "Per un altro decreto", scrive Fabrizio Forquet sul "Sole 24 Ore", "l'annotazione a uso interno è la fotografia dello stallo burocratico: "Sollecitata Rgs da Ulf, ufficio legislativo Finanze (nota 1418 del 10 febbraio). Il Dipto Finanze concorda con l'Ag. Entrate riguardo all'opportunità di abrogare la disposizione. Anche Rgs è d'accordo. Evidenziate dagli Uffici (Ag. Entrate, Dipto Finanze, Rgs) difficoltà applicative all'adozione del decreto. Opportuna abrogazione della disposizione"". Il responso, riportato nella colonna a fianco, è inesorabile: "Non attuabile". Il sigillo dell'alta burocrazia gattopardesca italiana: riscrivere tutto, perché nulla cambi. Chi comanda nei ministeri Ci racconta un ex ministro della Giustizia di lungo corso che preferisce restare anonimo: "La legge Bassanini che ha riformato la pubblica amministrazione divide nettamente la classe politica da quella amministrativa. Il ministro può soltanto dare gli indirizzi di natura generale e politica, tutto il resto lo fa l'amministrazione del suo ministero, al punto che ormai gli atti che firma il ministro sono quasi soltanto di natura formale, mentre quelli attuativi sono in mano all'amministrazione. Faccio un esempio. Un ministro non firmerà mai una gara d'appalto o un affidamento, queste pratiche competono tutte all'amministrazione. La conseguenza è che quando sei lì, ti trovi dentro un macchinone immenso, quello del tuo dicastero, e qui c'è già il primo problema. Lei pensi che al ministero della Giustizia avevo sotto di me 120 mila dipendenti, il ministro dell'Istruzione ne ha un milione... Con queste dimensioni significa che il ministero è diviso in una serie di dipartimenti che gestiscono realtà enormi, con molti capitoli di spesa e con i funzionari che fanno passare i soldi da una parte all'altra senza che il ministro possa controllare nulla. Come la storia degli esodati della Fornero. E' chiaro che le hanno dato delle cifre sbagliate i suoi funzionari... Un ministero è un macchinone gigantesco, il ministro non sa tutto, anzi spesso sa poco. Pensi che a me avevano messo una centrale di ascolto al ministero senza dirmi nulla. I funzionari tendono a ragionar così: tu fai il ministro, ma le cose importanti le decidiamo noi, i capi dipartimento. Una figura strapotente al ministero della Giustizia è il capo del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Gestisce un budget di 5 miliardi di euro su 7 totali del ministero, 50 mila poliziotti della penitenziaria. Immagini il potere che ha. Poi molto dipende anche dalla personalità dei vari ministri. Con un ministro debole i burocrati hanno uno spazio di intervento enorme... Naturalmente se sei esperto della materia puoi in qualche modo capire cosa sta succedendo nel tuo ministero. Bisogna stare molto attenti alle cifre che ti vengono date dall'apparato". Caso tipico è al ministero delle Infrastrutture. "Il nostro problema", ha spiegato al Fatto Quotidiano Alessandro Fusacchia, ex consigliere per la diplomazia economica alla Farnesina, "è fondamentalmente l'incertezza giuridica. Abbiamo migliaia di leggi e leggine che insistono sullo stesso argomento, per esempio il lavoro, e nessuno sa esattamente quali siano le regole. In questo modo nessuno si assume dei rischi e tutto diventa lentissimo". In questo caos acquista potere la casta dei giuristi di Stato, dei capi di gabinetto e degli uffici legislativi. "Stiamo parlando di circa 50 persone che controllano l'essenziale ", ha detto Fusacchia. la ragioneria (di Stato) ha sempre ragione Ma non ci sono soltanto i grandi boiardi dei ministeri: capi di gabinetto, capi di dipartimenti, esperti legislativi, consiglieri. Ci sono anche organismi terzi, composti da tecnici o da magistrati, che contano moltissimo sull'attuazione (e soprattutto sulla non attuazione) di riforme, leggi e decisioni politiche. Uno di questi è il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica. "I ministeri di spesa passano tutti dal Cipe. Le spese per l'edilizia scolastica, le infrastrutture, i fondi per l'industria, la banda larga, passa tutto da lì. E' composto dai ministri, ma anche dalla Ragioneria generale dello Stato che ha un enorme potere di veto. Se non vedono che dal punto di vista finanziario è tutto a posto, non ti danno il benestare. Se non c'è la famosa bollinatura, la bollinatura della Ragioneria, non passa niente. Allora non è più soltanto una questione tecnica, ma anche politica, perché se si decide che un'opera non va bene, non si farà mai. E capita spessissimo". Le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria a ogni provvedimento di spesa, "vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella "visione" politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte "politiche" diverse", racconta un ex ministro diessino che vuole restare anonimo. L'ha sperimentato sulla propria pelle l'ex senatore Mario Baldassarri, che da presidente della commissione finanze provò a metter mano a quella parte di spesa pubblica, per acquisto beni e servizi (40 miliardi l'anno), che fa capo alle grandi burocrazie ministeriali. L'emendamento non piaceva al capo del legislativo dell'economia e alla Ragioneria generale dello Stato, che non gli diede la "bollinatura". Lui andò avanti, finché alcuni compagni di partito gli dissero di aver ricevuto una telefonataccia da un importante direttore generale di ministero che consigliava di ritirare quell'emendamento. Baldassarri si infuriò, minacciò di chiamare l'autorità costituita e di denunciare il ragioniere generale dello Stato per "palesi falsi e giudizi politici". Ma alla fine tutto fu insabbiato.

Dio perdona, la burocrazia no. Le pratiche burocratiche richiedono 269 ore all'anno per impresa, con un costo complessivo di 31 miliardi. I costruttori attendono 231 giorni per un permesso edilizio. A Milano servono 23 autorizzazioni diverse per organizzare un evento. Viaggio nel girone infernale italico..., scrive Matteo Borghi su “L’Intraprendente”. Hyman Rickover, il pioniere della propulsione atomica navale, diceva che “se proprio devi peccare pecca contro Dio, non contro la burocrazia. Dio perdona, la burocrazia no”. Ed in effetti, a vedere alcuni casi, pare che il nostro ammiraglio non avesse torto. Emblematica è quella storia, che abbiamo raccontato tempo fa, di un signore che – per non aver versato un centesimo – si è visto recapitare una multa cinquemila volte più alta. La burocrazia non ammette ignoranza, sbadataggine, errore umano ma pretende inflessibile a ogni logica di buonsenso, il rispetto formale di passaggi che in molti casi sono quasi impossibili da attuare. Giusto per fare un esempio fino a pochi mesi fa ci volevano ben 23 autorizzazioni per creare un evento culturale a Milano. Che non vuol dire 23 fogli ma 23 (ven-ti-tré) procedure burocratiche autonome: una molte tanto ingente che lo stesso Comune ha ammesso che, qualche volta, qualcuno saltava qualche passaggio. Ed è drammatico pensare come le code burocratiche si allunghino sempre di più. Ancora più alto e dannoso è il costo della burocrazia per le imprese. Secondo il Centro Studi Impresa Lavoro le pratiche burocratiche richiedono 269 ore l’anno con un costo medio ad impresa di 7.559 euro. Secondo un calcolo della Cgia di Mestre alle imprese la burocrazia costa ogni anno 31 miliardi di euro, che portano la pressione fiscale complessiva a 248,8 miliardi. Insomma si tratta di un vero e proprio peso insostenibile, destinato a schiacciare sotto di sé qualsiasi ipotesi di ripresa. “Se teniamo conto – si chiedeva il compianto Giuseppe Bortolussi – che il carico fiscale sugli utili di una impresa italiana ha raggiunto il 68,6%, contro una media presente in Germania del 48,2%, c’è da chiedersi come facciano i nostri imprenditori a reggere ancora il confronto. Per questo bisogna dire basta ad un fisco opprimente e ad una burocrazia ottusa. Lavorare in queste condizioni costringe gli imprenditori italiani a trasformarsi quotidianamente in piccoli eroi: questo non deve più accadere”. Ne sanno qualcosa i numerosi costruttori che devono attendere, di media, 231 giorni (con un costo che può arrivare fino a 64 mila e 700 euro) per un permesso edilizio: in Germania bastano 97 giorni, 99 a Londra, 182 a Madrid dove però il costo medio per avere il via libera a costruire è di appena 12 mila euro, ovvero ben meno di un quinto dell’Italia. E ne sa ancora di più il patron di Esselunga Bernardo Caprotti che ha dovuto attendere dal 1971 al 2014 per costruire un supermercato in un terreno di sua proprietà a Firenze. Per 43 anni politici e burocrati si sono infatti opposti a qualsiasi ipotesi di costruzione del suo polo commerciale, accampando scuse che secondo alcuni nascondevano – in realtà – un sostegno indiretto all’avversaria Coop. Sì perché se c’è una caratteristica della burocrazia è l’asimmetria: pretende molto dagli noi, ma troppo poco da se stessa. Ci considera, più che come cittadini, come sudditi.

IL LEVIATANO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E BUROCRAZIA. IL BILANCIO DEVE ESSERE EQUILIBRATO, IL TESORO RIPIANATO, IL DEBITO PUBBLICO RIDOTTO, L’ARROGANZA DELLA BUROCRAZIA MODERATA E CONTROLLATA, E L’ASSISTENZA ALLE NAZIONI ESTERE TAGLIATA, PER FAR SÌ CHE ROMA NON VADA IN BANCAROTTA. CICERONE

Quanto sono ancora attuali le parole di Cicerone? Si continua ancora oggi a parlare di semplificazioni e ammodernamenti della burocrazia in Italia ed, anche se qualche passo avanti è stato fatto, è evidente che ancora molto ci sia da fare. Il problema è che per saper organizzare in modo efficace il “da farsi” e per assumere i giusti provvedimenti è in primo luogo necessario conoscere a fondo i meccanismi e la dinamica con la quale vengono elaborati ed emanati gli atti amministrativi che fanno capo ai tanti adempimenti burocratici. In pratica per incidere concretamente sulla macchina burocratica è fondamentale capire come funziona cosa che non mi risulta sia poi così diffusa. Si mettono così in moto processi di modifica di questo o quello spezzone di attività, ma se non si ha una vera visione d’insieme si rischia di aggiungere alle carenze già esistenti ulteriori danni. E non basta sbandierare il termine “digitalizzazione” per riuscire a smuovere apparati ormai vecchi e superati, modi di lavorare anacronistici, approcci ai problemi farraginosi e complicati, alla fine può anche succedere che riusciamo a digitalizzare tutta una branca di attività, ma poi siamo costretti a conservare negli uffici e negli archivi pubblici moli sempre crescenti di materiale cartaceo, perché le regole che sottostanno al processo di digitalizzazione che abbiamo creato sono talmente complicate ed incomprensibili che i nostri interlocutori non ci capiscono nulla, sbagliano, si perdono ed allora meglio far consegnare loro ancora tanta e tanta carta. Inoltre manca la connessione tra archivi e sistemi informativi che il più delle volte non sono in grado di dialogare tra di loro perché ciascun Ente ha scelto in autonomia senza considerare l’interconnessione dei sistemi, e si è venuta a determinare così una sorta di moderna babele telematica. Quante volte si assiste allo sbandieramento da parte del politico di turno del provvedimento risolutivo per la semplificazione amministrativa? Che fine fanno poi queste iniziative? Restano per lo più semplicemente lettera morta perché manca il decreto attuativo, manca la circolare interpretativa, una qualche sentenza ne inficia l’efficacia: il tutto si perde nelle nebbie di qualche Ministero preposto alla cosiddetta semplificazione …

MARX HA CONFUSO UNA DITTATURA DELLA GIUSTIZIA CON LA DITTATURA DEI BUROCRATI. HERBERT MARCUSE

Come scriveva Marcuse analizzando la filosofia di Marx si corre il rischio di creare una vera e propria “dittatura dei burocrati”, una dittatura ancor più pervasiva e invadente, ma soprattutto insidiosa perché nascondendosi dietro a moduli farraginosi e carta bollata in triplice copia costringe comunque l’individuo a sottostare alla sua potenza egemone. La “dittatura dei burocrati” risulterebbe così la dittatura più compiuta, si trasforma uno strumento amministrativo che dovrebbe servire alla parificazione degli individui di fronte allo Stato in uno strumento costrittivo dove i ceppi e le catene sono fatti di autorizzazioni, protocolli e commi. Per riuscire a modificare davvero le cose come si è già detto si richiederebbe innanzitutto una conoscenza approfondita di ciò che si intende modificare, ma la “macchina” della Pubblica Amministrazione è in realtà un moloch che pochissimi conoscono a fondo, ed inoltre è qualcosa che nel tempo si è talmente resa complicata da sortire l’effetto di “bloccare” e “paralizzare” a volte perfino chi ci lavora all’interno e che magari per primo avverte la necessità di un cambiamento davvero radicale. Così questo mastodonte in Italia incombe sulle nostre vite, per rendercele ogni giorno più difficili con qualche cavillo, o con qualche nuova regola, stare dietro a tutto, e questo secondo quanto affermano persone molto preparate in campo giuridico, diventa un’impresa che non ha mai termine e quel che è peggio che non consente neanche brevi momenti di pausa, una tregua per prendere come si dice almeno un po’ di fiato. Lo Stato Leviatano di Hobbes è tra noi, ci sovrasta ogni giorno, ci costringe forzosamente in fila, ci cataloga, si nutre del nostro tempo. La complessità del Leviatano lo rende intangibile all’azione del singolo cittadino che si trova ad essere in balia della “macchina” burocratica. Quante volte abbiamo la sensazione di essere assolutamente impotenti? C’è da chiedersi se tutta questa complessità è veramente indispensabile per garantire la legalità e la legittimità delle azioni, o è un modo per garantirsi una sorta di potere sui cittadini e quel che è peggio per favorire chi, e purtroppo le cronache di questi giorni ce ne hanno parlato a lungo, intende nascondere propri personali obiettivi e raggiungere finalità che vadano a proprio vantaggio e non certo della cittadinanza? Orwell in 1984 ci ha mostrato come Il Partito con la sua macchina statale persegua questa seconda finalità, siamo davvero sicuri di non vivere in una realtà del genere? Forse il Grande Fratello si è concretizzato non sottoforma di persona, ma di macchina statale impersonale? C’è quindi ancora molto da fare, la strada da percorrere è purtroppo ancora molto lunga, ma c’è poi davvero la volontà di cambiare le cose da parte di chi lo può fare? E l’apparato burocratico da parte sua è effettivamente disponibile a consentire questo cambiamento e a parteciparvi o, a sua volta, funge da freno per rallentare il tutto? Il problema è che la burocrazia è sempre più autoreferenziale in quanto lavora in prevalenza solo per giustificare se stessa. Ad esempio la P.A. non dovrebbe chiedere ai cittadini degli adempimenti che già potrebbe benissimo gestire in base alle informazioni di cui è già a conoscenza. Un caso emblematico è rappresentato in questi giorni da IMU e TASI, per le quali si chiedono calcoli complicati e compilazione di moduli quando i dati per i versamenti sono già in possesso dell’Agenzia delle Entrate. Mi chiedo perché se già altri paesi europei riescono a funzionare benissimo nel campo della Pubblica Amministrazione e potrebbero fornirci, in base alla strada da loro tracciata, degli spunti utilissimi, non si riesca neppure a cogliere questi stimoli e tutto in Italia debba essere sempre così ripetitivo e pesante. La Pubblica Amministrazione dovrebbe essere uno dei settori maggiormente gratificanti per quanti vi lavorano, perché nulla può essere più appagante dello svolgere un’attività sapendo che quello che si fa sarà utile, inciderà positivamente e migliorerà la vita dei cittadini. Invece in Italia pare essere una delle attività più frustranti per quanti vi operano ed anche una delle attività che “ingrigiscono” e fanno perdere entusiasmo ai lavoratori. Allora evidentemente c’è per forza molto da cambiare, e non basteranno riforme limitate ad alcuni spezzoni per riuscire a modificare in meglio il tutto. Deve radicalmente cambiare poi l’approccio che l’apparato pubblico ha con il cittadino, perché in un ufficio pubblico è davvero difficile non sentirsi a disagio, questo ancora di più se si è anziani, disabili, o se si è in possesso di pochi strumenti derivanti dall’istruzione scolastica. Il linguaggio usato da quanti vi lavorano è spesso poco semplice e comprensibile, se si chiedono delle spiegazioni la disponibilità a darla è molto scarsa e se comunque le spiegazioni vengono date lo si fa purtroppo spesso con atteggiamento di superiorità e fastidio nei confronti dell’interlocutore che si è macchiato della colpa di non aver capito. Per non parlare della quantità di moduli, prospetti, caselle ecc. che si è costretti a compilare per ottenere qualcosa che ci spetta ed a cui avremmo diritto di avere molto più semplicemente accesso. Non voglio che questo mio intervento venga letto però come un susseguirsi di lamentele, penso solo che se riusciamo a comprendere dove si enucleano le criticità forse, se sul serio vi sarà da parte di chi ci governerà la volontà di rimuoverle, potremo fare un passo avanti per superarle. Sarà basilare in questo chiedere un contributo da parte di quanti lavorano all’interno della Pubblica Amministrazione, ascoltarli, sentire da loro cosa li fa lavorare così con difficoltà, cosa li potrebbe motivare, perché, e questo sarà bene ribadirlo, in questo settore ci sono moltissime persone che pur con tante difficoltà lavorano bene, con competenza e professionalità, ed avendo ben presente quanto sia importante uno svolgimento pronto, puntuale, efficace, scrupoloso del lavoro per l’intera comunità. Certo la campagna denigratoria sul dipendente pubblico praticata da molti non ha aiutato a risolvere i problemi, semmai li ha ulteriormente complicati, sono questi problemi estremamente delicati, da affrontare con lucidità, lungimiranza, equità, ampiezza di vedute, dopo essersi spogliati di pregiudizi e luoghi comuni, e solo una buona dose di equilibrio potrà consentirci di fornire ai cittadini dei servizi rispondenti alle loro necessità. È legittimo immaginare una burocrazia al servizio del cittadino o siamo destinati a restare rinchiusi in questa prigione senza sbarre fatta di moduli e carta bollata?

OGNI RIVOLUZIONE EVAPORA, LASCIANDO DIETRO SOLO LA MELMA DI UNA NUOVA BUROCRAZIA. FRANZ KAFKA

Hanno ragione George Orwell e Franz Kafka quando ci mettono in guardia dalla possibilità di uscire dalle costrizioni derivanti della burocrazia al punto che qualsiasi rivoluzione comporterebbe solo la restaurazione sotto altre spoglie diverse del medesimo sistema? Matteo Montagner su “La Chiave di Sophia”.

Burocrazia, ecco l'arma letale della dittatura, scrive di Rino Cammilleri su “La Nuoiva Bussola Quotidiana”. Al tiranno dà fastidio la nobiltà, perché è da questo ceto intermedio tra il potere e il popolo che potrebbe venire l’insidia. Già nel Giappone cosidetto feudale (che col feudalesimo occidentale, però, ha niente da spartire) l’imperatore obbligava i nobili a risiedere sei mesi l’anno nella capitale, e a lasciarci i familiari sempre. In Europa, l’assolutismo regio finì col fare lo stesso e trasformò i nobili in cortigiani nullafacenti. «Lo Stato sono io». La frase del Re Sole è apocrifa, ma rende bene l’idea. Il centralismo però richiede burocrazia, parola non a caso di origine francese (bureau=ufficio) rimbalzata in tutte le lingue, dall’americana Fbi (Federal Bureau of Investigation) al russo Politburo. I giacobini insomma trovarono il lavoro già fatto dall’assolutismo regio, e bastò loro impadronirsi della sola testa per prendere tutto il corpo. Il centralismo facilita e, dunque, incoraggia, i golpe. Come quello bolscevico, che la Rivoluzione la fece, semmai, dopo. Il comunismo sovietico è crollato, sì, ma il giro mentale è rimasto. E oggi l’intero Occidente si divide tra quelli che vogliono sempre più Stato e quelli che non ne possono più. I primi, ovviamente, di Stato campano, perciò comandano. Gianluca Barbera sul Giornale dell’8 settembre ha ben sintetizzato il giacobinismo che nel Terzo Millennio ancor ci opprime: «Statalismo, assistenzialismo, proliferazione burocratica, clientelismo, fiscalità oppressiva, inamovibilità del pubblico impiego, onnipresenza dei sindacati, populismo, politicizzazione della giustizia, appiattimento sociale e professionale, vittimismo cronico, buonismo autolesionistico, cultura dell’odio e dell’invidia sociali». Metteteci anche nani&ballerine per la difesa propagandistica e c’è tutto. Ora, che il sistema sia irredimibile (hai voglia di “riforme”!) è testimoniato dal fatto di Roma, dove detto sistema cerca di correggere se stesso con una pezza non molto diversa dal buco. Cioè, con un ennesimo funzionario. Il prefetto Gabrielli, mandato a vedere come si possa rimediare alla situazione della Capitale, situazione che è un mix di corruzione e inefficienza, ha relazionato al suo superiore, il ministro dell’interno Alfano. Nella relazione, tra l’altro, si segnalano i burocrati, tra dirigenti e funzionari, da rimuovere con una certa urgenza. Ora la patata bollente passa alla politica, e perciò aspettiamoci qualche giro di poltrone (non di più). Ma il punto è che, anche volendo agire con logica e pugno di ferro (cioè, chi ha sbagliato paghi, chi non ha vigilato se ne vada, chi non ha saputo fare il suo mestiere si tolga dai piedi), l’eventuale licenziato fa subito ricorso al giudice del lavoro e questo in nove casi su dieci lo reintegra. Non solo. A volere agire come una normale azienda, la quale, quando i profitti crollano, si sbarazza del manager inadeguato, si rischia anche di più. Per restare nell’esempio romano, è lo stesso assessore ai Trasporti a far osservare che l’Atac, l’azienda di trasporto, semplicemente non ha i soldi per mandare a casa quelli che senza soldi l’hanno ridotta: dovrebbe pagare loro la buonuscita come da contratto, e sarebbero centinaia di migliaia di euro. Che l’Atac non ha. Sono le leggi sul lavoro, bellezza. Quelle italiane, almeno. Chi ha provato, non tanto a riformarle, ma solo a studiare una loro possibile modifica è finito sparato. Roma? Situazione disperata, ma non seria (titolo di un film del 1965 con Alec Guinness). Restando in loco, viene in mente l’antico aneddoto della vecchietta che, unica nella folla, augurava lunga vita a Nerone. Al quale la folla, invece, augurava morte e maledizione. Eh, era vecchia e di imperatori ne aveva visti tanti. E, ogni volta, il successivo si era rivelato peggiore del precedente. Morale: se il problema è intrinseco al sistema, cambiare le facce serve a poco. 

