Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

Sarah Scazzi

 

Il Delitto di Avetrana

 

La Condanna

 

e

 

L’Appello

 

 

 

 

Di Antonio Giangrande

 

 

 

 

 

 

SARAH SCAZZI

LA CONDANNA E L’APPELLO

 

 

SARAH SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

Di Antonio Giangrande

 

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

SARAH SCAZZI

IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

LA CONDANNA E L’APPELLO

 

 

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO

 

L’ITALIA CHE SIAMO.

L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

I PENTITI DEL GOSSIP GIUSTIZIALISTA.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

AVETRANA. UN PAESE NORMALE.

IL CASO DI AVETRANA.

SARAH SCAZZI. DAI SEGRETI DI FAMIGLIA DI ROBERTA BRUZZONE AL RESOCONTO DI UN AVETRANESE DI ANTONIO GIANGRANDE

SARAH UCCISA DALLA GELOSIA? SABRINA CONDANNATA DALL’INVIDIA?

IL PROTRARSI DELL’APPELLO E LE LUNGAGGINI DEL PROCESSO. NELL’ATTESA DELLE MOTIVAZIONI CHE NON ARRIVANO MAI. I GIUDICI, DOPO MESI, SE LA PRENDONO COMODA PER STILARE LE MOTIVAZIONI SCONTATE.

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

MEDIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME? NO! DALLA PARTE DEI MAGISTRATI.

LETTERA APERTA A QUARTO GRADO.

GUERRA MEDIASET-LA7. LA GUERRA DEI GOSSIPPARI GIUSTIZIALISTI.

PARLA IL COMPAGNO DI CARCERE DI MICHELE MISSERI.

DELITTI DI STATO ED OMERTA’ MEDIATICA.

COSIMO COSMA. LA MORALE DEL NIPOTE DI ZIO MICHELE.

L’OLTRAGGIO ALLA PUBBLICA MEMORIA, AL PUBBLICO PUDORE ED ALLA PUBBLICA DECENZA.

L’ULTIMO INSULTO PER SARAH. LA SUA FOTO SUL SITO DI INCONTRI.

I PRESUNTI TESTIMONI MAI CHIAMATI.

GLI ORARI CONTRASTANTI.

LE MOTIVAZIONI DELLE CONDANNE…..11 MESI DOPO.

L’APPELLO ED IL TRAVISAMENTO DELLE PROVE.

LA SENTENZA E LE MOTIVAZIONI SBAGLIATE.

NON CHIAMATEMI ASSASSINA.

LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAGISTRATI POCO ONOREVOLI. A TARANTO GUERRA DI TOGHE.

CONSULENTI PENTITI E RICREDUTI.

L’APPELLO. MICHELE E LA SUA MENTE.

TESTIMONE DI GEOVA? NO GRAZIE!!!

L’AVV. BISCOTTI, LA CRONACA NERA E LA SINDROME MEDIATICA.

GERMANIA, IL PARADISO DELLA MAFIA. ITALIA, IL PARADISO DEI MAGISTRATI.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

SENSITIVI E MEDIUM ALLE VECI DI SARAH.

GIORNALISTI ALLA SBARRA.

COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

L’OMICIDIO MASSONICO. L’OMICIDIO DEI BAMBINI.

ANNIVERSARI AMARI.

LA SORTE DI COSIMO COSMA, PRESUNTO INNOCENTE.

IL PROCESSO A VITO RUSSO.

IL PROCESSO AD ANGELO MILIZIA.

PARLIAMO DI GIOVANNI BUCCOLIERI.

PARLIAMO DEL DELITTO DI PORTO CESAREO.

UN CASO SIMILARE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CASO BERLUSCONI.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

COSI’ SI UCCIDE UN ITALIANO. FABRIZIO QUATTROCCHI.

UN CASO SIMILARE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CASO CORONA.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO.

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

CARCERI. MORIRE DI STATO.

PERITI DEI PM, BEN PAGATI E CONDIZIONABILI.

COSI’ SI INCASTRA UN IMPUTATO.

CHI L’HA VISTO? LA GOGNA IN TV.

QUARTO GRADO, LA GOGNA IN TV.

QUELLA VERITA' NON DEVE ESSERE DETTA.

ALESSANDRO MELUZZI: SABRINA COLPEVOLE….., ANZI, NO…..!

LA MORTE DI SARAH. C’E’ UN’ALTRA VERITA’.

TUTTI CONDANNATI….COME PREVISTO.

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

VENERDI’ 14 NOVEMBRE 2014. TARANTO. INIZIA IL PROCESSO DI APPELLO PER IL DELITTO DI SARAH SCAZZI. SI ACCENDA LA TELEVISIONE.  

VENERDI’ 21 NOVEMBRE 2014. SECONDA UDIENZA D’APPELLO: SABRINA E COSIMA RESTANO IN CARCERE.

VENERDI’ 12 DICEMBRE 2014. TERZA UDIENZA D’APPELLO. I NODI DEL PETTINE ED I CRIMINOLOGI: FENOMENI DA PALCOSCENICO.

VENERDI’ 23 GENNAIO 2015. QUARTA UDIENZA DI APPELLO. PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

VENERDI’ 27 FEBBRAIO 2015. QUINTA UDIENZA DI APPELLO. FINALMENTE PARLA COSIMA SERRANO, MA CHI LE CREDE?

VENERDI’ 13 MARZO 2015. SESTA UDIENZA DI APPELLO. SI PARLA DI CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 27 MARZO 2015. SETTIMA UDIENZA DI APPELLO. PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 10 APRILE 2015. OTTAVA UDIENZA DI APPELLO. INCARICO PER LA PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 5 GIUGNO 2015. NONA UDIENZA DI APPELLO. RISULTATI DELLA PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 12 GIUGNO 2015. DECIMA UDIENZA DI APPELLO. REQUISITORIA DELLA PROCURA GENERALE.

LUNEDI’ 15 GIUGNO 2015. UNDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGHE DEI DIFENSORI DELLE PARTI CIVILI E DI CARMINE E MICHELE MISSERI.

MERCOLEDI’ 17 GIUGNO 2015: DODICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DI SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

VENERDI’ 19 GIUGNO 2015: TREDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DI SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

MERCOLEDI’ 1 LUGLIO 2015: QUATTORDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DEGLI ALTRI IMPUTATI MINORI.

SABATO 18 LUGLIO 2015: QUINDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. LE REPLICHE DI ACCUSA E DIFESE.

VENERDI’ 24 LUGLIO 2015: SEDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ULTIME REPLICHE E CAMERA DI CONSIGLIO.

LUNEDI’ 27 LUGLIO 2015: LA SENTENZA DI APPELLO.

LE TAPPE DEL PROCESSO.

PROCESSO SARAH SCAZZI: UNA CONDANNA SENZA PROVE E SENZA INDIZI.

I TESTIMONI DELL'ACCUSA: MICHELE MISSERI, GIOVANNI BUCCOLIERI, ANNA PISANO'. SE LI CONOSCI LI EVITI.

CHI SONO GLI ACCUSATORI? SE LI CONOSCI LI EVITI!

RAFFAELE E' STATO AIUTATO DAL SIGNORE IDDIO!

OSSESSIONE AMANDA.

LA VERSIONE DI AMANDA.

RAFFAELE SOLLECITO: NON CHIAMATEMI MAI PIU' ASSASSINO.

CHE RAZZA DI INDAGINI...

PROCESSO AL PROCESSO!

IL DELITTO DI PERUGIA E LE FIGURACCE DEI MAGISTRATI.

IL MONDO RIDE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.

L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.

FORCAIOLI: ORA TACETE!

RAFFAELE SOLLECITO E LA PROSSIMITA’ SEMANTICA.

LA MALEDIZIONE DEL DELITTO DI PERUGIA.

INGIUSTIZIA A PERUGIA. Il Caso Meredith Kercher.

AMANDA E RAFFAELE: PERUGIA VI ODIA.

IL DELITTO DI PERUGIA. UNA STORIACCIA.

RESPONSABILITA’: DOV’E’ FINITA?

STRAGE DI MILANO. QUANTE VITTIME DELLA GIUSTIZIA PERDONO LA TESTA?

REATO DI TORTURA: PER CHI?

LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).

CONCLUSIONI.

SARAH SCAZZI: TUTTI I NUMERI DEL CASO.

ASPETTANDO LE MOTIVAZIONI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!     

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana

di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

La Ballata ti l'Aitrana

di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

 L’INGIUSTIZIA VIENE DA LONTANO.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

"Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata". "Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate".

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Avetrana. 11 gennaio 2014. Alle 10 circa del mattino in paese si sente un gran frastuono di sirene. Immediatamente circola la voce che Michele Misseri si è impiccato. Sul web una notizia del genere ci mette poco a diffondersi viralmente, ma per fortuna, basta una telefonata alla compagnia dei carabinieri di Avetrana per scoprire che è tutta una bufala. Molti cercano anche Antonio Giangrande, l’autore del libro sul delitto di Avetrana. Questa volta non sono di scherno per aver preso una posizione neutra rispetto ai protagonisti della vicenda, o di minaccia per essere il presidente di una associazione antimafia. Il telefono fisso ed il cellulare squillano senza soluzione di continuità. Arrivano le telefonate per chieder conferma. Nulla di vero. E’ solo una malevola diceria. Qualcuno giura di aver visto Michele, in mattinata, alla guida di un trattore. La notizia-bufala ha fatto il giro del web e poi delle redazioni scatenando un infernale giro di telefonate alla ricerca dell’ufficialità che naturalmente non esisteva.  A confermarlo fonti investigative. Infatti, dopo che un sito aveva diffuso la notizia, una pattuglia dei carabinieri si è recata nella casa dell'uomo nella cittadina jonica, in via Deledda, accertando che Misseri sta bene e che la notizia è priva di fondamento. Così la falsa notizia della morte di Michele Misseri per impiccagione ha intasato il centralino della caserma dei carabinieri di Avetrana e i contatti privati dei militari della caserma costretti anche loro a verificare la drammatica notizia. Ma il contadino, all’insaputa di tutto, si trovava beatamente nella sua villetta bunker di via Grazia Deledda. A diffondere la bufala è stato il sito «Il Corriere del Mattino», con tanto di immagini della scena della tragedia: forze dell’ordine e vigili del fuoco che recuperano un corpo da un albero di pino. Ecco come i burloni del blogger hanno raccontato la falsa notizia: «E’ stato trovato morto oggi nelle campagne del Salento in contrada Macchie alle ore 16,30 circa. L’anziano si è tolto la vita impiccandosi ad un albero di pino, nei pressi della masseria Montefiore non lontano dalla ferrovia. Sul posto sono intervenute tempestivamente le forze dell’ordine. Il medico legale ha subito constatato il decesso. L’anziano, più volte aveva minacciato il suicidio a causa dell’enorme depressione scaturita dalle vicende di cui è stato protagonista negli ultimi tempi. La scoperta è stata fatta da una coppia di fidanzati della zona che si era appartata nelle vicinanze. La sua auto presenta vistose ammaccature sulla fiancata destra e sul paraurti posteriore. Il RIS dei carabinieri della locale stazione sta indagando su possibili cause diverse dal suicidio, in quanto il cadavere presenta inoltre alcune ferite sul volto». Naturalmente non esiste nessuna contrada Macchie, né una masseria Montefiore, né una ferrovia nei dintorni di Avetrana. E nessun impiccato. In molti ci sono cascati. Eppure bastava leggere fino in fondo la pagina del fantomatico «Corriere del Mattino» per capire tutto: «Giornale del Corriere è un sito satirico, e dunque alcuni articoli contenuti in esso sono da ritenere tali. La redazione non vuole offendere nessuno» . Uno scherzo che potrebbe costare caro ai suoi autori se è vero che le autorità stanno valutando l’ipotesi di aprire un fascicolo per procurato allarme. Senza contare la reazione che avrà lo stesso Misseri. La notizia è stata lanciata per prima da oggi.it, che ha citato una fonte confidenziale, spiegando come non si conoscessero ulteriori dettagli sul suicidio. Per qualche ora è sembrato tutto confermato, almeno finché, ai carabinieri di Avetrana, non è giunta la smentita del diretto interessato, il quale ha dimostrato in questo modo di essere vivo e vegeto. Per questo la redazione di Oggi.it ha chiesto scusa: “Giallo di Avetrana, la fonte di oggi.it che sabato mattina aveva confermato che Michele Misseri si era suicidato, si è rivelata destituita di qualsiasi fondamento a ulteriori e più approfondite verifiche da parte della redazione. Chiediamo scusa ai nostri lettori e all’interessato. Il contadino che si era autoaccusato dell’omicidio di Sarah Scazzi, in realtà, è tuttora nella sua casa.” Michele Misseri non si è tolto la vita. La bufala del suicidio, lanciata da un sito web (con la foto di un impiccato), è stata ripresa la mattina dopo anche dal sito di un noto settimanale nazionale che, comunque, ha usato il condizionale nel riferire del presunto suicidio del contadino per impiccagione. Lo zio di Sarah Scazzi non si è tolto la vita, come ha confermato il suo difensore, avvocato Luca La Tanza, contattato telefonicamente dal “Corriere del Giorno” : «Il signor Misseri è vivo e vegeto. Non c’è stato nessun suicidio nè consumato nè tentato. Questa mattina si è recato in campagna, come di consueto, per svolgere il suo lavoro di agricoltore. Ha dimenticato il cellulare a casa e forse, quando qualcuno ha chiamato, lui non ha risposto e questo potrebbe aver ingenerato un equivoco. Al suo ritorno mi ha telefonato manifestandomi il suo sconcerto per quanto gli era stato riferito.  Tutto qui. Si tratta, quindi, di una notizia falsa, frutto, evidentemente, del cinismo di chi vuole ancora speculare su questa vicenda». Questa mattina, ad Avetrana, da abitanti del posto sono state notate pattuglie dei carabinieri e ambulanze del 118 nei pressi dell’abitazione di Michele che, in quel frangente, non era in casa, ma, da quanto si è appreso, era nei campi. E soprattutto non per togliersi la vita ma per lavorare. Per il caso di Avetrana questa non è certo una novità considerando che poco dopo la scarcerazione di Michele Misseri, a giugno 2011, qualche tv nazionale ha diffuso la notizia della sua scomparsa. Invece, era a Lecce dall’avvocato della moglie. Le motivazioni della sentenza, emessa il 20 aprile 2012 dalla Corte d’assise di Taranto, sono attese entro la fine di gennaio. Intanto, le bufale imperversano sul web. Al contrario, nessuno si chiede come mai i magistrati di Taranto dopo 10 mesi dalla sentenza di condanna generale, agli imputati nel processo Scazzi, non siano ancora stati capaci di scriverne le motivazioni, utili per presentare appello, contro quelle condanne che, ad alcuni sembrano ingiuste. Tanto chi se ne fotte di quelle donne chiuse in cella, che per legge sono da considerasi innocenti.

La Cancellieri non serve, scrive Filippo Facci su “Liberto Quotidiano. Le lagne di chi non vuole cambiare il carcere preventivo sono vergognose e basta, non c’è da fare dibattiti, non è uno scontro tra visioni procedurali: è uno scontro ventennale tra chi vuole tentare di migliorare le cose e chi invece non vuole cambiare nulla, anzi, vuole continuare a servirsi comodamente del potere più delicato del mondo - togliere la libertà altrui - per coprire le proprie pigrizie investigative e per vellicare le depressioni del forcaiolo italiota, del servo di procura, dell’infangatore professionale. È da trent’anni che la custodia cautelare dovrebbe essere «extrema ratio» e invece è regola: e questo perché i magistrati se ne fottono, punto, tanto nessuno li punisce, ri-punto: nelle nostre galere ci sono 13mila persone metà delle quali, statisticamente, sarà assolta dopo il primo grado e dopo ingiusta detenzione. Abbiamo 27mila detenuti in attesa di giudizio (anche se l’Italia ha un tasso di criminalità tra i più bassi d’Europa) e il perché lo sappiamo tutti: perché i magistrati usano il carcere per dare anticipi di pena o per costringere a confessioni, talvolta per finire sui giornali: mentre pm e giudici stanno solo attenti a non pestarsi troppo i piedi e propongono, per risolvere il dramma della carcerazione preventiva, esattamente questo: niente. Ora hanno paura che si rompa il giocattolo, ma stiano tranquilli: la riforma allo studio è un decimo di quanto servirebbe. La Cancellieri non serve, ne servono dieci.

Va bene così, continua Filippo Facci. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso. 

La difesa: “Scarcerate Sabrina Misseri”. L’avvocato Coppi: «Dopo 9 mesi non conosce le motivazioni della condanna». Se la sua richiesta venisse respinta pronti i ricorsi in Riesame e Cassazione, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. «Scarcerate Sabrina Misseri». L’avvocato Franco Coppi insieme a Nicola Marseglia firmano e depositano il 14 gennaio 2014 una istanza per la rimessione in libertà della loro assistita, condannata in primo grado all’ergastolo con una sentenza di nove mesi fa. Da allora il silenzio. Ancora non si conosce la motivazione. La legge dispone 90 giorni ma poi ci sono le proroghe. E arriviamo a oggi. «E’ contrario a ogni principio giuridico che una persona debba aspettare la fine del processo in carcere senza che ci siano le esigenze cautelari, spiega il professor Coppi. «E soprattutto in questo caso dove dopo 9 mesi ancora non conosce le motivazioni della sua condanna». Secondo l’accusa il delitto di cui si sarebbe macchiata Sabrina è stato di impeto e motivato dalla gelosia per la cuginetta Sarah. «Dunque anche per l’accusa non ci può essere la reiterazione del reato», dice Coppi spiegando il venir meno delle esigenze cautelari. «E non parliamo della fuga. Dove vuoi che possa andare una persona come Sabrina ormai conosciuta ovunque, senza mezzi e sola». Il professor Coppi è molto preoccupato delle condizioni di salute e psichiche di Sabrina. «Sta male è distrutta nel corpo e nell’anima». Nicola Marseglia, che la difende insieme al professor Coppi, va spesso a trovarla e ogni volta la trova peggio. Spesso Sabrina rifiuta anche i colloqui telefonici con la sorella Valentina. Vorrebbe vedere di più lo psicologo ma anche questo spesso le viene negato. Chiede continuamente a Marseglia quando usciranno le motivazioni. Solo allora i sui legali potranno fare appello e per lei si riaprirà la speranza. «Sono innocente», grida dal carcere alle poche persone che possono sentirla. Lo scrive nelle lettere alla sorella e lo ripete ai suoi avvocati. Se la corte di Assise di primo grado rifiuterà di scarcerare Sabrina (come sembra probabile) gli avvocati faranno appello al Tribunale del Riesame e se anche questa risposta dovesse essere negativa si rivolgerebbero alla Cassazione che già due volte ha chiarito in due diverse sentenze che non sussistono gravi indizi di colpevolezza. Certo questa volta è intervenuta una condanna in primo grado, ma i supremi giudizi potrebbero non apprezzare questa lunghissima carcerazione preventiva per una ragazza così giovane. Una mossa della difesa di Sabrina per provare a ridare la luce alla loro assistita ma anche per sollecitare i giudici a depositare la sentenza. Il professor Coppi vuole arrivare presto in appello per dimostrare l’innocenza di Sabrina. «Questo ergastolo è il più grande cruccio della mia carriera», ha spiegato in un’intervista alla giornalista Ilaria Cavo. «Ci sto consumando la mia vita, perché sapere che una ragazza di 23 anni – per me innocente – sta marcendo in carcere con una condanna all’ergastolo, mi toglie il sonno».

Franco Coppi è anche a Taranto il difensore dei Riva. La Cassazione ha annullato senza rinvio il sequestro preventivo per 8,1 miliardi di euro nei confronti della Riva Fire, la Holding che controlla l’Ilva spa. La sesta sezione penale ha accolto il ricorso presentato di legali dei Riva, Coppi e Paliero, e ha disposto la restituzione alle Holding di tutto i beni.

La lunga attesa delle motivazioni. Nove mesi esatti il 20 gennaio, abbondantemente oltre i canonici 90 giorni (scaduti a luglio).  I difensori della ragazza, avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, hanno depositato l’istanza ma la Procura non ha perso tempo e ha già messo il “veto” alla scarcerazione. I pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino hanno espresso parere negativo. Il parere della Procura non è vincolante ai fini della decisione. Coppi e Marseglia evidenziano l’assenza delle esigenze cautelari. Esigenze che, scrivono, non possono essere motivate soltanto dalla gravità del reato di omicidio e dal massimo della pena, l’ergastolo ma, sottolineano, anche di altri elementi, come la definizione del processo di primo grado. «Persino la conclusione del giudizio di primo grado può essere opposta come “fatto nuovo” per motivare l’oggettiva insussistenza del pericolo di inquinamento della prova e, tantomeno, di quello relativo alla sua genuina acquisizione». Inoltre, sostiene la difesa di Sabrina, non c’è il rischio di reiterazione del reato in considerazione dell’incontrovertibile eccezionalità dei reati per i quali è stata condannata con la madre. «E’ fuori dubbio che il mantenimento della misura custodiale, dopo circa tre anni e tre mesi di detenzione carceraria, non è giustificato dall’effettiva permanenza di esigenze cautelari la cui sussistenza – rimarcano – non è mai stata adeguatamente motivata». Alla valutazione dei giudici, i legali sottopongono anche le condizioni di salute della ragazza, «da tempo sottoposta ad osservazione psichiatrica in conseguenza dell’oggettivo stato depressivo in cui versa». "Sabrina sta male solamente perché ha la coscienza sporca. Se decide di confessare non potrà che stare meglio". Lo afferma Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto). Le parole della donna sono riferite dai soliti legali della famiglia Scazzi, Nicodemo Gentile e Antonio Cozza. Legali che a quanto sembra hanno ottimi rapporti con i giornalisti di stampa e tv. La Corte d’assise, intanto, il 16 gennaio 2014 ha respinto la richiesta di revoca dell’obbligo di dimora a cui è sottoposto Michele dall’autunno del 2011. Quindi, non può lasciare Avetrana. Il legale, avvocato Luca La Tanza ha chiesto la libertà e, in subordine, la revoca dell’obbligo di rimanere in casa dalle 7 di sera alle 7 del mattino successivo, sostenendo la totale insussistenza delle esigenze cautelari. La Corte, dal canto suo, è rimasta sulle stesse posizioni di alcuni mesi fa: sussistono sia il rischio di reiterazione del reato di soppressione del cadavere (Michele è stato condannato a 8 anni di reclusione) sia il pericolo di fuga. Forse, il contadino di Avetrana fuggirebbe soltanto per una diretta televisiva, considerando i suoi “precedenti”. «Misseri è sottoposto ad una sorta di detenzione domiciliare, considerando le ore della giornata che è obbligato a trascorrere in casa. Ma, al contrario di un detenuto ai domiciliari – fa notare il suo difensore – il periodo in cui viene privato della libertà non sarà decurtato dalla condanna definitiva che un giorno dovrà scontare». 

Valentina Misseri: “Mia sorella sta male. Paga per errori che non ha commesso”. «Mi dice sempre che vorrebbe addormentarsi e svegliarsi quando un giudice capirà finalmente che è innocente. Il danno che le è stato fatto è irreparabile», scrive ancora Maria Corbi.

Valentina ci spera questa volta che sua sorella possa essere scarcerata?

«Non ci spero perché a decidere sono le stesse persone che hanno dato l’ergastolo. E non riesco a capire come mai tutto questo tempo per scrivere le motivazioni. Un ergastolo si dà quando si è certi e tutto è chiaro. Questa lentezza non può non farmi pensare ». 

Come sta Sabrina?

«Sabrina sta malissimo, fisicamente e psichicamente. Ha bisogno di aiuto e sono molto preoccupata. Vomita continuamente, non dorme, spero che la facciamo parlare con uno psichiatra».

Le scrive?

«Si, ma non mi chiama quasi mai perché dopo piange e sta peggio. E’ innocente ed è la dentro da 3 anni e tre mesi, sono quattro Natali che è in cella, anni che non gli ridarà più nessuno. Era una bimba, 22 anni, quando è entrata e tra pochi giorni, il 10 febbraio ne compirà 26».

E’ stata condannata all’ergastolo. Per molte persone è colpevole.

«Non è colpevole, e le dico che a volte preferirei che lo fosse in modo che questa tortura fosse almeno comprensibile. Sicuramente più tollerabile. Ma io lo so, i fatti lo dicono, che Sabrina è innocente e sta sopportando un’ingiustizia enorme Ripete che quello che le sta capitando è assurdo, vuole credere nella giustizia ma ha paura nell’errore giudiziario».

Ti ha mai detto cosa ha provato quando è stata pronunciata in aula la paura «ergastolo»?

«L’avevano preparata ma sperava che non fosse così. Mi dice sempre che vorrebbe addormentarsi e svegliarsi quando un giudice capirà finalmente che è innocente».

Sabrina vede la tv? I talk show che la crocifiggono?

«Quando parlano di lei in quel modo ci sta male. Prova dolore e rabbia».

Lei ha ancora speranza?

«Si, certo, spero che alla fine la verità vinca sulle menzogne, ma con la consapevolezza che il male che è stato fatto non potrà essere compensato. Sarah, che per me e Sabrina era una sorella non c’è più. E Sabrina non si riprenderà comunque mai, il danno che le è stato fatto è irreparabile».

Sabrina Misseri: visto che non si riesce a motivare la sua condanna gli avvocati chiedono che possa affrontare i prossimi gradi di giudizio fuori dal carcere... scrive Massimo Prati sul suo blog, Volandocontrovento. Un tempo, a volte accade ancora, sulle navi prive di un comandante carismatico e capace di tenere a bada il proprio equipaggio c'era chi non eseguiva gli ordini e non di rado chi si ammutinava. Se rapportassimo questo ai giorni nostri, potremmo capire che quando lo Stato latita, quando i "capi" mancano di carisma, molti suoi adepti perdono l'ideologia originaria e smettono di rispettare le regole vigenti inventandosi un nuovo tipo di democrazia. Come i topi che ballano quando il gatto dorme. In un'epoca in cui la politica si rende ridicola, perché usata da approfittatori che non aiutano i cittadini ma fanno a gara per spartirsi le postazioni migliori e le miliardarie fette di torte all'euro, può un intero equipaggio rispettare le consegne e le regole stabilite? No. La storia ci insegna che in un simile contesto è l'instabilità a farla da padrone. E di questa instabilità soffrono tutti gli organi che dovrebbero servire lo Stato, quegli apparati istituzionali di cui non può fare a meno una nazione e che contribuiscono a mantenerla sana. Parto da qui per parlare di una parte della magistratura (magistratura che da tempo immemore nasce dalle costole dei partiti politici), di quella parte che usa a modo suo la legge e lo fa per imporre nuovi parametri di giudizio e nuove ideologie. Molte volte ci pare di vederla andare alla deriva, l'Europa ce lo ricorda spesso multandoci per gli errori di quei magistrati che non usano rispettare le regole, anche se a sbagliare è solo la minoranza, tantissimi sono i procuratori e i giudici che rispettano l'imputato e seguono il giusto input, quella minoranza spesso ingiusta che usa ogni mezzo pur di legittimare le proprie idee agli occhi della massa: anche l'appoggio mediatico dei giornalisti mediocri che preferiscono l'audience al doveroso, sacrosanto e democratico, dovere di critica.

L'articolo 2 della Costituzione italiana cita: "La Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell'uomo". Nell'articolo 3 è scritto: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge", mentre l'articolo 10 garantisce che: "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute".

Che la giustizia italiana non sia conforme alle norme del diritto internazionale lo dimostrano le continue sanzioni che Strasburgo commina alla nostra nazione a causa di magistrati che se ne fregano dell'Italia, degli italiani che pagheranno le multe al posto loro e di quanto dicono di noi i garantisti europei. Ma non soffermiamoci troppo, potremmo sentirci male al pensiero di dover pagare una nuova tassa sulla giustizia, e vediamo l'articolo 111 in cui si impone il rispetto delle regole: "Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata". Lo stesso articolo vuole che le regole per i presidenti di Corte non cessino dopo l'emissione della sentenza, infatti si trova anche scritto che: "Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati". In base a questo spesso ci si chiede quanto tempo abbia un giudice per motivare una sentenza.

La risposta ce la dà l'art.544 del codice di procedura penale:

1. Conclusa la deliberazione, il presidente redige e sottoscrive il dispositivo. Subito dopo è redatta una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la sentenza è fondata.

2. Qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi in camera di consiglio, vi si provvede non oltre il quindicesimo giorno da quello della pronuncia.

3. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni, il giudice, se ritiene di non poter depositare la sentenza nel termine previsto dal comma 2, può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il novantesimo giorno da quello della pronuncia.

Questa lunga premessa ora la rapporto a quanto fatto in questi anni dai magistrati di Taranto. Iniziamo dal principio dunque, da quando ci hanno obbligati ad osservare la forza di procuratori, usata su una ragazza di 22 anni carcerata senza vere prove nella speranza di una sua confessione, che senza neppure verificare le dichiarazioni del padre decisero di "agire" a modo loro usando insoliti giochi di prestigio, sia procedurali che investigativi. Giochi messi in atto anche con l'aiuto di infiltrati del popolo, a cui i carabinieri affidavano registratori dell'Arma completi di audio-cassette, e di un perito che stabiliva di volta in volta quanto serviva di stabilire (la corda usata dal Misseri, quando lui era l'assassino, diventata cintura quando si è deciso di spostare la mira sulla figlia). Proseguiamo per scoprire che in pochi mesi ci hanno abituati a pensare che fosse normale credere a un sogno e su questo si potesse basare un processo. Normale anche il fatto che gli imputati si moltiplicassero, che gli avvocati fastidiosi venissero inquisiti affinché si togliessero di mezzo, che magicamente cambiassero sia le scene che le ambientazioni in cui collocare l'omicidio della piccola Scazzi. A questi fatti incolliamo il gip Martino Rosati che ha sempre convalidato le tesi dei Pm tarantini e, dopo aver scritto in un atto di arresto che Michele Misseri era un assassino abietto e pericoloso, ha ritrattato e incensato in un altro atto il contadino, pover'uomo, fino a liberarlo, su proposta dei Pm, perché di fronte a lui si era presentato impacciato e, quindi, aveva dimostrato di non sapere come Sarah fosse morta. Un gip in grado di considerare rilevante qualsiasi cosa gli portasse la procura, sia il nulla investigativo che i sogni, e irrilevanti le rimostranze dei difensori. Un gip che ha pure obbligato la Difesa ad interrogare il contadino solo a determinate condizioni: l'avvocato Coppi poteva incontrare il Misseri, ma in presenza dei procuratori e senza porgli domande che riguardassero l'omicidio di Sarah. Solo bizzarro?

Forse no. Forse qualcuno temeva che già a metà gennaio 2011 Michele Misseri potesse svelare all'opinione pubblica la sua nuova verità, il motivo per cui aveva accusato la figlia. In fondo quanto ha affermato tempo dopo già lo lasciava intuire nelle sue prime lettere, in fondo non c'era nulla di veramente serio che potesse incriminare la cugina di Sarah: pochi indizi e tante illazioni nate da una ipotetica gelosia sfociata in un altrettanto ipotetico litigio. E che vi fossero pochi indizi colpevolisti era chiaro, anche se i media ne giustificavano la mancanza con l'alta probabilità che i procuratori avessero assi e re nascosti nelle maniche (assi e re rivelatisi a processo dei semplici cavallucci... se non dei miseri fantocci). Ma proseguiamo ancora ed arriviamo al 2012, a quando il pericolo incombeva sul tribunale dei due mari e lo stesso gip si presentò in prima serata agli italiani, addirittura al TG1 delle 20.00. Non è mai accaduto, da quando esiste la Repubblica italiana, che a processo imminente un gip andasse in televisione per perorare cause innocentiste e colpevoliste; è indubbiamente un fatto fuori da ogni regola giuridica e morale che andrebbe sanzionato, visto che il principio di imparzialità dei giudici è stabilito in diverse norme costituzionali. Invece Martino Rosati, seduto comodo sulla sua poltrona, in tutta tranquillità si mise a propagandare sia la bontà del tribunale della sua città, così che il processo rimanesse a Taranto e la Cassazione non decidesse di affidarlo ad altre realtà giuridiche, sia la certa innocenza del contadino. Aggiungendo a questa propaganda, quando si parlò di Sabrina Misseri, una frase che suonava così: "spero per lei che ci siamo sbagliati...". E' questo che un giudice deve andare a dire sul piccolo schermo prima ancora che l'imputata sia giudicata in tribunale da altri giudici, non ultimi quelli popolari, a milioni di persone?

Anche grazie a lui, quando la Cassazione decise di lasciare il processo al tribunale di Taranto, la procura brindò perché l'ergastolo si poteva già considerare blindato. Questo a causa della visibilità mediatica montata in chiave colpevolista, anche dal gip, che i fidi delfini della carta stampata locale avevano propagandato per quasi due anni sia in Puglia che in tutta Italia. Non ci credete? Ragionate con me usando la logica: a Taranto i sei giudici popolari di un processo penale si estraggono a sorte fra 420 delle persone che hanno accettato di essere iscritte nel registro del tribunale. Paragoniamo a questi numeri l'enorme esposizione mediatica di allora (ancora oggi la maggioranza dell'opinione pubblica italiana considera Sabrina Misseri certa colpevole... e a Taranto la percentuale si alza) e facendo un rapido calcolo statistico non usciamo dalla realtà se diciamo che dei 420 potenziali giudici popolari tarantini, solo un centinaio non avevano una pregressa convinzione colpevolista mentre, al contrario, più di trecento, anche a causa dei media locali, erano vittime di un pregiudizio e non potevano in alcun modo essere imparziali. Per cui la probabilità di portare in aula sei giudici popolari neutrali era pressoché nulla. Da questo si capisce che lasciare il processo a Taranto significava non dar modo alle Difese di far assolvere le imputate. E sarà così anche per l'appello.

Mettiamo da parte il modo poco ortodosso e molto pregiudizievole usato dai media per trattare un caso così delicato, pur se anche grazie ai tanti giornalisti del pregiudizio non si è garantito uno svolgimento processuale in condizioni di parità di fronte a giudici terzi, e facciamo un piccolo ripasso su un processo presentatosi in formato kolossal. Purtroppo kolossal lo è stato solo per la sua durata, dato che già all'inizio si è mostrato per quanto in realtà era: un infimo film di terza categoria distribuito solo perché pubblicizzato a un pubblico fidelizzato. Ricordate che un giudice popolare è stato cambiato a causa di quanto in aula diceva sulle imputate? Ricordate di aver visto e ascoltato i giudici togati, compresa la presidente di Corte, ciarlare sottovoce contro le stesse imputate e i testimoni a loro favore? Ricordate di aver visto e sentito il pubblico ministero fare nell'arringa finale una descrizione del crimine sulla falsariga di quanto accaduto in Psycho? Chiaramente per ottenere il ribrezzo dei giudici popolari, già mentalmente predisposti a causa di quanto ascoltato e visto in video nei tre anni precedenti, e la condanna di chi il 26 agosto 2010 per la procura albergava nella penombra di una camera del Bates Motel in attesa dell'arrivo di Sarah. Mi son lasciato trasportare, chiedo scusa, intendevo dire: albergava nella penombra di una camera della villetta dei Misseri in attesa dell'arrivo di Sarah. In fondo, si potrebbe dire, non chiedeva neppure tanto. Pretendeva solo la stessa condanna già ottenuta a livello mediatico grazie ai fidi scudieri della carta stampata locale che da buoni uomini di chiesa avevano già imposto all'opinione pubblica il loro vangelo, quello di Giuda.

Insomma, non credo di sbagliarmi nel pensare che la Costituzione italiana a Taranto, ma è capitato anche in altri luoghi, in questi anni non ha goduto di giusta considerazione. Appurato questo, dobbiamo purtroppo constatare che forse non solo la Costituzione si è rivelata un optional irrilevante, ma che lo si sia pensato anche della legge. E a quanto pare il giudice Cesarina Trunfio segue la tradizione dei tanti giudici che hanno contribuito, senza rimetterci neppure un cent di tasca propria, a farci sanzionare dall'Europa, a far pagare ai soliti italioti multe milionarie. E quando non è l'Europa a farci pagare, è la parte sana della magistratura che scopre le magagne della insana e rimborsa chi ingiustamente è finito in galera (vedi foto). Fa male pensare che un giudice a cui lo Stato dà ogni anno più di 100.000 euro (Stato che in cambio gli chiede solo di sentenziare in base alle prove, codice penale alla mano, e motivare nei giusti tempi le sentenze), non pare essere in grado di trovare nei tempi previsti i ragionevoli motivi che giustifichino i due ergastoli che lui stesso ha comminato. Il giudice Trunfio ha troppo lavoro? Se sì che segua le regole e pensi, prima che ad altro, a chi si dichiara innocente e si ritrova in carcere da trentanove mesi. A chi, a causa delle motivazioni mancanti, non può appellarsi per cercare di dimostrare che chi lo considera colpevole si sbaglia. Non è possibile non trovare il tempo, se si pensa che a Milano un giudice ha preferito lasciare in libertà un dentista stupratore pur di motivare in soli 15 giorni la condanna inflitta a Silvio Berlusconi. Volere è potere, diceva un tale anni fa. E la legge dice che un giudice deve per forza trovare il tempo e dare la precedenza alle motivazioni più urgenti.

Che ci siano motivi diversi ad impedire la stesura delle motivazioni? Altri giochi di prestigio? Non si sa, di certo chi impedisce ad un imputato di difendersi nei tempi e nei modi giusti, dimostra di non rispettare né gli uomini né la Costituzione. Forse anche per questo il 14 Gennaio scorso gli avvocati Coppi e Marseglia hanno depositato un'istanza di rimessione in libertà per Sabrina Misseri. E l'hanno fatto perché, come dichiarato da Franco Coppi: "E’ contrario a ogni principio giuridico che una persona debba aspettare la fine del processo in carcere senza che ci siano le esigenze cautelari. Dato che nel caso in questione non esiste né la possibilità di reiterare il reato né quella di fuggire e, soprattutto, dato che son passati ben nove mesi dalla prima sentenza e ancora non si conoscono le motivazioni della condanna".

Ora la palla torna alla base, ai giudici di Corte d'Assise. "Ma - ribadisce l'avvocato - se le rifiuteranno la libertà (e, questo lo dico io, non ci vuole una sfera di cristallo per sapere che gliela rifiuteranno) ci rivolgeremo al tribunale del riesame e poi alla Cassazione".

Vedremo presto come il Palazzo dei Sogni tarantino tratterà questo nuovo capitolo. Vedremo se l'istanza della Difesa darà una spinta giusta al giudice. Vedremo se quanto non si è motivato in nove mesi si riuscirà a motivare in quindici giorni...