Tante leggi e poco cervello. La dittatura dei burocrati. Il caos dei balzelli sugli immobili è solo l’ultimo esempio. I ministri sono ostaggio di funzionari inamovibili che ci complicano la vita per ragioni di potere, scrive di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” il 10 gennaio 2014. Enrico Zanetti è un politico di primo pelo. Nel senso che fino a otto mesi fa non sedeva in Parlamento ma nel suo studio di commercialista a Venezia. Poi, non si sa perché, gli è venuta l’idea malsana di candidarsi alle elezioni politiche e dunque eccolo catapultato tra i banchi di Montecitorio con la maglietta di Scelta Civica, il partito non partito (nel senso che non è mai nato) di Mario Monti. Alla Camera dei deputati Zanetti riveste un compito di un certo prestigio: essendo un fiscalista l’hanno infatti nominato vicepresidente della Commissione finanze, quella che discute i provvedimenti sul fisco prima che vadano in aula. A Zanetti ho provato a chiedere come si esce del pasticcio Imu, Iuc, Tasi e Tari di cui ci occupiamo anche oggi in prima pagina. La risposta è stata la seguente: «Con le ultime elezioni abbiamo cambiato il 65 per cento dei parlamentari, ma se non cambiamo il 65 per cento dei dirigenti del ministero delle Finanze temo che non faremo molti passi avanti».  Può sembrare una battuta, ma non lo è.  Perché se è vero che Saccomanni come ministro dell’Economia è un disastro, è altrettanto certo che la catastrofe non è tutta farina del suo sacco: per riuscire a complicare così bene la vita degli italiani, qualcuno all’interno del suo dicastero deve avergli dato una mano. Essendo del mestiere, Zanetti alza il velo su una realtà che in pochi conoscono e cioè che i ministri vanno e vengono e i governi pure, ma i funzionari restano e sono quelli a decidere del nostro destino. Prendete il caso del prelievo forzoso sugli stipendi degli insegnanti: la Carrozza ha negato di essere a conoscenza della cosa, mentre Saccomanni si è limitato a dire che si trattava di un fatto tecnico. Dalle frasi si capiva che né l’uno né l’altro avevano la minima idea di come si fosse arrivati al taglio in busta paga, che evidentemente era opera delle retrovie ministeriali. Si può discutere sul ruolo di due tizi che non sanno neppure che cosa accade in casa loro e magari anche convenire sulla necessità di fare a meno di entrambi risparmiando i loro stipendi, ciò non toglie che fra i dirigenti dell’Istruzione e delle Finanze c’è chi usa le forbici senza collegare il cervello e soprattutto senza valutare che sta affettando la vita delle persone. Insomma, fino a che non apriamo il capitolo della burocrazia di questo Paese e non capiamo che dietro un ministro c’è un funzionario che è spesso peggio del suo capo non riusciremo a modificare nulla. Le chiavi del sistema non le ha in mano il politico ma le possiede chi sta lì da una vita e sa che ci starà anche dopo che il ministro se ne sarà andato. Sono loro che scrivono le leggi e suggeriscono le misure da adottare. E poi, fatta la legge, è il dirigente che predispone le norme attuative. E sempre alla struttura tecnica tocca il compito di predisporre le circolari interpretative. Eh già, perché noi siamo l’unico Paese dove per cambiare qualcosa non basta che il governo faccia un decreto e il Parlamento lo approvi. Né è sufficiente che Camera e Senato presentino un disegno di legge e successivamente lo votino. No, da noi serve la norma attuativa della legge, altrimenti - com’è successo per gran parte delle riforme varate da Mario Monti - è come se non esistesse. E poi, quando ci sono la legge e le norme attuative, urge la circolare interpretativa, perché la legge è così vaga, lacunosa e malfatta che un dirigente deve dire come la si interpreta. Di fatto il legislatore non è il politico, ma il burocrate.  È lui che detiene il potere. E più le norme sono scritte male e dunque da interpretare, più la discrezionalità del dirigente è ampia. Grazie a questo sistema abbiamo le leggi più incomprensibili del mondo. E sempre per via di tutto ciò abbiamo una legislazione ridondante, che nessuna semplificazione è riuscita a sfoltire.  E più si complica la vita dei cittadini con tasse, timbri, adempimenti, pasticci vari, più la corruzione e l’evasione avanzano, perché dove c’è discrezionalità c’è anche la possibilità di fare i furbi e di farla franca. Insomma, l’Imu, la Tasi, la Iuc, la Tari e tutte le altre tremende trappole disseminate sul nostro percorso, non nascono a caso ma servono al sistema per autoalimentarsi e per rendersi indispensabile e inestricabile. In altri Paesi l’evasione la corruzione non ci sono o ci sono di meno perché le leggi sono chiare e non consentono scappatoie. Pagare le tasse è semplice: il Comune a nome dello Stato ti manda a casa un bollettino e tu non devi fare altro che portarlo in banca e autorizzare il pagamento. La dichiarazione dei redditi è comprensibile a chiunque e per spiegarla non serve rivolgersi al Caf o compulsare testi da 700 pagine, bastano quattro paginette. Se dunque qualcuno vuole davvero ridurre le tasse e cambiare questo Paese, la prima cosa da fare è cambiare la legislazione fiscale e farne una nuova. Possibilmente non con gli stessi servitori dello Stato che prima hanno servito Padoa Schioppa e Visco, poi Tremonti, quindi Monti e infine Saccomanni. Se un politico va rottamato dopo due mandati, chi lo ha aiutato a fare danni come minimo merita la stessa sorte...

Siamo un popolo oppresso dalla dittatura della burocrazia. Così gli italiani sono oppressi dal dispotismo burocratico, scrive Piero Ostellino Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Che al governo ci sia il centrodestra ovvero il centrosinistra, l'effetto per il cittadino è sempre lo stesso: nuove tasse. Era stato Einaudi ad imporre che per ogni nuova legge ci fosse la copertura finanziaria. Il principio è corretto ma evidentemente qualcosa ne impedisce il buon funzionamento se il processo legislativo, che dovrebbe essere a carico della fiscalità generale a pagarlo è, immancabilmente, il contribuente con una tassazione supplementare... La verità (...)(...) è che lo Stato costa troppo rispetto a ciò che rende, perché pesa su di esso la burocrazia cui deve chiedere assistenza ad ogni proprio atto. Per cui, la soluzione dovrebbe essere una grande riforma della Pubblica amministrazione che elimini la presenza eccessiva della burocrazia dall'attività legislativa, che dovrebbe cadere sotto la fiscalità generale, e dalla vita del cittadino. Lo aveva capito Berlusconi, che si era ripromesso di ridurre la pressione fiscale, lo ha promesso Renzi senza che nessuno dei due abbia tenuto fede all'impegno preso perché il difetto sta nel manico. Vale a dire nello Stato moderno. Trecento anni fa, l'uomo si è liberato dal dispotismo del monarca assoluto, che decideva a propria discrezione della vita dei propri sudditi. Sulla base del principio democratico «nessuna tassazione senza rappresentanza politica» la sovranità è passata dal monarca al popolo. Ma il risultato è stato lo stesso: in nome del popolo sovrano, il rapporto tra cittadino e potere politico si è trasformato, il cittadino è ritornato suddito come era sotto il sovrano assoluto; la fiscalità è lo strumento con il quale il potere politico esercita il proprio dispotismo. In definitiva, solo una grande riforma della Pubblica amministrazione può liberare il cittadino dalla dittatura della burocrazia, che tiene sotto il proprio controllo anche la politica. La volontà generale di Rousseau - che avrebbe dovuto realizzare la massima democrazia - si è tradotta nel suo contrario con il risultato che il cittadino conta ancor meno di quanto contava di fronte al monarca assoluto.

Quando i burocrati sono veri mostri (anche nel fantasy). Da Guerre stellari alla saga di Harry Potter, i cattivi sono armati di scartoffie e codicilli. Proprio come a Bruxelles, scrive Vittorio Macioce su "Il Giornale”. La sera li trovi a Les Aviateurs, in Rue des Soeurs, non lontano dalla cattedrale di Notre Dame, a Strasburgo. Lo stile è anni '50 e loro si ritrovano in quel locale dove davvero le nazionalità sembrano azzerarsi con il sogno di lasciarsi alle spalle carte e regolamenti e affogare le illusioni in pinte di birra, in canzoni vintage e nella speranza di una notte d'amore da cancellare il giorno dopo. Qui, almeno tre volte al mese, si ritrovano parlamentari e apprendisti burocrati, precari di palazzo e lobbisti, segretarie e gli ultimi fantasmi del grande gioco. È Strasburgo ma vale ancora di più per Bruxelles. Qui e lì c'è il cuore e l'anima dell'Europa, il volto del superstato, l'odore profondo di questo impero tecnocratico costruito sulla divinità della moneta unica. Ma per capire davvero di cosa si tratta bisogna, di giorno, passare al numero uno dell'Avenue Robert Schuman e guardare quel palazzo, con la parte superiore che dà l'idea di qualcosa ancora non finito e l'interno che ti sembra di aver visto già da qualche parte. Sì, qualcosa che ha l'odore dell'utopia corrotta, di ideali andati a male. Poi capisci. Il Parlamento europeo con quella gente che cammina veloce, in divise grigie, dove le lingue si mischiano, ma l'ossessione è la stessa, con l'emiciclo enorme che sembra sospeso nello spazio e i traduttori che vomitano parole inutili, è il remake del senato di Star Wars. E a quel punto ti viene voglia di smascherare una volta per sempre il senatore Cos Palpatine. Perché lui sta lì, non ci sono dubbi. Nascosto sotto uno di quei volti, magari con accento tedesco o francese, con il sorriso bonario di chi sembra stare dalla tua parte, quando in realtà tutti sappiamo che quel politico sacerdote dei regolamenti e faccendiere non è altro che il capo dei Sith. È Darth Sidious. È il lato oscuro della forza. Allora ti sembra quasi di sentire quella frase che segna la fine di ogni libertà: «Nell'intento di garantire la sicurezza e una durevole stabilità, la Repubblica verrà riorganizzata, trasformandosi nel primo Impero Galattico! Per una società più salda e più sicura!». È così che si chiude la Vendetta dei Sith. È così che si arriva al Ritorno dello Jedi e alla sconfitta della «Morte nera». Per recuperare un grammo di speranza è necessario, però, ritornare a Les Aviateurs. E capire che quel luogo stretto e lungo, con un bancone che occupa mezzo locale e dove i burocrati mostrano il loro vero volto, è in realtà la Cantina di Chalmun, conosciuta anche semplicemente come Cantina di Mos Eisley, popolare taverna di Tatooine. È nel «quartiere vecchio» e qui affari di tutti i tipi vengono condotti nell'ombra. È qui che Luke Skywalker e Obi-Wan Kenobi ingaggiarono il contrabbandiere Han Solo e il suo compagno Chewbacca per essere trasportati ad Alderaan. Solo qui questo può avvenire, nel bar della notte, quando i burocrati si riscoprono umani e l'Europa assomiglia a quello che avrebbe dovuto essere, un lungo viaggio senza frontiere sui binari dell'Interrail. È qui allora il senso di quello che fantascienza, fantasy e romanzi distopici ci hanno tramandato. È metterci in guardia da tutto questo, da questa Europa, dalle cattedrali di scartoffie, dal potere senza controlli, dalla stabilità dettata dagli indici finanziari, dalle tasse come forma di razionalizzazione dell'impresa, dove non si premia il coraggio di rischiare, ma l'adesione ai parametri burocratici, dove ogni cosa deve essere regolamentata e codificata, dove la realtà è solo una ragnatela di misure e procedimenti standard, dall'esercito dei cloni dove l'umano è ridotto a media statistica. È qui allora che si realizzano tutte le paure dell'Occidente. E come diceva Yoda è la paura il miglior alleato della parte oscura. Perché è chiaro che noi stiamo accettando questa Europa solo per paura di fare i conti con l'incertezza. Tutti gli imperi in fondo servono a questo: ci tolgono la libertà con la promessa di cancellare le nostre paure. È tranquillizzarci sul fatto che Dio non gioca a dadi. Pensateci. Pensate alla saga della Rowling. Chi è il vero nemico di Harry Potter? La risposta immediata è Voldemort, colui che non si può nominare. Ma Voldemort ingabbia i suoi nemici sfruttando gli ostacoli che, in modo consapevole o ad insaputa, produce la burocrazia. È il ministero della magia il primo avversario di Harry. Non lo riconosce, non riesce a catalogarlo, lo vive come un outsider, un incosciente, un piantagrane, uno da fermare con leggi e regolamenti e pazienza se in questo modo si apre la strada al potere rassicurante, stabile, di Voldemort. Nel Trono di Spade dove comincia la tragedia degli Stark? È ad Approdo del re, nella capitale del Regno, dove non valgono più le regole del Nord, ma quelle della corte. E il pericolo più insidioso arriva dagli intrighi del tesoriere Ditocorto. È lì, all'incrocio dei Sette Regni, che la partita per il potere si riduce a una scelta binaria, on o off, acceso o spento, uno o zero. Nel gioco dei troni o si vince o si muore. Ed è il gioco che ha sempre fatto la Germania. E l'unica consolazione è che farlo con la moneta (i denari) è meno cruento e drammatico rispetto alle spade. Il guaio è che ci sono molti modi per spargere distruzione e cancellare il futuro. C'è perfino chi lo fa spacciando cattiva poesia. Mai sentito parlare dei Vogon? Certo, proprio loro, quelli di Guida galattica per autostoppisti. La loro poesia è al terzo posto tra quelle peggiori dell'universo e il suo ascolto può provocare gravi danni fisici e mentali. È di fatto uno strumento di tortura. «I Vogon sono una delle razze più sgradevoli della galassia; non sono cattivi ma insensibili burocrati zelanti con un pessimo carattere, sì. Non alzerebbero un dito per salvare la propria nonna dalla vorace bestia Bugblatteral di Traal senza un ordine in triplice copia spedito, ricevuto, verificato, smarrito, ritrovato, soggetto a inchiesta ufficiale, smarrito di nuovo ed infine sepolto nella torba per tre mesi e riciclato come cubetti accendifuoco». Sono tutti impiegati negli uffici della burocrazia galattica, un lavoro che permette loro di vivere una vita socialmente accettabile pur seminando distruzione nell'universo. Il loro motto? Resistere è inutile.

Burocrazia, dagli obblighi inutili alle troppe leggi: ogni anno sprecati 70 miliardi di euro. A Milano 393 alloggi popolari non possono essere assegnati perché misurano meno di 28,8 metri quadrati: è solo uno degli esempi dell’ottusità delle norme, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 16 novembre 2015. Quale intelligenza umana avrà mai stabilito che la superficie minima calpestabile per un alloggio dev’essere di 28,80 metri quadrati? Non giapponese, di sicuro: a Tokyo la dimensione media dei monolocali non supera i 16 metri quadrati. Non francese, garantito: almeno a giudicare dalle dimensioni di moltissimi appartamenti parigini. Ma lì è al potere la normalità, a differenza di qui. Infatti l’intelligenza che ha partorito quel calcolo è italiana. Magari proprio milanese visto che quel numeretto è contenuto in un regolamento della Regione Lombardia scritto quasi 12 anni fa. Una manifestazione di sopraffina ottusità burocratica, purtroppo non fine a se stessa. Tanto che sarebbe da chiedersi se l’autore di questo capolavoro (e i politici che l’hanno fatto passare) abbia mai pensato alle conseguenze della sua iniziativa. Le conseguenze sono queste: un alloggio popolare più piccolo di 28,80 metri quadrati calpestabili non può essere assegnato. Sapete quante ce ne sono nel solo Comune di Milano di queste case «sottosoglia»? Trecentonovantatrè. Mentre c’è gente che abita nei giardini e dorme sotto i portici. Gli architetti che stanno lavorando al «rammendo» del quartiere Giambellino e delle periferie ideato da Renzo Piano si scontrano anche con questa piccola follia di centinaia di alloggi inabitabili per decisione del suo stesso proprietario: lo Stato. Che quando ha costruito quel quartiere nel 1939, con tante case di 25 metri quadrati, non era ancora impazzito di burocrazia. Questa malattia scorre potente nelle vene della pubblica amministrazione, senza risparmiare nessuna parte del corpo. Dilaga dappertutto, a dispetto dei proclami di semplificazione, in un Paese nel quale 43.587 leggi regionali si sommano alle 150 mila leggi nazionali, e poi ai decreti attuativi, ai regolamenti, alle delibere, alle circolari emanate da corpi dello stato spesso l’uno contro l’altro. E i cittadini e le imprese nel mezzo. Capita allora, ricorda Federdistribuzione, che una Azienda sanitaria locale ritenga lecito conservare il pesce surgelato in buste di plastica traforate per evitare la formazione di condensa, mentre la Capitaneria di porto consideri la busta traforata alla stregua di un contenitore danneggiato, quindi inadatto agli alimenti. Il bello è che tutto questo non è gratis. Secondo Confindustria le follie burocratiche costano al Paese 70 miliardi l’anno. E come non sono gratis gli appartamenti «sottosoglia» del Giambellino o di Quarto Oggiaro che non possono essere assegnati ai senzatetto (e invece talvolta vengono abusivamente occupati) causa una regola demenziale, così non lo sono nemmeno certi apparenti risparmi per le casse pubbliche. Un caso? Tre anni fa il governo Monti ha tagliato i fondi per le commissioni d’esame che devono dare il patentino a chi fa la manutenzione degli ascensori. Niente commissione, niente esami, niente ascensoristi, e in futuro niente manutenzioni. Con 250 apprendisti che ora, denuncia la Confartigianato, rischiano di perdere il lavoro. Risparmio ottenuto: 20 mila euro. Per non parlare di quando si scivola letteralmente nel tritacarne della burocrazia. Come è capitato al signor Francesco Del Prete, pizzicato da un autovelox della polizia provinciale di Napoli a luglio dello scorso anno (quando già le province erano sulla carta abolite) a transitare a 74 chilometri orari dove c’era il limite dei 60. La multa è di 184 euro e 70, ma se pagata entro cinque giorni si riduce a 134,30. Il Nostro va prontamente alla posta ma paga solo 134,20. Ricordava male? Il verbale era stampato a caratteri microscopici? In quel momento aveva altro per la testa? Fatto sta che un mese dopo gli arriva una richiesta di integrare il pagamento: 50,50 euro. Lui cade dalle nuvole e chiede chiarimenti. Dalla Provincia di Napoli gli replicano che è vero: ha pagato soltanto 10 centesimi in meno. Ma i cinque giorni sono purtroppo passati, e la multa è aumentata a 184,70. Del Prete non abbozza e scrive di nuovo alla Provincia. Spiega di essere chiaramente incorso in un errore materiale e ricorda come la sentenza 9507/14 della Cassazione escluda che per i piccoli errori di pagamento si possa vessare il cittadino con richieste abnormi. Per tutta risposta, ecco tre mesi dopo una nuova cartella: ora l’importo che dovrebbe pagare non è più di 50,50 euro, ma di ben 219,50. La ragione? Ormai sono passati anche i sessanta giorni. E se quei soldi non vengono pagati entro quindici giorni, la pratica passa direttamente a Equitalia, con tutti i rischi del caso. Quanto è costata questa giostra ai contribuenti non è dato sapere. Ma la burocrazia che perseguita così chi per errore ha pagato dieci centesimi meno del dovuto, è la stessa capace di mettere in atto persecuzioni esattamente contrarie. Felicia Logozzo, professoressa al liceo, viene chiamata all’università con contratto a termine come assegnista di ricerca. Subito scrive alla scuola chiedendo l’aspettativa che le viene immediatamente concessa. Peccato però che lo stipendio continui ad esserle accreditato senza che lei riesca a interrompere il flusso del denaro. Di mesi ne passano almeno quattro, poi finalmente il rubinetto si chiude: però solo grazie all’intervento di un conoscente nell’amministrazione. La professoressa Logozzo restituisce i soldi e torna a scuola, ma non ha nemmeno il tempo di dimenticare la disavventura. Ecco, due mesi fa, un nuovo contratto con l’università e una nuova aspettativa, con gli stipendi del liceo che di nuovo continuano imperterriti a correre. Sconcertante la motivazione alfine scoperta: la procedura per l’aspettativa è informatizzata, quella per la retribuzione invece no. Bisogna spedire i faldoni per raccomandata agli uffici competenti che si prendono tutto il tempo necessario. Mesi. E c’è anche la beffa, perché nel frattempo lo stato paga sia la professoressa in aspettativa che chi la sostituisce a scuola. Basterebbe che fosse tutto digitalizzato, come ci promette ogni governo. Sarebbe un gioco da ragazzi... Oppure no? Le assenze per malattia dei professori, per esempio, sarebbero in teoria digitalizzate. Si possono infatti comunicare via mail. Già. Ma prima bisogna scaricare un modulo dal sito, stamparlo, compilarlo, scannerizzarlo e solo a quel punto spedirlo per posta elettronica alla scuola dove si provvederà a stamparlo e protocollarlo. Il tutto dopo che il professore avrà telefonato alla scuola, fra le 7,30 le 7,50, come dispone una recente circolare del ministero. Troppo difficile entrare direttamente nel sito della scuola?

Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?

Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.

I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.

Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.

Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.

Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.

I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.

Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.

Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.

Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.

Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).

Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.

Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.

Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.

LA PAGLIUZZA E LA TRAVE. Scrive Aurelio su Forza Cavallasca il 12 gennaio 2016. Notavo, ma devo dire che me lo aspettavo, che il fatto di Quarto e cioè di quel comune campano in cui un consigliere comunale eletto nelle liste del M5S sembra facesse gli interessi imprenditoriali di un clan camorristico locale tramite pressioni al sindaco del suo stesso movimento che correttamente e onestamente ha respinto al mittente, è diventato un fatto di tale portata nazionale da essere da settimane una delle principali notizie dei mas media televisivi e della carta stampata al pari del tempo dedicato a quanto è successo a Roma per Mafia Capitale. Quello che mi fa specie è che se questi media televisivi dessero lo stesso tempo e spazio a quei fatti legati a procedimenti penali e indagini a carico di esponenti del Centro Sinistra e del Centro Destra a quest’ora queste testate giornalistiche ci avrebbero dovuto intrattenere settimanalmente per ore intere. Fatti molto ben più gravi di coinvolgimento di esponenti locali eletti nei due schieramenti di cui sopra hanno avuto lo spazio, da parte da parte di questi media, di durata non più che giornaliera. Due considerazioni sono dovute: La prima è il manifesto asservimento del giornalismo italiano al potere di turno dove pesi e misure sono molto discrezionali se non finalizzato a compiacere o sostenere le forze politiche che hanno portato il Paese nelle condizioni in cui si trova. La seconda è che il M5S non può pensare che in certe regioni la selezione dei candidati da eleggere si possa basare esclusivamente sulla decisione degli iscritti alla rete in quanto ci si può aspettare, considerata la partecipazione numerica a queste organizzazioni criminali, che infiltrazioni di persone legate ad ambienti poco trasparenti è molto forte. Per non esporre il fianco a queste strumentalizzazioni questo sistema va ripensato o perlomeno le cautele sulla selezione in certe regioni non sono mai troppe. Per finire noto che chi sta maggiormente speculando e strumentalizzando questo fatto che sostanzialmente si può limitare a episodi di indebita pressione falliti è il P.D. con tutto quello che è emerso sul suo conto in questi anni dagli scandali corruttivi del Mose di Venezia all’Expo di Milano da Mafia Capitale agli scandali sui rimborsi delle spese ai consiglieri regionali ai gettoni di presenza nei comuni per commissioni inesistenti. ecc. ecc…. Come non mai in questo caso credo che valga questo detto evangelico: “…Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?……. Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello…”

Trave e pagliuzza, vecchia tattica, scrive Mauro Arcobaleno sabato 16 gennaio 2016.

Loro. In sei anni subiscono un tentativo di infiltrazione mafiosa o poco più. L'ultimo in un comune che gestiscono ma che è stato sciolto gia' varie volte per mafia, in passato. Lo respingono. Quando viene fuori che il sindaco, pur avendolo respinto e pur essendo stato eletto indipendentemente dai presunti voti sporchi, non ha detto tutta la verità, in soli 7 giorni decidono di espellerla. Sono favorevoli ad andare a nuove elezioni. Sono favorevoli a pubblicare tutte le intercettazioni del caso. Pubblicano addirittura gli screenshot degli scambi di chat tra il sindaco e i dirigenti del movimento.

Gli altri. Non buttano fuori nemmeno i condannati, che continuano gestire la cosa pubblica, figurati gli indagati o i chiaccherati. Hanno decine di comuni sciolti per mafia. Hanno Roma Capitale e ci hanno messo un anno prima di agire. Gliene arrestano o indagano uno o quasi al giorno. Le condanne fioccano. Si oppongono alla diffusione delle intercettazioni (Napolitano le ha fatte bruciare). Ma, con la gentile collaborazione del 90% dei media, da giorni stanno spargendo merda su loro e ingigantendo un caso piccolo e insignificante se paragonato al marciume che li affossa, e che in questo modo cercano di nascondere. Vecchia tattica: esaltare la pagliuzza del tuo avversario di modo che non si pensi più alla trave che hai nell'occhio dell'etica.

Io non dico nulla. Ma piuttosto che non votare (sbagliato), se si vuole provare a cambiare, non puoi votare sempre gli stessi o i presunti nuovi che avanzano e che sono uguali o peggio di quelli che volevavo sostituire e rottamare: ti hanno detto mille bugie e si comportano peggio dei precedenti, non esiste differenza tra loro. Devi votare facce nuove, che hanno regole nuove e che, pur facendo errori da inesperienza (anche loro sono uomini ahimé), le applicano con coerenza. Poi se ti fregheranno pure loro, ok: ma avrai poco da rimproverati. Nell'altro caso avrai da rimproverarti eccome: se ti arriva merda te la sei voluta.

Brenta (Varese), arrestati sindaco Pd ed ex capo dei vigili. Ai domiciliari Gianpietro Ballardin e l’ex comandante della polizia locale, Ettore Bezzolato, con l'accusa di falso commesso da pubblico ufficiale, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 13/01/2016, su "Il Giornale". È stato arrestato dalla Guardia di Finanza Gianpietro Ballardin, sindaco Pd di Brenta (Varese) e presidente del Consorzio dei Comuni del Medio Verbano e sindaco di Brenta. Con lui ai domiciliari è finito anche l’ex comandante della polizia locale Ettore Bezzolato. I due sono accusati di falso commesso da pubblico ufficiale, con il secondo che avrebbe anceh rubato denaro ricevuto in custodia per ragioni di servizio e il sindaco accusato anche di false dichiarazioni. Secondo le indagini delle Fiamme Gialle, (in primis a indagare sono stati i carabinieri di Luino, che lo scorso agosto avevano già arrestato Bezzolato per peculato), l’ex comandante dei vigili avrebbe sottratto denaro dalle casse del corpo dopo averlo personalmente ritirato presso enti ed associazioni del territorio quale corrispettivo di servizi di sicurezza straordinari per eventi e feste comunali, come previsto dal regolamento. Sempre secondo le indagini, coordinate dal sostituto procuratore di Varese Massimo Politi, il presidente del consorzio e sindaco Ballardin avrebbe dichiarato il falso per alleggerire la posizione di Bezzolato. I due avrebbero inoltre firmato un documento che attestava il versamento di una parte del denaro mancante da parte dell’ex comandante nella cassaforte del comando, che gli inquirenti giudicano fasullo. Immediata la reazione del Movimento 5 Stelle che dopo la vicenda di Quarto non aspettava altro per dare addosso al Partito democratico. Gongola Beppe Grillo: "Un arrestato al giorno toglie il Pd di torno", scrive il guru sul suo blog, "Domani a chi tocca? Sono aperte le scommesse. Gli amministratori locali del Pd - attacca il leader M5S - sono una sciagura per i comuni italiani. Ieri la notizia dell'iscrizione al registro degli indagati del sindaco di Como, oggi arrestano Ballardin. Si dimetterà o amministrerà la città dai domiciliari? Il garantismo deve essere nei confronti dei cittadini: devono avere la garanzia assoluta che chi li governa non è un corrotto e non li deruba".

M5S a Pomezia: appalti sospetti affidati dal sindaco alla coop vicina a Buzzi. Dopo Quarto, ombre a Pomezia. Appalti sospetti affidati dal sindaco Fabio Fucci (M5S) alle coop vicine a Buzzi, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 15/01/2016, su "Il Giornale". Non c'è solo Quarto nell'armadio degli scheletri grillini. Ora a Pomezia, città amministrata dal Movimento 5 Stelle, risuona il (tetro) inno di Mafia Capitale. A collegare il sindaco grillino Fabio Fucci e i nomi famosi per essere finiti nelle carte di Mafia Capitale, è la gestione dei rifiuti del Comune. Non è la prima buccia di banana che pesta il M5S. L'amministrazione grillina di Pomezia era finita sotto i riflettori della cronaca anche per il caso "parentopoli": la compagna del primo cittadino, infatti, era arrivata ad occupare la sedia di assessore. Fucci corse ai ripari, annunciando che la compagna si era già dimessa. Anche se in realtà poi rinviò le dimissioni di qualche mese. Acqua passata. Ma ora l'ombra di Mafia Capitale lambisce i 5 Stelle. Che dopo lo scoppio dello scandalo romano hanno cavalcato in tutti i modi la vicenda, attaccando la destra e la sinistra. I fatti sono questi, raccontati dall'HuffingtonPost, e partono dal giugno del 2013 per arrivare fino al dicembre del 2014, quando lo scandalo di Mafia Capitale è all'apice della forza mediatica. Nel giugno 2013 il sindaco Fucci mette piede al Municipio di Pomezia e poco dopo - dicembre 2013 - avvia un appalto per la getione dei rifiuti. Ad aggiudicarselo è il Consorzio Nazionale Servizi e la sua affiliata "Formula Ambiente". Quest'ultima è una società partecipata (prima al 49%, poi al 29%) dalla Coop 29 giugno, tristemente famosa per essere guidata da quel Salvatore Buzzi simbolo di Mafia Capitale. Ma non solo. Perché i fili del controllo del servizio dei rifiuti a Pomezia si intrecciano anche con Alessandra Garrone, compagna di Buzzi e amministratore delegato della Formula Ambiente. Senza dimenticare che Buzzi sedeva nel consiglio di sorveglianza del Consorzio Nazionale Servizi che si occupava, tramite la partecipata, dei rifiuti di Pomezia. L'appalto, come detto, prende il via nel dicembre 2013 e poi ottiene numerose proroghe. A seguire il dossier è Salvatore Forlenza, dirigente di CNS e poi indagato per turbativa d'asta nel processo di Mafia Capitale. Nel 2013, Mafia Capitale era ancora un miraggio, eppure quando scoppia lo scandalo, il membro del direttorio del M5S, Alessandro Di Battista, accusò Ignazio Marino di aver dato appalti con le proroghe a Buzzi dicendo che "non poteva non sapere". Su questo presentò anche una interrogazione parlamentare, invitando peraltro il governo a diffidare del CNS. Se valeva per Marino, varrà anche per il sindaco di Pomezia? Non sembra. Infatti, l'ultimo bando di gara emesso da Fucci è del 2 settembre 2014 e si chiude l'11 dicembre 2014: in pieno scandalo Mafia Capitale e mentre l'Operazione Mondo di Mezzo aveva già mandato in galera Buzzi e Carminati. Nonostante le manette, il bando del sindaco di Pomezia finisce ugualmente al CNS. “Il sindaco di Pomezia è incorruttibile”, furono le parole di una intercettazione di Buzzi che i Cinque Stelle fecero riecheggiare su tutti i media. Ma le opposizioni credono che l'appalto sia sospetto e abbia irregolarità sia sulla ditta appaltatrice che nelle procedure del Comune. La coop di Buzzi si aggiudicarono infatti gli appalti con un ribasso di gara dello 0,13, che può essere considerato "strano" se si considera che il costo complessivo è di 50 milioni. Le altre due ditte, invece, non raggiunsero nemmeno il punteggio minimo a livello tecnico per poter partecipare al bando. Fu scritto appositamente per far vincere le cooperative dove Buzzi aveva un "peso"? Ancora presto per dirlo. Eppure, il sindaco Fucci aveva già dimostrato un'altra volta di scrivere i bandi di gara con una certa disinvoltura, visto che Raffaele Cantone ne bloccò uno sulle aree verdi perché “limita la concorrenza” tra le imprese in gara. Ma c'è dell'altro. Da quando c’è Fabio Fucci come primo cittadino, sono aumentate le spese legali: nel 2015 Pomezia ha speso oltre un milione e mezzo di euro in spese legali. Parte di queste parcelle sono finite anche all’avvocato Giovanni Pascone - ex magistrato del Tar, dipendente del Comune – poi cancellato dall'albo degli avvocati perché socio occulto di una società di vigilanza e condannato a due anni per via di un contenzioso con il fisco di 20 milioni di euro. Infine, Fucci - scrive l'HuffingtonPost - avrebbe nominato a capo della Multiservizi Fucci, Luca Ciarlini, sotto indagine per frode.

Cari 5 Stelle, ma su Pomezia e Quarto non provate imbarazzo? Si Chiede Tommaso Ederoclite, Ricercatore, Politologo, consulente politico, su l'HuffingtonPost del 16 gennaio 2016. In queste ore è uscita la notizia che Rosa Capuozzo aveva già informato da novembre scorso il direttorio sulla faccenda Quarto, e non è un retroscena giornalistico, no, lo ha detto ai Pm durante un interrogatorio durato 6 ore. Quindi è confermata la notizia che Fico, Di Battista e Di Maio sapessero di quello che stava succedendo a Quarto. Dunque in quel video e nelle continue pubblicazioni delle loro chat si è detto una bugia, e non su un tema come il compenso o l'abuso edilizio mai dichiarato, ma su un tema come la camorra. Deputati che mentono su una questione delicata come la camorra. In queste ore però prende piede una grana che, a parere di chi scrive, è ben più pesante. Il "sistema Pomezia". Innanzitutto qualche appunto su Fabio Fucci il sindaco di Pomezia del MoVimento 5 Stelle.

1) Nominò assessore la moglie, facendola dimettere a "scandalo" avvenuto mesi dopo;

2) Aveva inserito nel suo programma la proposta di differenziare il menù scolastico: uno meno costoso e uno più costoso che includeva di dolce. Scoppiò un casino;

3) Ha (o aveva non si è ancora capito) come dipendente comunale l'avvocato Giovanni Pascone, socio occulto di una società di vigilanza (la Clstv), finita sul lastrico, che deve ancora ai suoi dipendenti migliaia di euro e che ha testimoniato a favore di personaggi di cosche camorristiche e, malgrado lettere e proteste dei sindacati e dei cittadini al sindaco grillino, è ancora lì seduto alla sua scrivania;

4) Ha "sanato" anziché affermare l'irregolarità di alcuni appalti abusivi segnalati dalla Regione Lazio e dal tribunale di Velletri.

Ma la cosa più grave sta prendendo piede in queste ore, e non credo finisca presto. Andiamo con ordine. Il primo cittadino Fabio Fucci del MoVimento 5 Stelle qualche mese fa ha dichiarato: "Con me Buzzi non ci ha neanche provato". Leggendo le notizie di queste ore, mi è venuto da dire "E per forza, ce li avevate già in casa". Infatti, il sindaco di Pomezia aveva affidato al CNS (Consorzio Nazionale Servizi) di Buzzi l'appalto per la gestione rifiuti proprio nei giorni di Mafia Capitale, proprio nei giorni in cui Di Battista sbraitava dagli scranni della Camera sostenendo "come facevate a non aver visto nulla". La cooperativa dove Buzzi aveva un ruolo determinate hanno vinto l'appalto "con un ribasso di gara dello 0,13, anomalo rispetto alla cifra di 50 milioni di appalto. Mentre le altre due ditte che si presentano non raggiungono il punteggio minimo sull'offerta tecnica, secondo la valutazione dalla commissione del Comune". In pratica, nonostante lo scandalo di Mafia Capitale il sindaco si è tenuto e ha rinnovato, con addirittura gara sospetta, la cooperativa di Buzzi al Comune. Il primo cittadino pentastellato si difende sostenendo che è stato tutto fatto con la prefettura, un po' come sostenne la Capuozzo agli inizi della sua catastrofe su Quarto. Sì, perché pare che la strategia sia questa "non importa se tu sia indagato o meno, l'importante è che tu dia la colpa agli altri". Ovviamente il tutto ora è sotto indagine, vedremo sviluppi. Ma quello che preme ora sottolineare è semplice, a parte le minacce di Casaleggio "ve la faremo pagare", e le deludenti risposte date ai cittadini da questo fantomatico direttorio, che a vederli sembrano sempre di più dei ragazzini alle prese con una cosa molto più grande di loro e che non sanno affrontare, possibile che davanti a queste sciagurate gestioni non si faccia un po' di sana autocritica? Possibile che non si prendano le responsabilità e si dica ho sbagliato? E paradossale che coloro che si proclamavano paladini della trasparenza oggi mentano sfacciatamente, e ripetano quella bugia 100, 1000 volte. Chiedo al direttorio, un po' di imbarazzo non lo provate?

La maledizione delle Cinque Stelle. Per il movimento l’incidente del sindaco di Quarto è particolarmente insidioso. Perché dimostra che le regole di Grillo sono da cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso” il 15 gennaio 2016. A ciascuno il suo Ignazio Marino, verrebbe da dire con un sorriso amaro, anche se la testa del sindaco di Roma fu fatta rotolare per una squallida storia di note spese e cene al ristorante, e in quel caso - ma guarda un po’ - i grillini lo difesero riconoscendogli di aver fatto da argine a Mafia Capitale. Invece sul capo di Rosa Capuozzo, unica sindaca a 5Stelle eletta in Campania, prima cittadina di Quarto, comune dell’hinterland napoletano sciolto due volte per infiltrazioni della camorra, pende il ben più pesante sospetto di collusione con la criminalità organizzata (ancora da dimostrare), con appendice di ricattuccio per un abuso edilizio a casa propria, pratica ormai diffusa assai nella politica all’italiana. Alla fine, sindaca espulsa. Dopo aver resistito dicendo, proprio come Marino, di aver respinto le pressioni dei boss. E certo la storia non finisce qui, come con Marino...La maledizione si abbatte anche sul Movimento di Beppe Grillo, nato all’insegna della purezza e della trasparenza in politica, fattosi grande e robusto con la guerra a caste e privilegi e costretto invece a inciampare nel più tradizionale, italico inciucio tra affari, Palazzo e voti di scambio, con condimento di spaccatura tra duri e puri (Di Maio) e moderati (Fico). Da un giorno all’altro, insomma, ecco che Torquemada finisce sotto processo. Tornano alla mente le parole di Pietro Nenni che, in una lontana Repubblica, saggiamente avvertiva: «A giocare a chi è più puro si rischia di trovare uno più puro di te che ti epura…». Stavolta è toccato a Roberto Saviano che, quando la premiata ditta Grillo & Casaleggio tentennava e sembrava voler difendere la sindaca, ne ha chiesto clamorosamente le dimissioni. Amen. Dunque, è arrivata l’ora del redde rationem, che però non si ferma a Quarto e pone al Movimento nuovi problemi. In mezza Italia, per esempio, è sempre più difficile mettersi al riparo dall’invasività delle mafie: su 258 comuni sciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata dal 1991 a oggi, 253 se li contendono Calabria, Sicilia e Campania (prima in classifica). Chi si presenta alle elezioni a sud di Roma e vince, rischia assai. E per affrontare la questione non basta tagliare corto come Grillo: «A Quarto i voti della camorra non sono stati determinanti». Ma come si fa a distinguere tra una scheda e l’altra? E c’è forse, Beppe, una percentuale eticamente accettabile e non determinante di consensi mafiosi? Argomento scivoloso. E poi, un'altra dannazione. Sembra che appena eletti, per una ragione o per l’altra i sindaci finiscano in rotta di collisione con il vertice del movimento. Il catalogo è ricco: Parma, Gela, Ragusa, Livorno, Quarto… È successo anche con molti parlamentari. Forse il problema nasce per l’inevitabile conflitto tra il quartier generale e chi combatte al fronte sporcandosi le mani con il fango della trincea; comunque sembra quasi che la Grillo & Associati sfrutti questi episodi per frenare il dissenso interno e fare pure un po’ di pulizia. Selezione del personale a posteriori. Ma non c’è sempre un agnello da sacrificare. Per un movimento che nei suoi dieci anni di vita ha puntato tutto sulla diversità, un incidente di percorso come quello di Capuozzo & C. è particolarmente fastidioso. Nel tentativo di crescere senza però tradire l’ispirazione originaria, Grillo ha temerariamente pattinato tra Forrest Gump e la Corte costituzionale, tra i vaffa e il Parlamento, tra Di Maio e il partito della rete, tra il suo ologramma e il direttorio convocato negli uffici di Casaleggio. Ha volutamente allevato un non partito, niente strutture né dirigenti, ha platealmente fatto un passo indietro lasciando che i 5Stelle si identificassero con i suoi ragazzi. Ma al primo, grave intoppo ecco che torna a convincersi che senza di lui la nave affonda. Alla fine il padrone del marchio, l’azionista di riferimento che sceglie, indirizza e sanziona è sempre lui. Così non può continuare a lungo e prima o poi il Movimento dovrà decidere se rinunciare a piccole dosi di diversità, darsi regole di democrazia interna e adottare criteri di scelta dei candidati e dei dirigenti più affidabili di un blog o di una rapida consultazione in rete, specie ora che si avvicinano scadenze decisive come il voto di primavera nelle grandi città e poi le elezioni politiche. Roma non è Quarto. E non si può vivere e governare solo nominando ed espellendo. Manco fosse la casa del Grande fratello.

Capuozzo: "Grillo fugge davanti alla mafia". Il sindaco di Quarto attacca: "Inutile avere le mani pulite, se le tieni in tasca", scrive Antonio Angeli il 19 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Ennesimo capitolo del «caso Quarto»: Rosa Capuozzo, il sindaco anticamorra invitato a dimettersi e infine espulso dal MoVimento 5 Stelle, ha sparato parole di fuoco contro il partito che l’ha piantata in asso. Intanto, mentre il Pd fa il tiro al piccione e l’indagine giudiziaria prosegue, si vanno delineando le posizioni di Di Maio e Fico. «È inutile avere le mani pulite se poi le si tiene in tasca - ha scritto la Capuozzo su Facebook - Il M5S ha avuto l’occasione di combattere il malaffare in prima linea con un suo sindaco che lo ha fatto, ma ha preferito scappare a gambe levate, smacchiarsi il vestito, buttando anche il bambino insieme all’acqua sporca». Il primo cittadino di Quarto (Napoli), durissima, ha proseguito: «Non si governano così i Comuni ed i territori difficili, non si abbandonano così migliaia di persone che hanno creduto in noi e nel MoVimento. È una forma di rispetto che Quarto meritava: rimanere e combattere. Invece è stata fatta una scelta politica in una stanza grigia di Milano. Io ho fatto una scelta di principio per i cittadini onesti di Quarto. Ora lavoreremo per il territorio in modo ancora più incisivo con i principi del MoVimento nell’anima. Mi ripeto - ha concluso la Capuozzo - citando Don Milani "è inutile avere le mani pulite e poi tenerle in tasca"». Il sindaco afferma inoltre che Roberto Fico era stato subito informato del suo interrogatorio davanti al pm Henry John Woodcock. Ha ribadito la circostanza davanti allo stesso pm quando è stata ascoltata lo scorso 12 gennaio. A una specifica domanda risponde di aver parlato «immediatamente dopo» al presidente della Commissione Vigilanza della Rai del fatto che era stata sentita come teste in Procura il 24 novembre, e che Fico era al corrente anche «del contenuto» dell’interrogatorio. Dei suoi contrasti con Giovanni De Robbio, l’ex consigliere pentastellato risultato il più votato a Quarto, aggiunge Capuozzo il 14 gennaio, aveva messo a conoscenza Fico «verso la metà di luglio». Secondo Fico allora non c'erano «gli estremi» per azioni disciplinari nei confronti di De Robbio, azioni poi culminate con l’espulsione il 14 dicembre scorso. I due verbali fanno parte degli atti trasmessi alla prefettura di Napoli e alla commissione parlamentare Antimafia, che ascolterà oggi in audizione la Capuozzo. Secca la risposta dei gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato: «Il MoVimento non sapeva del ricatto». Intanto, a Quarto, due consiglieri comunali M5S rassegnano le dimissioni. In tutta la vicenda inzuppa il pane il Pd: «Te lo do io il direttorio - afferma Gennaro Migliore, facendo il verso a Grillo - Anche oggi le parole del sindaco Capuozzo confermano che il direttorio sapeva e sapeva tutto. Fico, che continua a sostenere l’insostenibile, viene per l’ennesima volta smentito. Si arrampicano sugli specchi senza speranza di riuscire a evitare la caduta. Non danno risposte e vogliono far credere che nelle loro innumerevoli conversazioni si parlasse di contrasti politici». «Pensano davvero - aggiunge Migliore - che la Procura antimafia si occupi di beghe interne invece che di reati di criminalità organizzata? Sono pure vigliacchi, scaricano tutto su altri, se ne lavano le mani e non si assumono le loro responsabilità. Invece di coprire i cocchi del paparino Casaleggio, nel M5S si cominci ad ammettere la verità, il direttorio ha completamente fallito».

Il mistero di Rosa Capuozzo nel labirinto della politica. Chi è davvero il primo cittadino di Quarto, che martedì risponde alle domande dell’Antimafia. Una moderna Giuditta, decisa e coraggiosa, o piuttosto colei che ha tardato a denunciare i ricatti? Un rompicapo su cui in molti si sono persi, scrive Marco Demarco il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Eroina civile, vittima dell’inciucio politico, o sughero galleggiante nella palude della provincia opportunista? Chi è davvero Rosa Capuozzo, sindaca ex grillina di Quarto, lo sapremo forse solo martedì, quando lei stessa risponderà alle domande della commissione Antimafia. Lunedì c’è stata la conferma che si tratta di una donna minuta d’aspetto e forte di carattere. Con l’aiuto di don Milani («È inutile avere le mani pulite e tenerle in tasca») e deprecando i moralismi astratti (c’era da combattere la camorra e invece «il M5S è scappato a gambe levate») la sindaca ha infatti risposto a chi l’ha espulsa dal movimento. Ma ancora nulla che possa mettere il punto alla polemica che l’ha vista contrapposta a Grillo e ai membri del direttorio. Rosa Capuozzo resta dunque un mistero. Uno specchio in cui ognuno vede riflesso ciò che vuole. A volte, ha dato l’impressione di essere decisa e coraggiosa come una moderna Giuditta, riuscendo, come nel mito, a ignorare la timorosa élite maschile della città assediata e a decapitare l’assediante, gigantesco Oloferne. Nel caso, la camorra. Ciò è sicuramente successo quando Rosa la «pasionaria» ha lanciato i suoi appelli anti-clan, o quando non si è piegata davanti alle pressioni di Giovanni De Robbio, l’ex consigliere comunale pentastellato espulso prima di essere indagato per voto di scambio e tentata estorsione proprio ai danni della prima cittadina, residente in una casa forse non condonata. Ma altre volte la sindaca ha invece proposto di sé un’immagine del tutto diversa, come quando, per evitare complicazioni, ha tardato a denunciare i ricatti. O quando, intercettata pur non essendo «avvisata» di alcun reato, ha consigliato ai suoi di «non mettere i manifesti» su quanto stava succedendo a Quarto. Rosa Capuozzo è diventata, insomma, un rompicapo assoluto; il labirinto in cui tutti si sono persi. Compreso Roberto Saviano. In terra di camorra, appena eletta, la sindaca era diventata per lui il simbolo mancante di una politica nobile, incondizionata, per la prima volta libera da quel voto di scambio. E invece: «Deve dimettersi», ha poi sentenziato, anticipando Grillo di ventiquattro ore. Ci sono poi tutti gli altri. Quando Grillo difendeva la sindaca, e i vari Fico e Di Maio non si vergognavano di averla sostenuta, i «democrat» ne chiedevano a gran voce le dimissioni, e la renziana Picierno addirittura calava da Bruxelles a Quarto per manifestare indignata nell’aula del Consiglio comunale. Quando Grillo di colpo l’ha scaricata («l’onesta ha un prezzo»), e vai a capire perché, visto che nulla nel frattempo era cambiato, Renzi a sorpresa l’ha invece difesa («Rosa Capuozzo ha resistito alla camorra, non deve dimettersi»). I rispettivi quartieri generali si sono così ritrovati di punto in bianco sbandati e persi come in un 8 settembre. Nessuno, tra i colonnelli e le generalesse, era più al posto giusto. Picierno ha preso l’aereo e se n’è tornata a Bruxelles; Fico e Di Maio, nell’occasione insieme con Di Battista, sono invece finiti su una panca a discolparsi. Tutti con Rosa, tutti contro di lei. Ma mai tutti insieme. Tipico di una politica italiana gravemente malata di tatticismo. È in campo grillino, però, che le contraddizioni bruciano di più. Tra luglio e dicembre i membri napoletani del direttorio pentastellato si sono incontrati con Rosa Capuozzo almeno cinque volte: nella casa posillipina di Fico, in un bar del centro storico di Napoli, a Quarto. L’assedio al Comune era già iniziato, Oloferne già alle porte. Nessuno si era accorto di niente? O Giuditta aveva già deciso di fare tutto da sola? Martedì, forse, ne sapremo di più.

Cinque stelle cadenti: quanti vip mollano Beppe. L'infatuazione politica di molti artisti per Beppe Grillo sembra già passata. Venditti è l'ultimo pentito: "Ho votato Renzi, fa bene a trattare col Cavaliere", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 31/01/2014, su "Il Giornale". Vatti a fidare degli artisti. Finché vai forte ti trovano interessante, ti fanno pure un concerto gratis se glielo chiedi. Ma quando la moda passa, chi li vede più? Dieci anni fa erano tutti veltroniani, poi ulivisti, quindi di nuovo veltroniani quando Veltroni era in sella al Pd. Poi, dopo una lunga pausa d'incertezza, non potendo buttarsi su Berlusconi perché in quegli ambienti non conviene, han provato a farsi piacere Monti (Eros Ramazzotti: «Ha dato dell'Italia un'immagine più forte»). Naufragato anche lui si sono scoperti grillini. Molto più di una simpatia, un'infatuazione, casualmente cresciuta insieme ai voti del M5S, travolgente col 25% alle politiche. Poi però scemata via via, con le polemiche e le gaffe degli eletti M5S, i dissidi interni, le uscite imbarazzanti, e il casino fine a se stesso, il non toccare mai palla lasciando il campo libero al Pd e persino a Berlusconi. Così, un grande sponsor del M5S come Adriano Celentano, che ancora pochi mesi fa vergava lettere dalla sintassi creativa per lanciare Grillo (e, per inciso, anche per difendere il metodo Stamina) e il suo M5S «movimento altamente democratico che ha generato la speranza in un mondo tutt'altro che ostile», si è raffreddato. Grillo non è più tanto rock per il Molleggiato. «Perché per la seconda volta si è rifiutato di fare il Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri - lo bacchetta Celentano sulla rivista San Francesco -. E quindi Renzi si è rivolto a Berlusconi, che pur avendo una condanna rappresenta 8 milioni di italiani, perciò mi fanno ridere gli ipocriti quando dicono che non doveva parlare con Berlusconi». Morale: l'ex grillino Celentano elogia l'accordo sulla legge elettorale, lo stesso «Pregiudicatellum» che per Grillo è fatto apposta per far fuori il M5S, addirittura uno dei motivi per l'impeachment di Napolitano. Ma seri dubbi anche in casa Fo. Il padre Nobel resta sostenitore, ma prende sempre più spesso le distanze. Prima contro il post di Grillo e Casaleggio contro l'abolizione del reato di clandestinità («Ci sono rimasto male, Beppe ha sbagliato») poi sulla gogna quotidiana contro i giornalisti («linguaggio che non accetto»). Il figlio Jacopo invece, se prima dedicava poesie alle grilline e sul blog ci informava di amare Grillo «fisicamente», si è scoperto renziano. «Ho cenato con Renzi. Lui non' è un tipo normale - scrive adesso il Nobel jr -. È il primo segretario Pd che si capisce quello che dice, ed è anche un temerario visto che dice faccio questo in 30 giorni, quest'altro in 60 giorni. E aggiungo che avere un leader progressista che cambia completamente stile potrebbe essere utile. La forma ha la sua importanza. Anche Povia, che aveva elogiato il M5S («Grillo è stato un voto di protesta giusto»), è passato coi forconi (al grido «usciamo dall'euro, l'Ue ci distrugge!»), mentre colpisce il silenzio da mesi di altri (ex?) sponsor vip del Grillo prima maniera, da Mina alla Mannoia dalla Carrà al pianista Allevi. Al cantatuore romano Antonello Venditti un annetto fa piaceva «l'aspetto morale del Movimento Cinque stelle». Quando Grillo citò sul blog una sua vecchia canzone, Bomba non bomba, Venditti ne fu entusiasta. «Mi fa piacere, la mia canzone raccontava l'arrivo della democrazia a Roma. È il cammino di Grillo e di tante persone che sperano che ci sia la democrazia in Italia». Ora sembra che Venditti sia renziano, anzi che lo sia sempre stato. «L'ho votato due anni fa alle primarie, e anche alle ultime - ha detto a RadioDue -. Renzi ha fatto bene a incontrare Berlusconi, ci mancherebbe altro». E le canzoni adesso le dedica a lui, non più Grillo: «Renzi ha un qualcosa di scanzonato, gli dedicherei Lo Studente Passa». Con sottofondo di sviolinate. Con Pippo Baudo, suo mentore televisivo nella stagione dei Sanremo e delle Domeniche in con Grillo mattatore, è finita a schifìo. Il presentatore all'inizio elogiò Grillo, l'unico che «può dare una scossa alla politica», uno che «ha saputo avvicinare i giovani alla politica». Più tardi però gli ha dato del «fascistoide», e Grillo ha reagito pesante: «Baudo ha attaccato il M5S e leccato il culo a Renzi. Quando fui cacciato dalla Rai lui slinguava Craxi... La pippite è una malattia dell'animo». Tra i delusi vip c'è anche Flavio Briatore: «Grillo è stata una grande delusione - disse il manager - ci aveva dato a tutti un po' di speranza. Invece si sono dimostrati come gli altri, forse peggio».