Ed appunto il "no" della Corte è stato fulmineo, ma le motivazioni non ci sono ancora. La Trunfio è stata velocissima ad opporsi alla scarcerazione, però ancora non è riuscita ancora a motivare la condanna. Sabrina Misseri resta in carcere: "Può scappare o inquinare prove". La corte d'assise di Taranto ha respinto la richiesta dei domiciliari presentata dai legali della cugina di Sarah Scazzi: "Non sono cambiate le esigenze cautelari", scrive Mario Diliberto su “La Repubblica”. Sabrina Misseri può uccidere ancora. Ma può anche fuggire all'estero, sfruttando l'eventuale complicità di amici e familiari stabilmente residenti in paesi stranieri. E non è vero che il suo volto è conosciuto e che costituirebbe un ostacolo alla eventuale latitanza. Perchè ora il viso della ragazza è molto cambiato rispetto a quando compariva in tv, subito dopo la scomparsa di Sarah, sostenendo di essere alla ricerca della cugina svanita nel nulla. Così la Corte di Assise ha motivato il suo no alla liberazione e agli arresti domiciliari per la giovane condannata all'ergastolo, insieme alla madre Cosima Serrano, per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi, assassinata il 26 agosto del 2010 ad Avetrana. La Corte, presieduta dal giudice Cesarina Trunfio ha racchiuso in sei pagine gli argomenti con i quali ha respinto la richiesta di scarcerazione, avanzata la scorsa settimana dai difensori della ventiquattrenne. Secondo i giudici, per Sabrina esiste il pericolo di reiterazione di reati violenti contro la persona, il pericolo di fuga e quello di inquinamento probatorio. Sul rischio di latitanza, stando a quanto si è appreso, la Corte ha fatto esplicito riferimento a familiari e amici residenti in Germania e in Polonia che potrebbero fornire un aiuto concreto in caso di fuga. I giudici hanno anche respinto le osservazioni della difesa sul fatto che la ragazza è troppo conosciuta per fuggire. Sabrina non è più la giunonica ragazza che era protagonista delle trasmissioni televisive, subito dopo la scomparsa di Sarah. Ora è dimagrita, ha i capelli lunghi e porta gli occhiali. Un aspetto che, quindi, potrebbe consentirle di passare inosservata. Sul pericolo di inquinamento probatorio, infine, la Corte lo ha ritenuto fondato in caso di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello. Un riferimento implicito alla possibilità di intervenire su un'eventuale nuova deposizione, in secondo grado, del padre Michele Misseri, l'uomo che continua a professarsi unico colpevole dello spietato delitto.

Il professor Franco Coppi non molla la presa sul caso Scazzi. A otto giorni dal deposito dell’ordinanza con la quale la corte d’assise ha respinto la richiesta di scarcerazione per Sabrina Misseri, il 28 gennaio 2014 mattina nella cancelleria del tribunale dell’appello è stato depositato il ricorso firmato dallo stesso Coppi e dall’avvocato Nicola Marseglia. Gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia che hanno difeso Sabrina Misseri nel processo in Corte d’assise per l’uccisione di Sarah Scazzi, concluso con la condanna all’ergastolo per la ragazza e sua madre Cosima Serrano, hanno presentato ricorso al tribunale dell’appello contro la decisione della presidente Rina Trunfio che ha respinto la precedente richiesta di scarcerazione della loro assistita. «Sabrina è innocente» continua a sostenere Coppi in tutte le sedi, anche quando si occupa di vicende complesse e complicate come quelle dell’ex premier Silvio Berlusconi oppure, restando in ambito tarantino, dell’Ilva, visto che difende delle società della famiglia Riva (fatto che lo porterà a rinnovare il duello con gli stessi pm e probabilmente con gli stessi giudici togati della corte d’assise). La difesa dopo il rigetto della scorsa settimana non si è arresa ed è tornata alla carica impugnando dinanzi al tribunale dell’appello cautelare l’ordinanza con cui la Corte d’assise di Taranto ha respinto la richiesta di libertà «con argomentazioni suggestive ma assolutamente non condivisibili». I legali sostengono che non esistono più i presupposti per la detenzione della cugina di Sarah poiché non può più inquinare le prove, tentare la fuga o commettere altri reati simili a quello per il quale è stata condannata. Secondo gli avvocati Coppi e Marseglia le esigenze cautelari poste alla base della detenzione in carcere di Sabrina Misseri possono essere tutelate anche concedendo alla giovane di Avetrana - in carcere dal 15 ottobre del 2010 - gli arresti domiciliari, anche perché - sostengono i due legali - Sabrina sta male. Di parere diverso la presidente della Corte d’assise che non ha ancora depositato le motivazioni della sentenza di primo grado. La giudice, nelle sei pagine con cui ha respinto la domanda di scarcerazione della giovane condannata, ritiene ancora valide i tre presupposti per la carcerazione.  In attesa che il tribunale dell’appello fissi l’udienza per esaminare il ricorso, va detto che proprio sulle condizioni di salute di Sabrina Misseri la corte d’assise ha usato parole nette, sbarrando la strada alla difesa. Per i giudici, gli avvocati di Sabrina Misseri non hanno voluto realmente «sottoporre all'attenzione di questa corte alcuna questione afferente la salute della imputata: è stata la stessa difesa, infatti, ad ancorare l’indicato oggettivo stato depressivo della Misseri al suo stato detentivo e non anche ad altre patologie. Inoltre, tale stato depressivo è solo asserito e non documentato da alcuna certificazione sanitaria, che, ove fosse stata esistente, come correttamente osservato dal pubblico ministero, sarebbe stata inoltrata dalla casa circondariale alla autorità giudiziaria per le determinazioni di competenza». Secondo il presidente Rina Trunfio e i giudici della Corte, Sabrina deve rimanere in carcere in quanto sussistono il pericolo di fuga e il rischio di reiterazione del reato. Riguardo al primo punto, gli avvocati Nicola Marseglia e Franco Coppi, confutano tali conclusioni sostenendo che «la Misseri è totalmente priva di mezzi e non si vede come e dove potrebbe fuggire». In Germania, dove risiedono dei cugini, c’è l’estradizione e, fra l’altro, non c’è nulla che dimostri che i familiari siano costretti ad accoglierla. Mentre, proseguono i legali, la sua amica Liala Nigro, a quanto pare, non è più a Varsavia. Inoltre, il suo aspetto non è cambiato al punto tale da renderla irriconoscibile e agevolarne la fuga. Il suo volto è stato ripreso e le immagini sono state diffuse malgrado il suo divieto (sono andate in onda in tv anche molto prima della sentenza malgrado il divieto della Corte).
Trattandosi di un omicidio d’impeto determinato, secondo l’accusa, da un movente passionale, si tratta di un fatto isolato, fa notare la difesa, legato ad una circostanza particolare. Pertanto, «sorprendenti sono le considerazioni sul rischio di reiterazione di altri reati fondate sul fatto che colei non ha desistito dall’impresa criminosa nonostante l’uccisione di Sarah Scazzi abbia richiesto alcuni minuti per la sua esecuzione. Data e non concessa la ricostruzione dei fatti compiuta dall’ordinanza impugnata, resta il fatto che il delitto di cui è imputata la Misseri costituisce un fatto isolato motivato da impulsi intimi e passionali». Gli argomenti a sostegno del rigetto, «al di là dell’enfasi stilistica e formale, sono assolutamente inconsistenti», lamenta la difesa che chiede la scarcerazione anche alla luce delle condizioni precarie della ragazza, sollecitando i giudici a disporre accertamenti medici tesi a valutare il suo stato di salute fisico e psichico. Alla luce di tutto ciò, «l’istanza di revoca o di sostituzione della misura cautelare in atto è dettata da un’esigenza di civiltà». Sabrina, insieme alla madre Cosima, è stata condannata all’ergastolo per concorso in sequestro di persona, omicidio e soppressione di cadavere, a conclusione di un processo indiziario con molte zone d’ombra, considerando la tesi accusatoria lacunosa, scrive Annalisa Latartara su “Il Corriere del Giorno”. Sembra che l’azione delittuosa sia circoscritta alle due donne (per il semplice fatto che Michele viene escluso dal delitto) ma manca totalmente la ricostruzione della fase cruciale: quei quattro o cinque minuti in cui Sarah è stata strangolata. Non ci sono elementi per stabilire i ruoli e le responsabilità delle due donne. Non è stato chiarito quale sia stata l’arma del delitto, se Sarah sia stata strangolata con una cintura (secondo la perizia medico-legale del pm), oppure con una tracolla dello zaino o addirittura con una corda, secondo una delle tante versioni Michele Misseri e secondo la perizia di scienza del consulente della difesa della ragazza, il professor Paolo Arbarello. Il dibattimento ha lasciato una serie di dubbi alla camera di consiglio stando alle dichiarazioni irritualmente rilasciate da un giudice popolare ad un quotidiano subito dopo la lettura del dispositivo della sentenza. Dalle dichiarazioni non si evince come quei dubbi sono stati superati. Per saperlo bisognerà attendere ancora. Stando a indiscrezioni, fino a metà febbraio 2014.

Parte l'udienza del 18 febbraio 2014 al Tribunale d'appello per la richiesta di scarcerazione di Sabrina Misseri, condannata all'ergastolo in primo grado per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi. E' durata circa un'ora a Taranto l'udienza del Tribunale del Riesame durante la quale è stata discussa a porte chiuse l'istanza di appello contro la decisione della Corte di Assise del capoluogo jonico che il 20 gennaio 2014 ha respinto la richiesta di scarcerazione di Sabrina Misseri, condannata ad aprile 2013 all'ergastolo (insieme alla madre Cosima Serrano) per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi, 15 anni, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto del 2010. In aula sono intervenuti uno dei difensori dell'imputata, l'avvocato Nicola Marseglia (mentre era assente l'avvocato Franco Coppi), e il pm della Procura di Taranto Mariano Buccoliero. Secondo la difesa di Sabrina non ci sono le esigenze cautelari per tenere la giovane donna in carcere, tra le quali il pericolo di reiterazione del reato e di fuga. Il Tribunale del riesame si è riservata una decisione ma i termini entro cui dovrà decidere non sono perentori, anzi aleatori, così come tutti i tempi adottati dalla magistratura tarantina per questa vicenda. «Credo che abbia deciso di venire in tribunale per assistere all'udienza esclusivamente per prendere aria, per uscire dalla cella, per vedere la strada che separa la casa circondariale da Palazzo di giustizia, per guardare due alberi, vedere qualcosa». Lo ha detto l'avvocato di Sabrina, Nicola Marseglia. «Il fatto che, a distanza di dieci mesi dalla sentenza, la Corte d'Assise non abbia ancora depositato le motivazioni - ha aggiunto Marseglia - è un motivo di sofferenza perchè tutto questo ritarda, congela, i tempi processuali, dilata nel tempo la celebrazione del processo di secondo grado. Però, non abbiamo rimedi dal punto di vista formale. Anche il fatto di aver presentato questo ricorso, in qualche modo è conseguente al ritardo nel deposito delle motivazioni della sentenza. Non si può - ha obiettato il legale - aspettare sempre tutto e tutti per esercitare a pieno il diritto di difesa». Prima di sciogliere la riserva sull'istanza dei difensori, il collegio composto da giudici De Tomasi (presidente), De Michele e Incalza, acquisirà la cartella medica di Sabrina Misseri. Per i legali della 26enne estetista di Avetrana non sussistono esigenze cautelari. «Secondo la stessa impostazione accusatoria – ha detto Marseglia – questo è un delitto d’impeto e, quindi, irripetibile. Noi siamo persuasi dell’assoluta innocenza di Sabrina e non per ipotesi di lavoro ma per convinzione personale. Se si volesse privilegiare una volta tanto la presunzione di non colpevolezza in un processo indiziario come questo – ha aggiunto – io credo che l'accoglimento della nostra istanza, e quindi della nostra impugnazione, sia nelle cose, sia nel rispetto della legge». Per comprendere le ragioni che hanno indotto la Corte d’Assise a decretare le condanne bisognerà attendere il deposito delle motivazioni della sentenza. Dalla lettura del dispositivo sono trascorsi dieci mesi. Gli avvocati ritengono che la Misseri non ha possibilità di fuggire, di commettere altri reati e di inquinare le prove. Inoltre le sue condizioni psico-fisiche non sono compatibili col carcere. Per la procura ionica, invece, ci sono tutti gli elementi a sostegno della custodia cautelare: Sabrina potrebbe facilmente fuggire all’estero con l’aiuto di parenti ed amici, potrebbe inquinare le prove ed avvicinare il padre fornendogli una versione del delitto più credibile (Michele Misseri ha più volte cercato di accusarsi dell’omicidio ma non è stato ritenuto credibile ed è stato condannato solo per la soppressione del cadavere) e potrebbe commettere nuovi reati vista l’efferatezza ed i futili motivi del delitto di cui è accusata.

Dopo 10 mesi non è ancora stata depositata la motivazione della sentenza di Avetrana. Dal 20 aprile 2013 ad oggi sono passati dieci mesi e ancora la Corte d'assise di Taranto non ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale quel giorno ha condannato Sabrina Misseri e sua madre Cosima all'ergastolo come colpevoli dell'uccisione della cugina e nipote Sarah Scazzi. E' l'ennesima, clamorosa, scoraggiante prova di come funziona la giustizia in Italia. Anzi, di come non funziona, scrive “L’Altro Quotidiano”. E pensare che quella è una condanna fondata non su prove, ma solo su indizi che devono essere spiegati, motivati, suffragati; quindi i magistrati giudicanti hanno l'obbligo, oltre che professionale, anche morale di dare ai difensori delle due imputate gli elementi da esaminare e valutare per poterle contestare in sede di appello. La notizia di questo inammissibile ritardo si è diffusa oggi, quando Sabrina Misseri è comparsa nel palazzo di giustizia di Taranto per assistere all'udienza sul ricorso contro la decisione della Corte d'Assise di rigettare l'istanza di scarcerazione presentata dai suoi legali.  Ricordiamo che il delitto avvenne il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto) e che molti giorni dopo lo zio di Sarah (padre di Sabrina e marito di Cosima), Michele Misseri, fece ritrovare il cadavere della povera ragazzina quindicenne nella buca in campagna dove lo aveva nascosto e confessò di essere lui stesso l'assassino e di aver straziato il cadavere. Poi ritrattò accusando la figlia, ma successivamente ritrattò ancora per confermare la sua responsabilità, su cui ha ripetutamente insistito. Ma i giudici lo scarcerarono, propendendo per la tesi, che ha ottenuto ovviamente molto maggiore attenzione dai mass media, che a commettere l'atroce delitto  fossero le due donne, inutilmente proclamatesi innocenti.

Il 3 marzo 2014, come volevasi dimostrare con l’istanza di rimessione del processo per legittimo sospetto che i magistrati dell’accusa ed i giudici giudicanti fossero una cosa sola rispetto alle esigenze giustizialiste della massa, il Tribunale del riesame di Taranto ha respinto l’istanza di scarcerazione di Sabrina Misseri, la 23enne di Avetrana condannata l’anno scorso all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Taranto per aver ucciso, il 26 agosto del 2010, la cugina Sarah Scazzi. Insieme a Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo per lo stesso delitto anche la madre, Cosima Serrano. I giudici dell’appello del tribunale di Taranto hanno respinto la richiesta di scarcerazione di Sabrina Misseri. Dopo la Procura e la Corte d’assise, dunque, anche per i giudici di appello la giovane è ancora pericolosa, potrebbe macchiarsi di nuovo di episodi di violenza, potrebbe fuggire ed inquinare le prove, pertanto deve rimanere in carcere. Respinta anche al richiesta degli arresti domiciliari. Quanto infine ai presunti problemi di depressione denunciati dai difensori, i magistrati rilevano (come già la Corte d’Assise) che non è stata presentata alcuna documentazione clinica sullo stato di salute della Misseri. Per i magistrati restano invariati i gravi indizi di colpevolezza a carico della Misseri ed i rischi di reiterazione del reato, fuga e inquinamento delle prove. La difesa sosteneva che pur condividendo le tesi che portarono alla condanna, si trattò di un fatto isolato e motivato da impulsi intimi e passionali. Per i giudici, invece, il rischio di recidiva è dettato dalla stessa dinamica del tragico delitto: dopo aver carpito la buona fede della cugina, la Misseri avrebbe agito per futili motivi di gelosia dimostrando una personalità aggressiva, inseguendo la vittima, strangolandola per un periodo non inferiore ai due minuti (alcuni consulenti sostengono anche 4-5 minuti) agendo con lucidità e poi con estrema freddezza ha cercato di procurarsi un alibi utilizzando il cellulare della vittima subito dopo il delitto, contribuendo infine alla soppressione del cadavere e calunniando la badante di casa per depistare le indagini. Inoltre il Tribunale fa presente che da parte della difesa della detenuta non è stata prodotta alcuna documentazione medica che attesti uno stato di salute della ragazza incompatibile con il regime carcerario. Nell'appello i legali di Sabrina, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, avevano chiesto la scarcerazione della loro assistita sostenendo, tra l'altro, che la ragazza si trova in un profondo stato di depressione. Sabrina Misseri è detenuta nel carcere di Taranto dal 15 ottobre 2010. La sentenza di condanna all'ergastolo è stata emessa dalla Corte di Assise di Taranto nell'aprile 2013. Le motivazioni della sentenza, a quasi un anno dalla condanna, non sono state ancora depositate. “Sabrina Misseri è a pezzi e va scarcerata perché non ci sono le esigenze cautelari”. Così aveva detto al Tribunale del Riesame l’avvocato Nicola Marseglia che insieme a Franco Coppi difende Sabrina Misseri. All’udienza aveva partecipato anche Sabrina, ma solo “per prendere aria e guardare due alberi” aveva poi aggiunto il legale. Finiti gli interventi della difesa, i giudici del Riesame – chiamati a decidere se confermare la custodia cautelare in carcere, come aveva già stabilito la Corte d’Assise respingendo un precedente ricorso, oppure liberare la ragazza – si erano ritirati per emettere il provvedimento. Che è arrivato appunto oggi ed è sfavorevole per Sabrina, che resta così in carcere A distanza di dieci mesi dalla condanna in primo grado e in attesa delle motivazioni della sentenza, Sabrina Misseri – aveva ripetuto in quell’occasione la difesa – potrebbe lasciare il carcere e attendere l’esito del giudizio fino alla Cassazione, magari ai domiciliari. Nel provvedimento con il quale la Corte d’Assise aveva rigettato la richiesta di scarcerazione, i giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini hanno spiegato motivi per i quali la ragazza non poteva essere liberata.

“Sabrina Misseri – hanno scritto i giudici dell’Assise De Tomasi, De Michele e Incalza, così come riportato da “Il Paese Nuovo” – ha ucciso Sarah Scazzi per motivi futili e socialmente riprovevoli che non possono giustificare e nemmeno attenuare la gravità di un omicidio: lo ha fatto perché la ragazzina si era intromessa nel rapporto, sentimentale e sessuale, che la imputata aveva con Ivano Russo, portandolo alla definitiva rottura”. Inoltre, hanno detto ancora i giudici della Corte d’Assise, Sabrina avrebbe ucciso anche perchè Sarah, “in quella prima meta dell’agosto 2010 aveva in alcune occasioni messo in ridicolo la cugina anche davanti ad altri ragazzi della comitiva; perchè in una circostanza la ragazzina aveva svelato al fratello Claudio un rapporto sessuale tra la Misseri ed il predetto Russo”. Ancora: Sabrina Misseri, nell’uccisione della cugina Sarah Scazzi – omicidio avvenuto ad Avetrana – avrebbe evidenziato “una freddezza, una lucidità ed una capacità organizzativa logicocriminale senza dubbio fuori dal comune” soprattutto nei minuti successivi all’omicidio quando “ha effettuato, utilizzando il cellulare della cugina ormai morta, una sequenza di sms e squilli che avrebbe dovuto dimostrare la esistenza in vita della Scazzi”. A tutto ciò infine, hanno detto ancora i giudici dell’Assise, si aggiunge che “la ragione principale per ritenere ancora concreta ed attuale la esigenza di cautela in questione è rappresentata dalla “gestione” che l’imputata prima – e la madre poi – hanno fatto di Michele Misseri il quale, nonostante con tutte le sue forze si accusi dell’omicidio, non riesce ad essere credibile. Ebbene se Sabrina Misseri fosse rimessa in libertà forse riuscirebbe nell’indottrinamento del padre meglio di chiunque, prima di lei, ci abbia provato”.

PER SABRINA FINE PENA MAI, ANCHE SE PRESUNTA INNOCENTE.

La prima sezione penale della Cassazione ha confermato la custodia in carcere per Sabrina Misseri, la ragazza condannata all'ergastolo dalla Corte d'assise di Taranto, in primo grado, per l'omicidio di sua cugina Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010. Lo ha deciso la prima sezione penale della suprema corte. In particolare, i supremi giudici, hanno respinto il ricorso dei legali di Sabrina Misseri contro l'ordinanza con la quale il tribunale del Riesame di Taranto, lo scorso 18 febbraio, aveva confermato la custodia in carcere disposta dalla corte d'assise di Taranto a carico della Misseri, bocciando il ricorso presentato dalla difesa di Sabrina che chiedeva la detenzione domiciliare. In particolare, il ricorso della difesa della giovane rappresentata da Franco Coppi e da Nicola Marseglia era volto a ribaltare l'ordinanza del Tribunale della libertà di Taranto dello scorso 18 febbraio. Anche il sostituto procuratore generale della Cassazione Antonio Gialanella, aveva chiesto il rigetto del ricorso presentato dal professor Franco Coppi e l'avvocato Nicola Marseglia. L'udienza si è svolta in Camera di consiglio lo scorso venerdì 27 e l'esito si è appreso stamani 30 giugno 2014. Secondo i legali Sabrina in carcere sta male e non ci sono esigenze cautelari che le impongano di aspettare il processo di secondo grado in cella. Per i difensori Sabrina non può commettere altri delitti (visto che anche secondo l’accusa si è trattato di un omicidio di impeto), né fuggire o inquinare le prove.

Per i magistrati tarantini, invece, Sabrina potrebbe fuggire all’estero con l’aiuto di parenti ed amici, potrebbe inquinare le prove ed avvicinare il padre fornendogli una versione del delitto più credibile (Michele Misseri ha più volte cercato di accusarsi dell’omicidio ma non è stato ritenuto credibile ed è stato condannato ad otto anni solo per la soppressione del cadavere) e potrebbe commettere nuovi reati vista l’efferatezza ed i futili motivi del delitto di cui è accusata.

Per i giudici il rischio di recidiva è dettato dalla stessa dinamica del tragico delitto: dopo aver carpito la buona fede della cugina, la Misseri avrebbe agito per futili motivi di gelosia dimostrando una personalità aggressiva, inseguendo la vittima, strangolandola per un periodo non inferiore ai due minuti (alcuni consulenti sostengono anche 4-5 minuti) agendo con lucidità e poi con estrema freddezza ha cercato di procurarsi un alibi utilizzando il cellulare della vittima subito dopo il delitto, contribuendo infine alla soppressione del cadavere e calunniando la badante di casa per depistare le indagini. Niente da fare per Sabrina Misseri: la detenzione a cui si trova sottoposta dall’ottobre del 2010 per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi dovrà proseguire, scrive “Il Corriere del Giorno”. Dopo il rigetto dell’istanza di libertà disposto dalla Corte d’Assise lo scorso gennaio, la nuova “doccia fredda” per la giovane imputata è arrivata ieri mattina, quando i giudici dell’Appello hanno depositato il loro parere sulla seconda richiesta di scarcerazione. Preso atto di quanto illustrato da pubblica accusa e difesa in occasione dell’udienza tenuta il 18 febbraio, l’organo giudicante non ha ravvisato gli estremi per procedere ad una variazione dell’attuale stato cautelare dell’inquisita. A giudizio dei magistrati chiamati a decidere sulla questione, gli indizi di colpevolezza a carico della Misseri rimangono inalterati. Così come le esigenze da salvaguardare. Fra queste ultime il Tribunale ha fatto specifico riferimento alla necessità di scongiurare un’eventuale reiterazione del reato per il quale Sabrina è stata condannata all’ergastolo. Nel suo provvedimento, il collegio giudicante ha posto in risalto come “ La sussistenza di recidiva specifica è giustificata, infatti, dalla natura del tragico episodio delittuoso ascritto alla Misseri di cui è rimasta vittima la giovane cugina di 15 anni la cui buona fede la ricorrente ha slealmente carpito abusando dei rapporti di amicizia e parentela”. L’omicidio, continua il Tribunale, sarebbe stato commesso per un motivo futile come quello della gelosia per Ivano Russo con cui la Misseri aveva avuto rapporti sentimentali, rapporti in cui la povera Sarah si era intromessa fino al punto da rivelare pure alcuni particolari ad amici. Ciò che hanno rimarcato i giudici dell’Appello (presidente il dott. Alessandro de Tomasi, a latere la dott.ssa Paola Incalza ed il dott. Massimo De Michele) è stata anche “la personalità aggressiva concretamente rivelata dalla Misseri e la compulsività dell’agire”, una situazione che ha indotto i magistrati a ritenere attuale la possibilità che, qualora scarcerata, Sabrina possa reiterare i fatti per i quali è stata riconosciuta colpevole. Il quadro che è stato delineato nel provvedimento ha poi tenuto conto del pericolo di fuga e di inquinamento probatorio (a tal proposito, il Tribunale ha ricordato alcuni passaggi evidenziati dalle indagini, in cui l’imputata avrebbe depistato l’attività investigativa arrivando ad adombrare, nei giorni in cui il cadavere non era stato ancora ritrovato, la possibilità che Sarah potesse esser stata rapita). Alla luce di tutto questo, i giudici hanno rilevato come quella della Misseri sia “una personalità scaltra e disinvolta che non esiterebbe certamente a sottrarsi all’esecuzione della pena dell’ergastolo così violando le prescrizioni dei domiciliari”. A nulla poi è valso, per l’eventuale modifica dello stato cautelare, l’argomento relativo alle condizioni di salute dell’imputata. La difesa della giovane inquisita (avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia) ha evidenziato come la propria cliente versi in una situazione depressiva chiaramente incompatibile con il regime carcerario. Ma sul punto i giudici hanno obiettato che nessun tipo di certificazione è risultata in grado di confermare questo stato di cose. Secondo il Tribunale dell’Appello, l’imputata non versa in condizioni di salute di particolare gravità. “Nel caso in esame – si legge nel provvedimento – la difesa della Misseri ha rappresentato unicamente uno stato depressivo, direttamente ed esclusivamente collegato alla detenzione in carcere, che ha richiesto la necessità di osservazione e assistenza psichiatrica. Premesso che l’asserita inadeguatezza delle modalità di queste ultime sono di esclusiva competenza dell’Amministrazione penitenziaria ed esulano da quella dell’Autorità Giudiziaria, com’è noto la patologia psichica più frequentemente riscontrabile in ambito carcerario è rappresentata da stati ansioso-depressivi reattivi alla detenzione.” I giudici sostengono che “l’ingresso in carcere rappresenta inequivocabilmente un sovvertimento sostanziale delle abitudini e dello stile di vita della persona per cui è da considerarsi implicito un grado di sofferenza psichica.” Da tutto questo, l’organo giudicante ha rilevato elementi per considerare le condizioni di salute della Misseri rientranti in una situazione ordinaria che “non necessita, allo stato, di ulteriori approfondimenti.”

Una attesa senza soluzione di continuità.

La sentenza di primo grado: 8 anni per Michele Misseri, rendiconta Maria Corbi. Una lunghissima attesa, cinque giorni, e alla fine il verdetto: colpevoli. Sabrina e Cosima condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, Michele Misseri a otto anni per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Un applauso è partito dal pubblico alla lettura della pena. La presidente della Corte ha interrotto un attimo la lettura della sentenza per richiamare tutti all’ordine e ha poi proseguito. La corte di Assise ha condannato a sei anni di reclusione ciascuno per concorso in soppressione di cadavere Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele Misseri. Un processo che è durato 15 mesi, con accusa e difesa che si sono confrontate senza esclusione di colpi sulla ricostruzione del delitto di Sarah Scazzi, uccisa nel garage della villetta di via Deledda ad Avetrana. Da Michele o invece dalle donne di casa? In questa domanda quindici mesi di udienze. Un giallo che adesso ha una soluzione giudiziaria, seppure solo in primo grado, una storia che ha stravolto un paese e appassionato milioni di telespettatori di talk show. Tutto è iniziato il 26 agosto quando Sarah, esce da casa dopo pranzo per andare al mare con la cugina Sabrina e l’amica Mariangela. Ma non arriverà mai. Le ricerche sono serrate ma non portano a nulla fino a che Michele Misseri il 29 settembre dice di trovare il cellulare della nipotina in campagna. Pochi giorni e il 6 ottobre dopo 9 ore di interrogatorio confessa spiegando non solo di avere ucciso ma anche di aver violato il cadavere. Gli inquirenti però sono convinti che in questa confessione manchi qualcosa, l’aiuto di Sabrina. E a un certo punto Michele cambia versione, e negando il vilipendio del cadavere tira dentro la figlia che viene arrestata il 15 ottobre. Prima dice che Sabrina teneva Sarah mentre lui la strangolava, poi che Sabrina ha chiesto il suo aiuto solo per occultare il cadavere, e all’incidente probatorio che in garage Sarah è stata vittima di un incidente mentre Sabrina giocava a cavalluccio. Quando scopre dalle guardie penitenziarie che Sabrina è stata arrestata chiede di parlare con i pubblici ministeri, vuole ritrattare. Ma i pm non lo ascoltano e allora lui inizia a scrivere lettere alla figlia chiedendo scusa e spiegando che ha «fatto la falsa» perchè gli avrebbero promesso che sarebbero usciti entrambi in pochi anni. Non c’è niente da fare. A Michele i pm non credono nonostante lui confermi la sua colpevolezza davanti all’avvocato Franco Coppi, che nel frattempo è intervenuto a difesa di Sabrina. Due sentenze della Cassazione sanciscono che non ci sono elementi sufficienti che giustifichino la carcerazione di Sabrina, ma il Tribunale del riesame di Taranto non modifica la sua linea: Sabrina resta in carcere. E sarà raggiunta il 26 maggio 2011 da sua madre Cosima. Ad accusarla il sogno di un fioraio secondo cui Cosima e Sabrina avrebbero prelevato Sarah per strada trascinandola in auto. E’ la madre della commessa del fioraio a raccontare il sogno ai carabinieri. Il fioraio va alla caserma e lo racconta, ma le sue dichiarazioni vengono verbalizzate come fossero realtà. Quando se ne accorge l’uomo pretende che il verbale sia corretto. Lo fanno, ma lui viene denunciato per false dichiarazioni. Finisce sotto processo lui e altri suoi 5 parenti e amici che confermano ai pm di aver sempre saputo che quel racconto si riferiva a un sogno. Ma Cosima resta in carcere Cosima e Sabrina coabitano in carcere, nella stessa cella, mentre Michele rimane libero nonostante continui a dire che è stato lui e solo lui a uccidere Sarah. La sua posizione nel processo rimarrà solo per occultamento e soppressione di cadavere. Inizia il processo il 10 gennaio del 2012. Il 31 gennaio viene sentito il teste Ivano Russo, il «Ridge» di Avetrana e secondo i pubblici ministeri il movente. Sabrina sarebbe stata gelosa delle attenzioni che il ragazzo aveva per la cuginetta che stava diventando una magnifica donna. «Con Sabrina - dice Russo - si instaurò mano a mano un rapporto confidenziale. Ad un certo punto però vidi da parte sua atteggiamenti ambigui, complimenti che andavano oltre. Le ho chiesto se per lei era ancora amicizia o qualcos’altro, e lei mi disse che era amicizia». Il movente della gelosia ossessiva viene smentito e Ivano finisce nei guai (insieme ad altri 7 testi) accusato di false dichiarazioni al pm. Il 20 novembre viene ascoltata Sabrina: «Reputavo Sarah una sorella minore, non una cugina, e la trattavo di conseguenza. Qualche rimprovero sì, ma non litigi». Michele Misseri il 5 dicembre conferma in aula: «Ho ucciso io Sarah, questo rimorso non lo posso più portare dentro di me». Un processo nervoso. Il 29 gennaio uno dei sei giudici popolari viene «pescato» mentre esprime giudizi poco lusinghieri su una testimone favorevole alla difesa di Sabrina durante la deposizione di quest’ultima. Si astiene ufficialmente e viene sostituito con un giudice supplente. Il 25 febbraio inizia la requisitoria dell’accusa. Il 5 marzo le richieste di condanna: ergastolo per Sabrina e Cosima, nove anni per Michele Misseri, otto anni per Carmine Misseri e Cosimo Cosma, pene minori per altri quattro imputati. Il 25 marzo, prima che inizino le arringhe della difesa di Sabrina, un video «fuori onda» tra presidente della Corte e giudice a latere, risalente al 19 marzo, induce la difesa di Sabrina a chiedere alla Corte se non intenda astenersi dal processo. Secondo la difesa quei commenti (tra cui «non potranno negare in radice») possono rappresentare un pregiudizio. Il 26 marzo la Corte d’Assise decide di astenersi dal processo, rimettendo gi atti al presidente del Tribunale, che il giorno dopo rigetta l’astensione e dispone la prosecuzione del processo. Il 15 aprile si chiudono le repliche dei difensori e alle 17.30 la Corte si ritira in camera di consiglio. Oggi, 20 aprile 2013, la sentenza.

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui". Molti di questi studi si basano sulla teoria del confronto sociale, l'idea è che quando le persone intorno a noi hanno avuto eventi sfortunati, guardiamo meglio noi stessi. Altri ricercatori hanno scoperto che le persone con una bassa autostima sono più propensi a provare Schadenfreude rispetto a persone che hanno una grande autostima. Schadenfreude. Alzi la mano chi sa che cos’è. Quasi nessuno? Strano. Perché se chiedessi chi l’ha provata, tutti dovremmo alzare non una ma entrambe le mani. Non me la voglio tirare: so che cosa sia la Schadenfreude solo perché ne ho sentito parlare per radio e, ravanando un po’ su Google, sono poi riuscito a risalire alla pagina di Wikipedia che ne parla. Il termine è tedesco, e indica il piacere infame provocato dalla sfortuna altrui. Pensate che occorra essere precisi come i tedeschi per dare un nome a un sentimento così meschino e diffuso? Errorissimo. In lingue diverse ha nomi diversi, dall’arabo al cinese, e compare in numerosi proverbi che spiegano come la Schadenfreude sia l’unica vera gioia, quella che arriva dal più profondo del profondo. Ma perché si gode delle disgrazie degli altri? Studi basati sulla teoria del confronto sociale affermano che se intorno a noi ci sono persone maltrattate dalla sfortuna, si finisce col guardare meglio a se stessi. Ci si sente migliori, in altre parole. Altri ricercatori hanno invece notato che le persone con un’autostima sotto i piedi provano più facilmente la Schadenfreude rispetto a chi ha di sé un’immagine più positiva. Per far capire ancora meglio che cosa sia la Schadenfreude voglio citare un esempio per comporre il quale è stata indispensabile l’enciclopedica conoscenza del calcio del mio amico Luca Ceste. Che, da juventino qual è, specifica che i “cugini” granata son più contenti quando perde la Juve che quando vince il Toro (non che godano spesso, nell’uno o nell’altro caso...). Comunque: al termine del campionato 1999- 2000 il Toro è condannato alla serie B. Ma all’ultima giornata la Juventus è sconfitta nella “piscina di Perugia”, il campo allagato da un violento nubifragio. La Lazio invece vince, sorpassa i bianconeri e acchiappa lo scudetto: sai che Schadenfreude per i torinisti! Ognuno provi a chiedersi quand’è l’ultima volta che ha provato Schadenfreude. E poi se lo tenga per sé, dato che probabilmente non sarà cosa di cui vantarsi. E infatti il filosofo Arthur Schopenhauer ci ricorda che «Provare invidia è umano, godere della Schadenfreude è diabolico». Come opposto voglio invece citare il concetto di mudita che, nel Buddhismo, è la felicità per la buona sorte dell’altro. E’ la forma più perfetta dell’amore: come il marito che è contento per il successo della moglie o il genitore che gioisce per la felicità del figlio. Perciò credo che le cose andrebbero meglio per tutti, se nel nostro quotidiano ci fosse più mudita e meno Schadenfreude.

Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude, scrive Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale. Pensiamo ai blitz della guardia di finanza a Cortina e nei luoghi della movida milanese. Erano utili e necessari, anche dal punto di vista simbolico. Ma quanti di noi, invece di limitarsi ad approvare l’operato dell’Agenzia delle entrate, hanno gongolato? Oppure prendiamo la tragedia della Costa Concordia. Davvero i balbettii di Schettino, mentre veniva strigliato dall’implacabile De Falco, andavano trasmessi e ascoltati tutte quelle volte, morbosamente, fino a diventare uno slogan da t-shirt? E la pioggia dimonetine fuori dal Raphael ai tempi di Tangentopoli, era isterica rivolta morale o linciaggio puro? Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche inmodo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Quando sentiamo piagnucolare un comandante che ha abbandonato la nave per primo, chiunque può pensare: io valgo di più. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiaciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda. Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, appena pubblicato da Orme. Se Otello è il simbolo universale della gelosia, l’invidia ha le sembianze di Iago. È invidioso del potere, delle virtù, della bella moglie del moro di Venezia, ed è invidioso di Cassio che è stato promosso al suo posto. Per salvare l’amor proprio, trasforma la felicità altrui in tragedia. Nella realtà, le dimostrazioni di questo perverso gioco di dolore e piacere possono essere ben più banali: piacciono le foto delle star immortalate senza trucco, piace vedere una multa sul cruscotto di un Suv. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più. Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. E allora diventa facile pensare: quel politico non ha il mio curriculum e guarda dov’è arrivato. Se viene travolto da uno scandalo, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci.

I PENTITI DEL GOSSIP GIUSTIZIALISTA.

"Scrivete la verità" perché altrimenti è un male. E' l'appello lanciato dal fuciliere di Marina, Massimiliano Latorre, parlando con i cronisti all'ambasciata italiana a New Delhi. "Ci sono due inchieste aperte. Non posso essere io a chiarire le cose", ha aggiunto. Il marò, trattenuto in India dal febbraio 2012 assieme al suo collega Salvatore Girone, in una conversazione con i giornalisti che hanno accompagnato la delegazione di parlamentari italiani in missione a New Delhi ha invitato poi "a riascoltare l'intervista al comandante in seconda della petroliera Enrica Lexie Noviello" per avere un quadro più chiaro sulla loro complicata vicenda. Raggiunto al telefono nel marzo scorso, il comandante Noviello aveva definito "un'invenzione" la morte dei pescatori indiani. Secondo la sua ricostruzione, infatti, i due marò avrebbero sì sparato ma dei colpi di avvertimento in acqua, secondo le procedure previste. Lo scontro a fuoco ci sarebbe effettivamente stato ma all'interno del porto di Kochi e senza il coinvolgimento dell'Enrica Lexie, bensì tra la guardia costiera locale e l'imbarcazione sospetta che stava tentando l'approccio alla nave su cui si trovavano i fucilieri della marina italiana.

La disinformazione, l’arroganza e la permalosità dei giornalisti è nota.