Vittorio Sgarbi ha abbandonato, in silenzio, la diretta di «Domenica Live» (del 17 gennaio 2016). Lo storico e critico d'arte era stato invitato da Barbara D'Urso per commentare le presunte infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, guidato da un sindaco del «Movimento 5 Stelle». «Adesso che è stato depenalizzato l'insulto - spiega Sgarbi - non vale nemmeno più la pena di usarlo. Così, invitato per discutere sul tema, inesistente, delle infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, paese di cui nessuno, fino a ieri, conosceva l'esistenza, e in cui si manifestano, per ciò che riguarda i rapporti tra i cittadini e i politici, gli stessi fenomeni di qualunque altro luogo d'Italia, ho dovuto ascoltare, per circa un'ora, insensatezze sulla presunta diversità dei 5 Stelle, movimento di cui non si conosce un pensiero, un'idea, e che pensa di disporre degli eletti come fossero «cosa loro», come ha giustamente osservato il sindaco di Gela. Non ci sono - argomenta Sgarbi - due posizioni: ce n'è una, ed è quella dettata dalla Costituzione (la presunzione d'innocenza), non certo quella delle intimidazioni dei Saviano e dei Grillo, ben più prepotenti della mafia e della camorra, delle quali occorre dire che, chi ha diritto al voto non può essere suo esponente. Quindi nessun voto camorrista, se non presunto. Quando la magistratura, con una sentenza, lo riterrà tale, il camorrista non potrà votare. Discorso troppo semplice da fare in una trasmissione in cui ognuno parla senza sapere quel che dice. Mentre chi potrebbe dire qualcosa, è costretto a tacere perché ognuno pretende di essere più puro degli altri. I 5 Stelle non esistono se non per indicare la qualità degli alberghi. Così me ne sono andato in silenzio e senza insultare. Anche gli insulti - conclude Sgarbi - occorre meritarseli». L'Ufficio Stampa di Vittorio Sgarbi

Gli affari disonorevoli dei consoli onorari. Tra bella vita e truffe. Un titolo che dovrebbe favorire i rapporti tra Paesi. Ma che in Italia è distribuito con troppa leggerezza. E talvolta premia personaggi senza scrupoli. Ecco le loro storie, scrivono Federico Franchini e Francesca Sironi il 7 settembre 2016. Nell’ufficio non mancano mai targa e attestato, fra un cartiglio con la carica e la cornice all’“exequatur” (l’atto con cui si riconosce la funzione). Sulla scrivania la bandierina, e se ci sono ospiti è pronto l’album di fotografie: scatti di visite alle istituzioni, galà, strette di mano, selfie con i leader locali. “Console onorario della repubblica Centrafricana in Italia” mostra ad esempio su un invito dai bordi dorati Claudio De Giorgi, imprenditore in oro e diamanti che sul suo sito web personale, fra immagini di safari e cortei di notabili a Bangui, si definisce rappresentante d’onore del Paese africano per le province di Milano, Como e Sondrio, anche se dagli elenchi della Farnesina non risulta. Il titolo è incerto ma è sicura la condanna di aprile a sei anni e mezzo di carcere a Trento. Per un business che riguarda proprio quel riconoscimento di prestigio. Ambìto da molti, in Italia. Le capitali del mondo sembrano ansiose di avere i loro consolati onorari a Napoli o Milano, come a Forlì, Barletta o Pavia: in Italia ne sono registrati oggi 602. Un record europeo. Tanto che il cerimoniale della Farnesina commentava preoccupato la «proliferazione» di questi incarichi, «aumentati enormemente negli ultimi tempi» già in un rapporto di due anni fa. I consoli onorari non sono diplomatici di carriera, non timbrano il cartellino in ambasciata, ma ne godono l’ombra di prestigio e ricevono un nulla osta (in gergo “l’exequatur”) dal nostro ministero, che di solito ostentano con vanto. Sono imprenditori o dentisti, avvocati o consulenti, giornalisti o notai, che si fanno indicare quali “consoli” dall’estero per favorire gli scambi fra le comunità; sbrigano pratiche sui visti, danno una mano ai turisti, ai cittadini, promuovono le reti commerciali: «siamo presenze preziose», spiegano. In cambio ricevono il titolo e alcuni privilegi: dall’inviolabilità degli archivi (quindi della corrispondenza), all’immunità “nell’esercizio della funzione”, passando dalla comoda targa Cc del “corpo diplomatico” grazie alla quale possono parcheggiare ovunque in città. L’Italia è diventata insomma laboratorio internazionale dell’under-diplomazia onoraria: l’Angola, per dire, ha un console d’onore a Varese (provincia in cui risiedono in tutto solo 46 suoi emigrati), il Lesotho a Nuoro (nessun residente, sono 13 in “continente”), Panama ha tre sedi, di cui una a Civitavecchia, San Marino ne ha dieci sparse per la penisola. O ancora: a Firenze ci sono 57 consoli onorari in rappresentanza di molte parti del globo, fra cui Capo Verde e le Seychelles. “Come diventare console onorario” è diventata addirittura una ricerca trendy su Google.it. Una mania. A che pro? Il cerimoniale lo accennava in quel rapporto datato: bisogna accertarsi, spiegava, che «a tale carica assurgano sempre cittadini di specchiata onorabilità» affinché «il prestigio della funzione» non affondi e le immunità non vengano «strumentalizzate per finalità illecite». È un timore tutt’altro che infondato. Le cronache sui consoli onorari, oltre che di feste gossippare, ricevimenti paludati e banchetti vistosi, sono dense di ascese - e discese - velocissime dalle tinte legali in chiaroscuro. Basta guardare al sorriso di Claudio de Giorgi sulle foto dei suoi viaggi in Centrafrica. Ci andava fiero, De Giorgi, di quel titolo di console della piccola Repubblica: tale si firmava in calce alle mail o sul suo profilo Skype. Per il consolato aveva aperto anche un apposito “private bureau” vicino a Lugano, nella succursale della sua società di import/export di oro e diamanti, l’Adamasswiss. Per fare affari in Africa, si sa, servono uscieri di fiducia, e alle porte giuste. A De Giorgi non mancavano certo: è l’ex presidente in persona, François Bozizé, a firmare i decreti di concessione per l’Adamasswiss nella Repubblica centrafricana. Ed è sempre Bozizé, noto per avere venduto migliaia di documenti diplomatici a veri o presunti uomini d’affari, facendone quasi un business di Stato, a concedergli il rango di diplomatico che vanta. Quello che però De Giorgi, residente in provincia di Sondrio, ricorda meno volentieri, sono le multe in Svizzera per contrabbando di diamanti. E l’ultima condanna, la più grave: una sentenza a sei anni di carcere per truffa e associazione a delinquere in Italia, arrivata ad aprile. Al centro della vicenda c’è una (presunta) miniera di diamanti che si doveva trovare proprio nella Repubblica centrafricana: miniera su cui aveva convinto 159 piccoli risparmiatori a investire. Le pietre preziose però non esistevano affatto: e le vittime ci hanno rimesso oltre cinque milioni di euro, convinte da quello che sembrava un affare sicuro, viste le relazioni di rango vantate dagli intermediari. Oltre a De Giorgi, a rassicurarli c’era Giacomo Ridi, anche lui presunto console onorario della Repubblica centrafricana e consulente finanziario: era Ridi - poi morto suicida - a convocare liberi professionisti, dipendenti, giovani e pensionati negli hotel di Trento promettendo loro quella “miniera di soldi”, e diamanti. Che si è rivelata una promessa di fumo. La confusione fra diplomazia e business d’altronde affiora spesso nelle anticamere dei consolati d’onore. Eccola riemergere a Busto Arsizio, nel processo che vede imputato in questi mesi Fabrizio Iseni. Leghista di ferro, imprenditore della sanità, amico stretto della famiglia Bossi (fino ad essere soprannominato “il badante del Trota”), Iseni è indagato, fra l’altro, proprio per aver mescolato la sua carica di console onorario della Costa d’Avorio a quella di titolare della “Iseni consulting”, una società che in due anni ha ricevuto due milioni di euro da alcuni imprenditori della provincia di Varese. Alla procura di Busto non sono chiari i riscontri di quelle attività ben remunerate: i contratti hanno testi fotocopia, sostengono, le consulenze mancano d’esiti concreti. Di certo, il carteggio indicherebbe il motivo reale per cui quei soldi sbarcavano sui conti di Iseni: i suoi rapporti con il Paese africano, dove i piccoli industriali padani speravano di sbarcare con successo. Console-consulente: la sua attività “alta” di diplomatico si era sovrapposta insomma a quella commerciale. Un errore in cui cade, restando in terra verde padana, anche l’ex assessore comunale di Bergamo Marcello Moro, indagato per corruzione: stando alle testimonianze, Moro si era fatto pagare dagli imprenditori imputati con lui sia la sede sia la segretaria del consolato onorario del Ghana a Milano, di cui è stato titolare dal 2002 al 2009. Non solo: fra gli ultimi atti depositati a processo ci sono gli esisti delle rogatorie in Svizzera, i conti su cui transitava denaro. Chiamati Diplo1 e Diplo2. La rete capillare dei consoli d’onore in Italia conta altri casi limite fra il glamour e il nero. Come quello di Emanuele Cipriani, per esempio, “l’uomo dei dossier”, l’investigatore privato condannato nel caso Telecom insieme a Fabio Ghioni e Giuliano Tavaroli, ch’era console onorario della Repubblica di Guinea e che secondo i giudici spiava «avvalendosi anche delle immunità» proprie di quel ruolo. C’è Nicola Falconi, l’ex capo dell’Ente Gondola di Venezia accusato di finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta sul Mose, che portava in tasca il titolo di console onorario della Finlandia dal 1996. C’è Giovanni Fagioli, grande armatore emiliano, un giro d’affari da 300 milioni di euro, console onorario della Bulgaria a Parma, indicato per questo nei Panama Papers come “persona politicamente esposta”, beneficiario di una società alle Isole Vergini Britanniche. Ci sono persone comuni: dalla pr di grido che rappresenta la Danimarca a Milano al console dell’Ungheria a Bari che ha aperto il sito “dentistinbudapest.it” per le cure dentali low cost, al console del Nicaragua che aveva la sede in una discoteca a Livorno. E poi in storie come queste non può mancare il contorno delle principesse. Ne furono invitate a iosa per un matrimonio di cui parlarono i quotidiani, nel 2003. Quattro giorni di riti, di sfarzi, di scintillii e gonne lunghe, sgomitate per essere a quelle “nozze dei vip”, quel “matrimonio da favola”, con “molto lusso ma non ostentato” (costruirono apposta un villaggio nella giungla), fra gioiellieri, alta finanza, immobiliaristi e amici. L’unione era d’amore, scrivono le cronache, fra il genovese Fabio Ottonello e una delle figlie del presidente del Congo Brazzavile, Cendrine Sassou-Nguesso, erede di una famiglia che dirige quasi ininterrottamente il Paese dal 1979, tenendo in saldo controllo il business principale di quei confini: il petrolio. Lui, figlio di un uomo che commerciava con il Congo in caffè e cacao, dopo le nozze diventa testa d’affari eterogenei: compra navi, affitta aerei, offre servizi alla produzione petrolifera e gestisce locali e ristoranti a Point-Noire. Il suocero lo nomina console onorario del Congo a Genova. Poi la coppia divorzia. Ma a una Francesca Ottonello resta il consolato. D’onore.

Ecco chi ci rappresenta all'estero. Emigrati di successo, imprenditori. Ma anche affaristi equivoci, scrive il 7 settembre 2016 “L’Espresso”. Ad attirare interessi sotto-diplomatici non sono solo le cariche attribuite dagli stranieri a rappresentanti di prestigio in Italia. C’è anche - viceversa - il piccolo esercito di nostri concittadini che hanno sedi onorarie per il tricolore all’estero. Si tratta di persone che svolgono, anche in questo caso, il loro compito gratis, ad eccezione di alcuni rimborsi che nel 2015 sono costati al ministero degli Affari Esteri 798.396 euro. Roma conta nei Paesi stranieri 541 uffici onorari, di cui 401 operativi e 340 sostenuti in parte economicamente. Ci sono funzionari d’onore nelle terre d’emigrazione storiche di italiani in Sud America oppure nelle nuove “terre dei pensionati” caraibiche. Ci sono uomini d’affari, che favoriscono gli scambi in Africa. O emigrati di successo. Ma ci sono anche personaggi di potere, come Gianfranco Falcioni, petroliere e viceconsole onorario dell’Italia in Nigeria, a cui sarebbe riconducibile, secondo le indagini, il conto svizzero della società offshore “Petro Service” su cui atterrò nel 2011 il miliardo e 92 milioni di euro versati dall’Eni al governo di Abuja. Intervistato dal “Sole 24 Ore”, Falcioni rispose soltanto che quella offshore «non ha mai operato». Gli intrecci complessi fra diplomazia e affari non trasparenti nei consolati africani sono stati raccontati magistralmente in un documentario del 2011 del giornalista danese Mads Brügger, candidato al Sundance. Fintosi uomo d’affari interessato al titolo di console onorario della Liberia, per sfruttare una miniera di diamanti, Brügger incontra diversi “colleghi”, che gli danno consigli importanti, come: «non toccar le donne, il resto è permesso». È uno dei suggerimenti di Gino Pierre Giuliani, ex rappresentante d’onore dell’Italia a Bangui, che, filmato a sua insaputa, aiuta il giornalista nel suo affare opaco. Ora il ruolo è passato a “Stephane Giuliani” che ha mantenuto la sede del consolato allo stesso indirizzo dell’uomo che vantava d’essere «il più antico membro consolare a Bangui» nel docu-film.

OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.

Arrivano in casa alle 5 di mattina e ti buttano in carcere, scrive Roberto Paciucci su “Fino a Prova Contraria” il 18 giugno 2016. L’opinione pubblica pensa: qualcosa di losco avrà fatto altrimenti non gli capitava. Anni dopo sei innocente. Nessuno ti chiede scusa e resta il pregiudizio dei problemi con la giustizia. Con chi te la pigli? In Italia con nessuno. Si dirà che è prevista la riparazione per l’ingiusta detenzione. Vero.  Ma quanto devi tribolare? Per ottenere una equa riparazione il Malcapitato dovrà provvedere ad una serie di procedure e formalismi bizantini buoni solo ad ostacolare l’esercizio di un diritto al punto che alcuni uffici giudiziari (ad esempio la Corte di Appello di Roma) hanno elaborato delle vere e proprie avvertenze sulle modalità di presentazione e sui documenti da allegare.

La domanda deve essere proposta per iscritto, a pena di ammissibilità, entro due anni dalla decisione definitiva e l’entità della riparazione non può eccedere € 516.456,90.

La domanda deve essere depositata in cancelleria personalmente o a mezzo di procuratore speciale.

La domanda deve essere sottoscritta personalmente dall’interessato con eventuale procura speciale e delega per la presentazione nonché espressa richiesta di svolgimento in camera di consiglio o udienza pubblica.

Il presentatore della domanda deve essere identificato dal cancelliere.

Nell’istanza devono essere indicate le date di inizio e fine di ciascuna misura cautelare sofferta e la specie di essa (detenzione, arresti domiciliari).

All’istanza devono essere allegati una miriade di atti e documenti (formando due distinti fascicoli con indice, il primo dei quali dovrà contenere alcuni atti in copia autentica, il secondo gli stessi atti (compresa l’istanza) ma tutti in copia semplice) nonché altre tre copie della sola istanza:

Decreto di archiviazione e relativa richiesta del PM o sentenza di assoluzione in forma autentica completa di timbri di collegamento tra i fogli e data di attestazione del passaggio in giudicato;

Copia delle sentenze di merito emanate nello stesso procedimento e che riguardano l’istante;

Copia dell’eventuale verbale di fermo e ordinanza di convalida;

Copia del verbale di arresto e ordinanza di convalida;

Copia della richiesta del PM di applicazione della custodia cautelare;

Copia dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in forma autentica; provvedimento di eventuale concessione degli arresti domiciliari; provvedimento di modifica del luogo degli arresti domiciliari; provvedimento di rimessione in libertà;

Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in cui l’istante attesta la pendenza di procedimenti penali (da indicare con i rispettivi numeri di registro e le relative imputazioni) in circoscrizioni diverse da quella di residenza con firma autenticata dal difensore o da un pubblico ufficiale oppure dichiarazione sostitutiva di certificazione ove l’istante dichiara di non essere a conoscenza di procedimenti penali pendenti in circoscrizioni diverse da quelle di residenza;

Copia degli interrogatori resi prima della carcerazione e in ogni fase del processo;

Copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio nonché copia della requisitoria del PM ove trattasi di procedimenti con vecchio rito;

Certificato dei carichi pendenti della Procura del luogo di residenza;

L’istante deve indicare i luoghi in cui sono stati trascorsi gli arresti domiciliari.

Poi la domanda dovrà essere valutata nel merito in quanto l’equa riparazione non spetta al soggetto sottoposto a custodia cautelare qualora, così recita la legge, “vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. È facile imbattersi in sentenze secondo cui la condotta dell’indagato è causa ostativa all’indennizzo qualora si sia avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio come suo diritto difensivo oppure “sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale abbia agito con leggerezza o macroscopica trascuratezza”. Insomma a perdere la libertà è un attimo, per prendere i soldi un’odissea.

La colpa è sempre degli altri. Se i pm hanno deciso per la condanna, perché svolgere i processi: pena immediata in carcere, senza difesa, e buttiamo via la chiave. "I processi durano un'infinità perché ce ne sono troppi. Nella mia esperienza di 38 anni di servizio fin da subito sono stato contrario a questo codice di procedura penale perché irragionevole. Già nel 1988 sollevavo le mie perplessità sulla durata dei processi". Così Piercamillo Davigo, consigliere della Corte di Cassazione e presidente dell'Associazione nazionale magistrati, interviene alla giornata di studio promossa a Roma da Unitelma Sapienza il 17 giugno 2016. "Mi si rispondeva allora che si sarebbero fatti i riti alternativi. Ma in questo paese se uno chiede un patteggiamento, invece di aspettare un indulto o una amnistia, ci si chiede se ci sia un problema di mente. In Usa - ha ricordato - il 90% degli imputati si dichiara colpevole. Vuol dire che lì il processo è avvertito come qualcosa di serio e la condanna come inesorabile. Da noi le aule di giustizia assomigliano a un suk arabo, mentre nel processo anglosassone c'è un religioso silenzio. Tra prescrizione, abolitio criminis, e vicende assortite si ha sempre la speranza di non scontare la pena. Continuiamo ad avere un numero sterminato di processi con il risultato che il processo non può avere l'immediatezza. Scriveranno che Davigo dice che l'oralità segna il ritorno al neolitico. Sì lo dico. In larga parte il nostro processo è già diventato scritto. La prova orale è la più debole, in anni di lavoro mi sono convinto che la parte più pericolosa è la prova fornita dai testimoni oculari. E' la prova debole, quindi il processo è basato su prove scritte, come le intercettazioni telefoniche che sono peraltro trascritte".

E se poi si arriva a sentenza, nonostante, anche, per il lassismo di certi magistrati? Il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini che incontrando i giornalisti a Napoli il 17 giugno 2017 dopo un incontro con i responsabili degli uffici giudiziari sulla carenza di personale amministrativo, ha detto che "nel Distretto di Napoli restano ineseguite attualmente 50mila sentenze definitive, 30mila delle quali di condanna e 20mila di assoluzione".  “Dodicimila delle 50mila sentenze definitive non eseguite - hanno precisato fonti del Csm - riguardano persone da arrestare.” “Ai provvedimenti restrittivi si uniscono - ha sottolineato il procuratore generale di Napoli Luigi Riello - i mancati sequestri di beni.”

E se finisci giudicato da uno così? Un danno per la magistratura, scrive Piero Sansonetti il 22 aprile 2016 su “Il Dubbio”. L'intervista rilasciata da Piercamillo Davigo al “Corriere della Sera” apre due problemi. Uno molto pratico e l’altro di tipo ideale. Il problema pratico è questo: se a un cittadino qualunque capita - e capiterà - di aspettare una sentenza della Corte di Cassazione che deve essere emessa da una sezione della quale fa parte Piercamillo Davigo, come si sentirà questo povero cittadino? Potrà ricusare Davigo, o invece dovrà accettare di essere giudicato da un magistrato il quale afferma e ribadisce che “non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”? E se per caso questo cittadino fosse uno che fa o ha fatto politica, come si sentirà a farsi giudicare da un magistrato il quale sostiene che i politici - tout court - rubano? Non è un problema “virtuale” è un problema concretissimo. E porta con se un secondo problema: è evidente che Davigo non rappresenta tutta la magistratura italiana, e che anzi la maggior parte dei magistrati hanno idee ed esprimono posizioni del tutto diverse e non in contrasto con la Costituzione Repubblicana, come sono le idee di Davigo. Però è pur vero che Davigo è stato di recente eletto a capo dell’associazione nazionale magistrati, e questo può farci immaginare che esista comunque un numero significativo di magistrati che la pensano come lui. Qualunque cittadino che dovesse finire sotto processo è autorizzato a temere che il magistrato che lo giudicherà la pensi come Davigo. Vedete, il danno che il presidente dell’Anm ha creato alla giustizia italiana con questa intervista è grande. Perché finisce col minare la credibilità non tanto di un singolo giudice, ma di tutta l’istituzione. Del resto che questo pericolo sia molto serio lo ha immediatamente avvertito il dottor Luca Palamara, che oggi fa parte del Csm e qualche anno fa ricoprì l’incarico di presidente dell’Anm. Palamara ieri mattina, appena letta la pagina del Corriere, è immediatamente intervenuto per tentare di limitare i danni. Ha fatto benissimo. Ma l’impresa è complicata, perché ormai l’intervista è stampata. E lo sfregio che ha recato all’immagine della magistratura e di tanti valorosi magistrati è irreversibile. Il secondo problema è quello dei rapporti tra giustizia e politica. Davigo non è certo uno sprovveduto. E’ un giurista molto colto, ha studiato, è sapiente. Il suo unico difetto è quello di avere una visione della giustizia e del diritto un po’ precedente all’esplosione, in Europa - nel settecento - dell’illuminismo. E dunque di essere, nelle sue idee, molto lontano dalla Costituzione Repubblicana (dal suo spirito e dalla sua lettera). La domanda è questa: se i rapporti tra politica e giustizia sono nelle mani di un leader dei magistrati che ha le idee di Davigo, come si può pensare che questi rapporti si risolvano in qualcosa diversa da una guerra? Mi pare che questa prospettiva sia temuta anche dal dottor Palamara, ma non credo che possa essere cambiata se non scendono in campo quei pezzi di magistratura, moderni e filo-Costituzione, che ci sono, sono molto grandi, ma anche, francamente, piuttosto silenziosi.

Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Il garante dei detenuti: ridurre le misure di custodia cautelare. Gli avvocati: separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. 630 milioni. La cifra pagata dal 1992 dal ministero del Tesoro per indennizzi da ingiusta detenzione. L’anno scorso sono stati 36 milioni, scrive il 24 aprile 2016 Andrea Malaguti su “La Stampa”. «Credevano che fossi il Padrino e non un uomo perbene. Così in attesa dei processi ho fatto 23 giorni di galera e un anno e mezzo ai domiciliari. Dopo di che mi hanno assolto con formula piena in primo grado, in appello e in cassazione. Eppure non è finita». Secondo la Procura di Palermo, Francesco Lena, ottantenne imprenditore di San Giuseppe Jato, titolare dello spettacolare relais Abbazia di Sant’Anastasia nel parco delle Madonie, era un prestanome di Bernardo Provenzano. Così cinque anni e mezzo fa, all’alba, le forze dell’ordine hanno bussato alla sua porta: «Venga con noi». «È per il permesso di soggiorno del ragazzo che sto assumendo?». «No, mafia». La moglie è sbiancata, lui si è sentito mancare e il suo mondo è andato in pezzi. Che cosa è successo da quel momento in avanti? «Mi hanno massacrato, trattandomi come il colletto bianco della cosca dell’Uditore e io l’Uditore non so neanche dove sia». Gogna mediatica e custodia cautelare in attesa di tre gradi di giudizio che avrebbero stabilito la sua innocenza, un destino paradossalmente non insolito. «Ogni anno settemila italiani vengono incarcerati o costretti ai domiciliari e poi assolti. Una parte di questi si rivale contro lo Stato, che mediamente riconosce l’indennizzo a una vittima su quattro», spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’associazione nazionale vittime degli errori giudiziari «Articolo643». Lo Stato sbaglia, dunque. E sbaglia tanto. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. E se la politica - come ha fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi - non rilanciasse il tema ambiguo dei «25 anni di barbarie giustizialiste» (parla alle procure, ai media, ai suoi colleghi o a tutti e tre?) e la magistratura non sostenesse - come ha fatto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo - che «la presunzione di innocenza è un fatto interno al processo e non c’entra nulla con i rapporti sociali e politici» e che «i politici rubano più di prima solo che adesso non si vergognano più», sarebbe più facile capire se questi numeri siano la fotografia di una debolezza fisiologica del sistema o una sua imperdonabile patologia. Ma perché Francesco Lena sostiene che la sua vita è ancora sospesa? L’imprenditore siciliano precipita in fondo al suo pozzo giudiziario perché un gruppo di mafiosi parla di lui al telefono - «Di me e mai “con” me», chiarisce - ma nei suoi confronti non c’è nient’altro, perciò i processi finiscono in nulla. Eppure la sua proprietà viene sequestrata nel 2011 dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo guidata dall’ormai ex presidente Silvana Saguto, accusata oggi di corruzione e sospesa dalle funzioni e dallo stipendio. Il sequestro avviene pochi mesi prima che la Cassazione scagioni Lena in via definitiva. A danno si aggiunge danno. «Della magistratura ho una altissima stima. Ci sono persone di grande valore, ma anche uomini e donne capaci di distruggere una comunità o una persona. Io vivo di fianco all’Abbazia e quando vedo come l’hanno trattata mi si crepa il cuore. Su 60 ettari di vigne, 30 sono stati abbandonati. Non l’hanno ancora distrutta, ma prima era un’altra cosa. Sono vittima dell’antimafia e delle gelosie, però resisto, pensando che a Enzo Tortora è andata peggio di così», spiega Lena e dal fondo della gola gli esce un suono a metà tra il sospiro e il gemito.  Il 26 di maggio una sentenza dovrebbe restituirgli ciò che è suo. Nel caso di Lena è possibile dire che le misure cautelari non abbiano inciso sulla sua vita sociale? E allo stesso tempo è possibile non pensare che nelle regioni in cui comanda la criminalità organizzata il lavoro dei magistrati sia più duro e complesso e il rischio di errore più alto? Come l’avvocato Magno, anche l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, è convinto non solo che i magistrati facciano un ricorso eccessivo alla custodia cautelare, ma anche che il problema resterà irrisolto fino a quando non saranno previste la separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la rinuncia alla obbligatorietà dell’azione penale, «correttivi che esistono in ogni Paese regolato dal sistema accusatorio, ma in Italia no». Per questo Migliucci, sostenuto dal suo ordine, ha pronta una raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare in ottobre. «Bisognerebbe ricordarsi della presunzione di innocenza, che non è un fatto interno al processo come ritiene Davigo e dunque l’associazione nazionale magistrati. Volere sostenere tale idea significa prescindere da un precetto oggettivo ripreso dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per introdurre valutazioni etiche e moralistiche che sono proprie di logiche autoritarie». È evidente che siamo alla vigilia di un nuovo scontro frontale. Eppure un punto di equilibrio tra la posizione di Migliucci e quella dell’Anm, che propone operazioni sotto copertura con poliziotti che offrono denaro a politici ed amministratori pubblici per vedere come reagiscono al tentativo di corruzione o l’introduzione di una norma che aumenti automaticamente la pena a chi ricorre in Appello e perde, presumibilmente esiste. «La separazione delle carriere, che non mi scandalizzerebbe, di fatto già esiste. Ma ritenere che le mie sentenze possano essere condizionate dal fatto che prendo il caffè con un pm è ridicolo. Io decido solo secondo scienza e coscienza, come ho fatto nel caso della Commissione Grandi Rischi, quando, qui a L’Aquila, ho mandato assolti sei scienziati che in primo grado erano stati condannati per omicidio colposo e lesioni. Sentenza, la mia, confermata dalla Cassazione». Fabrizia Francabandera è la presidente della sezione penale della Corte d’Appello dell’Aquila, tribunale che lo scorso anno ha indennizzato 44 persone per ingiusta detenzione. È una donna pratica, figlia di un magistrato, che considera il ricorso alla custodia cautelare la risorsa estrema a disposizione dei giudici. «Io penso che meno si arresta e meglio è. Alcuni colleghi usano malamente la custodia cautelare, non come se fosse una misura specifica, ma come una misura di prevenzione generale. Anche perché, in Italia, per i reati sotto i quattro anni non va in galera nessuno». Lo sbilanciamento del sistema è tale per cui si rischia di restare in carcere prima del processo e di non andarci dopo in presenza di una condanna. «Ma anche sulla ingiusta detenzione non bisogna immaginare errori macroscopici. Il dolo non esiste quasi mai e la colpa grave è rara. Il sistema complessivamente funziona, ma ha delle lacune, in un senso e nell’altro». In questi giorni a Francabandera è capitato di indennizzare un uomo arrestato in una discoteca con un sacchetto pieno di palline di ecstasy. Che fosse uno spacciatore era fuori discussione. Eppure, a una analisi successiva, è risultato che le palline non erano ecstasy ma zucchero. Questo perché lo spacciatore era stato truffato. Morale: rispedito a casa e indennizzato per ingiusta detenzione. «Naturalmente gli ho liquidato una cifra bassa, perché con il suo comportamento aveva causato il comportamento degli inquirenti». Il complicato e infinito balletto tra guardie e ladri, che non riguarda solo noi, ma l’Europa. Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e già presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture, è appena tornato da Strasburgo dove si è confrontato con colleghi olandesi, inglesi, bulgari e francesi. «La Gran Bretagna non prevede alcun indennizzo per ingiusta detenzione, la Bulgaria paga con grandi ritardi, mentre l’Olanda, per esempio, ha un meccanismo molto simile al nostro». Anche i numeri sono simili? «Non molto differenti. Per questo penso che gli errori italiani rientrino nella fisiologia del sistema e non nella sua patologia. Mi pare anche che la riforma della responsabilità civile sia un buon compromesso, perché un giudice non può vivere sotto la spada di Damocle della causa, soprattutto in un Paese dove ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che in genere hanno avvocati molto in gamba e molto ben pagati. Certo, bisognerebbe cercare di arrestare il meno possibile e anche lavorare di più sugli automatismi che portano all’applicazione della custodia cautelare». Niente barbarie giustizialista come dice il premier, quindi? «Se dietro queste parole c’è l’idea che la politica ha delegato troppo alla magistratura, come è successo per esempio di recente con le stepchild adoption, sono completamente d’accordo. Se intendeva dire, e non penso, che esiste un disegno delle Procure e dei magistrati, allora è una stupidaggine». Barbarie magari no, ma incomprensibile accanimento qualche volta sì. È il caso di Antonio Lattanzi, ex assessore di Martinsicuro, in provincia di Teramo, arrestato quattro volte nel giro di quattro mesi con l’accusa di tentata concussione e abuso di ufficio a seguito della chiamata in correità di un architetto che lo stesso Lattanzi aveva denunciato qualche anno prima. La Procura si intestardisce in un dinamismo irritante caratterizzato dall’incapacità di vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio. «Sono stato assolto in ogni grado di giudizio con formula piena. Ma ho fatto 83 giorni di prigione. Non ho capito perché abbiano usato questa durezza nei miei confronti. Dopo il primo arresto i miei avvocati hanno impugnato il provvedimento e sono stato rimandato a casa. Ma passati pochi giorni i carabinieri sono tornati a prendermi. Stavolta davanti ai miei figli. In carcere l’idea del suicidio mi ha accompagnato ogni giorno e se non fosse stato per mia moglie non so che cosa sarebbe successo. Comunque abbiamo impugnato anche il secondo provvedimento e anche questa volta mi hanno rimandato a casa». Quando sono andati a prenderlo per la terza volta racconta di avere avuto l’impressione che l’anima avesse lasciato il corpo strappato. Anche il terzo provvedimento è stato impugnato, ma il giorno prima che il tribunale per il riesame lo annullasse il giudice per le indagini preliminari ne ha emesso un quarto. «Una follia. Ma ho combattuto e vinto». Ha anche ricevuto un indennizzo, che non è bastato a pagare la metà delle spese legate al processo. «Non importa. Volevo che la mia innocenza fosse riconosciuta a tutto tondo. La prima notte in carcere è un disastro. Io però dormivo con i pantaloni e con la maglietta. Mai con il pigiama. Era il modo per dirmi: non mi piegherò mai a questo stato di cose, sono un uomo libero». Ogni anno in Italia ci sono 7000 casi Lattanzi - «tutti fratelli che vorrei abbracciare» - fisiologia o patologia del sistema giudiziario? 

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 5 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

«Quattro volte in carcere in tre mesi, ma ero innocente». Ha ottenuto 55 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. La sua vicenda è diventata un docufilm, presentato oggi al Doc Fest di Pesaro, scrive Franco Insardà il 23 giugno 2016 su "Il Dubbio". Il suo incubo ora è sul grande schermo. “Non voltarti indietro”, docufilm di Alessandro Del Grosso, racconta cinque gravi errori giudiziari tra i quali quello subito da Antonio Lattanzi: è finalista del Pesaro Doc Fest – Hai Visto Mai?, concorso internazionale di documentari provenienti da tutto il mondo su temi sociali, con la direzione artistica di Luca Zingaretti, che inizia oggi. A dispetto del titolo, Antonio Lattanzi, però, si volta indietro e rilegge tutta la sua storia con lucidità e amarezza. Una delle cose che lo hanno colpito di più è la frase pronunciata dall’avvocato dello Stato nel processo in Corte d’Appello, nel quale si discuteva della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: «È vero, ci sono stati degli errori, ma il fatto di non essere stato condannato ha riparato a questi errori». Antonio Lattanzi proprio non riesce a mandare giù queste parole e sbotta: «È assurdo. Sono stato arrestato quattro volte, sono stato in cella 83 giorni e per dieci anni sono stato imputato. Finalmente vengo assolto, chiedo il risarcimento e mi sento dire che l’assoluzione mi dovrebbe ripagare per questo calvario». È un fiume in piena quando racconta la sua incredibile vicenda. Ricorda perfettamente date, processi, pm, gip e giudici che lo hanno accompagnato per dieci anni.

Un incubo iniziato quando?

«Il 21 gennaio del 2002. Alle quattro di mattina i carabinieri sono venuti a casa e mi hanno notificato il mandato di arresto. Sono caduto dalle nuvole. All’epoca avevo due figli di 4 e 2 anni ed essere portato via sotto i loro occhi è stato bruttissimo. Non riuscivo a guardarli in faccia, mi sentivo addosso il loro sguardo indagatore e quello di mia moglie. Era incredula, non riusciva a capire quello che stava succedendo».

Di che cosa era accusato e da chi?

«Di concorso in tentata concussione e abuso di ufficio. All’epoca ero assessore ai Lavori pubblici del comune di Martinsicuro. Il tutto era partito dalle dichiarazioni di Pierluigi Lunghi, l’architetto responsabile del settore tecnico del comune, arrestato in flagranza di reato nel luglio del 2001. Raccontò di aver chiesto dei soldi ad alcuni imprenditori, e, a un certo punto, mi tirò in ballo dicendo che il tramite sarei stato io. Lunghi nel 1996 fu indagato, dopo una mia denuncia, per un reato di falso in atto pubblico e condannato a 14 mesi. Fu arrestato in flagranza di reato il 26 luglio 2001 e di nuovo il 22 agosto 2001».

Come si conclusero le indagini?

«Il pm, Bruno Auriemma, chiese l’archiviazione, ma poi Elena Tomassini, alla quale era passato il fascicolo del primo procedimento, chiese l’emissione dell’ordinanza di arresto al gip Giovanni Cirillo. E così quel 21 gennaio si aprirono per me le porte del carcere di Teramo».

Quanti giorni ci rimase?

«Ventidue giorni, perché il Tribunale del Riesame annullò l’ordinanza di custodia cautelare, ritenendo che non vi fossero i gravi indizi di colpevolezza e non ricorressero le esigenze cautelari. E così il 12 febbraio potei tornare a riabbracciare i miei figli».

A quel punto pensò che l’incubo fosse finito?

«Sì. Ma quella sensazione durò pochissimo: solo otto giorni. Il 20 febbraio i carabinieri vennero di nuovo per portarmi in carcere. L’accusa era la stessa, stavolta per un nuovo episodio di tentata concussione. Un altro pm Domenico Castellani chiese sempre allo stesso gip Cirillo una nuova ordinanza di arresto. Anche questa volta il Tribunale del Riesame, l’11 marzo, annullò l’ordinanza di custodia cautelare».

Di nuovo libero.

«Questa volta solo per tre giorni. Era il 14 marzo 2002. L’accusa, tanto per cambiare, era di tentata concussione in concorso con l’architetto Lunghi. Il Tribunale del Riesame, il 29 marzo 2002, annullò l’ennesima misura cautelare».

Finalmente libero.

«Non mi hanno neanche fatto uscire dal carcere di Teramo. Il giorno prima, il 28 marzo, mi hanno notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare per un quarto tentativo di concussione. Stesso pm e stesso gip. E, tanto per cambiare il Tribunale del Riesame ordinò la scarcerazione. Era il 22 aprile del 2002».

Quale spiegazione si dà per questo accanimento?

«Penso che alcuni magistrati non vogliano ammettere di aver sbagliato in una valutazione e cercano ossessivamente gli elementi per sostenere la loro tesi accusatoria. Nella mia vicenda c’è stato il combinato disposto tra il mio accusatore, che voleva vendicarsi, e i magistrati che gli hanno creduto e sono voluti andare caparbiamente avanti, senza valutare serenamente i fatti. Se lo avessero fatto non sarei stato arrestato quattro volte, non avrei fatto 83 giorni di carcere e i processi».

Infatti nel 2003 sono iniziati i processi.

«Il 14 gennaio del 2006 sono stato assolto in primo grado, ma il pm fece ricorso per Cassazione, perché all’epoca era in vigore la “legge Pecorella”. Nel 2012 il procuratore generale nel processo di Appello all’Aquila chiese di non procedere per sopravvenuta prescrizione. Ma io e i miei legali chiedemmo di procedere. Volevo avere una sentenza. Eravamo sicuri e abbiamo avuto ragione. Sono stato pienamente assolto».

Quando è entrato per la prima volta in carcere che cosa ha pensato?

«Sono cresciuto con un insegnamento chiaro: se non si fa nulla non bisogna avere paura. Purtroppo oggi devo dire che non è vero. Sono stato sbattuto in carcere senza che avessi fatto niente. Quando sono stato arrestato è stato disposto il divieto di incontrare gli avvocati prima dell’interrogatorio di garanzia. Sono passati otto giorni prima che mi facessero vedere mia moglie. Neanche fossi il peggiore assassino».

Parliamo di sua moglie.

«È una donna straordinaria. Senza di lei non sarei riuscito a venire fuori da questo incubo. Mi è stata vicina sin dal primo momento, mi ha sostenuto sempre. A ogni arresto e a ogni scarcerazione. Quel 22 aprile 2002, il giorno della mia libertà, le chiesi di venire con il nostro fuoristrada perché dalla finestrella della cella potevo intravederne il tettuccio, e quindi quella mattina sono stato a guardare fuori. Sembravo un leone in gabbia, ma mi calmai solo quando vidi spuntare la macchina».

Prima raccontava dello sguardo dei suoi figli quando sono venuti ad arrestarlo. E poi?

«All’epoca avevo due figli, di 4 e 2 anni, che grazie a mia moglie sono cresciuti tranquilli. La più grande ha un carattere forte. Durante la carcerazione con mia moglie decidemmo che ci saremmo fatti un regalo: un altro figlio. Nel 2005 è nata Francesca. La nostra famiglia oggi è ancora più unita. Io volevo cambiare paese, ma mia moglie mi ha convinto a rimanere».

E i suoi amici?

«Martinsicuro si è diviso. I veri amici hanno creduto in me e mi sono stati ancora più vicini, altri mi hanno deluso e si sono allontanati. Va bene così».

Chi è Antonio Lattanzi?

«Sono un ottico professionista, ho 55 anni, sono nato a Giulianova e vivo con la mia famiglia a Martinsicuro, in provincia di Teramo, e sin da ragazzo ho sempre voluto impegnarmi in politica. Nel 1993 sono stato eletto consigliere comunale ed ero all’opposizione. Nel 1997 sono stato rieletto e nominato assessore ai Lavori pubblici. Poi quel 21 gennaio 2002…»

L’assessorato ai Lavori pubblici è una poltrona che scotta. Che cosa ha realizzato?

«Su tutto l’avvio dei lavori per la sistemazione del lungomare e la realizzazione del porticciolo. Opere ferme da quel 2002. Quella poltrona per me non scottava, forse ho dato fastidio a qualcuno che si è voluto vendicare».

Dopo questa esperienza ha chiuso con la politica?

«Assolutamente no. Mi chiedono di candidarmi a sindaco. I cittadini di Martinsicuro vogliono che metta a disposizione del paese la mia esperienza amministrativa e la mia determinazione. Questa vicenda mi ha rafforzato».

Come sono stati questi 83 giorni in cella?

«Sono stato trattato bene dai miei compagni di sventura e dagli agenti penitenziari. Ho visto da vicino un mondo che non immaginavo e un sistema che va senza alcun dubbio migliorato, nel rispetto del dettato costituzionale».

È stato risarcito per quella detenzione?

«Risarcito è una parola grossa. Mi sono stati riconosciuti 55mila euro, ma tenga presente che ho speso circa 200mila euro per difendermi. Senza contare tutto quello che è significata questa storia dal punto di vista psicologico per me e per la mia famiglia. Ora sento di dover davvero chiudere il capitolo. Senza voltarmi indietro».

Pelaggi, l’avvocato innocente scagionato solo dopo tre anni. La Procura della Cassazione avvia un’indagine disciplinare sui magistrati. Luigi Pelaggi, una carriera brillante prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, scrive Paolo Colonnello l'11 giugno 2016 su "La Stampa”. Ci sono voluti tre anni, 32 mila pagine da leggere, cinque mesi di prigione, un figlio piccolo da ingannare («Dov’è papà?» «All’estero…») e una moglie da consolare, prima che un tribunale, questa volta di Roma, iniziasse a rendere giustizia a Luigi Pelaggi, avvocato granitico, una carriera brillantissima prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, stroncata una fredda mattina del gennaio 2014 da un ordine di cattura richiesto dalla Procura di Milano per un’accusa di corruzione rivelatasi completamente inesistente. E i cui estremi d’insussistenza erano già contenuti nelle stesse carte dell’inchiesta, un gigantesco faldone composto appunto da 32 mila pagine, all’interno del quale campeggiava una relazione della Guardia di finanza di “appena” 800 pagine dove era chiarissimo che i 700 mila euro di corruzione di cui veniva accusato Pelaggi non erano mai finiti a lui ma erano semplicemente il frutto di una manovra finanziaria infragruppo tra privati. Pelaggi aveva avuto la disgrazia di finire in un’intercettazione nella quale il suo nome veniva incautamente accostato ad una cifra: «700». Ora la Procura generale della Cassazione sul caso ha aperto un procedimento. Si vuole capire come mai, pur agli atti, la relazione della Gdf che proscioglieva Pelaggi, non sia mai stata presa in considerazione dai magistrati e dai giudici che si sono succeduti nella trattazione del caso: dai 4 pm milanesi che hanno svolto l’inchiesta, ovvero l’allora aggiunto Robledo e i sostituti Basiloni, Filippini e Pirrotta, ai gip che hanno emesso il provvedimento restrittivo e lo hanno convalidato (respingendo ben tre richieste di scarcerazione) ai giudici del tribunale del Riesame. Eppure al pm romano Paolo Ielo, che alla fine lo ha prosciolto chiedendone l’archiviazione confermata un anno fa dal gip, non c’è voluto molto: gli è bastato ascoltare le ragioni di questo avvocato, leggere la relazione che gli veniva segnalata e procedere. Avrebbero potuto fare così anche i pm di Milano ai quali Pelaggi, prima di essere arrestato, aveva chiesto (inutilmente) per ben 5 volte di essere ascoltato. In tutto sono 9 i magistrati che hanno ritenuto evidentemente più pregnante una intercettazione nella quale i responsabili di una società incaricata della bonifica del sito a Pioltello dell’ex area Sisas, la Daneco, parlavano di 700 mila euro e poi di Pelaggi: «I 700 poi sai dove vanno?». «Lo so, lo so…questo commissario è fantastico». Chiacchierata suggestiva ma, si è poi dimostrato, priva di sostanza, dato che i “700” cui facevano riferimento non erano affatto destinati a Pelaggi. Ma chi è Pelaggi? L’avvocato venne nominato Commissario Straordinario del sito di Pioltello con l’incarico di portare a termine la bonifica di un’area di oltre 300 mila metri quadri, con la rimozione e lo smaltimento di 300 mila tonnellate di rifiuti speciali, sospesa dopo l’arresto di uno dei vincitori dell’appalto originario (Giuseppe Grossi). Un’operazione che il Commissario portò a termine in un anno (maggio 2010-giugno 2011) riuscendo così ad ottenere l’archiviazione della condanna dello Stato italiano da parte della commissione europea ad una molta per oltre 670 milioni di euro. Vicenda per la quale, paradosso nel paradosso, ora Pelaggi è accusato di truffa nei confronti dello Stato. Ma il legale si sente sicuro e tranquillo di poter dimostrare anche questa assurdità. Intanto ha perso 5 mesi di vita, si è visto rovinare una notevole carriera e ha avuto seri problemi famigliari. Ora sarebbe bello che qualcuno gli restituisse un po’ di giustizia. 

RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!

Mini trattato del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd del 4 aprile 2016: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo. Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza. Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». All'indomani delle parole del Presidente del Consiglio Matteo Renzi arriva, dura, la replica del presidente della sezione della Basilicata dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), Salvatore Colella: «Le dichiarazioni di Renzi sono inopportune nei tempi ed inconsistenti nei fatti. Inopportune perché arrivano in un momento molto delicato dell'inchiesta, con un intervento “a gamba tesa” e le sue insinuazioni sono quantomeno viziate da un interesse di parte, inconsistenti perché smentite, solo poche ore dopo, da un pesante verdetto di condanna contro i vertici della Total nel processo “Totalgate” (dopo 8 anni, con inchiesta nata nel 2008 per mani di Woodcock). Se è vero che in un paese civile, come dice il Presidente Renzi, “i processi arrivano a sentenza”, e noi abbiamo dimostrato di saperlo fare - ha continuato l'Anm lucana - è anche vero che in un Paese civile “il governo rispetta i lavoro dei magistrati”, sempre, anche quando toccano la propria parte politica. Ci saremmo aspettati la stessa intransigenza e fermezza di condanna annunciata dal Presidente in occasione di altre inchieste di rilievo nazionale». Renzi sceglie Facebook per rispondere alle critiche sulle sue affermazioni sulla Procura di Potenza: «Oggi leggo che Renzi accusa i magistrati, noi stiamo incoraggiando i magistrati a fare il più veloce possibile. Non accuso i magistrati, accuso un sistema che non funziona, voglio mettere in galera i ladri, per questo incalzo i magistrati perché siano veloci», ha detto Matteo Renzi in diretta da Palazzo Chigi utilizzando Facebook Mentions.

Ma a prescindere dalla diatriba farsesca, tra parti che si coprono a vicenda, parliamo dei danni inflitti alla comunità dalle lungaggini processuali ed a cui nessuno vuol porre rimedio per non inimicarsi “le sacre toghe”.

Per porre rimedio alle condanne inflitte dalla CEDU il legislatore italiano ha inventato la Legge Pinto, ossia la legge che, man mano annacquata da riforme restrittive, è a tutti gli effetti una legge truffa.

Chi è stato coinvolto in un processo – civile, penale, amministrativo, pensionistico, militare, in una procedura fallimentare o concorsuale ovvero, a certe condizioni, tributario, ecc. – per un periodo di tempo considerato «irragionevole», cioè troppo lungo, può richiedere, in base alle disposizioni della legge 24 marzo 2001, n. 89, meglio conosciuta come “legge Pinto”, una equa riparazione, cioè un risarcimento del danno allo Stato italiano, nella misura determinata dalla legge stessa in ragione degli anni o frazione eccedenti la durata ragionevole.

Secondo l’art. 2-bis, si considera rispettato il termine ragionevole per la durata del giudizio «se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità».

La legge Pinto è stata modificata col D.L.8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2013, n. 64 e col D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. È stata poi modificata dalla legge di stabilità 2016. L’ammontare effettivo del risarcimento concesso dipende dalla materia del procedimento e dalla sede territoriale della Corte: di solito vengono liquidati risarcimenti più alti per questioni in materia di famiglia o status della persona, per procedimenti penali o pensionistici, meno per altre questioni; inoltre le corti d’appello che si trovano al Nord sono, solitamente, più di manica larga rispetto a quelle del meridione, parallelamente alla differenza del costo della vita, almeno tendenzialmente. In materia, valgono inoltre le regole poste dall’art. 2 bis della legge Pinto. Il risarcimento può essere chiesto anche se il giudizio è terminato con una transazione e cioè mediante un accordo tra le parti (Cass. 8716/06, Cass. 11.03.05 n. 5398). Il risarcimento va chiesto con ricorso alla Corte d’Appello territorialmente competente e viene deciso dalla corte con un decreto che poi va notificato al ministero, con una procedura simile a quella prevista per l’ingiunzione di pagamento.

La legge 24 marzo 2001, n. 89 - nota come legge Pinto - (dal nome del suo estensore, Michele Pinto) è una legge della Repubblica Italiana. Essa prevede e disciplina il diritto di richiedere un'equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto per l'irragionevole durata di un processo. La norma nacque come ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in base all'art. 13 della Convenzione che prevede il diritto ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. In tal modo, si introduce un nuovo ricorso interno, che i ricorrenti devono avviare prima di rivolgersi alla Corte di Strasburgo. Tuttavia le Corti d'Appello inizialmente non hanno applicato i parametri della CEDU per la definizione dell'irragionevole durata del processo, ma hanno chiesto ai ricorrenti la dimostrazione dell'aver subito un danno (cosa che, secondo l'art.6 CEDU, è incluso nel fatto stesso). Tali casi sono stati quindi ri-appellati alla Corte CEDU di Strasburgo per scorretta applicazione della Legge Pinto. Nel 2004 la Corte di Cassazione ha stabilito che i giudici nazionali devono applicare i criteri di Strasburgo nel decidere in casi relativi alla legge Pinto, senza poter richiedere la prova del danno subito dal ricorrente. La sentenza Brusco della CEDU ha infine statuito che tutti i casi pendenti a Strasburgo dal 2001 (sui quali non sia ancora stato dato un giudizio di ricevibilità da parte della Corte) debbano tornare in Italia per l'appello interno secondo la legge Pinto. La sentenza Brusco è stata criticata per gli alti costi processuali presenti nella procedura interna italiana, ed inesistenti a Strasburgo. L'art. 55 del Dl. 22 giugno 2012 n. 83, contenente "misure urgenti per la crescita del paese" (c.d. decreto sviluppo del governo Monti), ha apportato importanti modifiche alla legge, volte a porre un freno alle richieste di risarcimento. Infatti, la riforma introdotta dal c.d. DL Sviluppo 2012 è stato profondamente mutato il procedimento delineato dalla Legge Pinto per permettere un più agevole ed efficace accesso al giudizio di equa riparazione ed ottenere in tempi più rapidi (che non siano a loro volta “irragionevoli”) il giusto risarcimento.

1) Non è più investita della decisione la Corte d'Appello in composizione collegiale. A decidere sarà un giudice monocratico di Corte d'appello con una procedura modellata su quella del decreto ingiuntivo e quindi, senza inutili appesantimenti procedurali (a titolo di esempio basti pensare che per la fissazione dell'udienza, specie avanti le Corti di appello più oberate, occorrono mesi o anni di attesa).

2) Viene fissato un preciso tetto oltre il quale la lunghezza del processo diventa “irragionevole” facendo così sorgere il diritto all'equa riparazione. Il processo non è svolto in termini ragionevoli quando supera i sei anni (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità).

3) Sono stati puntualmente fissati gli importi per gli indennizzi commisurati in 1.500 euro per ogni anno o frazione di anno superiore a sei mesi che eccedente rispetto al termine di ragionevole durata.

4) In ogni caso la domanda può essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.

La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta "Legge di Stabilità 2016", introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo ancor di più la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.

SCHEMA ESEMPLIFICATIVO.

IL DANNO

Danno da lungaggine del processo per la Cedu: patrimoniale o non patrimoniale.

Danno da lungaggine del processo per lo Stato Italiano: Forfettario. Prima, da 500 euro a 1500 euro, dopo, da 400 euro a 800 euro.

IL DIRITTO

Diritto al risarcimento per la CEDU: è incluso nel fatto stesso (onere della prova a carico dello Stato, an e quantum) senza valutazione ed interpretazione.

Diritto al risarcimento per lo Stato Italiano: ai ricorrenti tocca la dimostrazione dell'aver subito un danno (onere della prova a carico dei ricorrenti, an e quantum) e valutazione data dai magistrati responsabili essi stessi del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice collega durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

DURATA

Durata ragionevole del processo per la Cedu: ragionevole inteso in senso oggettivo europeo.

Durata ragionevole del processo per lo Stato Italiano: 3 anni per il primo grado; due anni per il secondo grado; un anno per il terzo grado. Precisando che il processo si considera iniziato, nell’ambito dei procedimenti civili, con il deposito del ricorso o con la notifica dell’atto di citazione; penali, con l’assunzione della qualità di imputato e non di indagato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero, quando l’indagato ha legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.

ITER

Iter risarcitorio per la Cedu: procedimento amministrativo semplificato, veloce e gratuito.

Iter risarcitorio per lo Stato Italiano: procedimento giudiziario di competenza dell’ordine professionale foriero del danno attivato. Prima presso la Corte di Appello competente ex art. 11 c.p.p., poi, presso la Corte di Appello foriera del danno in composizione monocratica ed inaudita altera parte. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis”o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.

ATTIVAZIONE

Attivazione dell’iter per la Cedu: semplice domanda.

Attivazione per lo Stato Italiano: Prima semplice ricorso giudiziario, dopo una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento.

GRAVOSITA' DELL'ONERE DELLA PROVA

Onere della prova per la Cedu: Fascicolo acquisito d’ufficio.

Onere della prova per lo Stato Italiano: copie fascicolo conformi all’originale con oneri di bollo e diritti.

DIFFICOLTA' ARTEFATTE

Intoppi ed ostacoli per la Cedu: nessuno.

Intoppi ed ostacoli per lo Stato Italiano: La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, (insomma, solo se ha chiesto al giudice di accelerare in ogni modo la causa, come se fosse colpa sua e non del sistema che scricchiola), istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Gli esperti sostengono che sul versante civile questa clausola potrebbe portare ad una situazione drammatica: la rinuncia al rito ordinario e la decisione allo stato degli atti, questa la dizione tecnica, col rischio di perdere la causa. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".

TERMINE DELLA DOMANDA

Termine della domanda per la Cedu: ragionevole.

Termine della domanda per lo Stato Italiano: In ogni caso la domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.

PAGAMENTO

Pagamento per la Cedu: immediato e semplice.

Pagamento per lo Stato Italiano: gli indennizzi potranno essere erogati entro il limite delle risorse disponibili di un apposito capitolo del ministero della Giustizia. Per fortuna sarà possibile un‘anticipazione di tesoreria, ma solo nel caso venga attivata l’esecuzione forzata. In quel caso sarà Banca d’Italia a provvedere registrando il pagamento in "conto sospeso" in attesa che il ministero regolarizzi la partita contabile non appena abbia le risorse per farlo. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato.

TERMINI DEL PAGAMENTO

Termini ragionevoli di adempimento per la Cedu: due anni.

Termini ragionevoli di adempimento per lo Stato Italiano (Pinto su Pinto): prima 4 mesi, dopo, 6 anni ordinari, dopo le pronunzie giurisprudenziali, 2 anni e tre anni. 2 anni. La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Infine 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata". E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001). Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".

SANZIONI 

Sanzioni per la Cedu: nessuna, se non la pronuncia di rigetto della domanda.

Sanzioni per lo Stato Italiano: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

Per le lungaggini processuali il nostro Paese è ancora ai primissimi posti nella classifica delle violazioni dei diritti umani. Assieme a disoccupati, debito pubblico e corruzione, l'Italia detiene un altro primato internazionale: il numero di ricorsi presentati da nostri concittadini alla Corte europea dei diritti dell'uomo, scrive su Elisabetta Burba il 29 gennaio 2015 su “Panorama”. A inizio ottobre 2014, l'Italia era in cima alla graduatoria dei paesi con maggior numero di ricorsi per violazioni della Convenzione europea dei diritti umani, soprattutto per lungaggini processuali e sovraffollamento delle carceri. Tanto che nel 2013 è stata condannata a versare indennizzi per oltre 71 milioni di euro. Pur avendo quasi dimezzato l'importo rispetto al 2012 (quando aveva raggiunto la cifra record di 120 milioni di euro), anche nel 2013 il nostro paese è stato quello condannato a versare la cifra più alta fra tutti i 47 paesi membri del Consiglio d'Europa. Lo Stato ha accumulato uno stock di debito di oltre 455 milioni di euro a titolo di risarcimento per i procedimenti non definiti entro il termine massimo di 6 anni. Ogni anno vengono presentate circa 12 mila istanze relative a richieste per cause definite con ritardi fino a 3 anni (sono il 25%), per indennizzi tra 3 e 7 anni (55% circa 6.600 casi). Ma ci sono anche richieste di risarcimento per ritardi che definire esorbitanti è riduttivo: in 2.400 casi oltre 7 anni rispetto al termine di legge. Le cifre che ogni anno le casse dello Stato liquidano per questi procedimenti è di circa 45 milioni. Con 17.300 procedimenti aperti, nell'ottobre 2014 l'Italia si è aggiudicata il primo inglorioso posto nella classifica dei ricorsi, davanti a paesi non esattamente garantisti come Russia, Turchia e Ucraina. Negli ultimi mesi il numero dei ricorsi è calato agli attuali 12mila, ma la situazione resta critica. «Come numeri assoluti purtroppo siamo ancora molto in alto: al secondo posto dopo l'Ucraina e prima della Russia, anche se fortunatamente non occupiamo più la prima posizione» dice a Panorama Guido Raimondi, il giudice italiano nonché vicepresidente della Corte. Il tribunale ha sede a Strasburgo in uno stravagante palazzo del 1995 che si ispira all'allegoria della dea Giustizia: la hall centrale di vetro simboleggia l'accessibilità della Corte e le due torri d'acciaio laterali con tetto inclinato i piatti della bilancia. Ed è proprio la "denegata giustizia" l'oggetto del contendere fra la Corte e l'Italia. Al primo posto, un annoso problema dei tribunali italiani: le lungaggini processuali (seguito a ruota dal sovraffollamento carcerario). «Il nostro contenzioso riguarda in gran parte l'eccessiva lunghezza delle procedure giudiziarie- spiega Raimondi - L'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che gli Stati membri sono tenuti ad applicare, dice che ogni persona ha "diritto a un equo processo". E quando la Corte rileva la violazione di un diritto segnala allo Stato che nel suo sistema c'è un problema: spetta allo Stato risolverlo. Nel caso dei processi interminabili, un fenomeno esploso negli anni Ottanta, la soluzione trovata nel 2001 era stata la legge Pinto. Quello che in gergo è detto un "rimedio interno" prevedeva un sistema risarcitorio in ambito nazionale secondo un ammontare previsto dalla Corte. Una volta promulgata la legge, che prevedeva il diritto di risarcimento in caso d'irragionevole durata di un processo, la Corte aveva ritenuto chiuso il caso. Peccato però che a Roma mancassero gli stanziamenti necessari per applicarla...». «Non solo - commenta Manuel Jacoangeli, l'attivissimo ambasciatore italiano a Strasburgo, che riceve Panorama nella prestigiosa sede del governo italiano, una villa art nouveau del 1899. - In tutti questi anni, Roma non ha saputo risolvere il problema attraverso una complessiva riforma della giustizia. Risultato: in breve tempo i ricorsi a Strasburgo per lungaggini processuali erano ripresi, gonfiandosi a dismisura, fino a coprire circa i due terzi del totale». «Il numero dei ricorsi individuali contro l'Italia, in comparazione con quello di altri paesi, è solo relativamente un indicatore dello stato dei diritti umani - spiega Vladimiro Zagrebelsky, che è stato giudice della Corte europea dal 2001 al 2010. - In Italia è facile organizzare una valanga di ricorsi seriali, facendone esplodere il totale. In altri paesi è meno frequente, anche in presenza di massicce violazioni. La questione dei numeri va quindi relativizzata, anche in relazione al tipo dì violazioni denunziate. Ciò che invece è grave -  continua Zagrebelsky - sono le violazioni endemiche e strutturali da molto tempo senza soluzione. L'irragionevole durata dei procedimenti giudiziari ne è il maggiore esempio». Conclude Raimondi: «Per il nostro contenzioso non sì intravede una soluzione soddisfacente a breve termine».

Stop alle affollate udienze in camera di consiglio e ai rinvii per mancanza degli atti del processo presupposto: le richieste di equa riparazione per le lungaggini dei processi continuano a essere avanzate alla corte d’appello, ma i ricorsi depositati dall’11 settembre 2013 sono decisi da un giudice monocratico, e cioè il presidente della corte d’appello oppure un magistrato dello stesso ufficio a tal fine designato. Sono gli effetti delle modifiche alla legge Pinto (legge 89/2001) introdotte dal decreto legge sviluppo (Dl 83/2012, convertito dalla legge 134). La domanda di equa riparazione si propone con un ricorso che deve avere il contenuto dell’articolo 125 del Codice di procedura civile: indicazione dell’ufficio giudiziario adìto, delle parti, dell’oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni. E mentre la precedente versione della “Pinto” attribuiva alle parti la facoltà di chiedere alla corte di acquisire gli atti e i documenti del procedimento presupposto, adesso il comma 3 del nuovo articolo 3 dispone che, unitamente all’atto introduttivo del giudizio, devono essere depositati in copia autentica gli atti più significativi di quel procedimento, e precisamente: la citazione, il ricorso, le comparse e le memorie; i verbali di causa e i provvedimenti del giudice (si tratta, evidentemente, di quelli interlocutori pronunciati in corso di giudizio); infine, il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Adempimenti che gravano in modo non indifferente l’attività propositiva, minandone la convenienza, pur rimanendo l’esenzione dei diritti statali. Lo stesso articolo 3 individua pure la legittimazione passiva: il ricorso va proposto nei confronti del ministro della Giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del ministro della Difesa in ipotesi di procedimenti del giudice militare, del ministro dell’Economia in tutti gli altri casi. Entro trenta giorni dal deposito del ricorso, il giudice pronuncia un decreto motivato. L’istanza è rigettata nelle ipotesi previste dall’articolo 640 del Codice di procedura civile, espressamente richiamato dal nuovo articolo 3 della Pinto, e cioè quando non sia accoglibile oppure quando la parte non abbia risposto all’invito del giudice di provvedere alla prova nei casi di domanda non sufficientemente giustificata. In caso di rigetto della richiesta, non solo il ricorso non può essere riproposto (salva l’opposizione), ma la parte rischia pure la condanna al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma compresa tra mille e 10mila euro. Nei casi, invece, di accoglimento, il giudice ingiunge all’amministrazione di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida pure le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento. Il nuovo rito ricalca dunque lo schema del giudizio monitorio e introduce alcuni elementi di chiarezza, mutuati dalla giurisprudenza della convenzione dei diritti dell’uomo (Cedu) e della Cassazione, che dovrebbero condurre a decisioni tendenzialmente standardizzate. Per un verso, infatti, si è proceduto all’esatta individuazione del termine di durata ragionevole del processo: tre anni per il primo grado, due anni per il secondo, un anno per il giudizio di legittimità, con l’ulteriore precisazione che si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Sotto il profilo dell’importo dovuto a titolo di equa riparazione, poi, si stabilisce che il giudice liquidi una somma tra 500 e 1.500 euro per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Un’altra importante novità riguarda i tempi. L’articolo 4 della precedente versione della Pinto ammetteva la proposizione della domanda di equa riparazione già durante la pendenza del procedimento, mentre le recenti modifiche consentono l’istanza solo entro sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta definitiva.

Quello che non traspare è la truffa perpetrata. Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice ed altri raggiri contro il cittadino. Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare la violazione il giudice valuta:

- la complessità del caso,

- l’oggetto del procedimento,

- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:

- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,

- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,

- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,

- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;

- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

Non basta vi è anche la “Pinto sulla Pinto”! La Cassazione sui Processi lumaca. La Cassazione interviene sulle lungaggini processuali, fissando la durata delle cause promosse ex lege Pinto, nel termine massimo di due anni, superati i quali la vittima si aggiudica il diritto ad altro e diverso ristoro. La Corte Costituzionale li dilata a 3 anni. Come si suol dire: cornuto e mazziato!

Sono le vittime del paradosso della giustizia italiana che oltre all’inganno di processi interminabili subiscono la beffa di ottenere con eccessivi ritardi processuali il ristoro dovuto! La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Il Collegio, discostandosi da un precedente orientamento, riconosce, dunque, la ragionevolezza del termine di due anni, ritenendolo “pienamente compatibile con le indicazioni…della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, e considerando il fatto che un giudizio in Cassazione “non è suscettibile di compressione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno”. Quanto al termine di quattro mesi, previsto dalla legge 89/2001, c.d. Legge Pinto, la Cassazione precisa la natura meramente sollecitatoria, e dunque non perentoria, dello stesso, essendo impensabile che un giudizio volto ad ottenere equa riparazione possa chiudersi in così breve tempo. Anche in questo caso, dunque, il Ministero della giustizia dovrà pagare! I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata" quindi 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001).

Dopo tutta la traversata nel deserto e dopo averti messo contro l’intera casta dei magistrati locali finalmente si può ottenere l’equo ristoro con la pignorabilità dei beni statali, tenuto conto che il Ministero non è propenso a pagare? La finanziaria 2007 al comma 1351, così come nel 2006 era avvenuto per i beni del Ministero della Salute, ha stabilito la impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia: “non sono soggetti ad esecuzione forzata i fondi destinati al pagamento delle spese per servizi di forniture aventi finalità giudiziaria e penitenziaria, nonchè gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrato dal Ministero della giustizia e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, accreditati mediante aperture di credito in favore di funzionari delegati degli ufficio centrali e periferici del Ministero della Giustizia, degli uffici giudiziari e della Direzione nazionale antimafia e della Presidenza del Consiglio dei Ministri”. E’ come se lo Stato adottasse per sè il principio secondo cui “chi non ha nulla, non ha niente da perdere” e cioè il nullatenente non sarà mai aggredibile forzatamente dal debitore in quanto non ha alcun bene su cui potersi soddisfare! Lo Stato rendendo i propri beni impignorabili, in buona sostanza, diviene come un soggetto che non ha beni da aggredire. La legge sopra menzionata si aggiunge a tutta una serie di norme speciali che rallentano ed ostacolano le azioni esecutive nei confronti della PA. Si pensi, ad esempio, che per proporre azione esecutiva nei confronti della PA occorrono 120 gg. a fronte della immediatezza di tale azione nel caso di cittadini. Se poi i 120 giorni cadono durante le ferie processuali questi diventano 170. Eppure tali leggi dovrebbero di per sè essere incostituzionali in quanto si preclude la pignorabilità e quindi la tutela costituzionale del credito. Con la finanziaria del 2007 i creditori si sono trovati impossibilitati ad ottenere il loro avere e lo stesso blocco lo hanno trovato i creditori in base alla Legge Pinto. Come se ciò non bastasse è intervenuta la legge 181/2008 che all’art. 1 ter ha esteso l’applicazione della impignorabilità sulle contabilità speciali delle prefetture, direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di Finanza, alla contabilità ordinaria del Ministero di Giustizia e degli uffici giudiziari. Pertanto non sono più soggetti a pignoramento: gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrativo dal Ministero di Giustizia, accreditati mediante aperture di credito in favore dei funzionari del Ministero della Giustizia e degli uffici giudiziari.

La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta la Legge di Stabilità 2016, introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.

Misura dell'indennizzo. L'indennizzo viene ridimensionato ed è ora previsto (art. 2-bis) in una misura che va da un minimo di euro 400 ad un massimo di euro 800 (mentre prima il massimo era previsto in euro 1.500).

Rimedi preventivi. La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".

Casi di non riconoscimento dell'indennizzo. All'art. 2 vengono inoltre aggiunti casi nei quali "Non è riconosciuto alcun indennizzo" e ulteriori casi nei quali "si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo", come ad esempio nel caso di contumacia (a dispetto di recenti pronunce della Corte di Cassazione) o di dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato. L'indennizzo non è riconosciuto, invece, ad esempio, in "caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento" o quando la parte "ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese". A questo punto il ricorso per l'equo indennizzo sottopone il processo svoltosi in ritardo ad una valutazione, talvolta altamente discrezionale, da parte della Corte d'Appello.

Modalità di pagamento. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato. Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".

Legge Pinto: la modifica della competenza per territorio e le nuove “modalità di pagamento”, scrive Finocchiaro Giuseppe - Professore associato di diritto processuale civile nell'Università degli Studi di Brescia. Ultime due rilevanti novità nella profonda metamorfosi di fine anno della legge Pinto sono costituite: da un lato, dalla modifica della competenza per territorio; dall’altro lato, dall’introduzione di una serie di complesse norme in tema di “modalità di pagamento”.

La modifica della competenza per territorio. Nel procedimento per il riconoscimento dell’equo indennizzo la Corte d’appello (competente per materia in unico grado), dovendo valutare la violazione della ragionevole durata del processo presupposto, è chiamata non soltanto a verificare anche la condotta dei magistrati cui era stata affidata la direzione del medesimo processo presupposto, ma anche a pronunciare un provvedimento potenzialmente generatore della loro responsabilità erariale, come indicato dall’art. 5, comma 4, legge Pinto. A ragione di ciò, al fine, pienamente condivisibile, di assicurare le più complete terzietà ed imparzialità del giudice chiamato a valutare sulla violazione della ragionevole durata del processo presupposto, il legislatore, fin nella versione originaria del 2001, aveva stabilito l’applicabilità del criterio di competenza territoriale previsto dall’art. 11 c.p.p. per i procedimenti penali riguardanti i magistrati. In forza di questa norma, come ben noto, si verificava uno spostamento della competenza dall’ufficio giudiziario che sarebbe stato ordinariamente competente, sicché la domanda andava proposta alla “corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”. Questa scelta, confermata nelle precedenti riforme degli anni 2007 e 2012, dava luogo ad un inconveniente di non poco conto: faceva sì che sulle Corti d’appello limitrofe a quelle di grandi dimensioni e, conseguentemente (anche soltanto per ragioni statistiche), con un gran numero di ritardi giudiziari, si riversasse una mole di ricorsi ex legge Pinto spesso sproporzionata rispetto all’organico ridotto dell’ufficio giudiziario competente: il caso sicuramente più eclatante è quello relativo alle domande dei procedimenti celebrati nella Capitale (sede altresì delle magistrature superiori, presso cui confluiscono in sede d’impugnazione pressoché tutti i procedimenti giurisdizionali) che venivano interamente devolute alla Corte d’appello di Perugia. Per rimediare a questa inefficienza del sistema, la legge di stabilità 2016 ha sostituito l’art. 3, comma 1, prevedendo che la domanda di equa riparazione debba essere proposta alla “corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto” ed ha contestualmente aggiunto al comma 4 la precisazione secondo cui “Non può essere designato [per la trattazione del procedimento] il giudice del processo presupposto”. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis” o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.

“Modalità di pagamento”. E’ la rubrica del nuovo art. 5-sexies, che dimostra quanto sia vero il detto secondo cui “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”: anche dopo la liquidazione della somma a titolo di equo ristoro per l’irragionevole durata del processo presupposto, la parte deve attendere per ottenere effettiva soddisfazione del proprio diritto all’indennizzo (cioè, essere concretamente pagata). Per cercare di porre rimedio a questa situazione, nella primavera scorsa era stato siglato tra il Ministero della Giustizia e la Banca d’Italia (“anche quale esercente la Tesoreria dello Stato”) un accordo in virtù del quale questa “presta collaborazione temporanea” a quello “nelle attività preparatorie del pagamento delle somme riconosciute agli aventi diritto dalle competenti corti d’appello a titolo di indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001 e delle relative spese processuali” (le parti tra virgolette sono estrapolate dal testo dell’accordo del 18 maggio 2015. Il nucleo dell’accordo consiste nella predisposizione da parte della Banca d’Italia dei mandati di pagamento grazie alla creazione di un database da aggiornarsi settimanalmente. Il nuovo art. 5-sexies, comma 1, impone ora sul creditore i concorrenti oneri, da un lato, di rilasciare un’autocertificazione “attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, le modalità di riscossione prescelta … [accreditamento su conto corrente intestato al creditore medesimo o, per importi non superiori a 1.000 euro, per cassa o per vaglia cambiario non trasferibile]”, e, dall’altro lato, di trasmettere, all’amministrazione debitrice, della “documentazione”, che verrà precisamente individuata con decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e del Ministero della Giustizia da emanarsi entro il 30 ottobre 2016 (anteriormente all’adozione dei decreti ricordati, pertanto, deve ritenersi che la disposizione de qua non sia applicabile). Ai sensi del successivo comma 4, la mancata, incompleta o irregolare trasmissione, vuoi della dichiarazione, vuoi della documentazione, costituisce legittima causa per il mancato pagamento dell’ordine di pagamento entro il termine di 6 mesi dalla ricezione. Questa articolata e complessa serie di norme, di stampo spiccatamente amministrativo-burocratico, non soltanto ha rilievo interno alle amministrazioni debitrici, ma incide anche sul diritto costituzionale di azione giurisdizionale: l’art. 5-sexies, comma 7, infatti, stabilisce che prima che sia decorso il ricordato termine semestrale per lo spontaneo adempimento “i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento” [di condanna].