Ed eccolo, quell’articolo su Repubblica contro Giovanni Falcone, scrive Ciro Pellegrino. Abbiamo recuperato l'introvabile articolo di Sandro Viola che nel gennaio 1992 si scagliava contro Giovanni Falcone, accusandolo di essere un "guitto televisivo". Qualche giorno dopo sullo stesso giornale Giuseppe D'Avanzo difendeva il giudice antimafia: "Non ha mai avuto una vita facile". È il 9 gennaio del 1992, un giovedì. Il quotidiano la Repubblica in quel periodo vende mediamente circa 750mila copie. Nella pagina dedicata ai commenti viene pubblicato un articolo dal titolo “Falcone, che peccato…” vergato da Sandro Viola, firma di punta del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. L’argomento del commento è il giudice antimafia che Viola prende di mira per via della sua esposizione mediatica. Un pezzo durissimo che oggi, a vent’anni dalla strage di Capaci che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, ritorna a galla con la violenza d’una colpa. L’articolo, introvabile nell’archivio online di Repubblica, è oggetto di discussione in queste ore sulla Rete, ma nessuno l’ha pubblicato integralmente, in maniera da consentire al lettore un’autonoma valutazione.

Eccolo, l’articolo, in versione integrale: recuperato grazie all’Emeroteca Tucci di Napoli. Che ognuno faccia le sue valutazioni dopo averlo letto. Viola attacca definendo Giovanni Falcone “magistrato che alla metà degli anni Ottanta inflisse alcuni duri colpi alla mafia”. Una definizione quanto meno riduttiva per l’anima del maxi-processo di Palermo, per colui che, lo dicono i suoi colleghi magistrati, individuò nuove tecniche e nuovi metodi per l’approccio alla questione mafiosa. Continua Viola: “da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato”. Poi, l’accusa di essere diventato una sorta di esternatore, al pari dell’allora Capo dello Stato, il “picconatore” Francesco Cossiga: “Egli è stato preso – scrive Viola su Repubblica – infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica”. La preoccupazione dell’editorialista è che Giovanni Falcone abbia perso il suo equilibrio. Gli chiede di lasciare la magistratura viste le sue rubriche sulle pagine dei giornali: “Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”. “Quel che temo, tuttavia – continua il pezzo – è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati”. Poi si passa all’analisi, anzi alla demolizione, del libro ‘Cose di cosa nostra’ scritto da Falcone con la giornalista francese Marcelle Padovani pure lei nel mirino della penna al vetriolo di Viola: “E scorrendo il libro-intervista di Falcone ‘Cose di cosa nostra’ s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”. Nel finale, Viola, pur ammettendo di trovarsi davanti ad un “valoroso magistrato” si chiede “come mai desideri essere un mediocre pubblicista”. Il giornalista ignorava che il giudice aveva intuito qualcosa: la necessità di comunicare ad una platea più vasta, da magistrato, la mentalità mafiosa. Inoculare il virus ai giovani come un vaccino, in maniera da renderli resistenti al fascino della cultura dell’omertà e della morte. “Non ha mai avuto una vita facile e anche stavolta c’è chi farà di tutto per rendergliela difficile”: qualche giorno dopo, dalle colonne della stessa Repubblica, qualcuno scriveva questa frase, riferendosi a Giovanni Falcone. Quel qualcuno si chiamava Giuseppe D’Avanzo.

L'articolo del gennaio 1992 firmato da Sandro Viola su Repubblica contro Giovanni Falcone.

“D’un uomo come Giovanni Falcone, il magistrato che alla metà degli anni Ottanta, dal suo posto alla Procura di Palermo, inflisse alcuni duri colpi alla mafia, si vorrebbe dire tutto il bene possibile. O quanto meno, per evitare di trovarsi nella pessima compagnia di certi suoi detrattori, non si vorrebbe dire male. E tuttavia, da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato. Egli è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più implacabile dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal presidente della Repubblica – spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera, con il prof. Sgarbi, con i leaders di partito, con i conduttori di «talkshows», con gli allenatori di calcio, insomma con tutti coloro che ci affliggono quotidianamente, nei giornali e alla televisione, con le loro fumose, insopportabili logorree. Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi ad uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e Giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicitario italiano. Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro-intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà «serial» televisivo, «Cose di cosa nostra», che con il suo suono leggero, la sua graziosa allitterazione, a tutto fa pensare meno che ai cadaveri seminati dalla mafia. Concludendo: ecco il giudice Falcone entrato a far parte di quella scalcinata compagnia di giro degli autori di «istant books», degli «opinionisti al minuto», dei «noti esperti», degli «ospiti in studio», che sera dopo sera, a sera inoltrata – quasi un «memento mori» –, s’affacciano dagli schermi televisivi. Né il giudice Falcone può invocare la sua esperienza del crimine, e del crimine mafioso in particolare, come giustificazione di tanti interventi. Certo, ci sono materie in cui la parola va data al «noto esperto»: la gastronomia, poniamo, il giardinaggio, il salvataggio dei monumenti. Nulla osta, infatti, acché queste materie vengano trattate in tutta libertà, col più esplicito dei linguaggi. Ma parlare del crimine quando si ricopre un’altissima carica nell’amministrazione della giustizia, è diverso. Intanto, si pone il problema formale della compatibilità tra la funzione nell’apparato statale e l’attività pubblicistica. E poi c’è un elemento sostanziale. Trattare la materia mafiosa quando si è, allo stesso tempo, un magistrato coinvolto a fondo nella lotta alla mafia, impone un riserbo. Costringe, se non proprio all’evasività a discorsi generici. Infatti, dal dr. Falcone lo spettatore televisivo, il lettore dei suoi articoli, ricaverà quasi sempre molto poco. Perché quello che il direttore degli Affari Penali sa, non può certo essere detto interamente, e quello che pensa – se appena l’argomento è un po’ delicato – va detto con estrema cautela.

Il risultato è che le esternazioni del dr. Falcone risultano quanto mai nebulose. Così, qualcuno penserà che egli non sa niente di niente sulla criminalità organizzata, un altro crederà che lancia messaggi trasversali, un altro ancora riterrà che ciurla nel manico, un ultimo sospetterà che non sa

esprimersi. E dunque che senso può avere pronunciarsi (come il giudice Falcone fa così di frequente), quando il decoro della funzione giudiziaria, gli obblighi di discrezione connessi alla carica, impediscono giustamente di non essere troppo espliciti? Non si potrebbe rispondere alle segretarie di redazione del Tg2 e del Tg3 che telefonano per organizzare una trasmissione, «Grazie, ma sono occupato»? Beninteso, rimproverare al giudice Falcone di contribuire senza risparmio al «ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto, di giudizi pontificali pre-imballati che invadono l’etere», sarebbe più pertinente a un altro paese che non l’Italia. Il Italia, si sa come stanno le cose. Il primo a violare giornalmente ogni obbligo di riserbo, di misura, di rispetto per la propria funzione, è il primo cittadino della Repubblica. E di fronte a tanto disprezzo delle regole da parte di chi, per primo, dovrebbe servire da esempio, illustrando le virtù della discrezione e della compostezza, prendersela col dr. Falcone può risultare ozioso. Ma è il passato del giudice Falcone che induce alla critica. Non lo si tirerebbe in ballo se egli fosse uno dei tanti magistrati che si sono messi a far politica, ad ammorbare con la loro prosa indigeribile le pagine dell’ «Unità», ad esibire le loro parlantine in televisione. Ma la capacità con cui egli svolse i suoi incarichi alla procura di Palermo, la stima che suscitò in tanti di noi, costringono a esprimere uno stupore, una riserva, sull’eccesso di verbosità con cui egli va conducendo questa seconda parte della sua carriera. Perché nessuna regola o consuetudine prevede che i magistrati tengano una «rubrica fissa» sul crimine. Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura con l’attività pubblicistica. E dunque non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo di «esperto in criminalità mafiosa», non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando (questo sì, sarebbe inevitabile) la magistratura.

Qualcuno mi dice che le continue sortite del giudice palermitano avrebbero uno scopo, peraltro apprezzabile: quello di illustrare, propagandare, i due organismi varati recentemente per combattere meglio la mafia, la cosiddetta Superprocura e la Dia. Personalmente, considero la Superprocura e la Dia due misure sensate (e che mi auguro risultino efficaci), mentre mi sfuggono le ragioni di chi invece le avversa. Ma quanto al propagandarle, il direttore degli Affari penali avrebbe altro modo che non il presenzialismo di cui s’è detto. Due interviste all’anno – chiare e circostanziate – sarebbero infatti più che sufficienti. Quel che temo, tuttavia, è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati. L’apparire, il pronunciarsi ingenerano ad un certo momento come una «dipendenza», il timore lancinante che il non esibirsi sia lo stesso che non esistere. E scorrendo il libro-intervista di Falcone, «Cose di cosa nostra», s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi. E, si capisce, la fatuità fa declinare la capacità d’autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini di «Cose di cosa nostra». Frasi come: «Questa è la Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere»; oppure: «Al tribunale di Palermo sono stato oggetto di una serie di microsismi…»; oppure ancora: «Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso e non m’erano necessarie particolari illuminazioni per capire che la mafia era un’organizzazione criminale». Dio, che linguaggio. A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o «tre particolari

illuminazioni»: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista.”

Salvo Sottile: “Per scoprire gli assassini non basta solo la prova del DNA”, scrive Gossip Day. La notizia in apparenza confortante? Nel 2012, in Italia, ci sono stati “solo” 526 omicidi: il minimo storico negli ultimi quarantanni, secondo il rapporto Eures-Ansa. Quella cattiva? Un delitto su due resta impunito. Ciò non attenua l’attenzione della gente per le indagini e per i processi, che non di rado ribaltano certezze e sentenze, riportando i casi al punto di partenza. Molte persone hanno per la cronaca nera una vera passione, che li porta a seguire le inchieste e gli scoop di riviste come Giallo o di programmi come Linea gialla, condotto da Salvo Sottile su La7: ripartirà martedì 14 gennaio, alle 21.10, dopo la pausa natalizia. Proprio al giornalista siciliano Nuovo chiede di fare il punto sui delitti irrisolti che terranno banco nel 2014. «Scarsi indizi contro Sabrina e Cosima» Sottile, qual è il primo caso per il quale è lecito attendersi novità quest’anno? «Quello sulla scomparsa di Roberta Ragusa vicino a Pisa, due anni fa. Io mi aspetto l’archiviazione per il marito, Antonio Logli». Perché si chiuderà il caso? «Lui è indagato per omicidio volontario e occultamento di cadavere, ma a suo carico non hanno trovato nulla. Fino a prova contraria, è una donna di cui non si trova il corpo». E gli altri casi più caldi? «Ci sono scadenze importanti: il processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi e il giudizio della Cassazione su Salvatore Parolisi per l’omicidio di Melania Rea. E poi c’è il caso di Garlasco: la Suprema Corte ha deciso che va rifatto il processo d’appello, rivalutando gli indizi considerati a carico di Alberto Stasi». Come finirà il processo per la morte di Sarah Scazzi? «Potrebbe succedere che Sabrina Misseri, la cugina di Sarah, e sua madre Cosima Serrano, condannate all’ergastolo, escano di prigione. Perché non c’è niente contro di loro». Su quali presupposti verrebbero liberate? «E un processo indiziario. Le tengono dentro per una serie di indizi che, messi insieme, potrebbero avere valore di prova. In realtà, non ci sono prove contro di loro. C’è un movente ricostruito dai magistrati sulla base di deduzioni: Sabrina avrebbe ucciso Sarah perché gelosa di Ivano, un ragazzo di Avetrana. Ma manca l’arma del delitto e soprattutto il peggior nemico delle indagini è il tempo: il corpo di Sarah è stato recuperato nell’acqua, che ha cancellato ogni traccia dell’assassino». Un fioraio ha detto di aver visto Cosima inseguire Sarah e farla salire su un’auto… «Sì, ma dopo ha detto che l’aveva visto in un sogno, dunque è una testimonianza facilmente smontabile da parte degli avvocati difensori. E in più assistiamo a un caso clamoroso, più unico che raro: un uomo che dice di essere l’assassino ed è fuori. Cioè Michele Misseri, il marito di Cosima. Se non emergeranno prove schiaccianti, lei e Sabrina saranno liberate». Veniamo a Parolisi, condannato in appello a 30 anni. Le prove sembra che ci siano. «Sì, qui l’impianto accusatorio è molto più consistente, per varie ragioni: la prima è che sua moglie Melania non poteva finire a Ripe di Civitella, il luogo del delitto, dove il caporal maggiore Parolisi faceva addestramento, se non con lui. E anche il modo in cui è stato trovato il corpo, con i pantaloni abbassati, fa capire che Parolisi è l’assassino: lei non si sarebbe svestita in questo modo prima di essere ammazzata. Ci sono poi testimonianze e riscontri. Per esempio, nel parco in cui lui dice di essere arrivato con la moglie, Parolisi ci è andato da solo con la figlia: nessuno ha mai visto Melania con loro». Per un delitto che potrebbe essere risolto, ce n’è un altro dove la verità è sembrata più volte a un passo, per poi svanire: Tassassimo di Yara. «Yara rischia di non avere giustizia. Ci sono due piste. Quella del cantiere di Mapello, dove si sono subito indirizzate le indagini e dove oggi c’è un centro commerciale, che ha cancellato ogni traccia. E quella del dna, col cosiddetto “ignoto 1” che sarebbe il figlio illegittimo di un autista di pullman di Gorno: per ora non ha portato da nessuna parte. La Procura di Bergamo ha speso milioni di euro per mappare il dna degli abitanti in diversi paesi, senza alcun risultato. È probabile che chi ha ucciso Yara sia qualcuno arrivato lì per caso, magari un operaio stagionale che lavorava in nero. A questo punto, non lo potranno mai beccare, perché è passato troppo tempo». «Guede sa tutto sul rebus di Perugia» E le recenti preoccupazioni della mamma di Yara? «Vede che le indagini sono al capolinea e chiede aiuto perché su Yara non cada il silenzio». Il figlio illegittimo dell’autista esiste… «Sì, ma come lo trovi? Bene che vada, ha il cognome della madre. E poi sul corpo di Yara è stato trovato il dna di questo uomo. Ma può essere uno che, uscito dalla vicina discoteca, ha fatto lì, per caso, la pipì. Senza essere colui che l’ha uccisa». Il dna, però, sembra determinante nelle indagini sui delitti di Garlasco e di Perugia. «Il destino della Knox e di Sollecito non è legato al dna o alle indagini scientifiche, anche perché c’è stata una contaminazione delle prove. Piuttosto direi che è legato a Guede, l’unico che può risolvere questo rebus: era certamente sulla scena del crimine, ma i suoi avvocati gli hanno consigliato di non parlare e dunque lui non dirà mai la verità. Il dna di Amanda trovato sul coltello in casa di Sollecito non dimostra nulla, se non che lei lo abbia maneggiato. Come è normale che avvenga in una cucina. Ciò non significa che sia l’assassina». Guede è stato condannato a 16 anni per omicidio in concorso con altri. Perché non fa i nomi dei complici? «Magari protegge qualcuno». E sul fronte di Garlasco? «Servono prove. Anche qui la scena del crimine è stata alterata; pare, addirittura, che un gatto sia stato lasciato nella casa. Il dna di Chiara sulla bici di Alberto Stasi non significa nulla. E non si capisce come Alberto, camminando sulla scena del crimine, non abbia lasciato tracce. O si è cambiato o non è stato lui a ucciderla». Si riparla di Lidia Macchi, la scout ventenne uccisa nel 1987 in un bosco del Varesotto. Il colpevole potrebbe essere l’uomo che ha ucciso una pensionata quattro anni fa. Sarà il dna a incastrarlo? «Può fare la differenza. Ma, per colpa delle risorse insufficienti, le nostre polizie non si sono attrezzate per catalogare i dna. Serve una banca dati delle vittime e anche dei potenziali assassini, in modo da poter utilizzare il dna anche dopo moltissimo tempo. Si scoprirebbe la verità su tanti casi destinati a restare irrisolti. Invece siamo indietro di vent’anni». Oggi, nelle indagini, si confida troppo nel dna? «Trent’anni fa si cercava di incastrare l’assassino indagando in modo corretto, valutando le testimonianze e cercando le prove. Oggi o parla qualcuno o si trova il dna. Così molti casi si trascinano per anni. Non ricordo un solo caso di omicidio risolto in tempi brevi. Tutto gira attorno al dilemma del dna. Aiuta a risolvere un caso di omicidio? No, quasi mai!».

Cronaca di un tentato suicidio che non è mai avvenuto, arricchita da analisi e giudizi su cause e motivazioni inesistenti, proprio perché l’episodio non si è mai verificato.

Il 30 giugno 2014 Vito Mancini, ex concorrente di Avetrana del Grande Fratello, si è ritrovato, suo malgrado, sulle pagine di diversi giornali, sia cartacei che in versione telematica, che riferivano di un suo presunto tentato suicidio. Mancini, che dopo l’esperienza del Grande Fratello, studia recitazione e spesso è impegnato nel cast di importanti compagnie teatrali, smentisce con decisione la notizia e stigmatizza il polverone mediatico montato ad arte.

«Alla luce di quanto scritto, letto e condiviso sul web, mi sembra opportuno ritornare sull’accaduto» afferma Vito Mancini a “Manduria Oggi”. «Da un po’ di tempo a questa parte, alcuni motivi personali mi hanno portato ad affrontare momenti difficili, come può capitare a chiunque altro. Domenica, durante l’ennesima crisi di panico, ho ritenuto opportuno affrontare la situazione con l’ausilio dei medici. Da qui è partita una inutile, spietata, se non meglio morbosa, costruzione di una tragedia, ormai classica per un certo tipo di giornalismo, con l’aggiunta di dettagli ad hoc, a dir poco macabri, degni della bruttissima copia di Jessica Fletcher».

Vito Mancini è contrariato soprattutto perché qualcuno ha anche tirato in ballo persone a lui vicine.

«Non mi importa molto cosa si dice o si voglia dire su di me o sugli eventi della mia vita» dichiara ancora Mancini, «che comunque ritengo privata e degna del rispetto di tutti, nessuno escluso. Ma ciò che non sopporto è l’accanimento, la cattiveria e, torno a dire, la morbosità con cui ci si spinge ad accusare la gente che mi è intorno e a cui voglio bene, cercando di trovare il colpevole di una storia già inventata di suo, come se si potesse trovare la verità, quella famosa verità, che i più credono di avere in tasca, quando in realtà hanno solo pietre pronte a lapidare gente ignara e innocente per il solo motivo di sentirsi superiori, maestri di vita senza ombra di peccato. Ma, si sa, come diceva il grande De Andrè, “la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, se non può dare cattivo esempio”».

La Cancellieri non serve, scrive Filippo Facci su “Liberto Quotidiano. Le lagne di chi non vuole cambiare il carcere preventivo sono vergognose e basta, non c’è da fare dibattiti, non è uno scontro tra visioni procedurali: è uno scontro ventennale tra chi vuole tentare di migliorare le cose e chi invece non vuole cambiare nulla, anzi, vuole continuare a servirsi comodamente del potere più delicato del mondo - togliere la libertà altrui - per coprire le proprie pigrizie investigative e per vellicare le depressioni del forcaiolo italiota, del servo di procura, dell’infangatore professionale. È da trent’anni che la custodia cautelare dovrebbe essere «extrema ratio» e invece è regola: e questo perché i magistrati se ne fottono, punto, tanto nessuno li punisce, ri-punto: nelle nostre galere ci sono 13mila persone metà delle quali, statisticamente, sarà assolta dopo il primo grado e dopo ingiusta detenzione. Abbiamo 27mila detenuti in attesa di giudizio (anche se l’Italia ha un tasso di criminalità tra i più bassi d’Europa) e il perché lo sappiamo tutti: perché i magistrati usano il carcere per dare anticipi di pena o per costringere a confessioni, talvolta per finire sui giornali: mentre pm e giudici stanno solo attenti a non pestarsi troppo i piedi e propongono, per risolvere il dramma della carcerazione preventiva, esattamente questo: niente. Ora hanno paura che si rompa il giocattolo, ma stiano tranquilli: la riforma allo studio è un decimo di quanto servirebbe. La Cancellieri non serve, ne servono dieci.

Un esempio? Si parla di insabbiamenti? Mostro di Firenze, perquisiti gli inquirenti. Tutto è partito da un’accusa di «insabbiamento» risultata infondata, scrive Antonella Mollica  su “Il Giornale”. Indagini che si intrecciano e magistrati che si dividono. Sullo sfondo la solita vicenda infinita del Mostro di Firenze con i suoi mille misteri e le pochissime certezze che sembrano frantumarsi ogni volta che un nuovo tassello si aggiunge al mosaico: una doppia perquisizione, effettuata nella Procura di Perugia e negli uffici del Gides, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l’ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull’indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il pm Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell’ufficio del pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell’inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio. L’inchiesta della Procura di Firenze è solo l’ultima tappa di una vicenda che parte da lontano: dalla registrazione di una conversazione avvenuta nel 2002 tra Michele Giuttari, capo del Gides, e il pm Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta sul Mostro. Canessa di quella registrazione non ha mai saputo nulla fino a quando il pm Mignini non ha inviato un esposto a Genova contro il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. In quell’esposto si puntava il dito contro Nannucci, accusandolo di voler rallentare le indagini sul Mostro. A sostegno dell’accusa si riportava una frase attribuita a Canessa («quello non è un uomo libero») riferita a Nannucci. Il Tribunale di Genova, su richiesta della stessa procura, ha archiviato il procedimento contro Nannucci: nessun tentativo di insabbiamento. «Tutte le accuse contro Nannucci - hanno scritto il procuratore capo di Genova Giancarlo Pellegrino e il sostituto Francesco Pinto - partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti». La Procura di Genova, nell’archiviare la posizione di Nannucci, affidò una perizia sulla cassetta: la conclusione fu che quella frase non era stata pronunciata da Canessa. Per questo Giuttari e due suoi collaboratori che effettuarono la trascrizione di quella conversazione sono finiti sotto inchiesta per falso. Ma la storia non è finita così: Giuttari è passato all’attacco e ha denunciato alla Procura di Torino i pm Canessa e Pinto e lo stesso perito di Genova: «Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta». In tutto questo vortice di denunce e controdenunce si inserisce l’inchiesta che ha portato alle perquisizioni: il 19 maggio scorso il perito era stato convocato dal pm Giuliano Mignini. Una procedura quantomeno insolita questa su cui la Procura di Firenze ora vuol vedere chiaro.

I pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari sono stati condannati dal tribunale di Firenze rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze, scrive “Il Corriere della Sera”. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sull'omicidio di Meredith Kercher: la vicenda della studentessa inglese non ha comunque niente a che fare con il processo che si è chiuso ora. Michele Giuttari è stato a capo del Gides (gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto con le procure fiorentina e perugina le indagini sul mostro di Firenze. L'abuso d'ufficio per il quale sono stati condannati riguarda una serie di indagini svolte su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per, secondo l'accusa, condizionare le loro attività riguardo l'inchiesta perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che sarebbe collegata alle vicende del mostro di Firenze. Il pm fiorentino titolare delle indagini, Luca Turco, aveva chiesto condanne a 10 mesi per Mignini e a due anni e mezzo per Giuttari. Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero svolto indagini illecite - con intercettazioni o con l'apertura di fascicoli - su alcuni funzionari di polizia (come l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e l'ex direttore dell'ufficio relazione esterne Roberto Sgalla) e giornalisti (come Vincenzo Tessandori, Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro) con intento punitivo o per condizionarli nel loro lavoro, perché avrebbero tenuto atteggiamenti critici riguardo il comportamento di Giuttari con la stampa o riguardo l'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. Mignini e Giuttari sono stati invece assolti «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari), relativa ad accertamenti 'paralleli' a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari per falso, in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa. All'epoca Giuttari era a capo del Gides, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta sul mostro di Firenze. «Sono sconcertato» commenta il pm perugino Mignini. A chi gli chiedeva se la sentenza possa gettare un'ombra sul lavoro svolto sul caso Meredith, Mignini ha risposto ricordando che a Perugia «ci sono stati giudici che hanno giudicato sul caso Meredith. La sentenza di oggi, invece, riguarda me». Il difensore di Mignini, Mauro Ronco, spiega che «Giuttari e Mignini sono stati assolti dalla parte principale del processo e, di fatto, questo smentisce tutto l'impianto accusatorio». A chi gli chiedeva se l'interdizione dai pubblici uffici - come pena accessoria - possa avere effetti sulla professione di Mignini, Ronco ha ricordato che «ovviamente, la pena è sospesa per la condizionale e questo vale anche per l'interdizione».  Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith. Giuttari, già capo del gruppo investigativo delitti seriali, che lavorò fianco a fianco con la procura fiorentina e quella perugina è sempre in tv a parlare dei delitti eccellenti.

Nel proseguo la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto scrittore Michele Giuttari, scrive “Umbria 24”. La Corte ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d’ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d’Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c’è un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini. L’abuso di ufficio per il quale erano stati condannati riguarda una serie di indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell’ordine svolte, secondo l’accusa, per condizionarli, perché avevano tenuto atteggiamenti critici riguardo l’inchiesta sulla morte di Narducci. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher. Giuttari, andato in pensione dalla polizia, adesso svolge l’attività di avvocato-investigativo ed è uno scrittore di gialli. «È una decisione obbligata. Fin all’inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima». Lo ha detto il pm Giuliano Mignini commentando la sentenza d’appello che ha annullato la condanna del magistrato in primo grado e ha ordinato il trasferimento degli atti da Firenze a Torino. Mignini, rispondendo ai giornalisti, ha poi confermato che il reato (abuso d’ufficio) potrebbe cadere in prescrizione. Con lui è imputato il poliziotto-scrittore Michele Giuttari. Anche per lui c’è stato l’annullamento della condanna di primo grado e la dichiarazione di incompetenza territoriale. «Da investigatore ho un’amarezza – ha detto Giuttari – Questa attività svolta da Firenze bloccò l’indagine perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che si riteneva collegata al mostro di Firenze. Vennero sequestrati gli atti di quell’indagine, di fatto bloccandola». A Perugia, il pubblico ministero Giuliano Mignini aspetta le motivazioni con cui il gup Paolo Micheli prosciolse tutti i familiari di Narducci, colpevoli secondo il pm di aver architettato un colossale depistaggio sulla morte del medico perugino.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

Il moralista spesso è disonesto. Peire Cardenal diceva che gli intellettuali si fanno predicatori morali, assassini che sembrano santi. Il moralista che dice: Ricchi perché disonesti. Ricchi perché spietati. Ricchi in quanto senza morale oppure, peggio, furbi. Il moralista è un comune esemplare appartenente alla fauna urbana che infesta reality show, programmi scandalistici tipo pomeriggio cinque e persino ristoranti di lusso. Pratiche diffuse tra i moralisti sono il rompimento di coglioni, la predica e la sentenza. Chiunque può diventare un moralista. Purtroppo, anche tu dato che sembrerebbe che nessuno di questi sia munito di buon senso e intelletto. Un moralista è uno scrittore che propone, in maniera discontinua, riflessioni sui costumi, le usanze e i modi di essere degli uomini, i loro caratteri e modi di vivere. Il moralista, in senso generico, è anche colui che «per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l’aspetto morale di qualsiasi questione o situazione» o chi, nel senso di "moralizzatore", pretende, attraverso le sue parole, presunti insegnamenti e, più raramente, il suo esempio, di dare lezioni di comportamento morale.

La moda del moralismo, scrive Gianni Pardo. La morale ha come base le necessità fondamentali del genere umano. L'intelligenza della nostra specie ci ha inoltre fatto capire che staremo tutti meglio se osserveremo un numero molto maggiore di regole rispetto a quelle che ci detta la natura: dal non fare rumore la notte per non disturbare i vicini al pagare le tasse; dal fare la coda allo sportello evitando discussioni alla cura dei vecchi, visto che vecchi diventiamo tutti (si spera) una volta o l'altra. Questo affinamento dei doveri consigliati dalla convivenza è molto meno cogente dell'istinto e infatti in questo ambito le società non sono tutte uguali. Si potrebbe dire che esistono società più o meno morali. Mezzo secolo fa chiesi ad una ragazzina, in Francia, che cosa avrebbe pensato di una compagnetta che a scuola avesse copiato il compito. E lei non ebbe dubbi: "Qu'elle est malhonnête", che è disonesta. Da noi invece anche i candidati al concorso per magistrato cercano di copiare. Dunque "la società scolastica francese è (era?) più morale dell'italiana". La morale nasce dalla società ma diviene un fatto individuale. Chi è abituato ad un certo comportamento finisce col considerarlo naturale. Quella bambina non si strapazzò a dichiarare che lei non avrebbe mai copiato come in Italia nessuno oggi si vanta dicendo: "Io non sputo per terra".  Eppure un secolo fa tanta gente lo faceva. L'uomo morale lo è senza proclami, mentre il moralista si considera degno di particolare stima. E questo è preoccupante. Chi dice mai: "Io non rubo" se non chi ha frequentato dei ladri o chi deve lottare contro la tentazione di rubare? Per questo Ernest Renan ha scritto: "Ho conosciuto molte canaglie che non erano moraliste, non ho conosciuto moralisti che non fossero canaglie". L'Italia, per cause remote, è poco morale. Il rispetto della collettività è evanescente; il sentimento religioso è tenue; il senso civico pressoché inesistente; le regole si rispettano se non se ne può fare a meno. In compenso, in passato i costumi erano tolleranti. Gli italiani (e i cinesi) furono sbalorditi quando gli americani pretesero le dimissioni di Richard Nixon solo perché aveva mentito. Dall'alto di una saggezza e di un pessimismo millenari trattavamo con indulgenza gli errori e i peccati altrui. Pensavamo, con Terenzio, che non ci è alieno niente che sia umano. Purtroppo nell'ultimo mezzo secolo noi italiani non siamo diventati più morali ma solo meno tolleranti. Dei vizi altrui. Fra i più accaniti moralisti ci sono coloro che non hanno molte possibilità di comportarsi male: per esempio i professori. Non possono imbrogliare sul peso, emettere fatture false o frodare il fisco e perciò sono più arcigni e severi di Girolamo Savonarola. Nel frattempo non si accorgono che le raccomandazioni sono un atto di disonestà. Non capiscono che, se danno una lezione privata e non la dichiarano al fisco, sono evasori, come lo sono quando non chiedono la fattura all'idraulico per non pagare l'Iva. "Per somme minime!", esclamano. Come se si fossero volontariamente astenuti dall'ingannare il fisco per milioni di euro. Il moralismo italiano è una moda. Dimentichiamo le lezioni della storia e arriviamo all'assurdo di sostenere che i politici "devono dare l'esempio". Per non interferire col corso della Giustizia (più infallibile di Salomone) devono rinunciare a quella prescrizione cui nessun cittadino rinuncerebbe. A cominciare dai moralisti. Gli statisti non che arricchirsi dovrebbero rimetterci; gli amministratori degli enti pubblici dovrebbero essere impermeabili alle raccomandazioni per gli appalti mentre i privati raccomandano i figli a scuola e gli amici per qualche impiego. Ognuno depreca vivamente i peccati che, per una ragione o per l'altra, non può commettere, e scusa quelli che commette con la solita, imbattibile giustificazione: "Lo fanno tutti". I moralisti sono quelli che vorrebbero imporre a tutti gli altri una virtù sublime mentre usano un diverso metro per sé e per i loro cari. Il mondo dei media è pieno di questa fastidiosa genia. Siamo al punto che coloro che sono sul serio eccezionalmente morali non dovrebbero mai predicare la virtù: nessuno potrebbe distinguerli dai moralisti.

I moralisti che raccomandano agli uomini di soffocare le passioni e di dominare i desideri per essere felici, non conoscono affatto il cammino della felicità. Émilie du Châtelet, Discorso sulla felicità, 1779.

Non c'è un solo moralista che non possa essere convertito in un precursore di Freud. Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973.

Colui che predica la morale limita di solito le sue funzioni a quelle d'un trombettiere di reggimento, che dopo aver sonata la carica e fatto molto rumore, si crede dispensato di pagar di persona. Charles Lemesle, Misophilanthropopanutopies, 1833.

Un moralista è il contrario di un predicatore di morale; è un pensatore che vede la morale come sospetta, dubbiosa, insomma come un problema. Mi spiace di dover aggiungere che il moralista, per questa stessa ragione, è lui stesso una persona sospetta. Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89.

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. Pitigrilli (Dino Segre).

I moralisti han torto. La sessualità non si vince soltanto con l'astinenza ma anche con la lussuria. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

Diventerò moralista il giorno in cui uno mi dimostrerà di aver pensato durante il coito alla generazione futura. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità. Filippo Turati, Discorso parlamentare, 1907.

Un uomo che moraleggia è di solito un ipocrita, una donna che moraleggia è invariabilmente brutta. Oscar Wilde, Il ventaglio di lady Windermere, 1892.

Citazioni sulla morale.

Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. (Indro Montanelli).

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. (John Stuart Mill).

Fino ad ora, sulla morale ho appreso soltanto che una cosa è morale se ti fa sentire bene dopo averla fatta, e che è immorale se ti fa star male. (Ernest Hemingway).

Ho sempre sentito che avevo delle responsabilità. Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Ma non ero io... era che non c'era niente di più importante nella mia vita, non c'era niente di più grande, sai... sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità, sì. (Tiziano Terzani).

Il moralista borghese è l'uomo della lettera anonima (Mario Mariani).

Il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca. (George Orwell).

Il peso materiale rende prezioso l'oro, quello morale l'uomo. (Baltasar Gracián y Morales).

L'onestà è lo stato allotropico della morale. (Carlo Maria Franzero).

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità! (Filippo Turati).

La loro moralità, i loro principi, sono uno stupido scherzo. Li mollano non appena cominciano i problemi. Sono bravi solo quanto il mondo permette loro di esserlo. Te lo dimostro: quando le cose vanno male, queste... persone "civili" e "perbene", si sbranano tra di loro. Vedi, io non sono un mostro; sono in anticipo sul percorso. (Il cavaliere oscuro).

La morale comune cambia, a seconda di dove si vive. (Allan Prior).

La morale è l'intera scienza del soggettivo e dell'obbiettivo morale. – La conoscenza del dovere per ciò che è dovere senza alcun riguardo a qualsiasi conseguenza. (Victor Cousin).

La morale è la cognizione de' nostri veri e solidi interessi. (Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy).

La morale è la debolezza del cervello. (Arthur Rimbaud).

La morale è semplicemente l'atteggiamento che adottiamo nei confronti di individui che, personalmente, non ci piacciono. (Oscar Wilde).

La morale è sempre la stessa, non si modifica a seconda del suo essere applicata alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma la morale tiene sempre conto dell'oggetto, della realtà a cui si applica. (Georges Marie Martin Cottier).

La morale è un fondo sociale che viene accresciuto lungo il doloroso corso delle epoche. (Jack London).

La morale non è altro che l'arte attiva e pratica di viver bene. (Pierre Gassendi).

La moralità, ciò che la società chiama «morale» di per sé non esiste. (Carlo Maria Franzero).

La moralità consiste nel rispettare le cose con la volontà, secondo il pregio ch'elle hanno. (Augusto Conti).

La moralità è il rapporto tra il gesto e la concezione del tutto in esso implicato. (Luigi Giussani).

La ricerca esclusiva dell'avere diventa un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale. (Papa Paolo VI).

La Rivoluzione sociale sarà morale, oppure non ci sarà. (Charles Péguy).

La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente. (Mahatma Gandhi).

La vergogna è un sentimento fondamentale. Vergogna viene da vere orgognam: tempo l'esposizione. Oggi l'esposizione non la si teme più. E allora cosa succede: se io mi comporto in una modalità trasgressiva, bè che male c'è. Vado incontro ai desideri nascosti di ciascuno di noi e li espongo, quanto son bravo. E allora a questo punto non sono più visibili con chiarezza i codici del bene e del male. C'era Kant che diceva che il bene e il male ognuno le sente naturalmente da sé, usava la parola sentimento. Oggi non è più vero. Semplicemente se uno ha il coraggio anche di mostrarsi vizioso, se ha il coraggio anche di mostrarsi trasgressivo è un uomo di valore, almeno lui ha il coraggio, ha interpretato i sentimenti nascosti di ciascuno di noi. Questo ormai significa, non dico il collasso della morale collettiva, ma persino di quella individuale, quella interna, quella psichica. Quindi la fine dei tempi. (Umberto Galimberti).

L'entusiasmo non è altro che ubriachezza morale. (George Gordon Byron).

Le passioni umane si fermano solo dinanzi a una potenza morale che rispettino. Se manca una qualsiasi autorità di questo tipo, la legge del più forte regna e, latente o acuto, lo stato di guerra è necessariamente cronico. (Émile Durkheim).

L'etica è più una questione di opinioni che una scienza. La morale è una consuetudine più che una legge naturale. (Robert Heinlein).

Il cedimento morale di tanti cristiani anzi, la crisi stessa della Chiesa hanno una causa. E questa causa è, per dirla chiara, l'indebolimento della fede. È impossibile vivere la morale cattolica se non si è più convinti, e fino in fondo, che Gesù Cristo è il figlio di Dio e che nel vangelo è contenuto il progetto divino per l'uomo. (Benedetto XVI).

L'indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia. (Vittorio De Sica).

L'intelligenza è una categoria morale. (Theodor Adorno).

Nella morale come nell'arte, nulla è dire, tutto è fare. (Ernest Renan).

Non può esserci agire morale, lì do­ve non ci sia l'altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. (Bruno Forte).

Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti. (Friedrich Nietzsche).

Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l'umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l'uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi. (Friedrich Nietzsche).

Ogni disordine morale è un atto di guerra. (Carlo Gnocchi).

Ogni moralità trae la sua origine dalla religione, perché la religione è soltanto la formula della moralità. (Fëdor Dostoevskij).

Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi. Il mondo è spietato, e l'unica moralità in un mondo spietato è il caso. Imparziale, senza pregiudizi, equo. (Il cavaliere oscuro).

Per i moralisti, tu sei naturalmente cattivo. La bontà sarà una disciplina imposta dall'esterno. Tu sei un caos e l'ordine deve essere instaurato da loro; saranno loro a portare l'ordine. E hanno fatto del mondo intero un pasticcio, una confusione, un manicomio, perché hanno continuato a fare ordine per secoli e secoli, a disciplinare per secoli e secoli. Hanno insegnato così tanto che coloro cui è stato insegnato sono impazziti. (Osho Rajneesh).

Per mettere in chiaro i veri princìpi della morale, gli uomini non hanno bisogno né di teologia, né di rivelazione, né di divinità: hanno bisogno solamente del buon senso. (Paul Henri Thiry d'Holbach).

Per morale o etica particolare od applicata s'intende quella parte di morale, la quale tratta del sommo bene e dell'onesto, ovvero dei doveri e della virtù in tutte le loro applicazioni e relazioni. Questa parte è la morale veramente pratica, quella che per alcuni forma tutta la scienza dell'etica, appunto perché in essa deve apprendere lo spirito ad operare. (Baldassarre Poli).

Più profittevole al mondo è chi abbia lasciato un solo precetto di morale, una sola sentenza riguardante la vita, che non un geometra, avesse egli pure scoperte le più belle proprietà del triangolo. (François-René de Chateaubriand).

Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio. (Theodor Adorno).

Quando mi trovavo a Motiers andavo a degli incontri mondani dai miei vicini portandomi in tasca sempre un bilboquet per giocarci per tutto il tempo per non parlare quando non avevo niente da dire. Se ognuno facesse altrettanto, gli uomini diventerebbero meno malvagi, i loro commerci diventerebbero più sicuri, e io penso, più agevoli. Infine, che qualcuno rida se vuole, ma io sostengo che la sola morale disponibile nei tempi odierni sia la morale del bilboquet. (Jean Jacques Rousseau).

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. (Pitigrilli).

Quello che diciamo praticamente morale, non è altro da quello che teoricamente diciamo filosofia. La distinzione deriva, a nostro modo di vedere, dal concepire astrattamente il bene, che è oggetto della morale, e la verità, che è oggetto della filosofia. (Giovanni Gentile).

Rivoltatela come più vi pare, | prima viene lo stomaco, poi viene la morale. (Bertolt Brecht).

Se la morale non urtasse, non verrebbe lesa. (Karl Kraus).

Si diventa morali non appena si è infelici. (Marcel Proust).

Tutti noi abbiamo bisogno di un coinvolgimento morale che vada oltre le meschine contingenze della vita quotidiana: dovremmo prepararci a difendere attivamente questi valori ovunque siano scarsamente sviluppati o siano minacciati. Anche la morale cosmopolita deve essere mossa dalla passione; nessuno di noi avrebbe nulla per cui vivere se non avessimo qualcosa per cui valga la pena morire. (Anthony Giddens).

Vilfredo Pareto: I precetti morali sono spesso volti ad assodare il potere della classe dominante, spessissimo a temperarlo. La morale tipo è stata considerata come alcunché di assoluto; rivelata od imposta da Dio, secondo il maggior numero; sorgente dall'indole dell'uomo, secondo alcuni filosofi. Se ci sono popoli i quali non la seguono ed usano, è perché la ignorano, e i missionari hanno l'ufficio di insegnarla ad essi e di aprire gli occhi di quei miseri alla luce del vero; oppure i filosofi si daranno briga di togliere i densi veli che impediscono ai deboli mortali di conoscere il Vero, il Bello, il Bene, assoluti; i quali vocaboli sono spesso usati sebbene nessuno abbia mai saputo cosa significassero, né a quali cose reali corrispondessero. Vi sono certi fenomeni ai quali nelle nostre società si dà il nome di ETICI o MORALI, che tutti credono conoscere perfettamente, e che nessuno ha mai saputo rigorosamente definire. Non sono mai stati studiati da un punto di vista interamente oggettivo. Chi se ne occupa ha una qualche norma che vorrebbe imporre altrui, e da lui stimata superiore ad ogni altra.

Quando si giudica, prima pensa, poi parla, perché parole poco pensate portano pena. Quando ci sentiamo particolarmente superiori a qualcuno e vogliamo dimostrarlo agli altri cominciamo ad offendere, questo atteggiamento ci fa sentire meglio ma ci chiediamo mai cosa prova e come si sente chi è vittima di offese e scerno?

Di seguito si presentano alcuni aforismi, appunto, per meditare.

Se si aspettasse di sapere prima di parlare non si aprirebbe mai bocca. Henri Frédéric Amiel, Diario intimo, 1839/81 (postumo, 1976/94).

Se saprai tacere, saprai parlare. Il silenzio del savio è un gran libro chiuso. Ambrogio Bazzero, Lacrime e sorrisi, 1873.

Colui che parla chiaro, ha chiaro l'animo suo. Bernardino da Siena, Prediche volgari, 1427.

Gli uomini camminano insieme, parlano insieme, dormono insieme, ma non si conoscono. Se gli uomini si conoscessero non camminerebbero insieme, non parlerebbero insieme, non dormirebbero insieme. Thomas Bernhard, Perturbamento, 1967.

Se i cani fossero in grado di parlare, forse troveremmo altrettanto difficile andare d'accordo con loro come con la gente. Karel Čapek (Fonte sconosciuta).

Parliamoci, finché siamo in vita. Dopo non è detto che sia possibile. Pino Caruso, Ho dei pensieri che non condivido, 2009.

Di solito non amo parlare con gli estranei, il chiacchierare formale e gentile senza conseguenze di persone che non si conoscono. Ma a volte, come ora, quando qualcuno che conosci ti ha procurato un dolore nei recessi della mente, è un sollievo incrociare qualcuno che non si conosce e che ha voglia di parlare. Aidan Chambers, Danza sulla mia tomba, 1982.

Parlare è la peggiore forma di comunicazione. L'uomo non si esprime pienamente che attraverso i suoi silenzi. Frédéric Dard, Maman les petits bateaux, 1974.

È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio. Joseph Antoine Dinouart, L'arte di tacere, 1771.

È proprio dell'uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese; è proprio dell'uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli. Joseph Antoine Dinouart, L'arte di tacere, 1771.

Solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente. Joseph Antoine Dinouart, L'arte di tacere, 1771.

Per bene che si parli, quando si parla troppo, si finisce sempre per dire delle bestialità. Alexandre Dumas (padre), Il cavaliere d'Harmental, 1842.

Parlare dei propri mali è già una consolazione. Alexandre Dumas (padre), Il conte di Montecristo, 1844/46.

Perché osservi la pagliuzza nell'occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave nel tuo occhio? O come potrai dire a tuo fratello: voglio togliere la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nel tuo occhio c'è una trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi vedrai in modo chiaro, per poter togliere la pagliuzza dall'occhio di tuo fratello. (Gesù).

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare, chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità. (Pablo Neruda).

La civiltà non è né il numero né la forza, né il denaro. La civiltà è il desiderio paziente, appassionato, ostinato, che vi siano sulla terra meno ingiustizie, meno dolori, meno sventure. La civiltà è amarsi. (Raoul Follereau).

Vi è molto di folle nella vostra cosiddetta civiltà. Come pazzi voi uomini bianchi correte dietro al denaro, fino a che ne avete così tanto, che non potete vivere potete vivere abbastanza a lungo per spenderlo. Voi saccheggiate i boschi e la terra, sprecate i combustibili naturali. Come se dopo di voi non venisse più alcuna generazione, che ha altrettanto bisogno di tutto questo. Voi parlate sempre di un mondo migliore mentre costruite bombe sempre più potenti per distruggere quel mondo che ora avete. (Tatanga Mani, capo indiano della tribù degli Siux Oglala, meglio conosciuto con il nome di “Toro Seduto”).

Oh Grande Spirito, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la Saggezza di capirne la differenza. (Preghiera Cherokee).

Il corpo muore. Il corpo è semplicemente ciò che l'anima materialmente possiede. E' il suo involucro. L'anima prosegue la sua vita. (Susie Billie, 102 anni, Seminole).

Nascere uomo su questa terra è un incarico sacro. Abbiamo una responsabilità sacra, dovuta a questo dono eccezionale che ci è stato fatto, ben al di sopra del dono meraviglioso che è la vita delle piante, dei pesci, dei boschi, degli uccelli e di tutte le creature che vivono sulla terra. Noi siamo in grado di prenderci cura di loro. (SHENANDOAH, ONONDAGA).

Non lasciamo che i nostri ideali ci rendano soddisfatti di noi stessi. Ognuno di noi, in scala più o meno grande contribuisce allo sfruttamento e alla distruzione della terra, allo spreco e all'inquinamento. Abbiamo semplicemente la possibilità di camminare più vicino alla Buona Strada. Non di colpo, ma tappa per tappa in questa direzione, finchè non riusciamo a tornare su questo sentiero. Per coloro che sanno ascoltare, le voci parlano ancora. (SAUPAQUANT, WAMPANOAG).

Gli anziani Dakota erano saggi. Sapevano che il cuore di ogni essere umano che si allontana dalla natura si inasprisce. Sapevano che la mancanza di profondo rispetto per gli esseri viventi e per tutto ciò che cresce, conduce in fretta alla mancanza di rispetto per gli uomini. Per questa ragione il contatto con la natura, che rende i giovani capaci di sentimenti profondi, era un elemento importante della loro formazione. (Luther Standing Bear, Orso in Piedi, Lakota).

La terra fu creata con l'aiuto del sole, e tale dovrebbe restare... La terra fu fatta senza linee di demarcazione, e non spetta all'uomo dividerla... Io non ho mai detto che la terra è mia per farne ciò che mi pare. L'unico che ha il diritto di disporne è chi l'ha creata. Io chiedo il diritto di vivere sulla mia terra e di accordare a voi il privilegio di vivere sulla vostra. (Heinmont Tooyalaket (Capo Giuseppe) dei Nez Percés).

Il denaro non rappresenta se non una nuova forma di schiavitù impersonale, al posto dell'antica schiavitù personale. (Tolstoi).

L'uomo non tesse la ragnatela della vita, di cui è soltanto un filo. Qualunque cosa fa alla ragnatela, la fa a se stesso. (American Chief Seathl).

L'illusione degli uomini, di trovare spiegazioni nelle religioni artefatte e gioia nelle cose materiali, somiglia a quella dei bambini che credono di poppare il latte mentre si succhiano il pollice » {Anonimo}.

Quando un uomo desidera tante cose, non ha sé stesso. (Confucio - I Dialoghi).

Servire gli altri, essere di qualche utilità alla famiglia, alla comunità, alla nazione o al mondo é uno degli scopi principali per i quali gli esseri umani sono stati creati. Non ti riempire di affari personali dimenticando i tuoi compiti più importanti. La vera felicità é solo per chi dedica la propria vita al servizio degli altri. (dagli insegnamenti dell'Albero Sacro dei Nativi Americani).

L'uomo felice è colui che fa del bene agli altri, l'uomo infelice è colui che si aspetta il bene dagli altri. (Hazrat Inayat Khan).

Cerca Dio in tutte le anime, buone e cattive, sagge e stupide, simpatiche e antipatiche; nel profondo di ciascuno c'è Dio. (Hazrat Inayat Khan).

Dio, cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me. Siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi. Difendere fino all'ultimo la tua casa in noi. (Etty Hillesum).

La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde. Fisicamente si va forse un po' giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte. Vorrei che fosse così anche per voi. Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi".(Etty Hillesum).

Il cervello si esprime mediante le parole; il cuore mediante lo sguardo degli occhi, e l'anima mediante una radiazione che carica l'atmosfera e magnetizza tutto. (Hazrat Inayat Khan).

Non fare niente con paura e non aver paura in tutto quello che fai. (Hazrat Inayat Khan).

La sincerità è il gioiello che si forma all'interno del cuore. (Hazrat Inayat Khan).

Il prete dà una benedizione dalla chiesa, i rami dell'albero danno la benedizione da Dio. (Hazrat Inayat Khan).

Dio è Verità e la Verità è Dio. (Hazrat Inayat Khan).

L'uomo è più vicino a Dio di quanto lo siano i pesci all'oceano. (Hazrat Inayat Khan).

Dal male non può nascere il bene, come un fico non nasce da un olivo: il frutto corrisponde al seme. (Sèneca).

Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo. (Mohandas Karamchand Gandh).

E’ l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi. (Seneca).

Non puoi cambiare il mondo, ma puoi cambiare te stesso. Il mondo cambierà. (Anonimo).

Ciò che vuoi che un altro taccia, tacilo tu per primo. (Sèneca).

Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, mentre i nostri ci stanno dietro. (Seneca).

Acquistiamo il diritto di criticare severamente una persona solo quando siamo riusciti a convincerla del nostro affetto e della lealtà del nostro giudizio, e quando siamo sicuri di non rimanere assolutamente irritati se il nostro giudizio non viene accettato o rispettato. In altre parole, per poter criticare, si dovrebbe avere un'amorevole capacità, una chiara intuizione e un'assoluta tolleranza. (Gandhi).

Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta è la tolleranza reciproca. (Gandhi).

La coscienza non è la stessa per tutti. Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, I'imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un'insopportaibile interferenza nella libertà di coscienza di ognuno. (Gandhi).

Grande Spirito, preservami dal giudicare un uomo non prima di aver percorso un miglio nei suoi mocassini. (Guerriero Apache anonimo).

Chi dice male degli altri udrà parlare di sé sempre peggio. (Baltasar Gracian).

Tutti pensano di cambiare il mondo, nessuno di cambiare se stesso. (Lev Tolstoj).

Perchè mai tutti sparlano di tutti? Credono di rimetterci qualcosa se riconoscono il più piccolo merito a qualcuno. (Goethe).

Finché ci sono macelli ci saranno anche campi di battaglia. (Tolstoi).

Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere. (Gandhi).

Le avversità non le affrontiamo perché sono difficili, ma sono difficili perché non le affrontiamo. (Sèneca).

Se vuoi essere amato, ama. (Sèneca).

Come una candela ne accende un'altra e così si trovano accese migliaia di candele, così un cuore ne accende un altro e così si accendono migliaia di cuori. (Tolstoi).

Il solo Tempio veramente sacro è il mondo degli uomini uniti dall'amore. (Tolstoi).

Non è la letteratura né il vasto sapere che fa l'uomo, ma la sua educazione alla vita reale. Che importanza avrebbe che noi fossimo arche di scienza, se poi non sapessimo vivere in fraternità con il nostro prossimo? (Gandhi).

Non importa quanto lontano sei andato su una strada sbagliata: torna indietro. (Proverbio turco).

Sono io il padrone del mio destino, il capitano della mia anima (William Ernest Henley).

Il sapiente non si lascia entusiasmare dalla buona fortuna né abbattere dall'avversa. (Sèneca).

Il medico abile è un uomo che sa divertire con successo i suoi pazienti, mentre la Natura li sta curando. (Voltaire).

Il corpo umano è un tempio e come tale va curato e rispettato, sempre. (Ippocrate).

La vita non è vivere, ma vivere in buona salute. (Marziale).

Chi perde il bambino che ha dentro di sé, lo rimpiangerà per il resto della vita. (P.Neruda).

L'uomo grande è colui che non perde il suo cuore di fanciullo. (Mencio).

Proteggetemi dalla sapienza che non piange, dalla filosofia che non ride e dalla grandezza che non si inchina davanti ai bambini. (Gibran Khail Gibran).

L'unica cosa necessaria per la tranquillità del mondo, é che ogni bimbo possa crescere felice.(Dan George).

Quando insegnano, gli uomini imparano. (Seneca).

L'insegnante è uno che ti insegna qualcosa, il Maestro è uno che ti aiuta a disimparare tutto quello che hai imparato. (Osho).

Ci sono persone che sanno tutto e purtroppo è tutto quello che sanno. (Oscar Wilde).

C'è un solo bene, il sapere, e un solo male, l'ignoranza. (Socrate).

Essere coscienti della propria ignoranza è un grande passo verso la sapienza. (Benjamin Disraeli).

Le difficoltà rafforzano la mente e la fatica rafforza il corpo. (Seneca).

Un grande pilota sa navigare anche con la vela rotta. (Seneca).

Non è mai esistito ingegno senza un poco di pazzia. (Seneca).

Talvolta ci vuole coraggio anche a vivere. (Seneca).

Il vento è sempre favorevole per chi sa dove va. (Seneca).

La virtù diffonde i suoi effetti anche da lontano e stando nascosta. (Seneca).

Non è mai poco quello che è abbastanza. (Seneca).

E' più facile disintegrare l'atomo che un pregiudizio. (Albert Einstein).

Moltissime persone credono di pensare quando stanno semplicemente riorganizzando i propri pregiudizi. (William James).

La vera scelta non è tra nonviolenza e violenza ma tra nonviolenza e non esistenza. Se non riusciremo a vivere come fratelli moriremo tutti come stolti. (Martin Luther King).

Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe. (Mark Twain).

Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. (Socrate).

Non volendo pensare a quello che mi porterà il domani, mi sento libero come un uccello. (Gandhi).

Un oggetto, anche se non ottenuto con il furto, è tuttavia come rubato se non se ne ha bisogno. (Gandhi).

La felicità e la pace del cuore nascono dalla coscienza di fare ciò che riteniamo giusto e doveroso, non dal fare ciò che gli altri dicono e fanno. (Gandhi).

La vita sulla terra è solo un bolla di sapone. (Gandhi).

La televisione è un mezzo di intrattenimento che permette a milioni di persone di ascoltare contemporaneamente la stessa barzelletta, e rimanere egualmente sole. (George Eliot).

I mass media sono grandi aziende possedute da società ancora più grandi. (Noam Chomsky).

Non è forte colui che non cade mai, ma colui che cadendo si rialza. (Johann Wolfgang Goethe).

Solo i deboli hanno paura di essere influenzati. (Johann Wolfgang Goethe).

Un'abitudine, se non contrastata, presto diventa una necessità. (Sant'Agostino).

Gesù disse: "Se coloro che vi guidano vi diranno, 'Sì, il Regno è nei cieli', allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno, 'È nei mari', allora i pesci saranno in vantaggio su di voi. Il Regno è invece dentro voi e fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, allora sarete consci, e comprenderete di essere figli del Padre vivente. Ma se non vi conoscerete, allora dimorerete nella povertà, e sarete la povertà stessa".

Gesù disse: "Io sono la luce che è su tutte le cose. Io sono tutto: da me tutto proviene, e in me tutto si compie. Tagliate un ciocco di legno; io sono lì. Sollevate la pietra, e mi troverete."

Gesù disse: "Colui che cerca non desista dal cercare fino a quando non avrà trovato e quando troverà sarà commosso e si stupirà, e così commosso contemplerà e regnerà sul Tutto."

È così grande la malvagità del mondo che devi consumarti le gambe a forza di correre per evitare che te le freghino. (Bertolt Brecht).

Il destino è un'invenzione della gente fiacca e rassegnata. (Ignazio Silone).

La vita è un ponte, non costruirci la casa sopra. (Anonimo).

Ciò che avete imparato ascoltando le parole altrui lo dimenticherete molto rapidamente; ciò che avete imparato con tutto il vostro corpo lo ricorderete per il resto della vostra vita.. (Gichin Funakoshi - Karate-Do).

Votate ogni volta che fate la spesa, ogni volta che schiacciate il telecomando, ogni volta che andate in banca sono voti che date al sistema. (Alex Zanotelli, missionario).

Chi conosce gli altri uomini è sapiente, chi conosce se stesso è illuminato, chi vince gli altri ha forza, chi vince se stesso è più forte (Lao-Tse).

Abbiamo bisogno di una grande quantità di energia e la dissipiamo nella paura, ma quando c’è l’energia che deriva dall'essere libero da ogni forma di paura viviamo una radicale rivoluzione interiore.  (Libertà dal conosciuto- Jiddu Krishnamurti).

Giorno verrà in cui gli uomini conosceranno l'intimo animo delle bestie e, quel giorno, un delitto contro un animale sarà considerato un delitto contro l'Umanità. (Leonardo da Vinci).

Quando uno è contento di se stesso, ama l'umanità. (Luigi Pirandello).

Lo sguardo disonesto è l'indizio di un cuore disonesto. (Sant'Agostino).

Gli uomini hanno bisogno di qualche attività esterna perché sono inattivi di dentro. (Arthur Schopenhauer).

Tutta la gioia del mondo nasce dal desiderio di gioia per gli altri, tutto il dolore dal desiderio di gioia per sè. (Shanti Deva, mistico buddista medioevale).

Non esiste una strada per la Pace, la Pace è la strada. (Thich Nhat Hanh. monaco buddista vietnamita).

L'abnegazione è il vero miracolo da cui derivano tutti i cosiddetti miracoli. (Ralph Waldo Emerson).

Non bisogna far violenza alla natura, ma persuaderla. (Epicuro).

É difficile decidere quando la stupidità assume le sembianze della furfanteria e quando la furfanteria assume quelle della stupidità. Perciò sarà sempre difficile giudicare equamente i politici. (Arthur Schnitzler).

Il gentiluomo è uno che non ferisce mai involontariamente i sentimenti altrui. (Oliver Herford).

Parlami di Dio, dissi al mandorlo. E il mandorlo fiorì. (Nikos Kazantzais).

Vota per colui che ha promesso meno di tutti. Sarà il meno deludente! (Bernard Baruch, 1960).

Noi non siamo nati soltanto dalla nostra madre, anche la terra è nostra madre, che penetra in noi ogni giorno con ogni boccone che mangiamo. (Paracelso).

Eppure soffia

E l'acqua si riempie di schiuma il cielo di fumi

la chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi

uccelli che volano a stento malati di morte

il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte

un'isola intera ha trovato nel mare una tomba

il falso progresso ha voluto provare una bomba

poi pioggia che toglie la sete alla terra che è vita

invece le porta la morte perché è radioattiva

Eppure il vento soffia ancora

spruzza l'acqua alle navi sulla prora

e sussurra canzoni tra le foglie

bacia i fiori li bacia e non li coglie

Un giorno il denaro ha scoperto la guerra mondiale

ha dato il suo putrido segno all'istinto bestiale

ha ucciso, bruciato, distrutto in un triste rosario

e tutta la terra si è avvolta di un nero sudario

e presto la chiave nascosta di nuovi segreti

così copriranno di fango persino i pianeti

vorranno inquinare le stelle la guerra tra i soli

i crimini contro la vita li chiamano errori

Eppure il vento soffia ancora

spruzza l'acqua alle navi sulla prora

e sussurra canzoni tra le foglie

bacia i fiori li bacia e non li coglie

eppure sfiora le campagne

accarezza sui fianchi le montagne

e scompiglia le donne fra i capelli

corre a gara in volo con gli uccelli

Eppure il vento soffia ancora!!!

(Pier Angelo Bertoli)

Non esiste degradazione della dignità umana che non provochi, allo stesso tempo, ferite nell'essere di Dio. (Oscar Vèlez Isaza).

La più grande religione che possa esistere è lo studio della vita e non esiste uno studio più grande o interessante. (Hazrat Inayat Khan).

Non importa quante operazioni hai subito, prima o poi, se vuoi guarire davvero, è necessario che ascolti il dolore...Lo scopo di qualsiasi malattia o dolore è quello di insegnarti a stare meglio di prima, crescere, guarire, imparare ad amare te stesso e scoprire una parte migliore di te. Tutto ciò richiede una mente aperta, fede e molto coraggio. (Art Brownstein).

Non aderisco all'opinione di nessun uomo: ne ho qualcuna per conto mio. (Ivan Turgenev).

Una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta. (Socrate).

Molto peggio che star male è dover dire come si sta a tutti coloro che ci fanno visita. (Filemone).

Alla fin fine la scienza consiste nel sapere che sai quello che sai e che non sai quello che non sai. (Confucio).

É proprio di un grande animo dimenticare un'offesa. (Seneca).

Beato colui che non si aspetta nulla perchè non sarà mai deluso. (Alexander Pope).

Le scienze si possono imparare meccanicamente, la saggezza no. (Laurence Sterne - Tristram Shandy).

Il perdono non è debolezza, non è bontà, soltanto saggezza: l'unica possibilità di respingere al mittente il male ricevuto. (Marco Scaldaferro).

La psicoanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di esserne la terapia. (Karl Kraus).

C'è una sola religione: la Religione dell'Amore. C'è una sola casta: la Casta dell'Umanità. C'è un solo linguaggio: il Linguaggio del Cuore. C'è un solo Dio: Egli è onnipervadente. (Sai Baba).

Dio è dentro di Te. Scoprilo! (Sai Baba).

Se nel cuore c'è rettitudine, c'è bellezza nel carattere e armonia nella famiglia. Se c'è armonia nelle famiglie, ci sarà ordine nelle nazioni. Se c'è ordine nelle nazioni, ci sarà pace nel mondo! (Sai Baba).

È diritto di ogni uomo ascoltare la propria coscienza ed è suo dovere agire secondo i suoi dettami. (Albert Einstein).

Nulla sarà più benefico per la salute umana e aumenterà le possibilità di sopravvivenza della terra, dell'evoluzione verso una dieta vegetariana. (Albert Einstein).

La misura dell'amore è amare senza misura. (Sant' Agostino).

La felicità è amore, nient'altro. (Hermann Hesse).

Pace non è solo il contrario di guerra, non è solo lo spazio temporale tra due guerre, pace è di più. Pace è la legge della vita umana. Pace è quando noi agiamo in modo giusto e quando tra ogni singolo essere umano regna la giustizia. Detto dei Mohawk (indiani Irochesi).

Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è quasi sempre la verità che insegue il ricercatore. (Robert Musil).

Non c'è mai stata una buona guerra o una cattiva pace. (Benjamin Franklin).

Mettere gli occhiali a un bambino è ciò che serve a far piangere gli angeli. (William Bates).

Non c'è niente che tu non sappia fare, ci sono solo cose che non hai ancora imparato a fare.(Martin Brofman).

La violenza non è forza ma debolezza, né può mai essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice. (Benedetto Croce).

Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l'ha già creata. (Albert Einstein).

I medici sono dei privilegiati. I loro successi sono sotto gli occhi di tutti, i loro errori sono coperti dalla terra. (Michel de Montaigne - Essais).

Se non è giusto non farlo, se non è vero non dirlo. (Marco Aurelio).

Più uno sta in alto, meno è libero. (Sallustro).

Le liti non durerebbero a lungo se il torto fosse solo da una parte. (Françoise de la Rochefoucauld).

Non ammiro il coraggio dei domatori: chiusi in gabbia sono al riparo dagli uomini. (George Bernard Shaw).

Quando non si ama troppo, non si ama abbastanza. (Bussy-Rabutin).

Amare significa non dover mai dire mi dispiace. (Eric Segal).

Il momento giusto per fare una cosa che ci rende migliori è quando viene in mente di farla. (Anonimo).

Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario. (George Orwell).

La vita è lo strumento con il quale sperimentiamo la verità. (Thich Nhat Hanh).

Com'è il cibo così è la mente, com'è la mente così sono i pensieri, come sono i pensieri così è la condotta, com'è la condotta così è la salute. (Sai Baba).

Vivere felici e secondo Natura è un tutt'uno. (Seneca).

L'uomo deve capire e ricordare che la verità non può mai venire scoperta tutta, ma si rivela piano piano alla gente e si rivela soltanto a coloro che la cercano e non credono a tutto ciò che gli dicono intermediari falsamente "santi" i quali pensano di possederla, perciò l'uomo non deve considerare nessuno come un maestro che non può mai sbagliare, ma deve cercare la verità dovunque in tutte le tradizioni umane e controllare poi con la sua ragione. (L. Tolstoj).

La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita. Da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi rimettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell'intelletto. (Benedetto Croce).

La ricchezza somiglia all'acqua di mare: quanto più se ne beve, tanto più si ha sete. (Arthur Schopenhauer).

Lasciate i bambini alla nostra educazione fino a dieci anni poi fatene quello che volete, tanto rimarranno sempre nostri. (De Maistre).

Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al volere dei capi. È facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e per esporre il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i paesi. (Hermann Goering, gerarca nazista, al processo di Norimberga).

Ciò che è facile è giusto, ciò che è giusto è facile. (Lao Tzu).

Taci molto per aver qualcosa da dire che valga la pena di essere sentita. Ma ancora taci, per ascoltare te stesso. (Lanza Del Vasto).

A colui che dimostrava che il moto è impossibile, il saggio rispose senza parole: semplicemente, camminando. I troppo intelligenti vorranno dimostrarti che Dio non esiste? E tu non rispondere con parole: va a pregare. (Lanza del Vasto).

Se rafforzate l'intelletto senza purificare il cuore, armerete i demoni che faranno il loro nido in questo cuore. (Lanza del Vasto).

La preghiera non viene presentata a Dio per fargli conoscere qualcosa che Egli non sa, ma per spingere verso Dio l'animo di chi prega. (S. Tommaso d'Aquino).

Non c'è preghiera perfetta se il religioso si accorge di stare pregando. (S. Antonio eremita).

L'eccessivo valore che diamo ai minuti, la fretta, che sta alla base del nostro vivere, è senza dubbio il peggior nemico del piacere. (Hermann Hesse).

La vita di un uomo puro e generoso è sempre una cosa sacra e miracolosa, da cui si sprigionano forze inaudite che operano anche in lontananza. (Hermann Hesse).

Chi possiede coraggio e carattere, è sempre molto inquietante per chi gli sta vicino. (Hermann Hesse).

La terra non è un dono dei nostri padri, bensì un prestito dei nostri figli. (Detto tibetano).

Ogni qualvolta inquiniamo il pianeta, il suo respiro di vita si appesantisce. E' così stanca la terra di accettare i soprusi che l'uomo "incoscientemente" le propone. Il futuro è adesso, la terra siamo noi. (Siang).

Lasciare la vita scorrere liberamente sarà il primo passo verso la libertà e verso la pace sulla terra. (Wilhelm Reich).

Se c'è un qualche cosa che vogliamo cambiare nel bambino, prima dovremmo esaminarlo bene e vedere se non è un qualche cosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi. {Carl Gustav Jung}.

Mio caro gemello non sperare che qualcuno possa venirci a salvare, qualcuno possa venire a tirarci fuori dal nostro inferno, perché nessun Dio può farlo, perché quel Dio che cerchiamo disperatamente non è al di là di noi stessi, non è lontano, irraggiungibile da noi stessi, perché quel Dio non è nostro padre, quel Dio non è il nostro creatore, perché quel Dio che ti hanno insegnato ad amare e adorare, sei tu stesso, perché tu sei il Padre, tu sei il Figlio, tu sei lo Spirito Santo, perché sei tu Dio, il grande creatore, il grande spirito, il grande oceano di energia che ha creato la vita sulla terra, per tentare di darsi una forma, per tentare di avere un corpo, per tornare a percepire se stesso. E tu sei quel tentativo, quella possibilità, che è nata dentro una piccola cellula che è cresciuta e ha moltiplicato se stessa in miliardi di tentativi, miliardi di possibilità, miliardi di vite, tutte diverse nella forma, tutte uguali nel profondo, che si sono uccise, sbranate, fatte a pezzi, mangiate tra di loro perché volevano sopravvivere, volevano continuare la corsa, sangue dopo sangue, orrore dopo orrore, perché non si riconoscevano, non ricordavano di essere la stessa immagine. Miliardi, miliardi, miliardi di possibilità che l'universo si è creato per arrivare alla meta, arrivare disperatamente a percepire se stesso. Lo capisci mio caro gemello qual è il senso di questa corsa sfrenata che è partita dall'universo ed è arrivata fino a te...? (Bruno Franchi).

Le lacrime sono lo sciogliersi del ghiaccio dell'anima. (Hermann Hesse).

Il conto corrente è un'offerta volontaria al mantenimento della vostra banca. (Ambrose Bierce).

La malattia è il prezzo che l'anima paga per l'occupazione del corpo, come un inquilino paga un affitto per l'appartamento che abita. (Shri Ramakrishna).

Non si desidera ciò che è facile ottenere. (Ovidio).

L'insuccesso di un desiderio non si verifica perché Dio ti ha abbandonato, ma perché Dio ha una soluzione migliore per te. (Sai Baba).

Il senso della nostra esistenza terrena è tuttavia quello di riconoscere noi stessi e di sistemare i nostri difetti, ossia i nostri peccati, con l'aiuto dello Spirito di Dio, in modo da divenire a poco a poco veritieri. Allora si scioglieranno anche i legami e la necessità di appoggiarsi. Il nostro rapporto con i nostri simili sarà basato sempre più sull'indipendenza e sulla libertà. Da ciò risultano sovranità e forza interiore. (Anonimo).

Il nostro compito è guardare il mondo e vederlo intero. Occorre vivere più semplicemente per permettere agli altri semplicemente di vivere. (E.F. Schumacher).

L'errore non diventa verità solo perché si propaga e si moltiplica. E la verità non diventa errore solo perché nessuno la vede". (Mahatma Gandhi).

Le gioie sono doni del destino e il loro valore è nel presente, ma i dolori sono la sorgente della conoscenza e il loro significato si mostra nel futuro. (Rudolf Steiner).

Avendo riflettuto su queste frasi, pensiamo a quello che succede nella realtà.

I bambini che giocano su un albero di fico spoglio. Di fronte, quella casa, in via Ferrari 13 a Caselle Torinese, ormai diventata per tutti la villetta degli orrori, scrive Marta Tondo su “Nuova Società” . Vita e morte si incontrano e si mescidano in quella danza macabra in un tempo che si è fermato, in uno spazio che non sarai mai più come prima. Tutto è cambiato da qualche sera fa. Una follia omicida che ha portato qualcuno a uccidere a coltellate Claudio Allione, 66 anni, ex dipendente della Sagat, la ditta che gestisce i servizi dell’aeroporto di Torino, Maria Angela Greggio, 65 anni, ex professoressa in pensione, e la madre di lei, la novantenne Emilia Campo Dall’Orto. La lucidità di ripulire ogni cosa, senza lasciare alcuna traccia di sangue. I corpi della coppia sono stati trovati nel corridoio mentre quello dell’anziana riverso sul letto immobilizzato per sempre nel disperato tentativo di difendersi. Nessuna traccia come detto, tanto che in un primo momento si era pensato a una morte per inalazione di monossido di carbonio. L’analisi dei corpi però ha svelato quei segni di arma da taglio, letali. Ora la traccia, quella che sfugge sempre perché in fondo l’omicidio perfetto non esiste, quell’indizio che inchioderà l’assassino o gli assassini, dovrà essere trovato dai carabinieri del Ris di Parma, il Reparto Investigazioni Scientifiche, arrivato nel paesino per compiere il primo sopralluogo. Dovranno esaminare ogni singolo centimetro di quell’abitazione. Una villa che è già diventata meta di quel turismo del macabro che abbiamo già visto in Italia. Come le foto scattate ad Avetrana in Puglia dove è stata uccisa la piccola Sarah Scazzi o sul molo di fronte al relitto della Costa Concordia sull’Isola del Giglio e ancora prima a Cogne dove Anna Maria Franzoni trucidò il figlio, il piccolo Samuele. Infatti davanti a quel cancello c’erano famiglie con i loro bambini con cui parlavano di quanto avvenuto. Un’Italia in miniatura accorsa in quel tratto di strada sterrata in cui le scarpe affondano nel fango. E poi ci sono gli occhi indiscreti e volti che si affacciano timidamente alle finestre per vedere questo insolito via vai di gente. Massimo Reina, che vive a poche case di distanza dalla villetta degli orrori, si dice stupito: «Una famiglia come tante, quella degli Allione – dice con gli occhi bassi – Siamo sconvolti e increduli. Non pensavamo mai più che sarebbe successa una cosa del genere. Non qui da noi». «La signora Dall’Orto – racconta ancora – passava spesso di qui e si fermava a fare due chiacchiere. Nonostante gli oltre novant’anni andava ancora in bicicletta». In via Ferrari è tutto immobile, un fermo immagine. I sigilli alle porte, un grosso block notes sul tavolo davanti alla porta del garage in cui il figlio suonava la batteria, le tende rosa di una finestra scostate, forse quelle della cucina, Frammenti di un qualcosa che non sarà più. Tutto congelato, come l’erba del terreno che circonda la grossa villa. Tutto fermo come i lavori all’ultimo piano della struttura, iniziati oltre due anni fa. Un terzo piano costruito per il loro figlio Maurizio Allione, maturità scientifica conseguita al Liceo Gobetti, magazziniere carrellista fino a ottobre alla Delphi srl, e da allora disoccupato. Ed è proprio lui, il 29enne, ad aver lanciato l’allarme. Secondo quanto ha raccontato agli investigatori, al momento della strage, si sarebbe trovato in Valle d’Aosta con la fidanzata per le feste. Preoccupato poiché non sentiva i genitori da due giorni ha telefonato a una vicina e poi ha chiesto a un amico di andare a vedere cosa fosse successo. È questo quanto emerso dalle tredici ore di interrogatorio nella caserma dei carabinieri. Una ricostruzione però che non convince del tutto gli inquirenti: oggi la perquisizione nell’abitazione del giovane che viveva a Torino nel quartiere Falchera in cui è stata trovata della marijuana e per questo è stato denunciato a piede libero. Fino a ora l’unica cosa che hanno trovato di “insolito” sull’uomo. Nella lista degli interrogati ci sono finiti anche i nomi degli operai che lavoravano alla ristrutturazione perché il delitto è stato commesso da chi conosceva bene la casa. Il killer sapeva bene come muoversi. Anche quei cani, due pastori tedeschi, di cui un cartello appeso al cancello avverte la pericolosità, sono stati trovati chiusi in uno scantinato. Si sono fidati, anch’essi, come i loro padroni, di quella mano che invece di essere amica si è rivelata assassina.

Alle volte sembra di aver ricomposto tutti i tasselli della vicenda ma in realtà come in ogni caso di cronaca nera la tela del ragno è più fitta di quanto ci si aspetti. Il rischio è di dare per scontato ma alla fine ci si ritrova con un pugno di mosche in mano e con tanti interrogativi che non hanno avuto risposta. Maurizio Allione per tutti era il killer, vox populi vox dei, e noi stessi cronisti abbiamo rispolverato i vecchi casi per avvallare questa tesi: l’assassino doveva per forza essere uno di famiglia. Una strage. Quasi immediatamente tutti i riflettori puntano sul figlio Maurizio, interrogato per oltre dieci ore lunedì scorso, e per cinque ore ieri. E gli elementi per costruire una storia già vista c’erano tutti: lui disoccupato, litigi in famiglia, una fidanzata che gli ha fatto perdere la testa al punto da fargli cambiare completamente vita, quei cento grammi di marijuana, i tanti soldi e quell’eredità che rischia di non arrivare. Anche il ritrovamento delle tazzine puzzava di bruciato. Troppo strano e ricorda quel telefonino bruciato rinvenuto dallo zio di Sarah Scazzi Michele Misseri, nell’omicidio di Avetrana. Così la trama sbagliata viene intessuta, filo dopo filo, traccia dopo traccia. Il presidente dell'Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino critica duramente quei cronisti che scrivendo del triplice omicidio di Caselle Torinese, prima della notizia della confessione dell'omicida - il convivente dell'ex domestica delle vittime - hanno puntato il dito contro il figlio della coppia uccisa facendo chiare allusioni e riferimenti sulla sua presunta colpevolezza. Scrive Iacopino sulla sua pagina Facebook: "Ora che l'autore ha confessato, vorrei sapere come si sentono quanti hanno pubblicato la foto del figlio di due delle vittime in un contesto pieno di allusioni che ha toccato, proprio stamattina, una vetta ineguagliabile: il richiamo a "zio Michele" ("zio" di chi?) che nella strage di Avetrana (Sarah Scazzi) "rinvenne" il cellulare della ragazzina che aveva assassinato. Il giovane aveva ritrovato e consegnato una tazzina, una caffettiera e un guanto in lattice, in una buca vicino casa, mentre portava a passeggio i suoi cani. Complimenti. Non solo ai carabinieri. E se provassimo a trarre un qualche insegnamento da episodi come questo, tentando di avere rispetto per le persone?.