Le nuove norme ricordate non possono non essere criticate, considerato che:

- innanzi tutto, appaiono profondamente inopportune ed inique, atteso che impongono alle parti private (risultate vincitrici all’esito di un processo giurisdizionale) di rendere delle autodichiarazioni (penalmente rilevanti) di fatti e di produrre della documentazione, i quali sono gli uni e l’altra già, rispettivamente, noti e nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni debitrici;

- in secondo luogo, pongono dubbi di conformità con gli art. 3 e 24 Cost., posto che condizionano l’accesso alla tutela giurisdizionale, indicata a più riprese dal giudice delle leggi come diritto essenziale e fondamentale del sistema giuridico costituzionale, a formalità volte esclusivamente a rimediare alle inefficienze delle pubbliche amministrazioni debitrici, che si dimostrano incapaci di gestire in modo ordinato i pagamenti dovuti;

- da ultimo, sono potenzialmente foriere di una notevole crescita del carico di lavoro giudiziario: non pare, infatti, infondato il timore che la principale e reale conseguenza applicativa delle nuove norme sarà di creare contenzioso circa le regolare e completa trasmissione della dichiarazione e della documentazione richieste.

COPIA CONFORME DEGLI ATTI. Prima della riforma del processo ex lege Pinto, scrive Concetta Pennisi, il ricorrente non aveva eccessivi oneri di allegazione; infatti era data facoltà alla parte di richiedere che la Corte disponesse l'acquisizione in tutto o in parte gli atti e i documenti del procedimento in cui si assumeva verificata la violazione della durata del procedimento, le parti avevano diritto, unitamente ai loro difensori, di essere sentite in camera di consiglio se comparivano. Inoltre, erano ammessi il deposito di memorie e la produzione di documenti sino a cinque giorni prima della data in cui era fissata la camera di consiglio. La norma è stata sostituita dall’art. 55 del DL 83/2012 convertito in l. 134/2012 che prevede l’onere per il ricorrente di depositare unitamente al ricorso la copia autentica di tutti gli atti della causa ( l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata); di tutti i verbali di causa e i provvedimenti del giudice; nonché del provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Si tratta di formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive. Anzitutto la conformità comporta un onere economico gravoso per la parte. Presentare l’intero fascicolo in copia conforme della causa presupposta comporta il pagamento di svariate centinaia di euro in bolli: si pensi che i fascicoli di gran parte delle cause sono composte da migliaia di pagine. Orbene, se lo scopo della legge doveva essere quello di dotare l’ordinamento nazionale di un meccanismo riparatorio capace di riprodurre sul piano interno le condizioni assicurate sul piano internazionale dalla CEDU, tenuto conto che non esistono tali oneri nel procedimento dinanzi alla Corte di Strasburgo, la loro introduzione determina una vessazione tributaria che scoraggia il cittadino dal ricorrere alla giustizia interna per ottenere un’equa riparazione. Si può affermare che l’introduzione dei costi elevati per ricorrere alla giustizia e gli adempimenti formali richiesti, di fatto ha creato ulteriori ostacoli all’accessibilità dell’azione da parte del cittadino e quindi pregiudica l’effettività del ricorso interno. Le parti non possono essere gravate di oneri eccedenti la normale diligenza, tali da rendere difficoltoso o da pregiudicare il proprio diritto. Ne consegue che l’onere di cui è gravato il ricorrente ostacola di fatto l’effettivo esercizio dell’azione a tutela del proprio diritto in aperta violazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 34 della Convenzione che sancisce che le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’effettivo esercizio efficace di tale diritto. Per cui anche tale articolo è suscettibile della sanzione di incostituzionalità ai sensi degli artt. 117 e 24 Cost.

L’ITALIA CLEPTOMANE. PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.

"Le aziende scappano: l'Italia è una giungla di tasse e burocrazia". Il giuslavorista Fava: "Imprenditori in fuga nei Paesi in cui lo Stato non li perseguita", scrive Giacomo Susca, Lunedì 05/09/2016, su "Il Giornale". Mentre gli Agnelli portano la cassaforte Exor in Olanda, al riparo dal fisco vorace di mamma Italia, migliaia di imprenditori con cognomi magari meno ingombranti si chiedono ogni giorno se è arrivato il momento di fare le valigie. E alla fine optano per un biglietto di sola andata. Gabriele Fava, giuslavorista e legal advisor, di capitani d'azienda al bivio della delocalizzazione ne ha conosciuti molti. «Sia chiaro, nessuno decide di lasciare il nostro Paese a cuor leggero. Spesso è una scelta dolorosa, ma inevitabile. L'alternativa è chiudere e ritrovarsi col piattino in mano. D'altronde cosa si può argomentare di fronte a chi reclama più redditività e meno oppressione fiscale?».

Avvocato Fava, su chi fanno più presa le sirene d'oltreconfine?

«Parliamo di realtà medio-grandi, dai 100-200 dipendenti fino ai 10mila. Imprese in salute del settore metalmeccanico, dell'energia o dei servizi, che possono permettersi di spostarsi all'estero senza maggiori rischi».

Perché dicono addio al Belpaese?

«Ha ragione Nicola Porro quando scrive che gli imprenditori non sono i responsabili di una onlus. Hanno lo scopo di realizzare profitti, e operano laddove le condizioni consentono di essere competitivi e di crescere. Assumono solo se le prospettive sono positive. Ci sono Paesi che ti accompagnano nel business passo per passo, ti coccolano, fanno di tutto per averti. L'Italia ormai non è certo tra questi».

Dove conviene scappare, allora?

«Mica tanto lontano, altrimenti la logistica sarebbe un problema. I nuovi paradisi delle imprese si trovano a un'ora, un'ora e mezza al massimo di aereo da Roma: Olanda, Paesi scandinavi, Polonia, Portogallo. E nell'ultimo periodo il vero boom è verso la Tunisia, l'Albania, la Serbia, ... posti in cui la manodopera parla anche italiano».

Quali attrazioni i nostri imprenditori scoprono a Tirana o a Tunisi?

«Una fiscalità eccezionale, costo del lavoro ai minimi (mentre da noi è la gabbia più odiosa), burocrazia inesistente, finanziamenti statali, dialogo trasparente con le istituzioni... devo continuare?».

Continui.

«Per capirci: in Tunisia il governo ha previsto per chi avvia un'attività 10 anni di esenzione fiscale totale, più 10 anni di esenzione dagli oneri previdenziali. Il costo del lavoro è pari a 2,5 euro all'ora per 40 ore settimanali. Il costo dell'energia è inferiore del 70% rispetto all'Italia. A Tirana, l'affitto di un locale commerciale di 1.500 mq costa non più di 1.500 euro al mese. E ancora in Albania, ci vogliono 48 ore per costituire una S.r.l. con capitale sociale minimo di 5mila euro. Altro che la giungla delle scartoffie a cui siamo abituati dalle nostre parti».

Messa così, c'è poco da difendere l'italianità delle produzioni.

«Infatti sono sempre di più quelli che partono. E non si tratta solo delle delocalizzazioni, bisognerebbe aprire un capitolo a parte sulle start-up dei talenti italiani che emigrano all'estero. Negli ultimi due anni il fenomeno è addirittura aumentato».

E la famosa ripresa? Il premier continua a ripetere che le cose vanno meglio adesso che in passato.

«Questa crisi dura da 8 anni. Anzi, non è più una crisi: la situazione sembra patologica».

Si può guarire solo portando i capannoni all'estero?

«Tutt'altro. Gli imprenditori chiedevano riforme organiche nel nostro Paese, ma non sono state fatte. Il governo Renzi si è limitato a una caterva di pannicelli caldi per tamponare qua e là».

Compreso il Jobs Act?

«Ha funzionato fin tanto che ci sono stati gli indennizzi, poi man mano che sono andati a ridursi anche i risultati si sono sgonfiati. Il mercato del lavoro non si crea con iniezioni di danari estemporanee, servono interventi strutturali».

Come fermare l'emorragia?

«Agli imprenditori, più che il numero dei futuri senatori di Palazzo Madama, interessano le misure che hanno un impatto concreto sui bilanci. Per convincerli a restare ci vorrebbe un mercato del lavoro dinamico, flessibile, fiscalmente equo, a burocrazia ridotta, in cui si dia più valore alla contrattazione aziendale. E dove il pubblico sia al fianco dei privati per creare ricchezza, non per tormentarli con vincoli ottusi e stangarli con tasse insostenibili».

Troppe tasse, fuggono pure i call center. Dati preoccupanti: un'assunzione su due fuori confine. Il 20% del giro d'affari è all'estero. Operatori stritolati: "Anche se il settore è in crescita i margini di guadagno sono minimi", scrive Antonio Signorini, Lunedì 14/04/2014, su "Il Giornale". Un branco di ragazze, giovani e avvenenti, va al lavoro. Saltellano verso le rispettive postazioni al ritmo di musica da discoteca, intonando canzoni motivazionali improbabili, prima di inforcare cuffia e microfono. Il messaggio è chiaro: i dipendenti dei call center sono carne da cannone per imprenditori corsari. Sono passati sei anni dal film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, ma l'immagine dei call (e ora contact) center è ancora quella. Stereotipo coccolato da sindacati e politici a caccia di nuove classi sociali da salvare. Nel frattempo molto è cambiato. Intanto una selezione tra le imprese. Gli avventurieri ci sono, ma sono molti meno. C'è un contratto nazionale di lavoro. Su 80mila addetti nelle società che gestiscono servizi in outsourcing, il 60% ha un contratto tipico. Se il film si dovesse fare oggi, ambiente e attori sarebbero trenta-quarantenni, tante donne del Sud. Intere famiglie che lavorano per gli stessi centri, un po' come succedeva con le fabbriche degli anni Cinquanta. Lavoratori qualificati e formati; ci sono persino i primi pensionati, racconta un imprenditore del settore che si è ritrovato dopo un ventennio di servizio con l'età media dei suoi dipendenti cresciuta di una decina di anni. Il problema è che, a breve, la location di un film sui centri di contatto potrebbe cambiare, di nuovo, radicalmente. E non in bene. Crisi economica, burocrazia e tasse stanno riuscendo dove i vari movimenti e la sinistra radicale avevano fallito all'inizio degli anni 2000, cioè cancellare il lavoro atipico per eccellenza. Nel senso che i call center stanno fuggendo. Il prossimo film di Virzì potrebbe essere ambientato in Albania o in Romania, tra capannoni affittati a un euro, dove lavorano ragazzi che hanno imparato un'ottimo italiano grazie a mamma tv. Se ne sono accorti gli italiani che chiamano l'assistenza di grandi gruppi e dall'altra parte del telefono sentono accenti dell'est. E se ne sono accorti anche i giovani italiani a caccia di un lavoro: sempre più rare le offerte. L'offshoring è iniziato da tempo, ma è sempre più diffuso. Lo fanno le grandi aziende che gestiscono autonomamente i call center, ma anche le società che gestiscono il servizio per altri. Secondo i dati dell'associazione di categoria, Assocontact, il fatturato prodotto da queste società all'estero è di 60 milioni di euro. Il 20 per cento del giro di affari dell'outbound (le chiamate ai clienti) viene dai centri che si trovano all'estero. Principalmente Romania (che comunque è Unione europea), ma anche Albania. Numeri per difetto. Nel complesso, stima un sindacalista, ormai un'assunzione ogni due è all'estero. «La crisi l'abbiamo sentita anche noi - spiega Umberto Costamagna, presidente di Assocontact - i nostri committenti cominciano a chiedere sconti. Il settore continua a crescere, ma il margine è al minimo». Pesa l'alto costo del lavoro: circa l'80% del totale, contro il 20% medio dell'industria. Poi le tasse «l'Irap che penalizza chi assume», spiega Costamagna. Di fronte a questa situazione «qualcuno ha deciso di lavorare sul costo del personale e andare in offshoring. È una scelta non ci piace - aggiunge - perché non è strategica, ma è una necessita imposta dalla committenza nei costi». Una «ultima spiaggia» che rischia di fare diventare gli anni dei call center corsari, un ricordo felice. Almaviva Contact ha oltre 10mila dipendenti, segue clienti italiani esclusivamente con operatori che lavorano in Italia. «Questo ha garantito fino a oggi i livelli occupazionali». Però «è innegabile che rispetto a scelte alternative abbiamo avuto pesanti penalizzazioni economiche, oggi non più sostenibili. Ancor più in una situazione di gare al ribasso», spiega Andrea Antonelli, amministratore delegato del gruppo. Il riferimento è alla famosa gara indetta dal comune di Milano per la gestione del servizio 020202. La base d'asta decisa dalla giunta di Palazzo Marino non copre nemmeno il costo del lavoro. Dopo questo caso il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano ha deciso di avviare un'indagine conoscitiva. E dire che il sindaco Giuliano Pisapia appartiene a quella sinistra che, a parole, era contro lo sfruttamento da call center.

E poi ci sono loro...

Poteri invisibili: evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto, scrive Stefano Vergine il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Non solo Apple e l'Irlanda. Anche l'Italia ha concesso dei tax ruling. Si tratta di particolari accordi fiscali fra uno Stato e una multinazionale. Accordi simili a quelli di Luxleaks, uno dei più grandi scandali fiscali europei. O a quelli che hanno portato nei giorni scorsi la Commissione europea a condannare il colosso di Cupertino per aver evaso imposte per 13 miliardi di euro. Insomma, lo Stato concede a una grande azienda un regime fiscale di favore, con tasse sul reddito pari all'1 per cento o anche meno, mentre tutte le altre imprese sono tenute a pagare venti o trenta volte di più. Il tutto nel totale segreto di Stato. Nel numero in edicola domenica 4 settembre, attraverso due documenti finora inediti, “l'Espresso” racconta che anche il nostro Paese ha concesso dei tax ruling. Erano 47, alla fine del 2013. E nel frattempo le cose non sembrano essere cambiate. Lo scorso settembre, infatti, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il governo di Matteo Renzi non ha negato l'esistenza di tax ruling in vigore. Ha però evitato di fornire i nomi delle fortunate multinazionali. «Ragioni di riservatezza», è stata la giustificazione. Va precisato che non per forza tax ruling fa rima con elusione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. In pratica possono però essere usati per dribblare il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di Luxleaks. Dopo lo scandalo del 2014, sono stati tanti i politici europei a promettere un cambiamento. E una riforma dei tax ruling è stata in effetti approvata nel dicembre scorso proprio dalla Commissione europea. Dall'anno prossimo gli Stati dell'Ue avranno l’obbligo di scambiarsi tra loro le informazioni su questi contratti, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Chi può dunque garantire che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale? 

Poteri invisibili: gli evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto. Luxleaks? Storia vecchia. Sorpassata. Solo in teoria, però. Perché in pratica non è mai finita. E qualcosa di molto simile - dimostrano alcuni documenti finora inediti - potrebbe riguardare anche l’Italia. A leggere le dichiarazioni dei politici e le riforme presentate dalle istituzioni internazionali, lo scandalo che due anni fa fece tremare le multinazionali di mezzo mondo può essere catalogato nell’album dei ricordi. Stiamo parlando degli accordi fiscali fra il Lussemburgo e centinaia di società private. Colossi come Amazon, Ikea, Pepsi: 340 in tutto - comprese alcune italiane tra le quali Unicredit, Intesa Sanpaolo, Finmeccanica - che nel corso degli anni hanno ottenuto il lasciapassare dal Granducato per spostare lì buona parte dei profitti pagando tasse ridicole, l’1 per cento o addirittura meno. Questo mentre tutte le altre imprese sono tenute a versare imposte venti o trenta volte più alte. Era il novembre del 2014. «Mai più elusione fiscale, in nessuno Stato membro», gridò il rappresentante del Pd al Parlamento comunitario, il renziano Gianni Pittella, capo dei socialisti europei. Partì un’inchiesta a Bruxelles e un piano di riforma dell’Ocse. «Aumenterà la trasparenza delle imprese multinazionali», fu la promessa del segretario generale, Ángel Gurría. Com’è andata a finire? Secondo quanto può ricostruire “l’Espresso”, il trattamento di favore riservato alle multinazionali non si è mai interrotto. I documenti che lo raccontano sono due, entrambi mai pubblicati finora. Il primo è una tabella di tre pagine. Un file in cui compaiono i nomi di tutte le nazioni dell’Unione europea: al fianco di ognuna c’è il numero dei tax ruling concessi. Tax ruling, per chi non lo sa, è il nome tecnico dei contratti alla base dei LuxLeaks. Quelli accordati dal Lussemburgo alle multinazionali. Gli stessi contenuti nella tabella in questione. Firmato della direzione generale della Commissione, sezione Fiscalità e Unione doganale, il documento certifica che in totale, all’interno dell’Ue, alla fine del 2013 erano attivi 545 di questi accordi. Significa oltre mezzo migliaio di patti fra imprese e Stati. Fra cui spicca il Lussemburgo, con 119, ma anche tante altre nazioni insospettabili. Regno Unito, Ungheria, Spagna. Tutte sopra quota 50. Poco sotto - in quinta posizione con 47 ruling operativi – c’è l’Italia. Manca solo un’informazione: i nomi delle società che hanno firmato questi accordi. Un dettaglio. La tabella, come detto, è aggiornata alla fine del 2013, quindi prima dello scoppio di LuxLeaks. Nel frattempo sono successe cose che dovrebbero aver messo la parola fine al gran valzer dell’elusione fiscale. Prima fra tutte le multe comminate dalla Commissione a Fiat e Starbucks. E - ultima in ordine di tempo - ad Apple, accusata di aver evitato di versare imposte per 13 miliardi di euro. «Spero che le decisioni facciano passare questo concetto: tutte le imprese, grandi o piccole, multinazionali o non, devono pagare la loro giusta quota di tasse», è stato il messaggio della responsabile delle condanne, la commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Le parole fanno pensare che oggi sia tutto finito. Niente più vantaggi fiscali. Finalmente trasparenza sulle tasse pagate dalle multinazionali. Un altro documento ottenuto da “l’Espresso” dice che le cose non stanno esattamente così. Porta la data del 16 settembre 2015, meno di un anno fa, e la firma di Stefano Sannino, ambasciatore italiano presso l’Unione europea. Il diplomatico scrive per conto del ministero dell’Economia, guidato da Pier Carlo Padoan, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il francese Alain Lamassoure. Che chiede al governo guidato da Matteo Renzi una «panoramica, compresa la data e il nome delle società, di tutti i tax ruling concessi a partire dal 1991». Sannino non nega l’esistenza dei tax ruling ancora in vigore. Risponde però che «queste informazioni non possono essere rivelate per ragioni di riservatezza». Insomma, almeno fino al settembre scorso anche l’Italia aveva stretto con alcune grandi imprese degli accordi fiscali. Riservati. Va detto che non per forza tax ruling fa rima con evasione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. D’altronde la struttura di una multinazionale è molto più complessa di quella di una piccola impresa di provincia. E così diverse nazioni offrono ai grandi gruppi l’opportunità di spiegare in anticipo come intendono organizzarsi fiscalmente. Il vantaggio è duplice: lo Stato sa più o meno quanto incasserà a fine anno, la multinazionale evita il rischio di controlli a sorpresa. Questa, appunto, è la teoria. La pratica indica però che questi strumenti possono essere usati anche per eludere il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di LuxLeaks. In cui alcune imprese, grandi e potenti, sono risultate più uguali di altre. Come evitare un nuovo scandalo? Con la riforma dei tax ruling approvata di recente, è la tesi della Commissione. Pierre Moscovici, numero uno dell’economia a Bruxelles, l’ha definita «una rivoluzione per la trasparenza fiscale». Approvata nel dicembre scorso dall’Ecofin, la riforma entrerà in vigore all’inizio dell’anno prossimo e prevede per gli Stati l’obbligo di scambiarsi le informazioni sui tax ruling rispettivamente concessi, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Non proprio il massimo della sbandierata trasparenza. Ma tant’è. Il potente dimostra di essere tale quando è in difficoltà. Due anni fa le multinazionali sembravano alle corde. «Mai più LuxLeaks», appunto. Invece alla fine è cambiato poco. I tax ruling restano validi. E soprattutto segreti. Chi può garantire dunque che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale? Un dubbio che s’insidia con una forza proporzionale a quella delle multinazionali. Le quali, nell’ultimo anno, hanno annunciato grandi investimenti proprio in Italia, uno degli Stati con le finanze pubbliche più sgangherate dell’Ue. Apple realizzerà a Napoli il primo centro di sviluppo app d’Europa. Cisco investirà 100 milioni di euro in tre anni. Amazon ne metterà sul piatto ancora di più (si dice 500 milioni) per assumere 1.200 persone. Ryanair ha appena promesso di voler spendere un miliardo di dollari nel Belpaese. Che siano proprio queste alcune delle aziende beneficiare dei tax ruling tricolori? Impossibile saperlo. È un segreto di Stato.

C'è chi paga le tasse e chi invece le ruba. Un fiume di denaro pubblico sottratto da società private di riscossione. Ottocento comuni che perdono entrate per centinaia di milioni. Tra spese pazze, finti bond, ranch in Botswana, consulenze d’oro. E soldi a politici, scrive Paolo Biondani e Gloria Riva su "L'Espresso" il 19 maggio 2016. Nell'Italia dei record dell'evasione si apre un nuovo scandalo fiscale: le tasse rubate. Tributi regolarmente pagati dai cittadini, ma spariti dalla casse degli esattori. Che non sono funzionari dello stato, ma imprese private autorizzate alla riscossione. Società con forti agganci politici e bancari, che ora sono sotto accusa a Milano. E' quanto rivela l'Espresso nell'inchiesta in edicola venerdì 20 maggio, che anticipa i primi risultati di un'inchiesta della Procura di Milano e della Guardia di Finanza di Lecco. La prima certezza giudiziaria è che sono scomparsi almeno 150 milioni di euro. Le indagini riguardano tre aziende private di riscossione delle tasse entrate in grave crisi tra il 2014 e i primi mesi del 2016. Le tre società, Aipa, Gruppo Kgs e Mazal, gestiscono soprattutto le entrate fiscali locali, dalle imposte sulle affissioni alle tasse sui rifiuti. L'inchiesta ha verificato che molti tributi pagati dagli italiani sono poi spariti in un vortice di spese pazze, consulenze d'oro, intrighi finanziari con obbligazioni-fantasma e perfino acquisti di ville, scuderie di cavalli e ranch all'estero, tra Botswana, California e Wyoming. A contare i danni per le entrate perdute ora sono circa 800 comuni italiani, da Trieste a Foggia, da Genova a Trapani, Agrigento, Milano, Roma, Cagliari e molti altri centri sparsi per tutta Italia. Tra gli indagati già interrogati o perquisiti, scrive sempre l'Espresso, compaiono i principali manager delle tre società sotto accusa, in particolare Daniele Santucci, Luigi Virgilio e Fabio Massimo Ceccarelli, insieme all'ex sindaco di Forza Italia a Como, il commercialista Stefano Bruni, e al patron del Lecco Calcio, l'imprenditore Daniele Bizzozero. Le indagini riguardano anche un traffico internazionale di obbligazioni americane, che risultano di valore nullo, ma sono state utilizzate per nascondere le perdite delle società di riscossione: i bond-fantasma erano custoditi, in particolare, in una filiale di Banca Etruria. Gli inquirenti stanno ricostruendo molti altri casi di aziende italiane di vari settori che sono state ricapitalizzate, sulla carta, con questi titoli-spazzatura.

Rapporto annuale GdF: 4 mld di danni allo Stato nel 2015, tra sprechi e truffe. I numeri dell'attività della Finanza: aumentano gli evasori totali, oltre 13mila le denunce, scrive Corrado Zunino il 10 marzo 2016 su "La Repubblica". Tra sprechi nella Pubblica amministrazione e truffe ai finanziamenti pubblici, lo Stato italiano ha subito nel 2015 un danno patrimoniale superiore ai 4 miliardi. Il dato è contenuto nel Rapporto annuale della Guardia di Finanza presentato oggi. Nell'ambito di 2.644 accertamenti svolti su delega della Corte dei Conti, sono state 8.021 le persone per le quali si ipotizza responsabilità erariale.

Appalti pubblici assegnati per oltre 3,5 miliardi: quasi un terzo del totale è stato dato in maniera illegale nel corso del 2015.  I finanzieri hanno inoltre denunciato 1.474 persone, 73 delle quali sono state arrestate.

Aumentano gli evasori fiscali totali, vale a dire soggetti che pur avendo prodotto reddito risultano completamente sconosciuti al fisco: rispetto ai quasi ottomila individuati nel 2014, la Guardia di Finanza ne ha scoperti 8.485 l'anno scorso. Dal rapporto, inoltre, emerge che sono stati denunciati per reati fiscali 13.665 soggetti, 104 dei quali arrestati. Ai responsabili di frodi fiscali sono infine state sequestrate disponibilità patrimoniali e finanziare per il recupero delle imposte evase per 1,1 miliardi ed avanzate proposte di sequestro per altri 4,4 miliardi.

Sono stati scoperti casi di illegittima appropriazione o illegittime richieste di finanziamenti pubblici, comunitari e nazionali, per oltre un miliardo di euro: 4.084 denunciati, 38 gli arresti. Le truffe nel settore previdenziale e al Sistema sanitario nazionale sono state pari a 300 milioni di euro, ventisette gli arrestati. Ben il 69 per cento dei controlli (11.669) sui requisiti di legge previsti per l'erogazione di prestazioni sociali agevolate e per l'esenzione del ticket sanitario ha rivelato irregolarità per un danno complessivo, anche qui, di 4,2 milioni di euro.