Caselle Torinese, per il Corriere della Sera il colpevole era il figlio, scrive “Libero Quotidiano”. Non è stato il figlio. No, l'omicida di Caselle Torinese è il compagno dell'ex domestica della famiglia sterminata. Maurizio Allione, 28 anni, il super-sospettato, non c'entrava nulla. Inutile negare che in molti avessero pensato che dietro quelle tre morti ci fosse proprio lui, sotto torchio per due volte negli ultimi giorni, il colpevole quasi perfetto. Però tra sospetto e certezza c'è un oceano di mezzo. Un oceano che il Corriere della Sera s'è bevuto tutto di un fiato, trasformando il sospetto in una sostanziale certezza. L'operazione è stata portata a termine in un lungo articolo, un "colloquio" con il giovane Maurizio, in cui si indugiava sulla mano destra che "trema in modo vistoso, lo stato di agitazione è evidente, dagli occhi accerchiati di rosso, dal gesticolare nervoso". "A ogni frase che pronuncia la mano tormenta il lobo di un orecchio, con un gesto ripetuto del quale non ha consapevolezza". Si parla di lui e di lei, la fidanzatina Milena, due che "a vederli da vicino (...) sembrano invece due ragazzi spaventati e fragili". "Invece" rispetto a cosa, vien da chiedersi. "Lei voleva fare la giornalista, ha studiato alla scuola della curia torinese, lui suona la batteria in gruppo hardcore punk, e quando qualcuno gli nomina Henry Rollins e Bad Religion, numi tutelari del genere, si lascia andare a quel sorriso di riconoscenza. E poi viene da pensare che questo è solo un lato della luna, ci sono i sospetti, le indagini che convergono, gli alibi che forse non tengono, le mezze frasi degli inquirenti che suggeriscono come le altre piste, insomma, meglio lasciarle perdere". Insomma, sull'"altro lato della luna" la sentenza è scritta a caratteri cubitali: colpevole, Maurizio ha trucidato madre, padre e nonna. Le certezze del Corsera vengono poi riconfermate in un ultimo, tostissimo, paragrafo. "Massimo e Milena stavano passeggiando e l'occhio è caduto proprio su quel dettaglio". Si parla delle tazzine di caffè, parte della refurtiva, ritrovate dal figlio in un fosso. "E d'accordo, il caso ci può anche stare, ma alzi la mano chi non ha pensato allo zio Michele di Avetrana che mentre lavora in un campo grande due ettari si imbatte, guarda un po', nel cellulare di Sarah Scazzi". Il Corsera, sicuro, quella mano l'ha alzata. "E così il lento pomeriggio davanti alla caserma con curiosi e giornalisti a scrutare oltre le inferriate, a chiedere lumi non su cosa sta accadendo, ma su quando accadrà, sembra a tutti una conseguenza, un tributo d'attesa da pagare a un finale in apparenza annunciato, quasi ineluttabile". Il finale ineluttabile è la colpevolezza di Maurizio. Resta solo da chiedersi "quando accadrà". La risposta: mai. Ma il Corriere della Sera era certo che così sarebbe stato: l'unico ineluttabile finale che si è presentato, invece, è la clamorosa topica di via Solferino.

Alle undici del mattino Maurizio Allione si sente stretto. «Non trovo altro modo per descrivere quel che provo. Come avere un cappio alla gola, mi manca l’aria». L’uomo che tutti cercano, il sospettato unico e per molti già in odore di colpevolezza, appare dove nessuno si aspetta di vederlo, eppure si tratta anche del luogo più logico. E’ la scena di un crimine orrendo, è anche casa sua. Gli abitanti di via Ferrari lo guardano come mai avevano fatto prima, qualche signora strabuzza gli occhi, in pochi lo salutano. Lui e la fidanzata Milena camminano con i due pastori tedeschi al guinzaglio. Hanno entrambi la faccia stravolta, ma non si nascondono, non scappano, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. «Piacere, Maurizio». La mano destra trema in modo vistoso, lo stato di agitazione è evidente, dagli occhi cerchiati di rosso, dal gesticolare nervoso. «Adesso scriverete che anche questa è una prova contro di me, senza pensare che avrei ogni diritto stare male, con quel che mi è successo. Non ho avuto il coraggio di entrare in casa, non so neppure se i carabinieri mi avrebbero dato il permesso. Mi sorvegliano e mi ascoltano, lo so. Io rispetto il loro lavoro, ma loro sono molto pressanti, mi stanno addosso. Capisco di essere sospettato, ma ci sarà pure qualcun altro in giro che può avere fatto questa cosa. Perché io proprio non sono stato». La strana giornata di Maurizio e Milena comincia con loro due che passeggiano tenendosi stretti per mano, quasi a darsi coraggio, intabarrati in spesse giacche di pile, e finisce in due stanze diverse della caserma dei carabinieri di Caselle, uno lontano dall’altro, l’interrogatorio avanti ad oltranza, confrontare versioni, verificare discrepanze, invitare alla riduzione del danno giudiziario in attesa di una confessione che non arriva. Non è una sorpresa, non per lui almeno. Se lo aspettava, poche ore prima aveva anticipato il seguito della sua prima uscita pubblica dopo la morte dei genitori e della nonna. «Con me non hanno finito. Credono che abbia ammazzato i miei per i soldi. Ma perché avrei dovuto farlo? Mi aiutavano quando ne avevo bisogno. Ogni tanto papà mi pagava l’assicurazione della macchina, e quando non ce la facevo, la nonna mi dava i soldi per le spese condominiali. Come fanno tutti». Milena si rivolge solo al suo fidanzato, con espressione sempre più corrucciata e occhi sbarrati. Il suo linguaggio del corpo trasmette una idea di autodifesa, non si fida di chi ha davanti, e in fondo ci sarebbe anche da capirla, comunque vada. Maurizio continua a tremare, a ogni frase che pronuncia la mano tormenta il lobo di un orecchio, con un gesto ripetuto del quale non ha consapevolezza. Ma non dà l’impressione di concedersi, di fare un favore, piuttosto sembra quasi sollevato, e vai a capire se è una posa, questa esibita disponibilità, oppure una necessità che gli viene da dentro, ormai anche lui dovrebbe sapere di camminare sul filo, perché oggi le parole e gli sguardi della gente che lo incrocia sono dure, prive di compassione, e con il passare del tempo, con il crescere dell’attesa, non andrà a migliorare. I due fidanzati cambiano itinerario della passeggiata con i cani, quasi percepissero il clima ostile del vicinato. Appena girano l’angolo e imboccano strada Caldano e i prati oltre la carreggiata, le voci riprendono a correre. Anna Uras, domicilio a due villette di distanza da quella della strage, racconta di liti, minacce, urla. «Ogni volta che Maurizio li andava a trovare c’erano sempre delle discussioni. Lui alzava così tanto il tono con la mamma che le sue urlate si sentivano in tutto il circondario, altroché». Sembra un canovaccio già recitato, già sentito, in altre villette simili a questa, in altri apparenti idilli domestici che solo dopo la tragedia non si rivelano più tali. All’inizio c’è la fase che prevede il peana della «famiglia normale», poi una volta passata l’impressione per quel crimine così vicino e individuato un presunto colpevole, all’improvviso tutti si ricordano di qualcosa che, «a pensarci bene», non andava, non funzionava. Mimma Filippelli, altra vicina di casa, sostiene di poter soltanto intuire i motivi delle discussioni continue tra padre e figlio. «Maurizio non lavorava e questo non fa mai piacere a un genitore perbene. Comunque sia litigavano spesso e le grida si sentivano dalla strada». Ieri c’era riserbo, oggi si sono rotti gli argini della discrezione, c’è solo da scegliere. La comunità di via Defendente Ferrari ha il verdetto in tasca. Una signora - «mi raccomando l’anonimato» - racconta che sabato sera i cani dei signori Allione erano liberi in giardino ma meno vitali del solito, «come se qualcuno gli avesse dato della droga». A vederli da vicino, con Milena che preme sul braccio di lui per suggerirgli di fermarsi, basta parlare, sembrano invece due ragazzi spaventati e fragili, di un pallore che li rende quasi di carta velina. Lei voleva fare la giornalista, ha studiato alla scuola della curia torinese, lui suona la batteria in un gruppo hardcore punk, e quando qualcuno gli nomina Henry Rollins e Bad Religion, numi tutelari del genere, si lascia andare a un sorriso quasi di riconoscenza. E poi viene da pensare che questo è solo un lato della luna, ci sono i sospetti, le indagini che convergono, gli alibi che forse non tengono, le mezze frasi degli inquirenti che suggeriscono come le altre piste, insomma, meglio lasciarle perdere. Gli unici a non rendersi conto dell’ambiguità di questi giorni sospesi sono loro. Maurizio racconta dettagli con una sobrietà che può anche essere scambiata per freddezza. «Di solito i miei non chiudevano mai la porta. Lasciavano dentro la chiave, senza dare mandate. Per loro bastavano i cani che abbaiavano. Se qualcuno voleva entrare dall’esterno bastava che cercasse il tastino elettrico accanto alla porta ed era dentro». La pressione di Milena sul suo braccio si è accentuata, ormai diventa quasi una morsa. E’ ora di andare. Salutano e attraversano la strada. Passa mezz’ora e le agenzie battono la notizia del ritrovamento di oggetti rubati alla famiglia Allione, in un fosso, al bordo di un ponticello di scolo davanti al portone di un’altra villetta. Massimo e Milena stavano passeggiando e l’occhio è caduto proprio su quel dettaglio, e d’accordo, il caso ci può anche stare, ma alzi la mano chi non ha pensato allo zio Michele di Avetrana che mentre lavora in un campo grande due ettari si imbatte, guarda un po’, nel cellulare di Sarah Scazzi. E così il lento pomeriggio davanti alla caserma con curiosi e giornalisti a scrutare oltre le inferriate, a chiedere lumi non su cosa sta accadendo, ma su quando accadrà, sembra a tutti una conseguenza, un tributo d’attesa da pagare a un finale in apparenza annunciato, quasi ineluttabile. I due fidanzati di Caselle restano chiusi là dentro fino a notte fonda, ognuno per sé, sempre più stretti.

Strage di Caselle. Come giornalista chiedo scusa a Maurizio Allione, scrive Andrea Doi su L’huffingtonpost.it. Capita a tutti di fare dei grossi sbagli nel proprio lavoro. Ma quando questi procurano dei danni a degli innocenti diventano errori imperdonabili. In questi giorni molti cronisti hanno sbagliato. Compreso il sottoscritto. Troppo frettolosamente abbiamo pensato bene che l'autore della strage di Caselle Torinese dove sono stati massacrati, venerdì 3 gennaio, nella loro villa Claudio Allione, 66 anni, Maria Angela Greggio, 65 anni, e la madre della donna, Emilia Dall'Orto, 93 anni, fosse il figlio, Maurizio. Corrotti da vecchi fatti di cronaca nera abbiamo sbattuto la sua vita, dopo averla spulciata per benino, in prima pagina, in pasto ai lettori e fomentando un odio nei suoi confronti di gran parte degli abitanti del piccolo centro alle porte di Torino. Abbiamo dato per scontato che avesse ucciso e che poi si fosse inventato tutto. In fondo era il cattivo perfetto: disoccupato, rockettaro, dedito al consumo di droghe leggere e chissà quali altri vizi. Abbiamo dedotto. Alibi falso che pensavamo di smontare noi prima degli inquirenti. L'aveva ben costruito, dicevamo, ma crollerà perché è debole. Eravamo convinti che lui, magari aiutato dalla sua fidanzata (sarà lei la mente che lo ha spinto a farlo, le donne fanno perdere la ragione) o da qualche amico, avesse prima massacrato padre, madre e nonna e poi, avendo fatto tesoro dei film degli ultimi tempi, Csi ad esempio, avesse ripulito ogni sua traccia dalla villetta degli orrori. Voleva subito l'eredità...ma noi non gli daremo scampo fino a quando non verrà arrestato...Già sognavamo il titolone sulla coppia diabolica. Secondo noi aveva pure esagerato nel far ritrovare quella refurtiva, rappresentata da alcune tazzine, giusto per avvallare la sua tesi agli occhi degli investigatori che ad uccidere era stato uno che era li per rubare. Figuriamoci. Poi, dopo una giornata intesa, ci siamo risvegliati con il vero assassino, reo confesso. Giorgio Palmieri. A questo punto il 26enne l'abbiamo dimenticato. Non ci serviva più. Nessuno di noi, dei cronisti che hanno seguito a Caselle il caso dalla scoperta dei corpi, si è preoccupato di fare un passo indietro. Ci siamo occupati del killer, sezionando ora la sua di vita. Senza chiedere scusa a Maurizio Allione, ai suoi amici e alla sua compagna. Abbiamo sbagliato quindi due volte: incolpandolo, mettendolo alla gogna prima e non dicendo "siamo dei fessi" dopo . E se Maurizio oggi è vittima lo è non solo perché ha perso la sua famiglia, ma anche perché noi, perdendo tutti quanti la misura, lo abbiamo vergognosamente trasformato in un mostro assassino. Tutti, dicevo all'inizio, fanno degli errori. Il nostro è sempre lo stesso, come in fondo era già accaduto. Sentirci giudici e sputare sentenze. Senza renderci conto che in quei panni abbiamo ancora una volta fatto una figuraccia. Che chi deve informare non può permettersi di fare.

Quei "mostri" per un giorno rovinati da errori e sospetti. Maurizio Allione è finito nel tritacarne, ma non c'entrava nulla. Proprio come Lumumba o Azouz. Per finire sotto i riflettori da innocenti bastano indagini incerte e un viso da presunto colpevole, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Adesso può permettersi il lusso di piangere e di dedicare un breve «grazie» ai carabinieri. Maurizio Allione indossa finalmente il lutto dell'uomo cui hanno sterminato padre, madre e nonna. Terrificante. Ma ancora più devastante era il sospetto che l'aveva avvolto come un sacco nero: era lui, per molti, il mostro di Caselle Torinese. E nel girare per il paese offriva gli occhi rossi e la mano tremante. I sospetti, le suggestioni, le voci della strada, tutto cospirava per cucirgli addosso il profilo del possibile killer. Non è la prima volta. La storia della cronaca nera italiana è anche un elenco di misteri, pasticci, colpi di scena che disorientano. E di disgraziati spinti sotto i riflettori prima di essere issati a forza sul palco dell'indignazione corale. Come è successo a Patrick Lumumba nella vicenda, ancora in svolgimento, del delitto di Perugia. Amanda Knox, la conturbante americana, punta il dito contro Patrick Lumumba, il padrone del pub in cui lei lavora, e gli stringe un cappio intorno al collo. Lo arrestano, poi piano piano la verità viene ristabilita. Lumumba ha due sole cose: un pub e la faccia da presunto colpevole. Può andar bene in quel puzzle, anzi andrebbe benissimo, peccato non c'entri nulla. Quella di Amanda è una calunnia, l'indagine subisce una torsione e punta proprio sulla presunta supertestimone. Il mostro è solo un poveraccio. E semmai si dovrebbe capire il perché di quella falsa delazione. Probabilmente per nascondere altre responsabilità. Del resto ci si può ritrovare nella scomodissima posizione di Lumumba e Allione per una serie di ragioni. O perché l'inchiesta è mal impostata e al posto di indizi e prove ci sono pregiudizi e tabù. Peggio, la colpevolezza sembra lombrosianamente dipinta sul viso e non ci sono a portata di mano alibi cui attaccarsi. Ancora, al crocevia degli snodi investigativi, certi personaggi, deboli, anzi fragili e indifesi sembrano adatti a ricoprire quel ruolo tremendo. Le loro mosse, chissà perché, combaciano a spanne con quelle dei killer. E così restano sulla giostra per anni, fra servizi televisivi, talk-show col plastico, intercettazioni ambigue. Roberto Iacono, per esempio, è un nome che ha resistito al tempo ed è diventato l'indagato storico per l'omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, avvenuto il 10 luglio 1991. La sua colpa? Era l'insegnante d'inglese dei figli della nobildonna, era nella villa al momento del delitto, era una persona con le sue fragilità. Iacono è rimasto per vent'anni nel limbo, in quella terra di nessuno in cui gli avevano appiccicato una sinistra etichetta. Provvisoria ed eterna. Non avessero preso come nei romanzi gialli il maggiordomo, il filippino Manuel Winston, oggi Iacono avrebbe ancora sulle spalle il suo fardello. Non mostro dichiarato, ma terminale inevitabile di chiacchiere e veleni. La galleria degli infelici che hanno portato la croce in Italia è lunghissima: ecco Azouz, il tunisino, braccato subito dopo il massacro di Erba con tanto di proclami della procura: «L'assassino viaggia su un furgone bianco, sappiamo dov'è. È in fuga». In effetti in quelle ore la procura di Como rischia di prendere una cantonata storica. Poi entrano in scena Olindo e Rosa, Azouz passa dalla parte delle vittime. La giustizia aggiusta il tiro. Un copione che si ripete troppe volte. Mohamed Fikri viene fermato mentre è a bordo di una nave che fa rotta verso l'Africa. Lo acciuffano in mare aperto con un'azione che sembra una cartolina della vecchia pirateria. E invece è un blitz per catturare il mostro, altra parola non si può usare, che ha ucciso l'innocenza di Yara. C'è di mezzo una frase carpita dalle microspie che diventa un rompicapo per gli investigatori: «L'hanno uccisa davanti al cancello». Viene tradotta ora in un modo ora nell'altro, sedici volte. E alla fine alla lotteria del sistema penale, Fikri pesca la casella giusta. Altre volte è la sorte a scagionare il mostro: Filippo Pappalardi esce dalla scena della tragedia di Gravina quando un bambino cade nel buco in cui erano precipitati e spariti Ciccio e Tore. I figli di Pappalardi.

Io, arrestato preventivamente quattro volte e assolto dopo dieci anni: «La nascita di mio figlio mi ha salvato», scrive Francesco Amicone su “Tempi”. Antonio Lattanzi racconta l’errore giudiziario subito, un dramma per lui e per la sua famiglia. Ai carcerati «non una, non dieci, ma migliaia di volte passa l’idea di farla finita». Quella di Antonio Lattanzi è una delle tante storie che gettano luce sul malfunzionamento e sulle assurdità della giustizia in Italia. Pochi giorni dopo aver ottenuto il risarcimento dello Stato italiano per l’errore giudiziario subito, ha deciso di raccontarla sabato, all’incontro “Giustizia? Esperienze a confronto per una riforma“, organizzato da Tempi e Panorama e trasmesso da Radio Radicale. Nel 2002, Lattanzi, allora assessore comunale in un paese abruzzese, fu accusato di tentata concussione dalla Procura dell’Aquila e arrestato. Fu scarcerato dal Riesame «a causa della mancanza di gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari», ma il gip emise altre tre distinte ordinanze riportandolo in galera (ordinanze anch’esse in seguito annullate dal Riesame per le stessa motivazioni della prima). In pratica, «sono stato arrestato quattro volte», spiega Lattanzi: il gip lo metteva agli arresti, il Riesame annullava la carcerazione preventiva, il gip lo arrestava di nuovo. In questo modo, Lattanzi passò ottantatré giorni in carcere da innocente. «Immaginatevi voi essere arrestato davanti alla moglie. Davanti a due figli, che allora avevano quattro e due anni». Lattanzi ha rievocato durante l’incontro il suo imbarazzo di fronte ai bambini. «Ogni volta che uscivo da casa, prima degli arresti, li salutavo con un bacio. Per tre volte non li ho potuti baciare. Mi chiedevano dove stessi andando insieme ai carabinieri. Cosa avrei potuto dire?». La quarta ordinanza di custodia cautelare gli fu notificata in prigione il giorno prima dell’annullamento della terza. «Praticamente il gip mi diceva: “Devi stare in carcere, ammettere le tue colpe” (che non c’erano)». «Ottantatré giorni al cospetto di certe situazioni sono nulla», ha detto Lattanzi, alludendo a chi è stato per anni in carcere da innocente, ma sono comunque durissimi. Il dramma della carcerazione preventiva coinvolse non solo lui, ma tutta la famiglia. «Io e mia moglie perdevamo sempre più la forza di reagire». Quando si parlavano nella sala colloqui del carcere («intercettavano pure quelle parole», ricorda con rabbia Lattanzi), «lei diceva che stava abbastanza bene, io dicevo che stavo discretamente». In realtà «stavamo sprofondando». «Sapevamo tutte e due di fingere» ma era un tentativo di darsi la forza necessaria per scongiurare il peggio. Perché, spiega Lattanzi, «a chi sta in carcere non una, non dieci, ma migliaia di volte passa l’idea di farla finita». Quando le forze ormai stavano venendo meno, «per paura che non riuscissi a reagire, dissi a mia moglie: “Troviamo qualcosa, aggrappiamoci a qualcosa”». Così decisero di avere il terzo figlio: «Perché quando un domani ci fossimo girati a guardare il dramma passato non ne avremmo sofferto». «Ora c’è una vita nuova: Francesco». La sua nascita «è stata l’ancora di salvezza che ci ha impedito di naufragare». Lattanzi fu assolto in primo grado. Il pubblico ministero fece appello, chiedendo la prescrizione del reato. Benché potesse avvalersene, Lattanzi ricorse in Cassazione per avere una sentenza che lo scagionasse pienamente. E fu assolto. «Ho mantenuto la mia attività grazie al mio socio», spiega, «ma la gogna mediatica, l’onta di aver varcato la prigione non ce la si scrolla di dosso». Moltissimi perdono il lavoro», ricorda. «Io ho ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione, ma c’è qualcuno che neanche questo riesce a ottenere». «Per questo», conclude, «non solo bisogna riformare la giustizia, la custodia cautelare e far rispettare il referendum degli anni Ottanta che chiedeva la responsabilità civile dei giudici, bisognerebbe anche inserire le vittime degli errori giudiziari nelle categorie protette».

Mala Giustizia. 22300 errori giudiziari accertati ad oggi. I dati depositati presso il Ministero dell’Economia e Finanze e che pochi hanno il coraggio di denunciare, scrive Giovanni D'Agata. Un fenomeno di massa che ha fatto nascere associazioni, siti specializzati, blog e movimenti d’opinione perché ha riguardato e continua a riguardare milioni d’italiani e di cittadini residenti sul territorio nazionale. Parliamo degli errori giudiziari che nel corso degli anni hanno comportato esborsi milionari da parte dello Stato per gli indennizzi aventi valore riparatorio che sono stati concretamente versati. Anche se migliaia di vittime della malagiustizia non sono mai state risarcite perché, o non hanno fatto apposita richiesta, forse perché quasi mai l’indennizzo versato dallo Stato può riparare i danni che un errore può portare ad una vita e a quella dei propri cari, o perché le proprie istanze indennitarie sono state rigettate. E così sono passati oltre 24 anni dall’introduzione dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, ed oggi ciò che colpisce profondamente è il dato relativo al numero di persone rimasti vittime della giustizia dal Dopoguerra: oltre 5 milioni. Non si tratta solo di errori giudiziari o ingiuste detenzioni in senso stretto, quanto di uomini e donne finiti nelle maglie della giustizia e poi usciti assolti o prosciolti completamente. I dati precisi relativi agli individui per i quali è stato accertato che sono finiti ingiustamente in carcere, o hanno subito incolpevolmente una misura restrittiva ed ai quali è stato “concesso” l’indennizzo previsto dallo Stato, sono depositati presso l’Ufficio IX del Ministero dell’Economia e delle Finanze e fino ad oggi pochi sono andati a spulciarli e altrettanto pochi ne hanno denunciato le dimensioni. Sono circa 50 mila, infatti, i cittadini che hanno ricevuto il relativo indennizzo per una spesa complessiva che tocca quasi i 600 milioni di euro. Correva l’anno 1988 quando, finalmente, lo Stato si decise ad introdurre una misura che potesse almeno lenire le conseguenze di palesi ingiustizie: fu così creato l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione introducendo due specifici articoli il 314 ed il 315 nel codice di procedura penale. Le prime liquidazioni, però sono arrivate solo tre anni più tardi, ossia nel 1991 e contabilizzati nel 1992: nel periodo compreso tra il 91 ed oggi, a distanza di 22 anni, dunque, sono oltre 22 mila e 300, per la precisione 22.323, le persone per le quali è stata accertata l’ingiusta detenzione o un errore giudiziario per il quale è stato riconosciuto il relativo indennizzo. Secondo alcuni analisti, però le cifre sarebbero destinate più che a raddoppiare se si contano anche coloro che fanno richiesta del risarcimento che viene rigettata. Corrisponderebbero solo ad un terzo, al massimo due terzi, le domande che hanno un esito positivo. Anche il dato complessivo degli esborsi è esorbitante: oltre mezzo miliardo di euro. Tra riparazioni per ingiusta detenzione e indennizzi per gli errori giudiziari veri e propri (quelli cioè sanciti dopo un processo di revisione nei confronti di un condannato con sentenza definitiva, da cui quest’ultimo è stato dichiarato innocente), lo Stato ha sborsato dal 1991 (anno dei primi 5 casi di risarcimento contabilizzati) a oggi ben 575.698.145 euro. Quasi tutto (545.460.908) per risarcire le decine di migliaia di ingiuste detenzioni scontate da innocenti in carcere o agli arresti domiciliari. Basta scorrere gli anni gli nella tabella del ministero dell’Economia e delle Finanze per verificare che sono stati spesi oltre 56 milioni del 2004, 49 milioni e passa nel 2002, più di 47 milioni nel 2011. Il dato più basso riguarda il 1997 con un milione e mezzo di euro complessivamente registrati. Si tratta in media di circa 30 milioni di euro all’anno che sono stati prelevati dalle casse dello Stato per indennizzare le vittime d’ingiuste detenzioni e di errori giudiziari. Nella colonna degli importi pagati per errore giudiziario, per esempio, balza agli occhi come il 2012 sia stato l’anno in cui più si è speso per i soli errori (poco meno di 7 milioni di euro). Ciò che colpisce ulteriormente è però ciò che sta accadendo negli ultimi anni nei quali la famigerata spending review sta colpendo anche questo settore nel quale lo Stato dovrebbe farsi garante degli errori commessi a danno dei cittadini senza consentirsi alcun risparmio sulla pelle di chi ha sofferto e soffre. Fonti del Ministero dell’Economia e delle Finanze riferiscono che negli ultimi due anni, gli importi liquidati e le domande di risarcimento sono nettamente diminuiti quali conseguenza diretta della ridotta disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio, con ulteriore probabile effetto di una stretta nella valutazione delle istanze di risarcimento.

Nessuno si era mai preso la briga di contare le persone che, dall’introduzione dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, sono state coinvolte da episodi di malagiustizia, scrive “Affari Italiani”. Ebbene, secondo le stime raccolte, si parla di 50.000 persone. Senza dimenticare gli oltre 600 milioni di euro che sono stati spesi per rifondere le vittime di errori grossolani in sede giudiziaria. L’analisi, svolta dal sito errorigiudiziari.com, ha dimostrato senza possibilità di smentita la gravità della situazione e di come una giustizia “ingiusta” sia un gravissimo peso per un paese che cerca in ogni modo di ritrovare la via maestra. Il dato complessivo – riporta ancora Errorigiudiziari.com – lascia senza parole: circa 50 mila persone, per una spesa complessiva che sfiora i 600 milioni di euro. L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 agli artt. 314 e 315, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in soli 22 anni, dunque, oltre 22 mila e 300 persone sono state vittima di ingiusta detenzione o errore giudiziario vero e proprio. Come arriviamo allora alla soglia dei 50 mila? Semplice: perché non tutti coloro che fanno richiesta del risarcimento, vengono soddisfatti. Solo un terzo, al massimo due terzi delle domande (le fonti non concordano) vengono accolte e dunque liquidate. Ciò significa che il totale delle persone che avrebbero diritto all’indennizzo previsto per legge, sarebbero molte di più delle 22.323 fino a oggi soddisfatte: appunto, circa 50 mila. Pensateci: un numero enorme, uno stadio pieno, l’intera popolazione di una città come Ascoli Piceno o Chieti o Frosinone. Tra riparazioni per ingiusta detenzione e indennizzi per gli errori giudiziari veri e propri (quelli cioè sanciti dopo un processo di revisione nei confronti di un condannato con sentenza definitiva, da cui quest’ultimo è stato dichiarato innocente), lo Stato ha speso dal 1991 (anno dei primi 5 casi di risarcimento contabilizzati) a oggi ben 575.698.145 euro. Quasi tutto (545.460.908) per risarcire le decine di migliaia di ingiuste detenzioni scontate da innocenti in carcere o agli arresti domiciliari. Facendo una media grossolana, ogni anno dalle casse statali sono usciti 30 milioni di euro come indennizzo per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Con punte molto più elevate: come gli oltre 56 milioni del 2004, i 49 milioni e passa del 2002, i 47 milioni abbondanti del 2011. Il dato più basso si fece registrare nel 1997 (circa un milione e mezzo di euro, tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari). La tabella del ministero dell’Economia e delle Finanze è tutta da leggere: nella colonna degli importi pagati per errore giudiziario, per esempio, balza agli occhi come il 2012 sia stato l’anno in cui più si è speso per i soli errori (poco meno di 7 milioni di euro). Interessante notare un particolare. Negli ultimi due anni – conclude Errorigiudiziari.com –, gli importi liquidati e le domande di risarcimento sono nettamente diminuiti. Stato più virtuoso? Meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R. I. D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. Insomma: in tempi di spending review, la necessità di tagliare i fondi ha portato a una diminuzione di denaro a disposizione dei risarcimenti. E, con molta probabilità, anche a una stretta nella valutazione delle istanze di risarcimento.

AVETRANA. UN PAESE NORMALE.

Caso Sarah Scazzi: “Nel meridione hanno una predisposizione genetica per simili crimini". Continua il razzismo di Radio Padania, scrive Valerio Rizzo su “Info Oggi”. Un’altra pagina nera per l’Italia, un’ennesima ondata razzista che ha come trampolino di lancio la solita Radio Padania. Il Blog di Daniele Sensi  segnala i commenti di alcuni militanti leghisti che vedono nelle cause dell’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa ad Avetrana, le “predisposizione genetica” per compiere simili crimini. Infatti l’utente Iperboreo75 scrive (non hanno nemmeno il coraggio di identificarsi e si nascondono dietro l’anonimato): “un livello di ignoranza, di cultura sociale così sottosviluppato, di mentalità così cattiva porta a questi eventi”; oppure Maxx Ebn scrive: “condivido in pieno quello scritto da Iperboreo75 per la predisposizione genetica degli abitanti di certe regioni d’Italia”. Infine Pittix afferma: “a Sud ci sono più crimini passionali e i delitti avvengono in famiglia, noi del Nord invece siamo più miti, gentili e malinconici”. E’ dunque la pura esaltazione della razza! Anche se c’è da precisare che negli ultimi vent’anni i più efferati delitti sono avvenuti in località decisamente lontane dalle regioni del Sud: ad esempio Erba, Cogne e Novi Ligure, per citarne alcune. Ma soprattutto ancora una volta non c’è nessun moderatore della radio che “richiami all’ordine” i militanti o che almeno crei un contraddittorio, specialmente se il suo direttore, Matteo Salvini, diventa il segretario nazionale dei leghisti di questo stampo. Fa male leggere queste cose, il Metternich due secoli fa affermava che non esistevano gli italiani e che l’Italia era solamente una mera espressione geografica. Ancora oggi è purtroppo così! Esistono ancora gli stronzi ignoranti barbari.

Razzismo: sono meridionale ma..., scrive Vincenza Perilli su “Agora Vox”. Molti dei commenti giornalistici seguiti all'omicidio di una ragazzina di quindici anni pugnalata e poi bruciata viva dal suo fidanzato la scorsa settimana in Calabria, hanno portato alla ribalta la persistenza, in Italia, di tutta una serie di pregiudizi e stereotipi razzisti verso il Sud. Seppur denegata dal persistente mito secondo il quale "gli italiani non sono razzisti" infatti, esiste una storia del razzismo italiano, in cui uno spazio non trascurabile occupa - insieme all'antigiudaismo cattolico, antisemitismo e leggi razziali del '38, colonialismo - il razzismo antimeridionale. L'Italia infatti, quando giunge (in ritardo rispetto ad altri paesi europei) sullo scacchiere coloniale, può vantare già una lunga tradizione di “razzismo interno”, che aveva trovato il suo culmine nella cosiddetta “guerra al brigantaggio”, che come ci ricorda lo storico Angelo Del Boca “fu anche 'una guerra coloniale', che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito in Africa. Non fu forse il generale d'armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: 'Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele'?”. Questa storia ha lasciato le sue tracce. La cronaca degli ultimi anni è piena di episodi inquietanti, che testimoniano la persistenza di un immaginario razzista che si traduce in molteplici forme: dal ragazzino di origini napoletane angariato dai compagni di scuola in provincia di Treviso fino a meditare il suicidio, ai commenti che riconducevano l'omicido di Sarah Scazzi a una presunta "cultura meridionale", ad una delle campagne pubblicitarie dell’operatore telefonico Italiacom in cui alcuni uomini siciliani venivano rappresentati facendo ricorso ad alcuni dei classici stereotipi razzisti anti-meridionali... Ma nei commenti all'omicidio di Fabiana Luzzi è possibile cogliere un ulteriore aspetto: la maggioranza degli articoli sono scritti da persone, uomini e donne, che si dichiarano meridionali prima di prendere le distanze da una certa cultura, descritta di volta in volta come barbara, arretrata, oppressiva. Sembra quasi che il dichiararsi meridionali serva a testimoniare l'autenticità di quanto si afferma o forse ad allontanare ogni sospetto di razzismo. Per chi ha letto Fanon invece - e soprattutto le pagine che egli dedica ai meccanismi dell’oppressione e dell’alienazione degli oppressi, che "dipendono" in modo ambiguo e contraddittorio dai loro oppressori e in cui la dominazione è possibile solo se l’oppresso finisce per identificarsi con chi lo disumanizza, prendendo le distanze dagli altri colonizzati, credendo di "emanciparsi" -, questo aspetto acquista un senso inquietante.

Avetrana, la terra del rimorso che brucia diavoli e streghe. L'omicidio di una ragazzina, l'assedio delle tv, i veleni e i nuovi sospetti. Viaggio nel paese dove ha vissuto (ed è morta) Sarah Scazzi. Mai la crudeltà era stata così invadente. Mai un omicidio era diventato così tanto una colpa collettiva, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”.  Ogni giorno ad Avetrana bruciano un diavolo o una strega. All'uscita della scuola Morleo, oggi il fuoco tocca a Sabrina: "Le braccia e le mani! Avete visto in tv come le muoveva? Come se non fossero più sue". La signora Cosima parla ad un'altra signora che si chiama pure Cosima, e mentre parlano diventano persino brutte, somigliano a quei diavoli che vogliono cacciare ma che invece si portano dentro. E all'oratorio anche i ragazzi si scoprono razzisti verso i testimoni di Geova: "La mamma di Sarah, la signora Concetta, pensa più alla Bibbia che a Sarah. Qui ad Avetrana essere testimone di Geova è uno stile di vita, un modo di stare in società, come a Gallipoli iscriversi al club della vela". All'ufficio del Comune di Manduria la dottoressa Addolorata Palumbo, pediatra, racconta di "quel rapporto diabolico che nella campagne della nostra Puglia c'è tra padri e figlie: non so se è amore, io credo che si avvelenano a vicenda". Al bar Centrale una folla di vecchi aspetta il collegamento in diretta di "Studio aperto" che inquadra la casa degli orrori, sul tavolo birra e lupini; di fronte, nella Cartolibreria Marcucci, in vetrina c'è un libro della Newton Compton, di Mastronardi e Villanova: "Madri assassine". Mai l'atrocità e la crudeltà e l'orrore erano stati così invadenti, mai un delitto, a partire dal modo oscenamente televisivo in cui è stato scoperto, era riuscito a diventare sino a questo punto colpa collettiva e inespiabile. Il preside Bruno Leo, una bella faccia laica, ricorda manzonianamente "la funesta docilità" e la feroce passione dei linciaggi e si rifiuta di passare sia davanti alla casa dove Sarah abitava sia davanti alla casa della famiglia assassina: "Ci vada da solo, se vuole". All'improvviso è colto da un disagio che forse - penso - è coraggio civile. Perciò ferma l'auto. Con noi c'è pure il professore Tommaso Nigro, che ha insegnato italiano anche a Sarah. "Lasciamo perdere" mi dice infastidito dalla propria emozione: "Arrivano dalla capitale come stormi di corvi, come stormi di morte. In Italia i linciaggi li fa la televisione". Eppure è qui che gli altri avetranesi vanno, perché è qui che si tengono le udienze del teleprocesso quotidiano a tutti i diavoli di Avetrana, che vuol dire "città dei veterani", città dei vecchi soldati in riposo, dei reduci, settemila abitanti, due chiese, niente uomini illustri, niente parlamentari. Mi presentano un ragazzo che studia Diritto a Bari, si chiama Angelo, era stato alla scuola elementare con il fratello di Sarah, Claudio, che ora fa il postino a Milano: "I delitti premeditati sono quelli che non si commettono". Eccone un altro che vuole avere ragione di un delitto fuori della ragione. Prevede che nessuno saprà mai veramente come è andata, "ci saranno tante verità, il solito gioco dell'apparire contro l'essere", il padre contro la figlia e viceversa, la sorella contro la sorella, gli zii contro la nipote. "Pensi - mi racconta don Dario - che Concetta, la mamma di Sarah, è stata adottata da un zio, una guardia campestre che si chiamava Spagnolo ed era detto "Speranza"". Lo zio, mi vuole forse dire, in questo mondo di caratteri forti è il padre reale che si affianca al padre naturale. E invece qui saltano tutti gli avamposti della famiglia tradizionale: non più familismo amorale ma familismo immorale. E non si tratta di un'eccezione ma, se mai, di un caso limite. Basta leggere le statistiche sulle violenze alle donne e ai bambini nella famiglia italiana, soprattutto nelle campagne e non solo al Sud. Eppure quando il cadavere di Sarah non era ancora stato trovato, i vicini, i reporter, i blog dicevano che la famiglia Misseri era una buona famiglia, che la moglie Cosima e le figlie Sabrina e Valentina, che vive a Roma dove ha sposato un portinaio, avevano salvato Michele da una naturale malinconia, che "si amavano di un amore fatto di silenzi". In un primo tempo dunque la villetta che Michele aveva comprato con i soldi guadagnati in Germania era come un pianeta di pochi ettari, solitario e protetto, un frammento di felicità familiare staccato dal mondo. E i vicini insistevano sulla privacy che Misseri aveva difeso con grande dignità in questo piccolo paese dove tutti conoscono tutti, e non solo perché tutti si spiano. Una sola volta don Dario era stato invitato a bere un caffè in casa e Sabrina gli era parsa paffuta e vivace, ricca di ingegno e di sentimento. Ma poi ha cambiato faccia Misseri, l'assassino, che non è stato sempre un diavolo, e anzi per Giuseppe, il vicino di casa, la sua indole che oggi è "oscura e malata" allora era "riservata e lunatica". E subito una vicina ricordò di averli sentiti litigare. Dunque Michele è diventato rude e forse beveva e forse segretamente abusava della figlia. Ma altri dicono che invece no, non è così. Erano madre e figlia che lo dominavano, ne controllavano le pulsioni sessuali e allora la faccia di Michele cambia di nuovo, malato sì ma vittima, schiavo di una dispotica tirannia femminile, arcaico e prelogico, che è poi la linea degli avvocati difensori, la linea dell'autodistruzione e della follia. Non succede spesso, neppure in questi territori dell'incesto contadino, che padre e figlia si dividano in modo così violento. Certo, sono situazioni limite ma serviranno per capire come si consuma il distacco che è vero perché avviene tra cose che sono veramente attaccate, spaccatura interna, strazio. Sabrina-Michele saranno oggetto di studio, è probabile che Sabrina scriva le sue memorie, ubriaca di televisione, anzi "tarantolata" di vanità mediatica com'è. Mi dice il preside: "E senza l'eco di pietà, di misericordia, se non, astrattamente, solo per la morta che comunque è già dimenticata. Ho chiesto a don Dario, il parroco che ha officiato il funerale, se pensa di farne un'altra Santa Maria Goretti". Ebbene "è una cosa delicata" ha risposto don Dario. E speriamo che l'acqua benedetta non sia olio sul fuoco perché sempre, quando si arriva al dessert della ragione, ci si rifugia nel santino, nella tonaca, e anche la croce diventa un amuleto. È dunque qui che abitava Sarah, in quest'anonima casetta di periferia, queste erano le scale che saliva e scendeva ogni giorno e questa era l'atmosfera modesta che le rimaneva incollata ai vestiti quando andava in giro con la cugina Sabrina, che forse l'ha uccisa, e con Mariangela, l'amica che ora accusa Sabrina. Persino al supermercato "Tutto a mille" gli animi si accendono contro Sabrina, la strega di turno: "Concetta l'affidava alla cugina di 22 anni. Sette anni di differenza: era come una seconda mamma". Ma il confronto con quelle ragazzone larghe ed eccessive rendeva Sarah più piccola dei suoi 15 anni, "un soldo di cacio di quaranta chili, un metro e cinquanta, e malgrado tutta la buona volontà che ci metteva per rendersi attraente, parlava pochissimo, proprio come lo zio che prima l'ha uccisa e poi forse l'ha violentata". Sullo zio, la piccola folla del supermercato ricorda solo le brevi frasi piene e rare e poi il silenzio, inteso come categoria dello spirito: "suoni gutturali che somigliano a benevoli grugniti, mezzi sorrisi, monosillabi di circostanza", la parola come spreco. Certamente questa gente che somiglia agli olivi saraceni del Salento ha qualcosa di nodoso e solitario, uomini e donne che hanno dietro le spalle generazioni di mutismo, l'infanzia trascorsa in un mondo che proclama l'inutilità della parola. Mi dice il mio amico preside: "Dire niente in maniera incomprensibile è probabilmente un esercizio troppo diffuso. Ma riesce difficile accettare l'antidoto del dire niente per essere compresi". Dunque vado da solo anche davanti alla casa della morte. È qui che Sarah muore e rimuore, tra rumori di auto, rombi di moto, riflettori puntati su una porta, e poi noi giornalisti, "giornalisti cannibali e sparvieri, ma anche poveracci" sta scritto con lo spray nero sul muro che circonda la fabbrica del tonno Torre Colimena, l'industria più moderna, la perla del signor Scarciglia detto Meazza. È sera e sta piovendo. Assisto all'intervista che Enrico Lucci delle "Iene" fa a Giuseppe, il vicino di casa: "Lei è d'accordo con la tesi di Crepet o con quella di Morelli? Non mi dica che non li ha visti da Vespa?". E lo sventurato risponde: "Io ho una mia tesi, e l'ho scritta in una lettera". A chi l'ha spedita? "La darò a qualcuno di voi, a qualcuno della televisione". Mi faccio forza e abbordo anche io i vicini. A fatica le strappo il nome: Lucia. È alta, magra, bruna, è stata bella. Mi guarda e, con gli occhi, mi fa capire che lei non se la beve, che non crede al rito dell'informazione, ma poi si lascia andare tra sentimento e risentimento: "Misseri era silenzioso, è vero, lavorava la terra e lo chiamavano "ciucciu di fatica", ma secondo lei la riservatezza e il lavoro sono indizi d'accusa o di difesa? Un contadino tutto terra e famiglia è un selvaggio o un poeta?". Vado al cimitero dove la tomba è un letto di fiori e di angeli di ceramica, c'è una donna in raccoglimento, chissà se prega. Mi avvicino: parente? Risponde: "Per carità!". Può dirmi il suo nome?. "No. Sono stata una maestra di Sarah. Ma non ho nulla da dire perché non c'è niente da dire. Mi creda". Don Dario, che pure al funerale ha invocato la giustizia di Dio e la vergogna degli uomini, non vuole che al rogo finisca l'intera Avetrana: "Ogni volta che accade un delitto in un posto si finisce con il dire che il vero colpevole è il posto". È possibile che per un'adolescente non sia particolarmente piacevole vivere ad Avetrana, ed è ovvio che un povero abbia meno opportunità e sia più tentato dal crimine di un ricco "ma è insopportabile questa spocchia saputella che fa di Avetrana l'inferno nelle caverne". E però - gli dico - occorre che ci sia il diavolo perché l'acqua santa sia santa. Risponde: "Lo scriva che qui non ci sono cinema né discoteche. Ma non dimentichi di aggiungere "per grazia di Dio"". Don Dario racconta che Sarah non era battezzata perché la madre è appunto testimone di Geova: "Ma la ragazza voleva farsi cattolica. Non avrei permesso il funerale cattolico se non avessi consegnato alla Santa Sede la certificazione di quello che dico". Certificazione? "Testimonianze scritte e firmate". La mamma al funerale non c'era. "Sì, ma alla fine è venuta. Ha capito che la Chiesa si era fatta madre". Vado a trovare Mimmo Scalzo, detto "il vescovo" perché tra i testimoni di Geova di Avetrana è quello con lo stato di anzianità più lungo. E ho subito la sorpresa di trovare un imprenditore che potrebbe stare a Firenze o a Berlino, bella la casa e bella la famiglia, due figli, un ristorante che però "in questi giorni di folla non ho voluto aprire perché non voglio speculare sulla morte di Sarah, sul dolore di Concetta". Paradossalmente in un posto così marginale i Testimoni di Geova sono una possibile, incredibile risposta illuminista alla miseria culturale. Dice Scalzo: "No. Sarah non era testimone di Geova. Mi permetta di aggiungere che, se lo fosse stata, forse non sarebbe finita in quell'inferno, in quella gabbia mentale dove l'hanno rinchiusa zii e cugina". Questa è la terra degli studi sui tarantolati, la zona della magia, e sulla strada statale che attraversa i mille paesini tutti uguali ci sono ancora molti centri di devozione, tollerati anche se non ufficialmente riconosciuti dalla chiesa, come la statuetta di gesso di san Cosimo, vicino Manduria, e la madonna vestita di bianco che appare il 23 di ogni mese, ma solo una signora del posto può vederla. La religione e il sacrificio di una bambina, il mistero delle donne, tutte queste facce strane, il sordido e il magico sono gli stessi ingredienti del film di Sergio Rubini, "La terra", con Fabrizio Bentivoglio e Claudia Gerini, ambientato nella medievale Mesagne, a 20 chilometri da Avetrana. E proprio qui, nell'entroterra salentino, Ernesto De Martino scoprì la crisi della ragione, la superstizione, i residui preilluministici, la morte e il pianto.... "Mancava solo la sconcezza della televisione" mi dice il preside. Da Avetrana in poi la tv entrerà per sempre nel pasticcio meridionale. In sé non è colpevole e non è innocente, ma, avamposto della modernità nella selvatichezza di tutte le Avetrana d'Italia, ha sostituito la magia come risposta alla deiezione dell'essere, all'angoscia della marginalità: la televisione come doping, la televisione è la nuova "terra del rimorso".

Viaggio nel paese di Sarah. Un paese normale. Prima che si accendesse il Grande fratello dell'orrore di Nino Ciravegna su “Il Sole 24 ore”. Ad Avetrana facevano magliette e abbigliamento di fascia bassa, una manciata di aziende, qualche centinaia di dipendenti e altrettante casalinghe a cucire per i conto terzisti, senza orari, contributi e guadagni adeguati. Poi, qualche anno fa il made in China ha spazzato via tutto. Ad Avetrana hanno piantato ulivi ovunque, quasi mezzo milione di piante. Si guadagnava fino a quando le olive di Marocco, Tunisia, Algeria hanno invaso la Ue attraverso la Spagna. I prezzi sono crollati. E molti olivicoltori risparmiano nell'unico modo possibile: non raccolgono le olive, niente potature, i braccianti a casa. La globalizzazione vista da Avetrana,il paese pugliese catapultato nel circo mediatico per il dramma di Sarah Scazzi, ha la faccia feroce che stravolge un'economia fragile. Mazzate che vanno ad aggiungersi al ridimensionamento dei fondi statali ed europei. L'emigrazione è ripartita, i giovani non hanno prospettive. Avetrana è in drammatica crisi. Una parte degli abitanti, minima, non ha trovato di meglio che cadenzare la giornata seguendo i palinsesti delle trasmissioni in diretta, una sorta di Grande fratello dell'orrore. Dal benzinaio, dai barbieri e nei bar non si parla d'altro, molti si sono improvvisati investigatori, ognuno ha la sua versione e i suoi sospetti. Ma larga parte degli avetranesi si è sentita offesa nelle descrizioni mediatiche del paese. E mal sopporta i turisti dell'orrore che vagolano tra la casa di Sarah e la cantina-garage dello zio Michele. Una scritta sul muro, per una volta non atto vandalico, sintetizza l'esistente: «Questo non è Holliwood». Il circo mediatico abbandonerà Avetrana, lasciando in crisi di astinenza improvvisate comparse e aspiranti intervistandi, i furgoni con le antenne per le dirette tv andranno a ravanare spazzatura altrove, negli studios i soliti tuttologi cambieranno cappello per spiegare psicologie e dinamiche di altri casi. Avetrana resterà con i suoi problemi. Tanti. Le case sono tenute bene, in un confuso reticolo senza piano regolatore, la delinquenza è limitata a sporadici furti, la criminalità organizzata è assente. I cafoni, è ovvio, ci sono, lo vedi anche dal cartello appeso al distributore delle sigarette: «I signori clienti sono pregati di non tirare calci e pugni alla macchinetta». I prezzi sono bassi, orate a 6 euro al chilo, una villetta a schiera costa 115mila euro. Molte associazioni di volontariato dicono che il paese non si è sfaldato. In questi giorni i tre vigili urbani hanno potuto contare sulla cinquantina di volontari della Protezione civile. Ci sono volontari per visite guidate e mostre culturali. E tanto sport. Don Dario De Stefano, da otto anni alla parrocchia del Sacro Cuore, ne è sicuro: «Ho iniziato il mio sacerdozio nella periferia romana, poi sono stato in centri pugliesi più grandi, posso fare il paragone. Il tessuto di Avetrana resiste: le famiglie seguono i ragazzi e il volontariato è vivo. Non siamo villaggio da terzo mondo o terra del nulla». L'ottimismo della fede è forte, la provincia italiana ci ha abituati a miracoli di resistenza e arte di arrangiarsi. La strada di Avetrana non è terra di nessuno, ma di confine sì. È in Puglia, regione di confine, è al limite della provincia di Taranto. Il dialetto è vicino al leccese con influenze brindisine e tarantine. Terra di confine anche per il gap generazionale, giovani e vecchi vivono quasi mondi separati. Nel paese ci sono 238 laureati e, secondo le rilevazioni Istat, 364 analfabeti, di cui un centinaio con meno di 65 anni. Ci sono 1.146 diplomati e 996 risultano senza titolo di studio. Laureati e diplomati vedono il mondo attraverso internet e la tv, leggono poco: le cinque edicole vendono 62 quotidiani al giorno, saliti a 151 in questi giorni. I giovani non sanno capacitarsi alla vita senza prospettive. Molti emigrano. In paese ci sono 7.117 abitanti, nel 1991 erano 8.600. In realtà ci vivono in poco meno di 5.500, gli altri sono a lavorare al Nord, soprattutto i giovani diplomati o laureati. Ci sono anche una quarantina di extracomunitari, per lo più dell'Europa dell'Est, così sfigati da cercare fortuna in un posto che ha poco da dare. Avetrana è vicina al Salento, ma non ha sfruttato il boom delle masserie di lusso, è a pochi chilometri dal mare, ma non ha un metro di spiaggia, i turisti affollano Porto Cesareo. Settemila abitanti, 73 chilometri quadrati, con uliveti e poco altro. Alle scuole superiori si va a Manduria o a Lecce, all'università a Roma o Milano, da qualche anno anche nella capitale salentina, pochissimi a Bari. La multisala più vicina si trova a Nardò, 32 chilometri. Discoteche idem, Nardò o Lecce. Non c'è ospedale o ricovero per anziani, per prendere il treno delle ferrovie devi andare a Erchie, a dieci chilometri. C'è l'autobus per Taranto, un'ora e mezzo abbondante per 50 chilometri. La diocesi è quella di Oria, nel Brindisino, il protettore è San Biagio, per le feste patronali si fanno prestare le reliquie del martire dal santuario di Maratea. Redditi da fascia povera. I guadagni stentano, il reddito medio del 2008 è stato di 6.126 euro, il più basso della disastrata provincia di Taranto (sono 9mila e rotti in Puglia). Le dichiarazioni fiscali sono poche, al fisco risultano sei "paperoni" che hanno dichiarato oltre centomila euro d'imponibile (probabilmente proprietari di grandi tenute e di una manciata di masserie trasformate in strutture ricettive), 34 "ricchi" in una fascia compresa tra i 50 e i centomila euro, la gran parte dei contribuenti è sotto i 10mila euro. Internet per pochi. Su 2.660 famiglie ci sono 2mila linee telefoniche fisse (il 10% è per negozi, imprese e studi professionali), sei telefoni pubblici e meno di 500 connessioni Adsl: se togliamo pubblica amministrazione, associazioni e aziende, internet è in una famiglia su dieci. Non a caso Sarah andava in biblioteca per navigare su Facebook. In compenso i cellulari sembrano diffusissimi (anche se la copertura non è delle migliori), puoi fare le ricariche in bar, tabaccherie, ricevitorie del lotto e negozi. Secondo i dati, 800 famiglie non hanno l'apparecchio tv, ma su questo pesa l'evasione del canone Rai. Tanti ulivi, le olive restano sull'albero. Avetrana è il comune d'Italia con la maggior parte del territorio piantato a uliveto, 50 chilometri quadrati su 73. Nicola Spagnuolo, presidente della Cia per il comprensorio, fa conti rapidi: «Un bravo bracciante raccoglie fino a quattro quintali di olive al giorno, mi costa 40 euro cui devo aggiungere 26 euro di contributi, poi devo affrontare le spese di molitura e trasporto, altri 12-15 euro di costi. Per quei quattro quintali incasso 60 euro, le olive sono quotate 15 centesimi al chilo, che non bastano neanche per pagare il bracciante, senza contare le spese sostenute per arature, diserbi e potature». Nel 2009 Spagnuolo non ha raccolto; quest'anno saranno molti di più a lasciare le olive sugli alberi. E lancia l'allarme: «Tremonti a inizio estate ha negato la proroga della fiscalizzazione degli oneri contributivi, da 11-12 euro sono passati a 26, per un trattorista si arriva a 30 euro al giorno. Una situazione insostenibile, scenderemo in piazza, Avetrana è stato il primo paese a bloccare le strade negli anni 90 per protestare contro la politica Ue». Gli espianti delle vigne. Un migliaio di ettari sono coltivati a vitigno. Il Primitivo è di recente scoperta, valorizzato dai grandi sommelier, vendite e qualità sono in crescita. Ma i prezzi delle uve avetrane, usate spesso per tagliare i vini del Nord, calano e molti proprietari stanno espiantando i vigneti. Non ce la possono fare le 850 aziende agricole del paese, anche se molti agricoltori fanno parte del registro camerale solo per avere la benzina agricola agevolata. Secondo stime, che nessuno conferma, sono meno di 350 le imprese agricole vere. Il tufo abbandonato. Avetrana ha vissuto un periodo favorevole negli anni 60 con le cave di tufo. Erano decine, hanno perforato e crivellato tutto il possibile, ora ne sono rimaste pochissime, perché il tufo è bello, ma assorbe l'umidità. Welfare a larga diffusione. L'Inps è probabilmente la principale fonte di incassi ad Avetrana. Ai settemila abitanti eroga 1.114 pensioni di vecchiaia e 393 di reversibilità. Paga 421 assegni d'invalidità, 194 indennità d'accompagnamento, sostiene 708 disoccupati dell'agricoltura e 120 senza lavoro degli altri settori, più una cinquantina di pensioni sociali e assegni vari. Le indennità per i cassintegrati sono a parte, ma non sono disponibili dati disaggregati. Gli under 50 sono 4.571: contando che molti assegni si possono cumulare, si può stimare che una metà abbondante degli avetranesi con più di 50 anni passa ogni mese dall'Inps per l'incasso. Risparmi lontani dalla finanza. Lavoro e redditi sono quello che sono, gli assegni Inps non arricchiscono, ma gli avetranesi sono risparmiosi, non si fanno tentare dalla finanza. Nel paese ci sono due sportelli bancari, quello della Popolare pugliese e quello del vero leader di mercato, la Banca di credito cooperativo di Avetrana, fondata nel 1957. Il presidente Michele Pignatelli elenca i risultati del bilancio 2009: sui conti correnti sono depositati 90 milioni, i risparmiatori hanno 8,6 milioni di obbligazioni, 38 milioni sono stati prestati per mutui ipotecari. Le "attività deteriorate", come sofferenze e incagli, sono limitate a 2,4 milioni. Partiti effervescenti e litigiosi. La sede del Pd è in piazza Giovanni XXIII, sulla bacheca c'è un cartello sulla scomparsa di Sarah e l'avviso che il pullman per la manifestazione nazionale della Fiom (sabato scorso) parte alle 4,30. Vicino c'è il ritrovo dell'Udc, e, in disuso, la sede di Alleanza nazionale. A pochi passi c'è il Pdl, Sinistra & libertà, che ha promosso l'autoriduzione delle bollette del gas, più avanti La fabbrica di Nichi (Vendola). La sera, prima di cena le sedi sono affollate, scontri verbali tra i gruppi mentre sulle panchine i braccianti aspettano una chiamata per il giorno dopo. Una partecipazione forte, sconosciuta nelle grandi città. I temi non mancano: il Pd accusa la giunta di centro-destra di avere accumulato un deficit extrabilancio di 500mila euro per lavori senza gare d'appalto, il Pdl ribatte che i comunisti vogliono frenare lo sviluppo appigliandosi alla forma. C'è da ristrutturare il cimitero e costruire il depuratore: la maggioranza si oppone al progetto regionale che prevede di versare in mare le acque chiarificate, vuole utilizzare una vasca mai entrata in funzione per riutilizzare le acque in agricoltura. La guerra delle spiagge. Il leit motiv di Avetrana è uno: lo sviluppo è nel turismo. Da metà anni 90 il consiglio comunale pressa la regione per entrare in possesso di 6 chilometri di spiaggia, strappandoli a Manduria (che ne ha 18 in totale). Si tratta di una zona senza servizi essenziali - dicono - abitata per lo più da avetranesi, perché non possiamo sfruttarla noi? La regione non ha mai risposto, ora il Tar le ha imposto di dare una risposta motivata entro 90 giorni. Niente solare, manca la linea. La Puglia è piena di parchi eolici e solari, ad Avetrana neanche uno: la linea ad alta tensione per assorbire l'energia rinnovabile è lontana. Un proprietario terriero era pronto a investire 1,6 milioni per produrre un megawatt e mezzo su quattro ettari di terreno. Ma ha desistito quando ha scoperto di dover spendere 600mila euro per allacciarsi alla linea dell'Enel, distante chilometri, perdendo ogni minima redditività. Quei capannoni nella zona industriale. In periferia un cartello indica la zona che andrebbe definita artigianale: nove capannoni, di cui due chiusi, quattro in costruzione, un centro vendita. C'è chi taglia pietre e marmi, chi produce serramenti. Francesco Scarciglia, proprietario di un apprezzato ristorante a Torre Colimena, paesino sul mare a pochi chilometri da Avetrana, lavora il tonno. «Lavoriamo in 12, utilizziamo solo il tonno che peschiamo con la nostra barca o quello della cooperativa Pescatori di Porto Cesareo, che ha 160 soci e 70 barche. La nostra è una scommessa, vogliamo vedere se il mercato apprezza la qualità oppure guarda solo al prezzo». Una tonnellata di prodotto l'anno, vasetti che costano 4-5 euro, più del doppio delle normali lattine: «Il nostro è un tonno a chilometro zero, pescato nello Ionio e subito lavorato. Gli altri fanno più chilometri da morti che nuotando, pescati in qualche oceano, lavorati in Thailandia e venduti da noi». Il proprietario del Tonno Colimena è ottimista: «Abbiamo cominciato con il mercato locale, ora puntiamo su Roma e Milano. Lavoriamo con il freno tirato, ma se le cose vanno nel modo giusto siamo attrezzati per arrivare a 30 dipendenti». Calcio femminile all'oratorio. Avetrana ha due parrocchie, San Giovanni Battista e la più recente, dedicata al Sacro Cuore. E due oratori. Belli, grandi e attrezzati, veri punti di riferimento per giovani e ragazzi. Unici punti di aggregazione, 360 ragazzi e giovani tesserati, più una nutrita squadra di educatori e allenatori. C'è la squadra, Sant'Antonio Avetrana, che milita nel campionato di seconda categoria, domenica scorsa è finita 0-0 contro l'Imperial Francavilla nella giornata dedicata al ricordo di Sarah. Gli oratori hanno sale giochi, campi di calcetto per i piccoli, team di calcio femminile, basket, pallavolo, financo corsi di sepak taraw, un nuovo sport che incrocia calcio e pallavolo. E poi laboratori artistici, corsi di chitarra e di tecniche recitative. «L'oratorio - spiega don Dario - si occupa del tempo libero, ma anche e soprattutto della formazione, con corsi per ragazzi e adolescenti. Per i più grandi organizziamo incontri di gruppo ma anche dialoghi personalizzati per andare a fondo dei problemi: quando uno ha un problema, la prima porta che bussa è quella della parrocchia».

IL CASO DI AVETRANA.

Un viaggio senza ritorno: il caso di Avetrana, è il titolo del reportage di Sara Di Bisceglie su “La Gazzetta Di Lucca. Il fatto che il turismo dell’orrore stia prendendo sempre più campo è piuttosto evidente soprattutto dalle ultime tragedie italiane. In particolare l’omicidio della piccola Sarah Scazzi ad Avetrana, Taranto, ha suscitato la curiosità di molti tanto da essere uno degli argomenti cult italiani e da aver attivato un nuovo flusso turistico. Il 26 agosto 2010 la mamma Concetta Serrano denuncia la scomparsa della quindicenne, la quale sembra sparita nel nulla. Sarah è uscita di casa quel pomeriggio alle 14.30 per raggiungere la casa della cugina Sabrina, distante dalla sua solo poche centinaia di metri. Sarebbe dovuta andare al mare con lei e un’altra amica, ma da quel momento si perdono le sue tracce. Inizialmente le indagini della polizia sono orientate sull’ipotesi di una fuga volontaria della ragazza e a sostenere questa teoria è soprattutto Sabrina, mentre la mamma di Sarah è convinta che si tratti di un rapimento. Dopo circa un mese di ricerche, il 29 settembre viene ritrovato il cellulare di Sarah in un campo vicino la sua abitazione. A ritrovarlo è lo zio di Sarah, Michele Misseri, nonché padre di Sabrina, e questo contribuisce ad alimentare alcuni sospetti che già gli inquirenti hanno nei suoi confronti. Il 6 ottobre, però, durante un interrogatorio durato più di nove ore, Misseri confessa di aver ucciso la nipote strangolandola nel suo garage con una cordicella mentre lei era di spalle e di aver abusato di lei dopo che era morta. La notizia della morte e del ritrovamento del cadavere di Sarah in un pozzo di campagna viene comunicato ai familiari in diretta TV dalla trasmissione Chi l’ha visto?. Nei giorni successivi Misseri modifica la confessione iniziale più volte, fornendo diverse versioni contraddittorie tra loro fino a che dichiara ai magistrati il coinvolgimento nell’omicidio della figlia Sabrina, colpevole di aver attirato Sarah nel garage e di averla mantenuta mentre lui la strangolava. Sabrina, dunque, viene posta in stato di fermo dal GIP di Taranto con l’accusa di sequestro di persona e concorso in omicidio. Al principio il movente di Sabrina viene individuato nella volontà di impedire a Sarah di denunciare le molestie sessuali subite dallo zio, ma successivamente viene presa in considerazione come possibile movente la gelosia di Sabrina nei confronti del rapporto di amicizia tra sua cugina e Ivano Russo, un ventenne del quale Sabrina è innamorata e da cui viene respinta. Dopo l’autopsia eseguita sul corpo di Sarah attraverso cui non viene confermato l’abuso da parte dello zio, Misseri cambia nuovamente la versione dei fatti accusando la figlia dell’omicidio e di averlo coinvolto solamente nell’occultamento del cadavere. A febbraio 2011 vengono arrestati in custodia cautelare anche il fratello e il nipote di Michele Misseri con l’accusa di concorso in soppressione di cadavere, ma questi vengono scarcerati circa un mese dopo per mancanza di prove. Il 26 maggio 2011, invece, viene arrestata Cosima Serrano, moglie di Misseri e madre di Sabrina, accusata di concorso in omicidio. Decisivo per il suo arresto è la testimonianza di un fioraio di Avetrana, Giovanni Buccolieri, il quale racconta di aver visto Cosima il pomeriggio del 26 Agosto 2010 imporre a Sarah di salire sulla sua auto. Cinque giorni dopo l’arresto di Cosima Serrano, Michele Misseri viene scarcerato poiché scaduti i termini della custodia cautelare per il reato di soppressione di cadavere. Le indagini preliminari si sono concluse il 1 luglio con l’accusa del reato di omicidio per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, le quali verranno processate nel tribunale di Taranto. Le due imputate continuano a dichiararsi innocenti, mentre Michele Misseri si proclama unico colpevole e responsabile dell’omicidio accusando nel frattempo il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la sua ex consulente Roberta Bruzzone di averlo indotto, tramite minacce, ad incolpare ingiustamente sua figlia. Le dichiarazioni di Misseri non vengono ritenute valide in quanto egli non fornisce nessuna ricostruzione dei fatti. In seguito a questa vicenda si stanno prendendo in considerazione due ipotesi: la prima è quella di procedere contro Michele Misseri per calunnia nei confronti dell’avvocato e della consulente e nei confronti di Misseri stesso; la seconda è di indagare nuovamente su Michele per concorso in omicidio, prendendo per buone le dichiarazioni auto accusatorie e rivalutando inevitabilmente la posizione della moglie Cosima Serrano e della figlia Sabrina.

L’influenza mediatica e il fenomeno turistico. L’attenzione che i media hanno rivolto all’omicidio di Avetrana, sin dai primi sviluppi della vicenda ovvero dalla scomparsa della ragazza, è stata parallela all’interesse del pubblico. A dare il via a questo coinvolgimento mediatico e di conseguenza degli spettatori è la comunicazione in diretta televisiva alla famiglia Scazzi del ritrovamento del corpo di Sarah.  Successivamente l’attenzione si concentra attraverso Internet sulla vita privata di Sarah, analizzando il suo profilo di Facebook e addirittura pubblicando in rete parti del suo diario segreto e sms scambiati tra sua cugina Sabrina e l’amico Ivano Russo. Poi, seguendo di pari passo le indagini e gli sviluppi giudiziari, c’è stato un proliferare di servizi giornalistici e televisivi che hanno messo letteralmente sotto assedio una famiglia e un’intera cittadina, fino ad allora entrambe estranee alla fama mediatica. Accade così che il delitto diventa un argomento di discussione di talk show su tutti i programmi tv. I cronisti si mescolano tra criminologi e inquirenti, gli studi televisivi diventano aule di tribunale dove si cercano prove, si formulano ipotesi e si traccia il profilo del presunto colpevole. La televisione e i giornali vengono utilizzati per informare sui fatti, ma anche per depistare le prove e addirittura fornirne di nuove. Il delitto comincia a prendere, dunque, quasi la forma di una fiction: la madre che nasconde le sue lacrime in diretta tv, il fratello di Sarah ospite in numerose trasmissioni televisive, lo zio Michele con le sue molteplici versioni dell’omicidio e le frequenti interviste quasi come fosse una star. Tutti diventano perciò interpreti protagonisti di una vicenda che ormai è entrata in un terribile circuito mediatico, ha coinvolto totalmente l’opinione pubblica e sta sfociando in un tremendo atto di sciacallaggio: tutti pronti a parlare e a trasmettere l’orrore, a mostrare i particolari morbosi e macabri del delitto, ad invadere la vita di una famiglia che vive una tragedia ancora irrisolta.

Questo fervore da parte dei mezzi di comunicazione si è trasformato in pubblicità, la quale ha dato vita alle famose gite dell’orrore. Si è parlato tanto di turisti provenienti da tutta Italia che preferivano trascorrere i loro fine settimana ad Avetrana piuttosto che recarsi al mare o in montagna; di viaggi in autobus organizzati da agenzie calabresi e pugliesi con tanto di tour all inclusive dei luoghi del delitto; di una folla di curiosi che non vedeva l’ora di raggiungere personalmente via Deledda, sbirciare attraverso il cancello di casa Misseri, fermarsi davanti al garage per scattare una foto ricordo, percorrere la strada che la vittima ha intrapreso prima di essere uccisa e visitare il pozzo dove è stato ritrovato il corpo di Sarah. Questo caotico turismo dell’orrore descritto, e quindi alimentato, da giornali e tv non ha sempre rispecchiato la verità avetranese. Prima di tutto non è vero che il paese pugliese non è mai stato una meta turistica prima del fatto di omicidio, come è stato spesso dichiarato dai media: negli ultimi dieci anni, infatti, Avetrana ha avuto un notevole incremento turistico grazie alla sua vicinanza al mare e alle maggiori città del Salento e quindi, per far fronte alla crescente domanda, sono stata create piccole strutture ricettive. In secondo luogo Avetrana è stata sommersa dal disordine scatenato dal turismo nero solamente in tre situazioni precise: la prima subito dopo il ritrovamento del cadavere, quando curiosi provenienti soprattutto dai paesi limitrofi si recavano nella campagna di Manduria ad osservare il famoso pozzo dell’orrore; la seconda corrispondente alla scarcerazione di Misseri, quando i curiosi facevano visita alla sua villetta; l’ultima un anno dopo il ritrovamento del corpo, durante la celebrazione commemorativa di Sarah, quando numerosi turisti si sono recati al cimitero per pregare sulla tomba della ragazza.  Naturalmente la presenza degli “stranieri” (così come li chiamano ad Avetrana) non è sempre stata legata a queste particolari ricorrenze, anzi non sono state poche le situazioni in cui gli abitanti sono stati fermati dai turisti che avevano bisogno di indicazioni per raggiungere la villa di Misseri. Da un’analisi diretta sul luogo, l’aspetto emergente è una speculazione economica, soprattutto da parte delle autorità, di tutta la tragica vicenda legata al turismo. Si cerca infatti di sfruttare al massimo i mezzi di comunicazione e la pubblicità che da questi si ricava per accrescere ulteriormente il turismo e, di conseguenza, l’economia ad Avetrana. Contrariamente a quanto sperato dagli speculatori, l’effetto ottenuto dallo sciacallaggio turistico e informatico è proprio l’opposto: invece di incrementare il turismo, le reiterate visioni del paese associate all’atroce delitto hanno leso l’immagine stessa di Avetrana la quale adesso deve fare i conti con un terribile calo di presenze turistiche che tanto era riuscita a guadagnarsi durante l’arco di questi ultimi dieci anni. E’ un turismo dell’orrore che cerca di fare audience e di spingere la gente ad intraprendere un pellegrinaggio verso Avetrana utilizzando il giallo e i luoghi ad esso legati come fossero immagini pubblicitarie e sfruttando i media come mezzi di promozione turistica. Ciò che era inimmaginabile da un punto di vista turistico della cronaca nera sta quindi diventando una realtà dell’horror business. Non dovremmo perciò meravigliarci se un giorno leggessimo un annuncio simile a quello descritto tragicamente da Raimondo Moncada in Ti tocca anche se ti tocchi, il suo libro che affronta con sarcasmo l’evento che coinvolge indistintamente ogni essere umano, la morte appunto: «Agenzia viaggi organizza gite turistiche per Avetrana. Serietà, cortesia, divertimento, professionalità. Prezzi concorrenziali. Si assicura tour nei luoghi dell’orrore. Si mettono a disposizione guide ed esperti di ogni tipo: criminologi, opinionisti, psicologi, psicoterapeuti, indovini, maghi, semiologi, somatologi, esperti del macabro, esperti di espressione facciale, esperti di fisiologia delle emozioni e menzogna, massaggiatori, moralisti… Si garantisce posto in prima fila nelle postazioni delle dirette televisive di Rai, Mediaset, La7 o tv locali. In regalo macchine fotografiche digitali per scattare foto ricordo. In dono anche telecamere per riprendersi e montare il film della vita. No perditempo. Soddisfatti o rimborsati. Per i tour, si mettono a disposizione autobus e pullman gran turismo dotati di tutti i confort. Si noleggiano scooter, fuoristrada, macchine di grossa cilindrata per fregare sul tempo gli altri numerosi curiosi e morbosi in assalto. Si organizzano anche gite scolastiche di fine anno da tutt’Italia e tour su caratteristici carretti trainati da cavalli. Prezzi stracciati con sconti allettanti in caso di comitive e famiglie. Ci si riserva di organizzare dei treni speciali. »

L’impatto della vicenda sulla popolazione di Avetrana. Le gite dell’orrore ad Avetrana, accompagnate dalla pressione mediatica, hanno avuto inevitabilmente una forte influenza sul comportamento dei cittadini avetranesi. L’impatto sociale che questa forma di turismo ha provocato consiste in una sostanziale trasformazione del comportamento e dello stile di vita della popolazione, nel momento in cui questa si trova a stretto contatto con il caso turistico e soprattutto con la presenza stessa dei turisti. Se in un primo momento tutta la vicenda dell’omicidio, l’abnorme interesse mediatico e il conseguente flusso turistico macabro hanno prodotto un’apparente eccitazione negli avetranesi, i quali hanno cominciato a sentirti protagonisti della vicenda, poco dopo gli stessi abitanti hanno dimostrato di non essere affatto orgogliosi di un dramma che ha trasformato il paese in una delle mete del circuito del dark tourism e soprattutto nella destinazione più ambita dai giornalisti. I residenti hanno subito compreso che in troppi stavano approfittando della situazione e hanno iniziato a sentirsi pressati, privati della propria spontaneità, quasi costretti a dover recitare un copione come se facessero parte di un reality show dell’orrore. La gente sembra aver superato la soglia di tolleranza e ora presenta dei sintomi di stanchezza e irritazione verso tutta la tragedia che l’ha coinvolta. Gli avetranesi protestano contro l’invadenza e l’invasione dei giornalisti e dei turisti, si sentono offesi perché descritti come gli abitanti di un ‘paese del terzo mondo’, sono stanchi di sentir pronunciare il nome di Michele e Sabrina Misseri e di essere spesso associati all’immagine diffusa dei parenti-mostri. Ormai sopportano con fatica i turisti che vagano dalla casa di Sarah al garage di zio Michele e dei quali non hanno mai compreso la motivazione che li spinge a fare questo tour. Particolarmente significativa è una scritta sul muro trovata non lontano da casa Misseri, la quale è una sintesi perfetta del sentimento comune della popolazione di Avetrana: Qui non è Hollywood. Sin da subito le forze dell’ordine hanno cercato di scoraggiare i turisti dell’orrore e i giornalisti che hanno assediato i luoghi del delitto. Per fermare i curiosi, per tutelare la privacy e la tranquillità delle famiglie coinvolte e specialmente per riportare alla normalità la comunità pugliese, il sindaco di Avetrana Mario De Marco ha emanato due ordinanze, una il 27 ottobre 2010, una il 6 giugno 2011. Nella prima (vedi Appendice n.1) il sindaco scrive che, per limitare i disagi causati dalle riprese televisive e dalla conseguente affluenza di numerosi cittadini curiosi davanti alle ville delle famiglie Misseri e Scazzi, le emittenti televisive sono invitate a spostarsi nel parcheggio antistante lo stadio comunale e a svolgere la loro attività esclusivamente in quel luogo in modo tale da limitare la difficoltà di circolazione nel paese. Nella seconda ordinanza (vedi Appendice n.2), invece, dopo aver premesso che la scarcerazione di Michele Misseri e la sua prescrizione dell’obbligo di presentazione giornaliera presso la stazione dei carabinieri di Avetrana hanno destato una forte risonanza in tutta Italia dando luogo ad un’affluenza di giornalisti, operatori televisivi e curiosi, il sindaco dichiara che è vietato sostare o circolare in via Deledda, via Pirandello, via Raffaele Sanzio e via Bernini per chiunque eccetto per i residenti e che la violazione di questo provvedimento comporta una sanzione di € 500,00. Quest’ultima ordinanza è attualmente ancora in vigore e la polizia municipale di Avetrana ha perciò il compito di vigilare nel rispetto dell’ordinanza sindacale stessa in modo tale da far cessare l’arrivo degli affascinati dell’orrore e bloccare un fenomeno diventato fastidioso e insopportabile per l’intera comunità. Sembra che questi provvedimenti stiano finalmente avendo gli obiettivi auspicati. 

Conclusione. Molti degli eventi considerati di competenza del turismo dell’orrore sono entrati nel circuito di mercificazione basato principalmente su una forte copertura mediatica e su un fascino verso la morte che, come ampiamente descritto, trasformano gli eventi in prodotti turistici e motivano il turista nell’intraprendere un viaggio inusuale. Questo comportamento suggerisce che stiamo diventando sempre più una cultura che cerca incontri con la morte. L’origine di questa fascinazione può essere attribuita alla curiosità umana nei confronti dell’ignoto, la morte appunto, che in alcuni casi è  fondamentale per comprendere la natura della nostra esistenza. Il patrimonio dell’orrore, essendo proprio strettamente legato al concetto di morte, potrebbe quindi essere identificato come qualcosa di tangibile che aiuti alla comprensione della morte stessa e che appaghi quel senso di fascino e curiosità che tanto tormenta l’uomo.