Contro l'evasione e le frodi fiscali 104 arresti. Sono stati 2.466 i casi di "frodi carosello", ovvero la creazione di società cartiere o fantasma per la costituzione di crediti Iva fittizi e indebita compensazione. I casi di evasione internazionale sono stati 444, per la maggior parte riconducibili a fenomeni di fittizio trasferimento all'estero della residenza di persone fisiche e di società. Sono stati 5.184 i datori di lavoro che hanno impiegato 11.290 persone in nero e 12.428 i lavoratori irregolari accertati. Per tutelarsi dalle frodi fiscali, la Finanza ha sequestrato disponibilità patrimoniali per 1,1 miliardi di euro e proposto sequestri per altri 4,4 miliardi. Su 2.813 pompe di benzina controllate, 2.077 sono risultate irregolari: il 74 per cento.

Accertamenti economico-patrimoniali per indagini di mafia su 9.180 persone e 2.182 tra aziende e società. Sequestrati 4.261 beni mobili e immobili, 316 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per un valore di 2,9 miliardi di euro. La confisca ha riguardato 93 aziende, nonché quote societarie e disponibilità finanziarie per altri 747 milioni di euro. Settanta gli arrestati per associazione mafiosa, 111 per riciclaggio, 17 per autoriciclaggio, 53 per usura.

Nelle indagini svolte nei settori dei reati societari, fallimentari, bancari, finanziari e di Borsa sono state denunciate 6.253 persone di cui 267 tratte in arresto. Accertate distrazioni patrimoniali in danno di società fallite per due miliardi di euro. I controlli svolti ai valichi di confine, ai porti e agli aeroporti hanno accertato valuta in eccesso per 104 milioni di euro.

Sequestrati più di 390 milioni di prodotti illegali, perché contraffatti, piratati, pericolosi o recanti falsa o fallace indicazione di origine o provenienza: tre miliardi di euro il valore stimato.

Tolte dal mercato 8.800 tonnellate e 31 milioni di litri di generi agroalimentari contraffatti o prodotti in violazione alla normativa sul Made in Italy.

Sequestrati o oscurati 603 siti internet utilizzati per lo smercio di articoli contraffatti o opere audio-video riprodotte illecitamente. Su 5.765 controlli effettuati dalla Guardia di Finanza in sale giochi e centri scommesse, sono state riscontrate irregolarità nel 30% dei casi.

Sequestrati 576 apparecchi automatici da gioco e 1.224 postazioni di raccolta di scommesse clandestine. Sono oltre 36 milioni le giocate nascoste al fisco. Nell'attività di contrasto al falso monetario sono state sequestrate 1.402.945 banconote false per un valore complessivo di 57 milioni di euro. Scoperte, ancora, tre stamperie clandestine.

Sequestrate 69,7 tonnellate di droga, 52 delle quali in operazioni svolte in mare. Cinque i cargo sequestrati. In tutto, 1.709 gli arresti per traffico di stupefacenti. Altre trenta imbarcazioni sono state sequestrate perché utilizzate per l'immigrazione clandestina.

Il rapporto si riferisce a questo?

Scontrino di 0,10 euro in meno: il Fisco vuole togliergli il bar. All'imprenditore è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. E ora rischia di perdere il bar, scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 21/03/2016 su “Il Giornale”. L'ennesima, tremenda ingiustizia del Fisco. Che colpisce piccoli e grandi imprenditori senza alcuna intransigenza. Senza ascoltare l'urlo della crisi. La direttrice dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, aveva detto che "chi non collabora conoscerà il lato oscuro degli accertamenti". E il lato oscuro è proprio quello che ha colpito il Bar Gianni di Trieste e il suo titolare, Stefano Karis. Una vicenda che ha i contorni dell'assurdo. All'imprenditore, infatti, è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. Insomma, per errore ha scritto sullo scontrino appena 10 centesimi di caffè in meno. E così è arrivata la mannaia del Fisco. Forse l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza pensavano che per colpa di quei 10 centesimi dichiarati i conti dello Stato sarebbero andati in malora. Karis, da parte sua, prova a instaurare una battaglia contro i mulini a vento. Si è difeso, spiegando di aver premuto per errore il tasto “caffè” (1 euro) della cassa al posto di “decaffeinato” (1,10 euro). Niente da fare. I finanzieri hanno scritto il verbale, facendo scattare la multa contro il commerciante. Infatti, se l’Agenzia delle Entrate deciderà di punire fino in fondo, il titolare del bar rischia la sospensione della licenza, sanzione amministrativa di 516 euro e l'obbligo di chiusura del negozio. Su Facebook il titolare del bar ha pubblicato la foto del verbale, corredata da un commento amaro in dialetto veneto: "Verbale della finanza perché go battudo un scontrin de 1€ invece che 1,10 € perché el caffè iera deca. Ma con quel che succedi in sto Paese, vendo bar per due euro e vado via da questo Paese di merda". Una comprensibile reazione alla follia fiscale.

Fisco. Rapine in corso ed estorsione legalizzata. Inchiesta sulla mafia di Stato di Riccardo Trombetta su “Striscia la Notizia” di Canale 5 su Mediaset del 12 febbraio e 8,9,11,14,16,17 marzo 2016 e l’Inchiesta di Nicola Porro su Virus di Rai 2 del 17 marzo 2016.

Art. 416 bis c.p.: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.” INTIMIDAZIONE ED ASSOGGETTAMENTO. L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti".

IN UN PAESE NORMALE CON QUESTA INCHIESTA SAREBBE NATA UNA RIVOLUZIONE. IN ITALIA NULLA. PERCHE’ UN POPOLO DI COGLIONI SARA’ SEMPRE GOVERNATO, AMMINISTRATO, GIUDICATO DA COGLIONI.

A Striscia la notizia parla un funzionario dell'Agenzia delle Entrate sugli avvisi illegittimi. "La sera del 17 marzo 2016 a Striscia la notizia va in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia", scrive in una nota Mediaset. "Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40) andrà in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia" annuncia con un comunicato Mediaset. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto il funzionario ai microfoni dell'inviato Riccardo Trombetta, e ha aggiunto: «Voglio spiegarvi come funziona questo sistema, che è un sistema a discapito del cittadino. Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita. Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell'interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno. Pensano alle loro tasche, non a quelle dei cittadini». Inoltre, il testimone conferma che il mercanteggiare fa parte del sistema: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta»" rivela ancora la fonte di Striscia la notizia.

L'uomo del fisco si sputtana in diretta tv: se comprate una casa siete rovinati, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano” il 18 marzo 2016. A Rossella Orlandi, direttrice della Agenzia delle Entrate, piace il cinema. Tutti abbiamo potuto ammirarla mentre si calava nei panni del malvagio Darth Vader e si esibiva in una minacciosa citazione di Star Wars: «Chi non ha risposto ad un approccio collaborativo, conoscerà il lato oscuro dell'accertamento». Però a Rosella Orlandi piace un po' meno la televisione. Specie quando trasmette programmi che raccontano il «lato oscuro» del Fisco. E infatti, pochi giorni fa, l'Agenzia delle entrate ha emesso un comunicato in cui spiegava di stare «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali» nei confronti di Striscia la notizia. Da qualche settimana, il tg satirico di Antonio Ricci manda in onda servizi che raccontano le vicende di alcuni malcapitati a cui l'Agenzia ha indirizzato multe e sanzioni per migliaia di euro. Guardandoli con attenzione, se ne deduce che il Fisco non mostra il suo «lato oscuro» soltanto con chi fa il furbo, ma pure con chi segue le regole e, sulla carta, non avrebbe nulla da temere. L' aspetto più odioso della faccenda consiste nel fatto che, molto spesso, ci sono di mezzo immobili, dunque case o uffici acquistati dai cittadini a prezzo di sacrifici. L' inviato di Striscia Riccardo Trombetta ha intervistato varie persone a cui è capitata la stessa cosa: dopo l'acquisto di un terreno o di un locale, i poveretti si sono visti recapitare dall' Agenzia delle entrate un avviso con annessa sanzione, piuttosto salata per giunta. Facciamo un esempio. Uno degli intervistati ha spiegato di aver comprato un locale, pagandolo 210 mila euro, per farne una piccola palestra di yoga. Non passa molto tempo, ed ecco che arriva la comunicazione del Fisco, in cui si dice che - in base alle valutazioni dell'Agenzia delle entrate - il valore dell'immobile è in realtà di 313 mila euro e rotti. Segue multa di circa 20 mila euro. Stessa cosa per il proprietario di un terreno: lo ha pagato 35 mila euro, ma l'Agenzia gli ha attribuito un valore undici volte superiore: multa di 84 mila euro. Il problema, però, è proprio la valutazione del Fisco. Tutti gli intervistati spiegano che l'Agenzia delle entrate non ha effettuato sopralluoghi, dunque i funzionari hanno valutato case e terreni senza vederli. In alcuni casi, sui documenti ufficiali, hanno persino sbagliato gli indirizzi. Come hanno fatto a stabilirne il prezzo, allora? Semplice, hanno paragonato i terreni e gli immobili ad altri con un valore di mercato più alto. La sensazione, espressa da alcuni degli intervistati da Striscia, è che il Fisco abbia volutamente sopravvalutato locali e terreni per poter emettere una sanzione, contando sul fatto che - per non avere guai - i cittadini avrebbero pagato. «Poiché ho protestato», ha spiegato uno dei poveretti, «ho avuto la sensazione che mi facessero uno sconto». Di fronte a tutte queste testimonianze raccolte da Striscia, il «Fisco amico» della Orlandi che fa? Manda un comunicato in cui ventila azioni legali. Alla faccia della collaborazione. Peccato che, ieri sera, il tg satirico abbia mandato in onda una testimonianza eloquente. Un funzionario dell'Agenzia delle entrate, a volto coperto, ha rilasciato un'intervista all' inviato Trombetta. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto. Poi ha spiegato come funziona il sistema: «Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita», ha raccontato. «Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell' interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno». Inoltre, il funzionario ha confermato il mercanteggiamento sulle multe da pagare: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta». Capito? Il Fisco sovrastima le case e i terreni acquistati dagli italiani, e propone una sanzione pesante. Poi, quando il cittadino si presenta, la abbassa, mostrandosi «collaborativo», e convincendo i più ad aprire il portafogli e a pagare una multa che non si meritano. A questo punto, dopo il pagamento dell'ingiusta sanzione, l'Agenzia potrebbe consegnare ai cittadini una bella ricevuta con scritto: «Benvenuti nel lato oscuro». Se proprio bisogna prendere in giro la gente, lo si faccia fino in fondo.

Le Entrate attaccano «Striscia la notizia»: minacciati dipendenti, scrive Libero il 16 Mar 2016. Striscia la notizia denuncia l’approssimazione con la quale Agenzia dell’Entrate consegna ai contribuenti accertamenti fiscali, e l’anagrafe tributaria se la prende con la banda di Antonio Ricci. L’Agenzia delle Entrate ha infatti condannato «con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori» del servizio “Rapine in corso”, andato in onda lunedì 14 sera su Canale 5. Non solo l’Agenzia delle Entrate ha anche annunciato che sta «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti». L’anagrafe tributaria punta il dito non tanto sui contenuti, gli eventuali errori nell’erogare cartelle, quanto sui toni di Striscia. In particolare, sottolineano in una nota, «le espressioni utilizzate durante il servizio (...)sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale».

L’Agenzia delle Entrate condanna fortemente Striscia la Notizia. Pubblicato un comunicato in cui l'Agenzia condanna i toni utilizzati dal programma di Canale 5 nella puntata del 14 marzo di "Rapine in corso", scrive Marco Napoletano il 15 marzo 2016. Una cosa è certa, Striscia la Notizia ha infastidito e non poco, l’Agenzia delle Entrate. L’ha infastidita al punto da far diramare un comunicato stampa di ferma condanna nei confronti della trasmissione di Canale 5 diretta da Antonio Ricci rea, secondo il comunicato, di aver utilizzato espressioni lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate ma soprattutto intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Tutto nasce dai servizi di Striscia realizzati da Riccardo Trombetta e denominati “Rapine in corso” nei quali, il conduttore, si sofferma su presunte pratiche dell’Agenzia delle Entrate, non cristalline nella valutazione di immobili acquistati dai contribuenti definendole addirittura “estorsioni legalizzate”. Il comunicato è stato diramato oggi 15 marzo in relazione, nello specifico, alla puntata del 14 marzo di Striscia la Notizia. Nel servizio, l’Agenzia delle Entrate viene accusata di effettuare valutazioni sul valore di un terreno senza fare i dovuti sopralluoghi e quindi, incrementare il suddetto valore di circa 11 volte il valore di acquisto imponendo quindi una sanzione all’acquirente. Nel comunicato l’Agenzia precisa che il programma televisivo non ha mai chiesto di poter verificare la correttezza delle affermazioni riportate rendendo quindi impossibile riscontrare se vi siano errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale. A far infuriare ulteriormente le Entrate è stato l’accostamento dei propri funzionari al personaggio di Marlon Brando interpretato ne “Il Padrino” facendo quindi alludere ad un atteggiamento mafioso della stessa Agenzia superando, secondo il comunicato, il limite del buon gusto e del rispetto delle istituzioni. L’Agenzia delle Entrate si riserva quindi la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti.

Roma, 15 mar. (AdnKronos) - L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda ieri sera all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti". In particolare, sottolinea in una nota, "le espressioni utilizzate durante il servizio, come ad esempio “trovare l’indirizzo del funzionario che ha firmato e bruciargli la casa”, sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Riteniamo, altresì, che l’accostamento del comportamento dei nostri funzionari alla condotta mafiosa del personaggio del film 'Il Padrino', del quale viene trasmesso un estratto modificato, per alludere ad un atteggiamento vessatorio dell’Agenzia, abbia superato il limite del buon gusto e del rispetto delle Istituzioni". Nel merito dei casi trattati, sottolinea l'Agenzia delle Entrate, "va sottolineato che la redazione di Striscia la Notizia non ha mai chiesto all’Agenzia delle Entrate di poter verificare la correttezza e la genuinità delle affermazioni riportate nel citato servizio, rendendo impossibile a questa Amministrazione poter riscontrare se vi sono errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale". "Riaffermare nel sistema Paese, tempestivamente e con ogni lecito mezzo, la mission e il ruolo di migliaia di funzionari, che altro non chiedono che di lavorare con serenità, soddisfazione, adeguata remunerazione, prestigio e, quindi, legittimazione sociale". Questo l'auspicio di Sebastiano Callipo, segretario generale del Confsal Salfi, sindacato autonomo dei lavoratori finanziari, in una lettera inviata al direttore dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Il leader sindacale prende atto, con soddisfazione, "del comunicato stampa, diramato dall'Agenzia, sul merito del servizio 'Rapine in corso', in quanto esistevano ed esistono, da un lato, sufficienti motivazioni per stigmatizzare apertamente il comportamento dei responsabili del servizio televisivo in narrativa e, dall’altro, ampie quanto diffuse ragioni per sostenere, anche con siffatta tipologia comunicativa, l’onorabilità delle lavoratrici e dei lavoratori dell’Agenzia delle Entrate".

Dall'altra parte c'è il grande fallimento di Riscossione Sicilia. Spese esagerate, lussi incomprensibili, contrasti politici e casse vuote: il crac dell'ente siciliano preposto alla riscossione delle tasse, scrive "Panorama" il 18 gennaio 2016. Un aereo da 12 milioni di euro è rimasto fermo per quattro anni all'interno di un hangar dell’aeroporto di Catania. Apparteneva a una signora che gestiva un bar a Maletto, un paesino della provincia etnea. È stato pignorato pochi mesi fa. La proprietaria aveva eluso il fisco per centinaia di migliaia di euro. La storia della riscossione in Sicilia è anche questa. È storia pirandelliana di paradossi e abusi. Di follie e mafia. Di patrimoni ed evasioni allo stesso modo enormi. Oggi, a riscuotere le tasse nell’Isola è un'azienda che ha come socio al 99,9 per cento la Regione siciliana. Si chiama Riscossione Sicilia. Ma l’ironia è già nel nome. Perché questa agenzia di riscossione non riscuote granché. Anzi. I numeri sono deprimenti. Nel 2014, a fronte di 5,7 miliardi da incassare, la Sicilia ha portato nelle sue casse appena 481 milioni. L’otto per cento. Per i redditi più alti, quelli superiori a 500 mila euro, la quota era ancora più bassa: il 3,66 per cento. Cifre un poco migliorate nell’ultimo anno. Ma ancora imbarazzanti. Eppure per il presidente della Regione Rosario Crocetta quell’azienda è un fiore all’occhiello. È uno degli ultimi baluardi di un autonomismo che oggi, dati alla mano, pare quantomeno anacronistico. «La Lega Nord pagherebbe per avere un gabelliere tutto suo» ripete il governatore. Nella maggior parte delle Regioni d’Italia, in effetti, a svolgere quelle funzioni è Equitalia: una società certamente non amata dai contribuenti ma che, quantomeno, grazie anche ai contributi statali riesce a stare in piedi senza denunciare perdite. E verso la quale in tanti, anche nell’isola, iniziano a guardare, in vista di un possibile trasferimento delle funzioni dell'agente di riscossione siciliano. In Riscossione Sicilia lavorano 702 persone, in bilico da quando l’assemblea regionale siciliana ha negato la ricapitalizzazione dell’azienda: 2,5 milioni, questa la richiesta giunta a Natale dal governo Crocetta ai deputati siciliani, per mantenere in piedi una società che ha eroso ormai completamente il capitale. Ma che nonostante ciò si appresta a erogare premi ai dipendenti per un totale di 7 milioni di euro. Somme frutto di un accordo sindacale di un paio d’anni fa e mai rispettato. Parte del consiglio d’amministrazione, però, si è messo di traverso, bloccando per il momento quei bonus. Oggi, infatti, nelle casse della società non c'è un euro, malgrado nel 2014 a Riscossione fosse stato assicurato un altro contributo pubblico di 40 milioni. L’agente di riscossione siciliano, insomma, è praticamente fallito. «Non mi resta che portare i libri in tribunale» ha tuonato infatti a fine dicembre il presidente dell’azienda, l’avvocato catanese Antonio Fiumefreddo, dopo il no alla ricapitalizzazione del consiglio regionale. L'amministratore ha poi accusato gli stessi deputati siciliani che avevano bocciato il contributo: «Sono mascalzoni travestiti da esponenti delle istituzioni» ha detto Fiumefreddo, che a sua volta ha un passato politico assai variopinto, prima a fianco del sindaco berlusconiano Raffaele Stancanelli, poi del governatore Raffaele Lombardo condannato in primo grado per associazione mafiosa. Fiumefreddo è entrato da tempo nelle grazie di Crocetta. Il presidente della Regione ha provato più volte a nominare Fiumefreddo assessore della sua giunta. Ma si è sempre dovuto scontrare col veto dei partiti della sua coalizione, Pd in testa. E il presidente di Riscossione, a dire il vero, non ha fatto nulla per farsi amare dai politici siciliani. Anzi, si è beccato anche una querela per diffamazione dall’assemblea regionale proprio per le sue parole. Non solo «mascalzoni», ma anche «pirati». Fiumefreddo, che ha anche chiesto di essere ascoltato in Procura a Palermo, ha denunciato: «Non mi meraviglierei se tra i pirati, che si sono nascosti dietro il voto segreto (per negare la ricapitalizzazione i Riscossione Sicilia, ndr), ci siano parte dei 61 parlamentari ai quali per la prima volta nella storia abbiamo notificato i pignoramenti delle loro laute indennità». Insomma, su 90 consiglieri regionali, secondo Fiumefreddo 61 sarebbero stati pignorarti per inadempienze fiscali. Pochi giorni dopo, ecco saltare fuori una lista dei politici «morosi». Tra questi, anche il presidente Crocetta che aveva chiesto la rateizzazione del suo debito. Mentre molti deputati replicavano: «Da Fiumefreddo solo slogan e offese al parlamento. Pensi a far funzionare la società: non si può pensare di regalare all'azienda ogni anno milioni di euro». Così la guerra tra Riscossione e consiglio regionale è finita in tribunale. Un destino già scritto, in un certo senso, per una società che fino a pochi mesi fa poteva contare sulla bellezza di 887 avvocati, il triplo di quelli a disposizione della Casa bianca. Legali «scelti clientelarmente» ha denunciato Fiumefreddo. Quegli incarichi sono poi stati azzerati. Ma sono il segno di un’azienda azzoppata da sprechi e inefficienze. Come quelle relative alle spese per le sedi sparse per tutta l’isola. La società, per esempio, ha pagato fino a pochi mesi fa un contratto d’affitto da quasi mezzo milione l’anno in uno dei più piccoli capoluoghi dell’Isola, cioè Ragusa. Spese esagerate, lussi incomprensibili e strumenti tecnologici obsoleti. Ingredienti che hanno portato al dissesto. Che eppure nell’ultimo anno ha dato segnali di risveglio con una crescita del riscosso del 31 per cento e anche con alcune azioni clamorose. Come le decine di pignorare d’auto di lusso in possesso a grandi evasori fiscali. «In Sicilia» ha spiegato Fiumefreddo «a causa di elusioni fiscali o mancato versamento di imposte andrebbero pignorate 230 mila automobili». Riscossione si è limitata a sequestrarne un migliaio. Tra cui 116 Porsche, 46 Jaguar, 33 Ferrari e tre Cadillac. In quell’occasione, è stato pignorato anche l’aereo da turismo della barista di Maletto. Ma non basta. Anche perché l’impotenza della società di Riscossione si traduce nei dati sull’evasione fiscale nell’Isola, di gran lunga più elevati rispetto alla media nazionale. È questo il risultato di anni in cui la riscossione in Sicilia è stata terra di abusi e sprechi, di ingenti e repentine ricchezze ma anche di ombre e malaffare. A cominciare dagli anni in cui a gestire l’esattoria a Palermo e in 75 Comuni siciliani erano i cugini Nino e Ignazio Salvo, imprenditori di Salemi, paesino del Trapanese, legati a Cosa nostra. Non a caso entrambi finirono sul banco degli imputati del Maxiprocesso: Nino morì prima della sentenza, mentre Ignazio fu condannato a tre anni di reclusione. Negli anni novanta, arriva la Montepaschi-Serit, società che fa capo all’Istituto di credito. Nel 2010 la Regione siciliana acquista le quote in possesso a Monte dei Paschi di Siena con un’operazione su cui restano molti dubbi, soprattutto per il valore attribuito alle quote dei privati: la Regione siciliana pagò circa 400 milioni di euro, un prezzo «assolutamente esoso» denuncia Fiumefreddo: «Ma la cosa più grave» aggiunge «è che non l’ha deciso nessuno, anzi l’ha deciso chi vendeva». Ombre del passato su una società che oggi affonda. Eppure, nonostante le difficoltà, il riscossore fa sempre paura. Ne sa qualcosa il deputato regionale Michele Cimino, che in un’audizione in Commissione bilancio all’Ars, dopo la diffusione dei primi nomi di parlamentari morosi è intervenuto per precisare che «c’è anche un Cimino Michele nato a Trento. Io» ha spiegato «sono nato a Porto Empedocle e non ho 70 anni». È di Porto Empedocle, precisa il deputato: un paese a due passi dalla casa di Luigi Pirandello. Dalla sua penna sembra uscita la storia di Riscossione Sicilia, che non riscuote mai.

"L'Agenzia delle Entrate fa estorsioni": la confessione choc dell'ex dirigente, scrive “Libero Quotidiano” il 31 marzo 2016. A Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40 30 marzo 2016) la testimonianza di Luciano Dissegna che, per 30 anni, è stato dirigente e funzionario dell’Agenzia delle Entrate. Dissegna si è detto “sbalordito” per i servizi mandati in onda da Striscia nelle scorse settimane: "Finalmente un organo di informazione che dice la verità", ha dichiarato all’inviato Riccardo Trombetta. "I dirigenti hanno sempre fatto carriera in base al cosiddetto obiettivo monetario", racconta l'uomo, "più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi. Credo che, a fine anno, i dirigenti più grossi portino a casa anche 70-80mila euro in più". I cittadini più colpiti dagli accertamenti, ha spiegato l’ex dirigente, sono i piccoli imprenditori: "Arriva un avviso d’accertamento da 100mila euro e, davanti alla proposta di pagarne metà, ci si trova costretti a pagare. Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi. È una situazione di potere provocata da accertamenti presuntivi e discrezionali: dietro la discrezionalità c’è la corruzione. Sono andato via perché non potevo accettare questa situazione e anche perché rischiavo molto grosso. Mettersi contro l’amministrazione è pericoloso".

CLEPTOMANIA E CLEPTOFILIA NEL REGIME FINANZIARIO DELLA UNIONE EUROPEA E ITALIANO. Saggio di Manlio Tummolo. Il presente lavoro è dedicato a tutti i cittadini, lavoratori, contribuenti e consumatori, europei e italiani. Molti studiosi di economia e di scienza delle finanze, di fronte alla disastrosa situazione europea e italiana degli ultimi decenni si arrampicano su scivolosissimi specchi nel tentativo di spiegarla con le solite tradizionali dottrine d’impronta liberista che hanno dimostrato il loro insignificante vuoto almeno dal 1929. Viceversa, è ben più utile cercar di capire la crisi nelle sue reali ragioni in un libro di Mario Giordano, “L’Unione fa la truffa”, pubblicato da Mondadori già nel 2001 col sottotitolo “Tutto quello che vi han