Di conseguenza, il patrimonio del dark tourism offre uno stimolo a sfruttare il potenziale commerciale del fenomeno tanto da far aumentare il numero delle visite e dei viaggi organizzati verso le mete dell’orrore. Tuttavia questo sfruttamento dell’orrore e del dolore ha dato luogo a critiche le quali mettono in discussione l’etica del fare turismo macabro, quindi i suoi confini tra realtà e rappresentazione, tra giusto e sbagliato, tra rispetto e invadenza. Non è possibile cercare delle risposte e dei margini assoluti in grado di spiegare e giustificare il turismo macabro perché l’attitudine a viaggiare verso luoghi oscuri e la comprensione del patrimonio dell’orrore possono cambiare a seconda della nostra personalità, della nostra cultura, della nostra psiche, influenzando il nostro coinvolgimento. Non è altrettanto semplice dare dei giudizi morali a riguardo. Quello che però si può auspicare da un tipo di vacanza come quelle precedentemente descritte è un tentativo di evocare, tramite la visita turistica, un punto di vista più emotivo e cosciente su determinati eventi, luoghi, persone e oggetti. E’ possibile perciò affermare che la conservazione del patrimonio macabro e dei luoghi dell’orrore è importante per preservare alcuni aspetti del passato che riteniamo degni di ricordo, come quelli legati alle guerre, all’olocausto, ai massacri, agli attacchi terroristici. Questi siti devono quindi incoraggiare un’esperienza significativa dal punto di vista emotivo, suscitando per esempio sentimenti di dolore e compassione. Pertanto l’educazione si rivela essere un elemento chiave alla base del viaggio dark, al fine di aumentare la consapevolezza della sofferenza protagonista di certi avvenimenti tragici, di fare in modo che la memoria di questi venga conservata e soprattutto, attraverso il viaggio, di educare il turista prima di tutto a non ripetere le tragedie del passato e in secondo luogo a rispettare e cogliere l’essenza di ciò che andrà a visitare. Allora se il turismo dell’orrore resta entro certi limiti precisi, ovvero è quel turismo che permette ai turisti di visitare luoghi storici come può esserlo un campo di concentramento, un campo di battaglia, un cimitero o una città distrutta, può probabilmente avere più opportunità di essere definito moralmente corretto. Se invece il turismo sfocia nel morboso interesse nei confronti di quella che è chiamata morte individuale, e qui il rifermento va specialmente ai casi di omicidio come quello di Avetrana, allora ci si trova di fronte ad una situazione di profonda intromissione nella vita privata altrui, niente a che vedere con l’aspetto storico, educativo e culturale che dovrebbe caratterizzare un viaggio. 

APPENDICE

1. Ordinanza n. 01/2010 del Comune di Avetrana

IL SINDACO, considerato:

che le riprese televisive su via Deledda e su Vico Verdi, ove insistono le residenze delle famiglie Misseri e Scazzi, non accennano a diminuire nonostante il notevole lasso di tempo trascorso dalla scomparsa della giovane Sarah;

che le riprese medesime costituiscono motivo di attrattiva da parte di numerosi cittadini che ivi affluiscono anche dai paesi vicini;

che la presenza numerosa degli automezzi atti ai collegamenti televisivi in sosta sulle indicate vie oltre che sulle vie adiacenti, limita fortemente la circolazione stradale;

che l’occupazione delle vie che gli indicati automezzi unitamente alla numerosa affluenza di cittadini determina forti disagi agli abitanti della zona, non più disponibili a tollerare questa situazione, tant’è che nella giornata di domenica u.s. il Comando dei Vigili Urbani riferiva essersi verificate da parte dei residenti, in più momenti, vibrate proteste rivolte non solo ai cameramen ma anche ai numerosi visitatori;

che, quindi, allo stato sussistono tutte quante le avvisaglie per ritenere che vi siano concreti pericoli di turbativa dell’ordine pubblico.

Tanto considerato, il SINDACO, anche nella veste di Ufficiale di P.S.

INVITA

le emittenti televisive a rimuovere gli automezzi ed ogni altra strumentazione fissa e mobile disposta su via Deledda e su Vico Verdi oltre che sulle vie e sugli spazi pubblici ad essi adiacenti. Considerato che il presente provvedimento non intende in alcun modo limitare i mezzi di informazione, utile difesa della nostra democrazia; ed altresì, considerato in proficuo contributo dato dai giornalisti allo sviluppo delle indagini, cui il Paese tutto, in attesa dell’accertamento delle reali responsabilità, esprime gratitudine;

DISPONE

che la zona a parcheggio antistante lo Stadio Comunale nel tratto compreso tra via L. Ariosto, via Kennedy sia riservata esclusivamente alle emittenti televisive ed alle loro strumentazioni, ivi inclusi gli automezzi e quant’altro alle stesse necessità per lo svolgimento delle loro attività.

RACCOMANDA

che nell’uso dell’indicata zona a parcheggio non sia arrecato intralcio alcuno alla viabilità circostante. Il presente provvedimento avrà validità sino alla sua espressa revoca. Dalla Casa Comunale oggi 27.10.2010

Il Sindaco avv. Mario De Marco 

2. Ordinanza n. 28/2011 del Comune di Avetrana

IL SINDACO, Premesso:

Che il giudice per le Indagini preliminari del tribunale di Taranto Dott. Martino Rosati con propria ordinanza disponeva la scarcerazione del Misseri Antonio Michele;

Che questi risiede presso la propria abitazione sita in via G. Deledda, con prescrizione dell’obbligo di presentazione giornaliera presso la Stazione dei Carabinieri di Avetrana;

Che detta disposizione destava forte risonanza in tutta Italia e dava luogo ad una notevole affluenza di giornalisti, operatori televisivi e di curiosi;

Che la presenza eccessiva di operatori televisivi e curiosi ha reso inattuabile la prescrizione del Giudice a recarsi presso la suddetta Stazione per apporre la firma di rito a causa della costante presenza a volte asfissiante delle succitate persone;

Rilevata la necessità di evitare l’ulteriore spettacolarizzazione della vicenda;

Visto l’art. 50 e 54 del D. Lgs. 18.08.2000 n.267, come novellato dalla Legge 24. 07. 2008 n. 125;

Visto l’art. 7 bis D. Lgs. 18.08.2000 n.267;

Visto l’art. 16 della L. 24 novembre 1981 n.689, così come modificato dall’art.6 bis della Legge 24.07.2008 n.125;

Visto il decreto del Ministero dell’Interno del 5 agosto 2008 di attuazione delle previsioni contenute nella legge 24 luglio 2008 n.125 “Misure urgenti in materia di sicurezza urbana”;

Visto il D. Lgs. Del 30.06.2003 n.196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”;

ORDINA

E’ fatto divieto a chiunque di stazionare in via G. Deledda, via Pirandello, via Raffaello Sanzio e via Bernini ed in particolare ai giornalisti, operatori e strutture per la produzione e la trasmissione di immagini televisive. E’ fatto altresì, divieto a tutti i veicoli a motore in genere di circolare sulle predette vie eccetto i residenti. La violazione alla presente ordinanza, fermi i limiti edittali stabiliti per le violazioni a questi provvedimenti, come enunciato dall’art. 7 del D. Lgs. 18.08.2000 n. 267, comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa di € 500,00 con facoltà per il trasgressore di estinguere l’illecito mediante il pagamento di detta somma. La presente ordinanza, preventivamente comunicata al Prefetto, è resa pubblica mediante affissione all’Albo Pretorio Comunale e immediatamente esecutiva. Avverso il presente provvedimento è ammesso, entro 60 giorni dalla pubblicazione all’Albo pretorio, ricorso al Tribunale Amministrativo competente per il territorio, in via alternativa, ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da proporre entro 120 giorni dalla data di pubblicazione.

DEMANDA agli Organi di Polizia l’applicazione del presente provvedimento. Dalla Residenza Municipale 08.06.2011

Il Sindaco avv. Mario De Marco.

SARAH SCAZZI. DAI SEGRETI DI FAMIGLIA DI ROBERTA BRUZZONE AL RESOCONTO DI UN AVETRANESE DI ANTONIO GIANGRANDE

Sarah Scazzi: dai segreti di famiglia di Roberta Bruzzone al resoconto di un avetranese di Antonio Giangrande, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Controvento”. Roberta Bruzzone ha pubblicato un libro intitolato: “Segreti di famiglia - Il delitto di Sarah Scazzi". Co-autori: Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro, co-fondatori del Gruppo Facebook: "Verità e Giustizia per Sarah". Nel libro, a cui non manca la visibilità mediatica, si racconta l’omicidio della quindicenne di Avetrana per come l'hanno vissuto e visto l'autrice e i co-autori. La criminologa nel libro parla di prove e ritiene che la sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Ora non vale la pena entrare in questioni etiche o morali per capire quanto sia giusto pubblicare un libro che parla anche di depistaggi e lacrime di plastica (definizioni coniate dall'Accusa per definire i comportamenti e i pianti di Sabrina Misseri) nel bel mezzo di un processo che deve essere celebrato in altri due gradi di giudizio. E non ne vale la pena perché c'è chi su Avetrana e Sarah Scazzi ha pubblicato libri a pochi mesi dall'omicidio. Però si può parlare del fatto che il processo ha visto protagonista chi ha firmato "Segreti di famiglia". La dottoressa Bruzzone infatti, ricordiamolo, ha partecipato a un'udienza come teste dell'Accusa. Udienza in cui la Difesa di Sabrina Misseri ha contestato, giustamente, il plurimo status. Giustamente perché la criminologa prima di essere un teste per la procura fu consulente di Michele Misseri, consulente assunta dall'avvocato Daniele Galoppa. Lui è il legale scelto per il contadino reo confesso dal procuratore Pietro Argentino (ma qualcuno non aveva detto in tivù che era stato scelto a caso da un centralino?). Di questo fatto molto strano ne parla lo stesso Misseri a processo (e il procuratore in aula non lo ha smentito)... e dico che è molto strano perché è assurdo che sia l'accusatore a scegliere l'avvocato che lo dovrà poi contrastare. Ma lasciamo perdere ciò che nessun giornalista ha mai evidenziato e torniamo alla Bruzzone. Lei ad un certo punto, nonostante l'astio che nutre per gli imputati, passa da consulente della Difesa a testimone d'accusa. Può essere neutrale chi si ritiene "persona offesa", chi ha avviato un procedimento penale per calunnia e diffamazione contro Michele Misseri: l'uomo che a più riprese l'ha accusata di averlo indotto, in associazione con l'avvocato Daniele Galoppa, ad incolpare la figlia? Accusa dunque incontestabile quella di plurimo status, visto che da consulente per la Difesa è passata a testimone per l'accusa e nel contempo ha in essere un procedimento penale che la vede contrapposta all'imputato sul quale è stata chiamata a testimoniare. Accusa rivolta a Roberta Bruzzone dall'avvocato Nicola Marseglia, accusa che può far intendere minata l’imparzialità di giudizio della criminologa; minata dal fatto che nel caso in questione ha ricoperto, e sta ancora ricoprendo, ruoli diversi e in antitesi fra loro. Ora mettiamo i puntini sulle i. Nessuno vuole toglierle i meriti, dovesse averne, o le briciole di gloria che può ottenere da una pubblicazione che la obbliga a parlare in pubblico del caso in questione. La dottoressa Bruzzone è libera di fare quanto meglio crede senza sottostare a nessuna pressione e critica fumosa (lo vuole la democrazia). A me preme solo evidenziare quanto poco possa apparire imparziale un libro scritto da chi ha conflitti di interesse sulla vicenda che tratta. Sarebbe come se Mondadori pubblicasse un dossier su Berlusconi scritto dalla Boccassini, o da un fan della procuratrice milanese, prima della sentenza della Corte di Cassazione. Chiaramente sarebbe un'opera di parte. Pubblicabile, sì, ma per non dar adito a dubbi dovrebbe andare in stampa con un titolo che non coinvolgesse nessun altro se non la stessa scrittrice. Andrebbe bene, ad esempio, se il titolo fosse: "La mia verità su Silvio Berlusconi". Invece l'ipotizzare segreti familiari, tutti ancora da provare, è una forzatura che stona in questo momento temporale che di stabile non ha neppure la sentenza del giudice Trunfio, visti i due gradi di giudizio che dovrà superare per diventare definitiva. In ogni caso, ormai siamo abituati ai tanti luoghi comuni. La storiella sui segreti di casa Misseri, ad esempio, è un cavallo di battaglia usato da tanti opinionisti che si son mostrati, e ancora si mostrano in video, solo per ipotizzare, grazie alla solita parzialità dei media, senza mai dare riferimenti o prove che rendano verificabili le loro parole (forse perché non esistono?). Dalla loro parte hanno la forza dell'audience, che li premia proprio perché colpevolisti, e quella della stampa, che ha un suo peso quando deve pubblicizzare una qualsiasi cosa o convincere di un'idea pregiudizievole senza arte né basi solide. Stampa che per etica professionale dovrebbe restare al centro e non parlare solo a favore di una tesi. Stampa che da decenni ha dimenticato questa regola basilare. Meno male che la "rete" non è solo un fenomeno mediatico unilaterale. Proprio per questo, dopo aver parlato del libro di Roberta Bruzzone, che potrete acquistare in ogni libreria italiana, ora parlo di un libro che si contrappone al suo. Quello scritto dal dottor Antonio Giangrande, non coinvolto nel caso né come teste né come ex consulente né come querelante, è un libro-dossier che racconta in maniera schietta, atti e testimonianze alla mano, l’omicidio della quindicenne di Avetrana in tutti i suoi dettagli, anche quelli più sconosciuti o tralasciati artatamente dai mendicanti della cronaca. Racconta la verità storica conosciuta che va oltre la verità mediatica e giudiziaria, quella che tutti accettano senza remore perché inculcata nel tempo da alcuni giornalisti ossequiosi al potere e al loro tornaconto. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire”, si può trovare su www.controtuttelemafie.it, su Amazon in Ebook, su Lulu in cartaceo e su Google libri. E' il racconto di ciò che un avetranese come il dottor Giangrande ha visto sin dal primo giorno, senza la mediazione della stampa. Un libro in cui si tiene conto del vissuto e del contesto ambientale ed istituzionale del luogo in cui si è svolta la vicenda criminale. E' una verità scomoda che neppure le tv e i giornali locali non vogliono, o non possono, divulgare. Non è la verità del Giangrande, è la verità incontestabile che si evince chiaramente guardando le puntate registrate da “Un Giorno in Pretura”. L'unica trasmissione che non può raccontare fandonie, visto che verrebbero subito smentite dai filmati registrati nelle varie udienze. Basta guardarli per rendersi conto di quale sia la differenza tra quello che veramente è successo in aula e quanto, invece, hanno riportato i tanti giornalisti (??) ossequiosi durante le loro cronache d’udienza (??). Quelle registrazioni sono la prova di come, stravolgendo la realtà dei fatti, negli ultimi anni i media abbiano influenzato in negativo, con toni sempre e solo colpevolisti, tutta l'opinione pubblica. Quelle registrazioni, di cui ancora oggi nessuno tiene conto (vanno contro la verità mediatica e sono andate in onda in orari impossibili), dimostrano di cosa siano capaci i media quando entrano a piedi uniti su tutta la collettività.

Roberta Bruzzone è ormai un volto e un nome noto. La si vede dappertutto. La 37enne che appare da mesi in tv è la criminologa che difende Michele Misseri, scrive Benedetta Sangirardi su Affaritaliani.it. Affaritaliani.it, qualche tempo fa, ne fece un ritratto esaltando il suo curriculum (e la sua immagine di criminologa da fiction). Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età  nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Dall’Università di California, dove ha fatto “un periodo di training”, passando  per la Duke University (North Carolina – USA), dove è stata ricercatrice. Ha frequentato anche l’Università del Texas e di Philadelphia. Per non parlare, poi, dei suoi innumerevoli titoli (Presidente dell’Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell’ International Association of Crime Analysts e molti, molti altri). Insomma, una carriera di tutto rispetto, senza dimenticare che la bionda criminologa è anche autrice e conduttrice televisiva. Ma da qualche giorno circola un documento tra i giornalisti, e non solo, che “smonta” il suo curriculum: tutto falso. O meglio, una enorme parte delle sue esperienze non sarebbero mai state fatte. Tutto da verificare, certo, ma nello scritto ci sarebbero anche alcune testimonianze, smentite poi da Roberta Bruzzone nell’intervista ad Affari. Alcuni esempi. Nel documento si legge che, contattata l’Università della California (Sede di San Francisco), la risposta è stata: “Non risulta che Roberta Bruzzone abbia frequentato masters o altri corsi di formazione presso la nostra Università”. La Vidocq Society Philadelphia (Prof. Bill Fleisher) dichiara: “La Signora Bruzzone non ha alcun tipo di connessione con la nostra Società scientifica”. E ancora, l’American Embassy in Rome: “Il Direttore della BSU di Quantico ha comunicato che non conoscono la Dottoressa Bruzzone e che non hanno mai avuto contatti per attività di ricerca con lei”. Stessa risposta dal Vancouver Police Department: “La Signora Roberta Bruzzone non ha mai sviluppato progetti di ricerca con questo Dipartimento”. Il Bloodstain Evidence Institute (Dr. Herbert Leon MacDonell, invece, ammette che la Bruzzone abbia partecipato a un breve corso introduttivo di 5 giorni presso il nostro Istituto”, ma assicura che “non ha superato il pur facile esame finale”. L’istituto di criminologia, si legge nel documento, pare abbia già ricevuto segnalazioni sul “finto curriculum” della 37enne, decidendo di diffidala “dal pubblicizzare in Italia la sua esperienza in BPA e di essersi formata presso il nostro Istituto”. Ma non è finita. Il rettore della Duke University assicura che “non risulta che Roberta Bruzzone si sia formata presso la nostra Università ne abbia svolto attività di ricerca con noi”. Infine la Texas State University, nella persona del Prof. Kim Rossmo conclude assicurando che “la Signora Roberta Bruzzone non ha contribuito in nessun modo allo sviluppo del software Rigel e non ha nessuna connessione con la Texas State University”. Insomma, Roberta, secondo il documento che circola tra i giornalisti, avrebbe falsificato e gonfiato le sue esperienze. La criminologa che prima del caso Avetrana aveva fatto parte del processo a carico di Rosa Bazzi e Olindo Romano, dice un sacco di bugie, stando al documento. D’altra parte, nella pagina di Facebook a lei dedicata scrive: “Meglio avere a che fare con gli assassini che con i giornalisti”. E forse su questo ha ragione. Ma quando aggiunge, sempre sul social network, che “se sei bella ma non sei una escort vanno tutti in crisi in Italia, certo averlo saputo prima che per fare il mio lavoro bastavano occhi azzurri, capelli biondi e fisico ‘lussureggiante’ me li risparmiavo tutti gli studi fatti, le specializzazioni e i continui aggiornamenti in giro per il mondo”, allora sorgono i dubbi.

La rettifica piccata di Roberta Bruzzone. «Gent.ma, devo ammettere, con amarezza, che leggendo il suo articolo sono stupita anche io del mio CV. Innanzitutto perchè nel secondo capoverso si legge "ha frequentato anche la Università del Texas e Philadelphia" quando io non ho MAI frequentato ne ho MAI sostenuto di aver frequentato nessuna delle due, come si evince chiaramente dalla lettera che le ho inviato e dalla lettura del mio cv pubblicato sul sito www.accademiascienzeforensi.it (cliccando su ROBERTA BRUZZONE) L'articolo da lei scritto appare assolutamente tendenzioso e non rispetta i parametri di continenza, pertinenza e verità della notizia. Tant'è che in maniera molto VAGA lei parla della mail anonima che è arrivata in relazione definendola "documento" ma le ricordo che trattasi di una MAIL ANONIMA. Parla poi di testimonianze riferendosi a quelle 4 frasi virgolettate che sono state attribuite dal mittente ai vari soggetti indicati che SAREBBERO stati contattati. Lei NON ha verificato la notizia, NON ha contattato i vari soggetti benchè nella mail vi sono stati forniti i recapiti dei medesimi. Come lo so? Se lo avesse fatto avrebbe sicuramente saputo che Jim Gocke Direttore della Sirchie e Presidente dell'American Institute of Applied Science, aveva già parlato con TOM Curtis garantendo la mia formazione presso l'istituto nel 2008 e la collaborazione formativa che va avanti dal 2009. Se poi si fosse presa la briga di leggere il mio vero cv prima di scrivere il suo articolo avrebbe visto che io MAI ho vantato collaborazione con Vidocq Society o la frequentazione di master o corsi presso il Bloodstain Evidence Institute. Ma se io scrivessi all'università di Londra "La Dr.ssa Sangirardi ha frequentato un master di giornalismo presso di voi?" l'Università di Londra cosa mi dovrebbe rispondere se non l'hanno mai conosciuta??? e se dopo pubblicassi la loro risposta negativa alla mia indagine su di lei che cosa succederebbe???? Avrei montato un caso del tutto privo di fondamento, esattamente come sta facendo lei. Il suo articolo, se scritto in buona fede e nel rispetto dei doveri etici del giornalista, avrebbe dovuto avere un tenore diverso ed essere scritto con obiettività, posto che, mentre quello che ho dichiarato e che dichiaro io è supportato da evidenze (e lei le ha viste tutte perchè io gliele ho inviate), quello che è scritto nella lettera da voi ricevuta e divulgata non ha uno straccio di prova a corredo e non è nemmeno stata verificata la bontà del contenuto. E allora cosa è accaduto??? E' accaduto che una giornalista, ansiosa di fare uno scoop evidentemente, non ha aspettato di leggere tutto quanto in suo possesso ma ha dovuto scrivere subito tanto per fare polemica attribuendo all'oggetto dell'articolo (che questa volta purtroppo sono io) delle notizie del tutto false, infondate e diffamatorie. Le sorge il dubbio che quello che scrivo sui giornalisti sia vero???? Prima lo scoop poi il dovere di cronaca. E lei non fa eccezione. Mi lasci sottolineare un'altra cosa, IO NON LE HO MAI RILASCIATO NESSUNA INTERVISTA diversamente non avrei impiegato 2 ore del mio tempo per scrivere una lettera. Si è presa quelle 4 notizie che le ho dato in via confidenziale per contenere l'impatto delle accuse che mi muoveva e ci ha costruito attorno un'intervista del tutto fuorviante, riportando notizie false che io non ho mai fornito poichè non ho mai detto che c'è un processo per stalking ma un PROCEDIMENTO, nè ho mai detto che il 21 dicembre ci sarà la prima SENTENZA ma ho detto che ci sarà un'UDIENZA, il che è ben diverso. Le sembrerà una sciocchezza ma per chi lavora nel mondo giudiziario la differenza è enorme. Le rappresento altresì che questa sua "scelta" giornalistica si inserisce in una vicenda di estrema delicatezza e anche i giornalisti dovrebbero avere a cuore l'incolumità delle persone. Io le ho raccontato che sono vittima di stalking e lei ci ha riso sopra. Complimenti per la sensibilità. La invito e diffido pertanto a pubblicare immediatamente, con il GIUSTO RISALTO, questa mia comunicazione in forma integrale, riservandomi ogni azione a tutela del mio buon nome nei confronti suoi e del Direttore Responsabile nelle opportune sedi giudiziarie. A tal riguardo leggono in copia anche i miei legali. Roberta Bruzzone».

SECONDA LETTERA AD AFFARI

«Il Curriculum vitae allegato alla mail priva di firma ma proveniente dall’indirizzo giovanni.eroma@hotmail.it è stato estratto dal blog www.godownbaby.wordpress.com e NON si tratta del mio CV. Nell’estratto che è stato inviato a diverse testate giornalistiche vengono riportati titoli che io non ho mai vantato. L’unico CV ufficiale è quello pubblicato sul sito www.accademiascienzeforensi.it ed evidenziabile cliccando sulla voce ROBERTA BRUZZONE. E’ naturale che se si vanno a contattare interlocutori con cui un soggetto non ha mai avuto niente a che fare e/o per ragioni che NON corrispondono a quelle da lui chiaramente indicate, le risposte non posso che essere negative. Faccio un esempio. Io non ho mai sostenuto nè scritto di essermi laureata alla DUKE University, ma di aver collaborato per circa 3 anni con la Prof.ssa Silvia Ferrari,  al progetto NNPCP per l’applicazione dell’intelligenza artificiale al criminal profiling, come testimoniato da una serie di pubblicazioni internazionali che sono disponibile a fornire e che, peraltro, sono anche facilmente reperibili su internet in formato abstract. C’e’ una bella differenza, no??? Ma andiamo Avanti. Io non ho mai sostenuto di aver contribuito allo sviluppo del software di geoprofiling Rigel di Kim Rossmo nè tantomeno di aver studiato alla Texas State University. Io affermo di aver collaborato con Rossmo all’analisi geografica sul caso dell’Unabomber del nordest e di aver applicato e adattato il suo software per la prima e unica volta ad un caso italiano. Tale lavoro è stato pubblicato nel testo edito da Aliberti “Chi è Unabomber” nel 2007 di cui sono coautore. Anche qui c’è una bella differenza, no???? E potrei continuare così per ciascuno dei punti elencati nella mail “anonima” inviata dall’account Giovanni.eroma@hotmail.it. La vera domanda è, perchè questo signore è così interessato a manipolare il mio curriculum vitae al solo fine di screditarmi affermando il falso??? Allora ho iniziato a fare una piccola indagine personale, ma molto piccola perchè non ho tempo da perdere nè ce ne voglio perdere, e ho scoperto che su facebook c’è un’account aperto da un certo Giovanni Eroma proprio il giorno dell’invio della mail anonima (ma guarda caso….. Ho guardato un po’ la sua bacheca, visto che tanto e’ aperta e ho visto che l’unica cosa che ha fatto e’ inserire un commento sulla bacheca di un certo Libero Arbitrio che si diverte a raccogliere notizie che mi diffamano e a postarle su alcune bacheche specifiche. Il post commentato da Giovanni Eroma era proprio relativo a me e, sempre guarda caso, era un link al solito www.godownbaby.wordpress.com….Quando poi ho visto che Giovanni Eroma aveva solo 3 amici, nel leggere i nominativi ho ho capito tutto….siamo alle solite… Ovviamente ho già provveduto ad acquisire in maniera forense tutto il materiale che andrà ad integrare il già copioso fascicolo sul tavolo del Pubblico Ministero. Comunque, visto che me lo avete domandato, vi allego alcuni documenti che provano l’autenticità dei miei titoli. Non sono però tutti perchè alcuni attestati sono rimasti a casa del mio ex convivente e non riesco a riaverli perchè, nonostante gli abbia richiesti in più occasioni e nonostante lo abbia anche denunciato per appropriazione indebita, lui non me li ha mai restituiti. Però va a dire in giro che io non posseggo tali titoli…..ma rispetto a ciò che ha fatto dal momento in cui l’ho lasciato questo è il meno. Roberta Bruzzone»

Affari risponde alla Bruzzone. Per completezza di informazione... «Gentilissima dott.ssa Bruzzone, mi spiace per quello che è accaduto. Il mio pezzo non voleva essere assolutamente diffamatorio. E anzi Affaritaliani.it, appena ricevuta la lettera anonima, l'ha immediatamente contattata per una sua replica. Replica che è stata data con ampio spazio su Affaritaliani.it, attraverso l'intervista che Lei ha rilasciato alla collega Floriana Rullo, e attraverso la sua lunga lettera che abbiamo pubblicato. In nessun modo abbiamo pensato che Lei dicesse il falso e che la mail che abbiamo ricevuto dicesse il vero. Se le può far piacere, il mio pezzo è stato in parte modificato eliminando la parola documento e inserendo la parola lettera anonima. La Sua lettera di rettifica è stata pubblicata su Affari Italiani, interamente. Questo a dimostrazione del fatto che siamo corretti nei suoi confronti e crediamo a lei, più che a una lettera anonima ricevuta. Non avevamo intenzione di fare nessuno scoop, se proprio vuole sapere la verità. Al contrario, abbiamo tentato di far capire ai lettori, e a chi diffonde questa mail, che lei è la vittima di una situazione che va avanti da due anni. Per quanto riguarda il curriculum, nel mio primo pezzo di quasi un mese fa io ho fatto riferimento a questo cv: http://www.studiolegalegassani.it/roberta-bruzzone.asp. Quanto da Lei richiesto, è stato messo online da Affari Italiani, anche la rettifica. Saluti. Benedetta Sangirardi»

Certo è che se la cautela pretesa per sè dalla Bruzzone fosse la stessa applicata al caso di Sarah Scazzi ed alle accuse professate a destra ed a manca, forse libri non se ne sarebbero scritti e notorietà non ne sarebbe scaturita.

SARAH UCCISA DALLA GELOSIA? SABRINA CONDANNATA DALL’INVIDIA?

Ha parlato il fratello di Sarah Scazzi, Claudio e ha analizzato il difficile momento della sua famiglia dopo l'omicidio di sua sorella. «Già solo una decina di giorni dopo che Sarah è scomparsa tanti hanno buttato fango su mia sorella e la mia famiglia, mettendo nero su bianco dicerie e chiacchiere da bar solo perchè faceva effetto. Quando a ottobre si è cominciato a capire quello che era successo le cose si sono un pò calmate, ma anche oggi su internet c'è una certa tendenza a parlare di mia sorella solo perchè fa titolo». Lo dice Claudio Scazzi, fratello della ragazza uccisa ad Avetrana e autore del libro 'Per Sarah', parlando di lei in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Questo, ha aggiunto Claudio Scazzi, «porta via tante forze» e «lascia sbigottiti che nonostante le nostre denunce non abbiamo ricevuto una rettifica». «L'immagine di Sarah - ha detto ad un convegno organizzato dall'Aics (associazione italiana cultura sport) a Palazzo San Macuto - si può restituire facendola conoscere come una ragazzina di 15 anni come tante altre, che faceva quello che fanno le ragazze della sua età, e non ha avuto la possibilità di avere un futuro». Per lui e la sua famiglia «i primi 6-7 mesi sono stati davvero stressanti, il dolore per la morte di tua sorella, poi era stata arrestata della gente (la famiglia Misseri). Mia mamma per diversi mesi è stata malissimo, e non è stata più lei. Io ho avuto problemi anche a livello lavorativo. È stato - ha concluso - come se ti passasse addosso un uragano».

«Il processo Scazzi, che in realtà è il processo a Sabrina Misseri, è l'angoscia della mia vita, mi è costato un dolore infinito». Lo ha dichiarato alla stampa l'avvocato Franco Coppi, difensore della 23enne di Avetrana condannata all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Taranto insieme con la madre Cosima Serrano per l'omicidio della cugina 15enne Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto 2010. «È una sentenza che mi ha colpito profondamente - ha detto l'avvocato Coppi -. È un impegno che ho con me stesso per un fatto di giustizia, non ci sono altri motivi, di continuare questa battaglia fino in fondo. Aspettiamo che venga depositata la sentenza per conoscere le motivazioni - ha concluso il legale - e poi riprenderemo la battaglia in grado d'appello».

Se i magistrati requirenti e giudicanti di Taranto hanno rilevato che ad uccidere Sarah Scazzi è stata la Gelosia di Sabrina nei suoi confronti. Si può dire anche che l’Invidia della massa ha condannato Sabrina e di conseguenza Cosima alla pena civile, prima che giudiziaria. Pene che forse non meritavano.

Sabrina Misseri, conosciuta in tutto il mondo. Troppa grazia per una ragazzotta di provincia, anzi di campagna, anzi di un paese omertoso e retrogrado…... Tutte le luci della ribalta per lei e sua madre. Più della povera vittima. Tutte le tv per lei, ad inseguirla, a supplicarla. Le stesse telecamere che poi le si sono rivoltate contro. “Dalle all’untrice, sempre e comunque e come referente privilegiato la parte offesa. Non la vittima, ma i suoi familiari. Anzi i loro legali venuti chissà da dove. Anche gli altri protagonisti e la stessa Avetrana sono state vittime dello stesso trattamento: la denigrazione. La loro colpa è la notorietà acquisita.

La paura di perdere ciò che si ha e il desiderio di possedere ciò che non si ha: gelosia e invidia sono le emozioni più legate al possesso e intervengono in molti dei nostri pensieri, progetti, rimpianti, soddisfazioni e delusioni. In definitiva, influiscono in modo significativo sul nostro grado di benessere. Perché, quando e in quali forme si manifestano nella nostra vita?

"Gelosia ed invidia", con il loro seguito di pettegolezzi, non sono solo sentimenti antichi, ma si ripropongono "ogni giorno nel nostro cuore e nelle nostre comunità". E' quanto sottolinea Papa Francesco - riprendendo dopo la pausa estiva la celebrazione della messa mattutina nella cappella della domus Santa Marta in Vaticano - avvertendo che "una comunità, una famiglia, viene distrutta per l'invidia che semina il diavolo nel cuore e fa che uno parli male dell'altro e così si distrugga". Ammonisce il Papa: "Mai uccidere il prossimo con la nostra lingua. Perché sia pace in una comunità, in una famiglia, in un paese, nel mondo, dobbiamo essere con il Signore e dov'è il Signore non c'è invidia, non c'è la criminalità, non c'è l'odio, non ci sono le gelosie ma c'è fratellanza". Francesco stigmatizza consolidate abitudini in base alle quali "il primo giorno si parla bene di chi viene da noi, il secondo non tanto, il terzo si incomincia a spettegolare e poi si finisce spellandolo" e accusa: "Quelli che in una comunità fanno chiacchiere sui fratelli, sui membri della comunità, vogliono uccidere", ricordando il versetto dell'apostolo Giovanni dove dice "quello che odia nel suo cuore suo fratello è un omicida. Noi siamo abituati alle chiacchiere e ai pettegolezzi ma - lamenta il Papa - quante volte le nostre comunità e anche la nostra famiglia sono un inferno, dove si gestisce questa criminalità di uccidere il fratello e la sorella con la lingua!".

Non confondiamo gelosia e invidia, la cura è  diversa scrive Francesco Alberoni su “Il Corriere della Sera”.  Molte persone confondono gelosia e invidia. Per esempio dicono: "Mario è  geloso di Luigi perché ha avuto una promozione". "Rosanna è gelosa di Giulia perché è  più bella". In realtà si tratta di invidia. Queste confusioni sono pericolose perché i sentimenti non sono solo degli stati emotivi, sono dei processi mentali e dei sistemi di relazioni sociali. Confonderli vuol dire non capire che cosa succede e fare le azioni sbagliate. Vediamo più attentamente in cosa differiscono invidia e gelosia. Nella gelosia ci viene sottratto un oggetto d' amore che noi consideravamo nostro. Ma non ci viene portato via, a forza, da un ladro o da un rapitore. Il nostro amato è d'accordo nel farsi portare via, sta dalla parte del rapitore. La gelosia, perciò, ha la forma di un triangolo in cui al vertice ci siamo noi e all' altro lato loro: la persona che amiamo e il rivale, uniti dalla complicità. L' espressione "sono geloso di" si riferisce tanto al primo quanto al secondo. La gelosia non ha un solo oggetto, ne ha sempre due. Invece è assente il pubblico, la folla, la società. Io posso essere geloso anche nella più assoluta solitudine. L' invidia, invece, ha un oggetto solo e, in compenso, ha bisogno di un pubblico. Io sono invidioso di qualcuno che mi ha superato davanti a una collettività, a un'opinione pubblica che applaude lui e non me. Prima eravamo allo stesso livello, avevamo lo stesso valore sociale. Per esempio, io pensavo di essere simpatico e di cantare bene come Fiorello. Invece lui, a un certo punto, ha successo e io no. Lui va in televisione, è ammirato da tutti, e io no. Allora mi domando perchè. Che cosa ha in più di me? Che cosa gli fa meritare tutto quel successo? Non c'è una ragione. Vuol dire che il mondo non premia in base ai meriti, alle capacità. Provo un senso di impotenza e di ingiustizia. Mi tormento e cerco di dire a me stesso che gli altri sbagliano. Ma loro continuano ad applaudirlo. Allora cerco di convincerli del contrario, cerco di screditarlo. Lo faccio anche per convincere me stesso. Ma è una lotta impari, nessuno mi crede. Allora anch'io sono preso dal dubbio. E mi vergogno di quello che faccio. Mi vergogno di essere invidioso. Se la gelosia e l'invidia sono così diverse, sarà molto diverso il loro effetto sulla vita di coppia. Se io mi accorgo che mia moglie mi tradisce con un altro, mi sento una nullità. Vuol dire che lei trova nell' altro delle qualità, dei valori che non trova in me. Io posso comunque battermi contro il rivale, impegnare con lui un duello seduttivo. Cercare di riconquistarla al mio amore, rendendomi più interessante, più gradevole di lui. Passiamo all'invidia. Nella coppia, l'invidia compare quando uno ha successo, fa carriera, e l'altro no. Non ci sono rivali. E' la società che, con i suoi premi e i suoi giudizi, irrompe nella vita della coppia, e rende disuguali due persone che, in forza del loro amore, si consideravano di uguale valore. Come possiamo reagire a questo pericolo? Stringendoci insieme, presentandoci uniti davanti agli altri. Chi è stato portato in alto deve valorizzare l'altro, ringraziarlo, elogiarlo sia in pubblico sia in privato. Non deve mai considerare il suo successo come un fatto personale, ma come il risultato di una vittoria collettiva. E chi resta indietro deve aiutare l' altro nella lotta perché è anche la sua lotta. Come se fossero una setta, un partito, una lega.

Molte persone confondono gelosia e invidia. Sono entrambi sentimenti, ma la gelosia nasce dal dolore personale, l'invidia invece può essere collettiva, scrive ancora Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Molte persone confondono gelosia e invidia. Per esempio dicono: «Mario è geloso di Luigi perché ha avuto una promozione». «Rosanna è gelosa di Giulia perché è più bella». In realtà si tratta di invidia. La gelosia ha la forma di un triangolo al cui vertice ci siamo noi (gelosi), mentre agli altri due angoli la persona che amiamo e il rivale che temiamo possa portarcela via. L'espressione «sono geloso di» si riferisce tanto all'amato quanto al rivale. La gelosia non ha un solo oggetto, ma due, invece è assente il pubblico, io posso essere geloso anche nella più assoluta solitudine. L'invidia, invece, ha un oggetto solo e, in compenso, ha bisogno di un pubblico. Io e un mio amico ci siamo laureati insieme in medicina, ma mentre io non ho clienti, lui ne ha tanti e guadagna molto. Questo vuol dire che la gente (il pubblico) preferisce lui a me, lo giudica più bravo di me. Io non lo sopporto, lo invidio e allora cerco di sminuire il suo valore, mi sforzo di screditarlo. Ma non riesco a cambiare l'opinione pubblica, anzi mi dicono che sono invidioso. L'invidia è massima fra coloro che hanno attività simili ed uno sopravanza l'altro. Quindi il medico invidia un altro medico, lo scrittore un altro scrittore, il calciatore un altro calciatore e così via. E un politico? Anche il politico invidia un altro politico che ha avuto più successo di lui. Ma, a differenza dei casi precedenti, il politico può attaccare, criticare, diffamare colui che invidia senza che nessuno gli dica che è invidioso. Perché le sue critiche e i suoi insulti vengono sempre giustificati con una diversa visione politica o ideologica, come ricerca di giustizia, insomma con una motivazione nobile e razionale. Nella realtà, invece, molti politici possono essere mossi da una vera invidia personale che, in certi casi, diventa odio.

Sono entrambi sentimenti, ma la gelosia nasce dal dolore personale e riguarda solo le relazioni private. L'invidia invece può essere collettiva e alimentare una ideologia rivolta contro una classe, un gruppo etnico, un partito, una nazione o una persona salita troppo in alto e che conserva una posizione eminente.

IL PROTRARSI DELL’APPELLO E LE LUNGAGGINI DEL PROCESSO. NELL’ATTESA DELLE MOTIVAZIONI CHE NON ARRIVANO MAI. I GIUDICI, DOPO MESI, SE LA PRENDONO COMODA PER STILARE LE MOTIVAZIONI SCONTATE.

Intanto nell’attesa lungo il languido passar del tempo, in quel di Taranto altri processi si aggrovigliano. Se ne lamenta Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno. Dove appena qualche mese l’ingresso era possibile soltanto tramite accredito o visto della polizia, ieri mattina c’erano solo due cronisti per la requisitoria del pm Remo Epifani nel processo per i 250 milioni di euro di Boc contratti nel 2004 dal Comune di Taranto con l’allora banca Opi: 250 milioni di euro, un quarto del buco procurato al Comune di Taranto da giunte di centrodestra, tanto da portare nel 2006 alla dichiarazione di dissesto per un miliardo di euro, il dissesto più grande d’Italia. Nell’aula dedicata al giudice Emilio Alessandrini, ucciso dai terroristi rossi il 29 gennaio del 1979 a Milano, e solitamente riservata ai processi della corte d’assise come quello per morte di Sarah Scazzi, teletrasmesso in mondovisione, era plastica la rappresentazione della oraziana molle tarentum. Il poeta era innamorato della città dei due mari e si inebriava nelle sue onde calme, placide. Molli, appunto. L’accezione molle tarentum era insomma positiva ma la consuetudine ormai secolare restituisce un altro significato, ovvero che la città di Taranto si affloscia nel giorno in cui dovrebbe invece essere protagonista. Nell’aula Alessandrini ieri mattina non c’era nessuno, a parte gli addetti ai lavori, la tribunetta riservata al pubblico era desolatamente deserta, e così il dottor Remo Epifani, titolare delle principali inchieste sul Comune di Taranto quando l’ente (2000-2006) era guidato dal sindaco Rossana Di Bello (Forza Italia), non ha potuto non cominciare la sua discussione con il rammarico per quel deserto, per quell’indifferenza verso una vicenda che pure ha avuto un ruolo fondamentale sulla città e i suoi cittadini. Perché Taranto è sicuramente la città del caso Ilva, dei veleni emessi dagli impianti dell’area a caldo, dell’attenzione con la quale il Governo e altri poteri forti guardano al futuro dello stabilimento siderurgico, ma è anche la città delle tasse salite al massimo per far fronte ai debiti miliardari accumulati dal Comune, dei servizi ridotti al minimo, degli asili chiusi, dei cantieri bloccati per assenza di liquidità, dei contratti integrativi disdettati, dei concorsi pubblici bloccati sine-die malgrado le evidenti lacune di organico, specie tra i vigili urbani. Il prezzo del dissesto viene pagato ancora oggi da tutti i tarantini, impegnando, malgrado gli anni trascorsi, una parte consistente del bilancio comunale e dunque limitando il raggio d’azione dell’ente. Ma sembra tutto vecchio, una storia passata, archiviata, finita nel dimenticatoio. Certo, i tempi della giustizia non aiutano quasi mai la memoria e non accendono la passione popolare, visto che il trascorrere degli anni non solo ha portato ormai alla seconda legislatura Stefàno, il sindaco di sinistra eletto a furor di popolo nel 2007 e confermato nel 2012, ma rischia di far finire tutti i processi sull’era-Di Bello in prescrizione. Ma Taranto anche quando la scansione degli atti giudiziari è stata più immediata, vicina alle pulsioni dei tarantini come l’esplosione del caso Ilva e i suoi sequestri, arresti, verbali, intercettazioni, è mancata agli appuntamenti. Il flop del referendum consultivo del 14 aprile scorso sulla proposta di chiusura dell’area a caldo dell’Ilva e la partecipazione alle manifestazioni anti-siderurgica di una minoranza, rumorosa autorevole e spesso dotata di argomenti convincenti ma sempre minoranza, restituiscono in maniera efficace l’immagine della «molle e imbelle Tarentum» tratteggiata da Orazio oltre 2000 anni fa. Allora era molle e imbelle perché da tanto tempo non faceva più guerre ed era diventata addirittura luogo di villeggiatura. Oggi lascia finalmente, ma di poco, l’ultimo posto nella classifica della qualità della vita, ma continua a farsi scivolare tutto (e tutti) addosso, tra menefreghismo (il classico ce me ne futt’a mme?) e, forse, rassegnazione.

Prima di iniziare a parlare del proseguo del processo sul delitto di Sarah Scazzi da porre è una domanda semplice e preliminare:

I PRINCIPI DEL FORO, VENUTI DA OGNI DOVE, HANNO VERIFICATO SE IL LORO ASSISTITO HA DIRITTO AL GRATUITO PATROCINIO A SPESE DELLO STATO E PER GLI EFFETTI FARLO ACCEDERE AL BENEFICIO SENZA SVENARSI PER PAGARE IL LORO AVVOCATO?

“Tutti d’accordo sull’ergastolo a Sabrina”, scrive Maria Corbi, inviata ad Avetrana da “La Stampa”. Un giudice rivela: “In Camera di Consiglio c’è stata unanimità”. La tomba di Sarah, monumento al dolore di una comunità, è lì, nel cimitero di Avetrana che si prepara alla festa del patrono, San Biagio. Ma non c’è stata la processione che in molti si aspettavano il giorno dopo la sentenza che ha condannato all’ergastolo Cosima e Sabrina Misseri. Nessuno ha portato un mazzo di fiori.  Per le strade di Avetrana, ancora segnate dal lutto, in pochi vogliono parlare dopo l’orgia mediatica di questi anni che ha dipinto il paese come un luogo oscuro di delitti, misteri e faide. Insieme a Sabrina e Cosima sono stati condannati anche parenti e amici del fioraio che sognò le due donne rapire Sarah. Un «favoreggiamento» per avere detto in aula di aver sempre saputo che quel rapimento si riferiva a un sogno. I giudici ritengono che mentano e d’altronde solo trasformando quel sogno in realtà di poteva condannare Cosima. Un anno ad Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano (cognato e suocera del fioraio Buccolieri), un anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, proprietario di una masseria nota ad Avetrana per le feste di nozze. Non vogliono più sentire parlare di giornalisti, ma agli amici raccontano lo sconcerto per questa condanna. E in questi discorsi è sempre sottintesa la domanda: e se anche loro fossero innocenti? «Non so nulla, non ho seguito il processo», rispondono in molti. Ma la condanna all’ergastolo è come se avesse dato il gong, riportando i fatti dalla fiction alla realtà. La pettegola del paese viene scansata e non ci sono più le folle festanti in piazza dell’arresto di Cosima, la pagina più nera di questo romanzo popolare. Una donna all’ingresso della chiesa si chiede: «E se fossero innocenti? ». In mano ha un giornale locale. Non deve avere avuto dubbi invece il giudice popolare che sul Corriere del Giorno, a sentenza fresca, rilascia un’intervista raccontando i segreti della Camera di Consiglio: siamo sempre stati unanimi. Sarebbe vietato, ma in questa storia le regole sono un optional. Un paese lacerato tra colpevolisti e innocentisti, tra pettegole/i e gente che vuole farsi solo i fatti suoi. Una folla sotto inchiesta in questo paesone stretto tra le province di Brindisi, Taranto e Lecce. La Corte d’Assise ha trasmesso gli atti in procura per falsa testimonianza nei confronti di Ivano Russo, il latin lover della zona, considerato il movente del delitto, e Alessio Pissello, amico di Sabrina. Ma anche Anna Scredo, Annalucia Picchierri, Dora Serrano (la sorella che ha rivelato un tentativo di molestia subìto oltre trent’anni fa da Michele Misseri), Emma Serrano e Giuseppe Olivieri, il datore di lavoro della moglie di Peterra, il testimone che vide Sarah diretta verso casa Misseri prima delle 14 del 26 agosto 2010. «Insomma chiunque abbia riferito fatti e ricordi favorevoli alle tesi difensive adesso rischia di trovarsi sotto processo» commenta Franco De Jaco, difensore di Cosima. Su Avetrana una cappa di dubbi, dolore e rabbia. Mentre a via Deledda, la strada della villetta Misseri, continua il via vai di telecamere e curiosi. Michele accoglie e si fa fare compagnia, mostra il video delle nozze della figlia Valentina, le interviste di Sabrina. «Sono colpevole», ripete tra una distrazione e l’altra. E sono parole che pesano di più, dopo la sentenza e due ergastoli. 

Le motivazioni della condanna devono partire da un dato di fatto.

«Perché non me lo hai detto subito che eri stato tu, papà?». Queste sono state le prime parole pronunciate da Sabrina Misseri, parlando al telefonino con suo padre, la notte del suo arresto. Certamente dialogo non premeditato. Infatti, la notte della prima confessione di Michele Misseri in cui fece ritrovare Sarah, la giovane condannata all’ergastolo insieme alla madre per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, parlò con suo padre. Prima di non parlarsi mai più, infatti, la ragazza e suo padre Michele Misseri, 59 anni, si scambiarono una drammatica telefonata nella notte in cui il contadino di Avetrana fece ritrovare il corpo della nipote uccisa confessandone il delitto (che ritrattò in parte una settimana dopo). In quella breve e ultima conversazione tra padre e figlia, è contenuto l’epilogo della sconvolgente notte, tra il 6 e il 7 ottobre del 2010, che fece perdere le speranze di ritrovare viva la 15enne scomparsa misteriosamente il 26 agosto dello stesso anno. Mentre i due si parlavano, l’orecchio elettronico degli investigatori ascoltava e registrava minuziosamente ogni parola. «Perché non me lo hai detto subito papà? », chiedeva la ragazza al padre. Erano le 3.47. Tutte le edizioni notturne dei telegiornali nazionali avevano già diffuso l’angosciante notizia dell’uccisione di Sarah Scazzi e della confessione dello zio-orco. Anche i giornali avevano già dato alle stampe quella che per diversi giorni sarebbe stata la notizia d’apertura. Il reo confesso aspettava nella caserma dei carabinieri di Manduria di essere trasferito nel carcere di Taranto. Aveva appena firmato il suo primo interrogatorio da indagato (qualche ora prima, quando era crollato, era ancora considerato “persona informata sui fatti”). Il carabiniere che lo teneva d’occhio gli consegnò il telefonino che durante l’interrogatorio aveva squillato più volte. A chiamare era stata sempre Sabrina, sua figlia. Ed era ancora suo il nome che cominciò a lampeggiare sul display alle 3.47 in punto. Michele Misseri guardò il militare, che con un cenno gli fece capire che poteva rispondere alla telefonata. Fu quella una mossa studiata a tavolino dagli investigatori, ai quali interessava molto ascoltare (e registrare) l’inattesa conversazione tra padre e figlia. Sabrina Misseri, dall’altra parte del telefono, si trovava nella villetta in via Deledda ad Avetrana con la sorella Valentina, 28 anni, e la madre Cosima Serrano, 58 anni. Sapevano la stessa cosa che ormai tutti avevano appreso in quelle ore: ad ammazzare Sarah era stato zio Michele. Questo aveva confessato Michele. Aveva dichiarato di aver strangolata Sarah nel garage sotto casa per poi caricarla sull’auto per far sparire il corpo come un animale morto. Per tutti ormai era lui il mostro. Lo era anche per Sabrina, che appena ebbe l’occasione di parlargli non concesse al padre nessun dubbio, nessuna titubanza circa la sua certa colpevolezza: «Perché non me lo hai detto subito papà?» (“che eri stato tu a uccidere Sarah?”, è la naturale continuazione della frase).

Sabrina: «Perché non me lo hai detto subito papà?»

Michele : «… [incomprensibile]… non mi aspettare più.»

Sabrina: «Sì, va bene papà, … io ti voglio parlare, però poi…»

Michele: «Ma chissà quando…»

Sabrina: «No, ma chissà quando…! Vedi che puoi decidere quando vuoi tu per parlare con noi…»

Michele: «Sì, però, se il telefonino lo lasciano a me!»

Sabrina: «Va bene… e tu non ti preoccupare che se tu vuoi parlare con noi alla fine loro ti fanno parlare.»

Michele: «Il telefonino no, stasera è l’ultima telefonata… il telefonino me lo tolgono …»

Sabrina: «Ho capito papà… però gli avvocati poi alla fine gli danno il coso per farti parlare…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Però; papà, perché lo hai fatto? Io non me lo so spiegare proprio… tu non hai fatto mai niente di male… perché in quel momento … cosa ti è venuto?»

Michele: «Non lo so.»

Sabrina: «Poi parliamo…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Ciao.»

Michele: «Ciao.»

Esattamente una settimana dopo quella sconvolgente e chiara ultima conversazione da cui traspare la palese responsabilità, cioè il 15 ottobre 2010, Michele Misseri raccontò la sua seconda verità, coinvolgendo anche la figlia nel delitto della povera Sarah. Sabrina da quel momento in poi si è sempre rifiutata di parlare con il padre e di rispondere alle sue numerosissime lettere scritte e inviatele prima dal carcere e poi da casa. L’uomo ha poi ritrattato quelle confessioni che coinvolgevano la figlia, perché, a suo dire, era stato indotto alla falsa confessione dalla consulente Bruzzone e dall’avvocato Galoppa. Michele, successivamente e per sempre ha continuato ad accusarsi dell’omicidio, ma i giudici non gli credono più e lo hanno condannalo “solo” per il reato di occultamento di cadavere.

Questo succede perché, forse in Italia la legge non è uguale per tutti?

La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Le motivazioni nell’oblio della (In)Giustizia. Mesi in attesa di secumele scontate, laddove, nel limbo della prigione, vi sono persone che potrebbero essere innocenti. E nessuno se ne duole. In attesa delle motivazioni della sentenza di primo grado par di capire che i giudici si debbano barcamenare tra orari e testimoni.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il rapimento onirico di Sarah, avvenuto su una traversa di via Verdi, sia più plausibile dei testimoni che hanno visto la ragazza libera di andare a casa della cugina lungo la via per mare.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’orario anticipato di alcuni testimoni sia più plausibile rispetto all’orario posticipato di altri.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le auto viste da qualcuno siano più plausibili dei furgoni visti da altri.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che nel 2010, ove sussistesse il sentimento della gelosia, questo possa essere elevato a movente.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che una famiglia normale, sia invece un nido di “Macare” o “Masciare”, ossia streghe crudeli, pronte e capaci a nascondere i loro efferati delitti.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che chi si professa da sempre colpevole, sia invece un loro fido e succube servitore.

Insomma, i giudici togati (i popolari poco contano nel vaglio dei convincimenti)  devono dimostrare agli esperti di diritto e non al popolino, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Sarah Scazzi sia morta il giorno, nel luogo, per il motivo e con lo strumento ipotizzato dalla Procura.  Pretese di loro pari a cui è difficile dire di no.

Sarah Scazzi. Aspettando le motivazioni chiediamoci se “ci unu non c’era ulutu cu bai” può aprire la strada a una nuova ipotesi...si chiede Massimo Prati. Per quale motivo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano sono state condannate all'ergastolo? Volendo provare ad anticipare le tanto bramate motivazioni del giudice Cesarina Trunfio, difficili da aggiustare alla sentenza, si può (quasi) tranquillamente affermare che due capisaldi risulteranno il sequestro sognato e chi il sogno lo ha fatto diventare realtà e raccontato: la donna di oltre quarant'anni che si è fatta passare per l'amica confidente di una ragazza di venti. Di Anna Cosima Pisanò ormai se ne sono dette di tutti i colori. Appare l'attore misero di questa drammatica vicenda, quasi una maschera, che non si fa scrupolo, coscientemente o in maniera autosuggestiva, di interpretare le parole degli altri a favore delle teorie della procura (nonché del giustizialismo dei media). Parole a volte stravolte, che se riferite in altra maniera si potevano leggere in modo totalmente contrario, diventate colonne portanti dell’accusa. Lei durante le indagini era l'orecchio della procura, che ascoltava e riportava il chiacchiericcio locale, che si prestava ad effettuare intercettazioni ambientali per conto e con la strumentazione dei Carabinieri. Forse credeva di guadagnare la fiducia di qualcuno? O forse le serviva un aiuto? Il giorno della sua deposizione - 8 maggio 2012 - in lei si è notata chiaramente, quando ad interrogarla erano i procuratori, una sicumera che non ammetteva repliche. E' solo all'entrata in campo dei difensori che ha vacillato fino a cadere più volte nel ridicolo. A quel punto ha perso la calma e forse, fin quando i Pm non hanno potuto aiutarla, si è sentita isolata e non protetta a dovere. La figlia, affermò la Pisanò davanti al pubblico ministero, le disse il 17 marzo 2011 che ad aver visto il sequestro di Sarah era Giovanni Buccolieri, il suo ex datore di lavoro (il nome ai carabinieri però lei lo fece il 5 aprile), ma a chi la contro-interrogò chiedendole il motivo per cui il 4 di aprile, verbalizzata per due ore e mezza sempre dai carabinieri, non avesse fatto il nome del fiorista, disse che quel giorno ancora il nome non lo sapeva (come?, non s'era detto che l'aveva saputo il 17 marzo?). Ma quando allora ne è venuta a conoscenza, le chiese l'avvocato Marseglia. Andando lì dai carabinieri io dissi tutto il racconto, ma non sapevo, ho detto: giuro, non so il nome, se verrò a saperlo ve lo riferirò. Il giorno dopo io premendo mia figlia e girandola e rigirandola, mi disse il nome. E io andai dai carabinieri e dissi: ora posso dirvi il nome. Una contraddizione evidente, dunque, che anche l'avvocato Rella riprese contestandole il verbale del 5 aprile in cui, sempre ai carabinieri, aveva detto di aver saputo che si trattava del fioraio qualche giorno prima... e non il giorno prima. Al che l'avvocato insistette e chiese: ma che intendeva con "qualche giorno fa"?. E la Pisanò a ripetere: il 17 marzo, quando mia figlia è partita per la Germania. Ed ancora il Rella: quindi il 4 aprile lei sapeva il nome del fioraio, perché non lo ha riferito il 4 aprile?. Ed ancora la testimone: ma sono andata a dirlo, ma non sapevo chi era la persona. E qui, alla frase del legale: per me basta così, valuterà la corte d'appello (lapsus che è tutto dire sulle speranze nulle di una assoluzione in primo grado e che dimostra come la mente dell'avvocato fosse già impegnata a valutare i dati da portare al secondo) l'attendibilità di quello che dice. A questa frase la Pisanò immaginò di non essere stata d'aiuto e si scaldò accusando chi la interrogava di volerla imbrogliare. E per davvero in quel frangente era in difficoltà... tanto da costringere sia il dottor Buccoliero che il dottor Argentino ad intervenire più volte per obiettare e interrompere le domande dei difensori. Quindi, a quanto fa intendere la sua testimonianza, la Pisanò si è comportata da agente infiltrato non facendosi scrupolo di raccontare, coscientemente o in maniera autosuggestiva, tutto ciò che ascoltava. Ad esempio, lasciando perdere il tanto riportato sui Misseri, incalza costantemente la figlia che non vuol far nomi e registra la voce della signora Tondo che il giorno in cui le disse di aver visto un fiorista alla Masseria Grottella fu chiamata dagli uomini dell'Arma. Il registratore per questa delicata operazione le viene fornito dai carabinieri la mattina stessa. Questo ammette a processo il brigadiere Biagio Blaiotta che dice di averglielo addirittura portato a casa in vespa, dopo aver acquistato il nastro magnetico che mancava, su sollecitazione di un suo superiore. La Pisanò, invece, a processo dice che si è trattato di un caso, che era in caserma e ha chiesto il registratore, non sapendo neppure se lo avessero, e che i carabinieri glielo hanno dato perché lei era stanca di essere additata in un paese dove nessuno le credeva. E' chiaro che fra i due il più credibile è il brigadiere Blaiotta. Anche perché quanto testimonia, la signora si incasina e pare racconti fatti che non ricorda, in altri pare che ricordi male e perda la memoria fra le tante volte in cui si è presentata in caserma. Però, a parte le varie contraddizioni, c'è un punto nel suo racconto che fa pensare e in cui nessuno è entrato a gamba tesa. Sto parlando del giorno in cui per la prima volta la figlia le parla di quanto ascoltato dal fiorista. La Pisanò dice che è stato a settembre, il 23 o il 24, quindi prima ancora del ritrovamento del cellulare (avvenuto il 29 settembre), e che Vanessa lo sapeva già da quindici giorni. La figlia, interrogata in Germania, sul punto non ricorda. Dice che era ancora caldo e che sua madre ha una memoria migliore. Quindi la data che fornisce la Pisanò, 23 o 24 settembre, per lei può essere giusta. Ora lasciamo perdere il fatto che glielo abbia raccontato quando faceva ancora caldo, perché nel 2010 a Taranto c'erano 27 gradi anche ad ottobre inoltrato, e lasciamo perdere anche la testimonianza della moglie del fiorista, che come ammesso dalla Cerra fu la prima a sapere del sogno e a processo dice che il marito gliene parlò ad ottobre. Lasciamo perdere tutto ma non il fatto certo che la Pisanò, come rimarcato dagli avvocati difensori, abbia comunque continuato a frequentare in amicizia la casa di Cosima e Sabrina... e questo fino al 27 ottobre. Se davvero avesse saputo che qualcuno, chiunque fosse, aveva visto Cosima Serrano far entrare Sarah a forza nella sua auto, in via Raffaello Sanzio e proprio nelle ore in cui si diceva fosse scomparsa, come avrebbe potuto frequentare casa Misseri dal 23 settembre in poi? Come avrebbe potuto considerarsi ufficialmente amica di Sabrina (è la stessa Pisanò a parlare di amicizia in Corte d’Assise) e andarla a consolare (pure la sera della confessione di Michele Misseri) fin quando non fu arrestata e anche dopo tramite gli sms inviati alla sorella Valentina? Ed ancora: perché la Pisanò non parlò del rapimento il 27 ottobre, quando con intento accusatorio narrò ai carabinieri le circostanze come da lei vissute nella mattina del 26 agosto (Sarah non era affatto allegra), nella notte del 6 ottobre (lo sfogo di Sabrina dopo l'arresto del padre) e nel giorno del funerale (il nutella party in casa Misseri)? Quel 27 ottobre riferì anche il discorso della collega di Cosima in merito al fatto che la stessa non fosse andata al lavoro. Perché dunque parlare di tutto e non parlare del “rapimento": evento ben più grave di quella nutella mangiata dopo un funerale, visto che coinvolgeva direttamente Cosima e difficilmente non poteva prevedere una partecipazione di Sabrina Misseri? A queste domande si possono dare solo due risposte. O il 27 ottobre la Pisanò non sapeva del "rapimento", quindi mente o ricorda male quando dice di averlo saputo il 23 o il 24 settembre (e in questo caso per quanto riguarda le date e il sogno hanno ragione il fiorista e i suoi familiari), o ne era a conoscenza ma in maniera diversa: in pratica la voce di un rapimento le era giunta veramente, ma non le era giunto né il nome di chi aveva parlato del sequestro, né quello di Cosima Serrano... e questo ha detto ai carabinieri. Perché non è credibile che la Pisanò, per come l'abbiamo imparata a conoscere, sia riuscita per tanti mesi a tenersi dentro un simile segreto. Visto che già aveva affossato Sabrina Misseri, visto che ancora oggi quando pensa a Sarah le vengono i brividi e sta male (parole sue al processo), se davvero avesse saputo di una Cosima Serrano sequestratrice non sarebbe andata ad aprile a raccontarlo, ma ne avrebbe parlato subito ed avrebbe anche smesso di andare in via Deledda a consolare gli aguzzini della ragazzina. Per cui, anche non avendo un nome da fare, la logica dice che lei la storia ai carabinieri l'ha raccontata subito per come l'ha saputa. A questo punto, dato che il resto lo ha verbalizzato a inizio aprile, c'è da pensare che dopo la sua prima soffiata siano sorti dei problemi. C'è da pensare che se Vanessa insisteva per non farle il nome del fiorista, non fosse in realtà perché aveva giurato sul suo gatto morto di non parlarne a nessuno, ma per motivi ben più pericolosi (per il fiorista e forse anche per lei). Questo perché, guarda caso, il nome del fioraio e il segreto di pulcinella sono usciti dopo la partenza della Cerra dall'Italia, proprio nel periodo in cui tutta Avetrana stava implodendo e voleva Cosima Serrano arrestata perché regista suprema del delitto. E guarda ancora il caso, l'avvento del fioraio fece in teoria anche quadrare il cerchio dei procuratori che senza sogni e fiori erano in alto mare. Inoltre, come è strano sto caso, il fatto che quel 4 aprile la Pisanò non abbia fatto il nome del fioraio, ma anche che non l'abbia fatto subito dopo averlo saputo, il 17 marzo, fa sospettare che il tempo trascorso fra informazione ricevuta e informazione verbalizzata le servisse per far altro, magari a concordare una sorta di salvacondotto per la figlia (chiaramente non lo poteva avere subito, prima si doveva informare chi di dovere e ricevere risposta). Alimentano questo facile sospetto i riscontri su come è stata condotta la deposizione di Vanessa Cerra in Germania (presenti solamente i Pm di Taranto) e la stranezza della sua mancanza in Corte d'Assise, dopo una prima assenza giustificata: quasi che la figlia della Pisanò fosse un testimone marginale che non serviva di ascoltare e si potesse anche esimere da un contro-esame dalle difese. E questo dopo aver ascoltato mezza Avetrana e aver multato di 500 euro l'amica di Sabrina che studiava in Polonia e non si era presentata in tribunale (seppure la difesa fosse disposta a rinunciare all'interrogatorio). E' così impossibile, dunque, che il fioraio abbia assistito a un rapimento in via Raffaello Sanzio? E' così impossibile, in alternativa, che abbia saputo del sequestro da altri, visto che in tanti ad Avetrana sapevano e parlavano? Naturalmente non di un rapimento messo in atto da Cosima Serrano, ma da persone che in zona nessuno può e vuole denunciare. Prima di ipotizzare cerchiamo riscontri che ci aiutino a capire qualcosa in più nelle testimonianze e negli avvenimenti accaduti.

- il 23 novembre 2010 venne ascoltato il geometra La Stella, il quale raccontò che poco prima delle 14.30 del 26 agosto aveva visto "una sagoma esile" provenire da via Verdi mentre un’auto chiara stava compiendo strane manovre all'incrocio tra via Raffaello Sanzio e viale Kennedy (e quindi nei pressi della scuola Briganti). Testimone eccezionale il La Stella, uno dei pochissimi a non aver piegato con il tempo la propria testimonianza a favore della tesi accusatoria. Forse per questo è stato trascurato... o forse di quanto ha detto non si è tenuto conto a causa della "sagoma esile": avesse affermato di aver visto una ragazza poi riconosciuta in Sarah, a quest'ora le due donne forse sarebbero libere.

- il 14 e 15 novembre 2010 vengono ascoltati dai Carabinieri Giusy Nardelli ed il fidanzato Fedele Giangrande, i quali riferiscono di aver visto Sarah in un orario compreso tra le 14.00 e le 14.30 (anche se nei primi video avevano affermato con sicurezza, orologi alla mano, le 14.30) camminare a passo svelto lungo viale Kennedy davanti alla palestra della scuola Briganti, quindi a pochi metri dell’incrocio con via Raffaello Sanzio.

Parlando di testimonianze, nell'ipotesi che sto inseguendo queste due risultano fondamentali perché concordano bene con il racconto giunto alle orecchie della Pisanò. E volendo qualche indagine seria la si poteva fare subito, visto che erano già entrate a far parte degli atti ben prima dell'aprile 2011 quando, tirato in ballo all'improvviso, il fioraio il suo racconto lo cambiò radicalmente spostandolo, probabilmente per paura, in un'altra via. Ma di chi in realtà il Buccolieri poteva avere timore dopo la scomparsa di Sarah? Non certo di Cosima Serrano (a meno di non pensare che la famiglia Misseri ad Avetrana sia l'equivalente di corleonesi e casalesi), perché non è assolutamente credibile neppure il pensiero che avesse paura di lei. Eppure, sempre ragionando nell'ipotesi di un qualcuno che ha rapito Sarah, il fiorista di paura ne aveva talmente tanta che per far in modo di rendersi incredibile, sette mesi dopo spostò l'evento e lo rese incompatibile con quanto raccontato da Vanessa a sua madre... ma soprattutto da quanto verbalizzato dal La Stella e dai fidanzati, visto che lo spostò in una zona di Avetrana incompatibile coi loro avvistamenti. Così facendo si assicurò una certa tranquillità e calmò la sua paura. Paura che di sicuro non aveva delle Misseri, visto che coinvolse Cosima nel rapimento e insinuò che Sabrina fosse sul sedile posteriore. Ma perché inserire proprio loro? Proviamo a far mente locale e a ragionare con quanto sappiamo. La Pisanò a processo disse che quando andava in casa degli avetranesi per chiedere le firme che servivano ad allargare le ricerche, la gente si rifiutava e le diceva di chiedere a Sabrina dove fosse Sarah, che lei l'aveva ammazzata... che tutti dicevano così. Si parla di inizio settembre (ricorderete tutti l'appello di Concetta al Presidente della Repubblica). Quindi, ad ascoltare Anna Pisanò, dello stesso periodo in cui sua figlia Vanessa già sapeva del sequestro. E a questo punto, se in paese si parlava di una Sabrina assassina, del rapimento in via Sanzio non lo sapevano solo il fioraio e la Cerra... o forse ad Avetrana in tanti avevano sognato la stessa cosa? Certo, c'è da chiedersi il motivo per cui la Pisanò, che sempre riportava alle Misseri quanto dicevano gli avetranesi, anche che "per tutti" Sabrina aveva ucciso Sarah, abbia invece taciuto su quanto confidatole dalla figlia. Perché non ha detto a Cosima del sequestro che si diceva avesse compiuto in via Raffaello Sanzio? Come disse loro: "Sai che tutti mi dicono che è stata Sabrina ad uccidere Sarah?", poteva ben dire anche: "Sai che mi han detto che Cosima ha sequestrato Sarah?". Ma la mia è un'ipotesi che non necessita di riscontri o di testimoni validi. E' solo un'ipotesi, quindi su questo punto posso soprassedere, anche se per scrupolo e onestà devo parlare delle tante probabilità che il racconto sul sequestro, poi entrato nelle orecchie degli avetranesi che a settembre dicevano alla Pisanò che l'assassina era Sabrina, potrebbe essere nato, poi propagato a macchia d'olio ma sottovoce, da una colossale chiacchiera partita in ambienti ben informati. Dalla caserma, quindi. In fondo il La Stella aveva visto una figura esile (Sarah?) uscire da via Verdi. In fondo i fidanzati avevano visto Sarah a un passo da via Raffaello Sanzio. In fondo in quei giorni si parlava solo di un rapimento e tutti cercavano risposte investigative. Per cui se di sequestro di persona si trattava, dove poteva essere avvenuto se non in via Raffaello Sanzio? E chi potevano essere i sequestratori? Se non si trattava di loschi individui da non nominare o da sussurrare a bassa voce fra le mura di casa, in una storia del genere si adattavano solo le persone che Sarah frequentava: quindi gli amici grandi, la zia o la cugina. E non mi si dica che i carabinieri a settembre non avessero già pensato a un possibile rapimento in quella via! E non mi si dica che in un paesone dove i brigadieri vanno in vespa a casa degli abitanti, dove ogni famiglia ha almeno un amico o un parente nell'Arma, non ci sia stato nemmeno un carabiniere che a qualche amico o parente ha parlato di questa ipotesi. C'è dunque da chiedersi se il fiorista raccontasse fatti visti coi suoi occhi o saputi da altri. Fatti in cui aveva inserito, riportando quanto ascoltato come l'avesse vissuto in prima persona, le figure più vicine a Sarah. Mica poteva dire che aveva visto il tal pregiudicato (e se gli fosse entrato nel negozio con una scatola di cerini?), mica poteva dire che aveva visto il droghiere o la farmacista (che a malapena conoscevano Sarah), gli unici nomi da fare erano quelli delle Misseri o degli "amici di Sarah". Per questo, sapendo di mentire e per paura che si allargasse la sua chiacchiera, aveva chiesto alla Cerra di mantenere il segreto? Oppure aveva visto davvero la scena descritta e cambiato i personaggi per paura? Se fosse così si spiegherebbe il motivo per cui a un paio di giorni dal suo primo verbale, sentendosi in colpa per aver tirato in ballo Cosima al posto di altri, trasformò quanto visto in un sogno, in un ricordo quasi inconscio, al limite tra realtà e immaginazione onirica. Un sogno pieno zeppo di dettagli il suo, ma pur sempre un sogno che si scontra con chi dichiara di aver saputo di un fatto realmente accaduto. Una posizione quella di Buccolieri e della sua famiglia ribadita "eroicamente" anche a processo a costo di essere incriminati per falsa testimonianza. Naturalmente la Cerra, che ha dato il via al tutto confidandosi con la madre e non coi carabinieri, non ha questi problemi, si intende. Lei è ben tranquilla in quel di Germania: la Pisanò non l'ha messa in mezzo quando ha ricevuto la confidenza e quando, se davvero voleva giustizia per Sarah, doveva farlo. Se lo avesse fatto i carabinieri avrebbero saputo subito del fioraio, molto prima del ritrovamento del cellulare, noi saremmo stati certi della "verità" dichiarata dalla Pisanò sette mesi dopo e le indagini di quel settembre al buio, in cui una Concetta disperata chiedeva aiuto a tutti, si sarebbero illuminate. Ma la Cerra il nome non lo fece, e questo fa pensare se si parla di realtà e non di sogno, ed ora è in una botte di ferro grazie a un provvidenziale intervento della madre che, la logica ci da alte probabilità, per lei ha concordato una sorta di amnistia, visto che non è stata accusata di favoreggiamento (tutti quelli orbitanti attorno al fioraio lo sono stati), e neppure obbligata a testimoniare al processo, questo è strano, nonostante abbia nascosto per mesi informazioni utili alle indagini. L'accusa minore che dovrebbe caderle addosso, se in futuro il sogno per i giudici risulterà reale e il fiorista venisse condannato per falsa testimonianza e intralcio alle indagini. Ma quale sarebbe in realtà la falsa testimonianza del Buccolieri? Quella di aver detto che si era sempre trattato di un sogno, o quella di aver spostato il racconto da via Sanzio a via Umberto I in un orario differente e compatibile unicamente con le altre ritrattazioni, ma non con le testimonianze del La Stella e dei fidanzati? Perché se il fiorista avesse realmente visto il rapimento di Sarah ad opera di personaggi ignoti (o troppo noti e magari pericolosi) lungo la via Raffaello Sanzio intorno alle 14.30, si spiegherebbero allora i timori che lo frenano e che gli hanno impedito di andare dai Carabinieri. Si spiegherebbe il repentino, non appena coinvolto, cambio da racconto reale a sogno che ha portato all'arresto di Cosima ed alle condanne. C'è in Avetrana e dintorni qualcuno che può essersi sentito tranquillizzato dal suo dietrofront, che ha comunque permesso di far quadrare il cerchio alla procura e di archiviare qualsiasi altra indagine che non coinvolgesse i Misseri? In teoria è possibile. E sempre in teoria si può quindi ipotizzare che un sequestro di persona, ad opera di ignoti in via Sanzio, possa essere avvenuto. Sicuramente tanti di voi, se non tutti, si domanderanno: "Se col sequestro non c'entrano né Cosima né Sabrina, Michele Misseri come entra in questa fantasiosa ipotesi? Come avrebbe potuto sapere del cadavere di Sarah in quel pozzo? Perché avrebbe dovuto confessare un delitto non compiuto? Perché avrebbe dovuto coinvolgere in un secondo tempo la figlia? Come mai era in possesso del cellulare di Sarah?". Per cercare di dare risposte proviamo a ripercorrere quanto fatto da Michele Misseri ipotizzando che Sarah sia stata rapita da qualcuno estraneo alla sua famiglia, quindi accantoniamo le sue poliedriche confessioni e ragioniamo su quanto è uscito agli atti. Stando alle testimonianze, il Misseri quasi ogni pomeriggio andava ad aiutare il cognato a raccogliere i fagiolini nel campo confinante con casa sua (sulle 15.00 o poco più). Quel 26 agosto fino alle 14.55 lo si trova ad armeggiare con la macchina parcheggiata davanti al garage e agli occhi della figlia pare tranquillo, tanto che per due volte le dice di non aver visto Sarah. Quindi, almeno apparentemente, non manifesta stati d’animo alterati. Poi, però, improvvisamente si allontana dicendo a Sabrina, al telefono, che sta andando in campagna (non ai fagiolini) e alla moglie che deve andare in una masseria da dove sono scappati dei cavalli. In realtà, non considerando vera la confessione sull'istantaneo occultamento, non si sa dove si sia recato. Non vi sono testimoni che l'abbiano visto o incrociato e lui sparisce per 45/50 minuti. Infatti solo alle 15.50 si unisce al cognato nella raccolta dei fagiolini, a quel punto quasi terminata, ed anche in quel frangente sembra tranquillo. Ora, non avendo certezze (neppure sull'orario del suo arrivo ai fagiolini), se non qualche telefonata partita o arrivata al suo cellulare che lo posizionano fuori Avetrana dalle 15.00 alle 16.00 circa, possiamo ipotizzare che quel periodo di assenza abbia a che fare con la scomparsa di Sarah. Ma è un tempo esiguo per farci star dentro sia la scampagnata con un corpo nel bagagliaio, andata e ritorno, sia la pulizia della parte esterna della cisterna, sia l'occultamento del cadavere che la successiva focarina, fra l'altro da lui osservata fino a trasformazione dei solidi in cenere (oltre alle varie ed eventuali: abiti tolti messi e ritolti). Però, in realtà, non sappiamo neppure cosa abbia fatto dopo la raccolta dei fagiolini. Non viene notato da nessuno e solo il suo cellulare, in orari diversi, lo colloca in Avetrana. Il padre di Mariangela dichiara di avergli parlato davanti alla villetta, presumibilmente verso le 16.30, e il Misseri gli avrebbe detto che si sarebbe recato alla Riforma o a Contrada Centonze per cercare notizie di Sarah dai suoi parenti (Cosimo Cosma abita in contrada Centonze). Non vi sono però conferme al fatto che abbia telefonato in loro presenza, a meno che le 16.30 non siano in realtà le 18.28, ora in cui zio e nipote si sono sentiti al telefono. Ma l'orario non coincide, quindi il contadino quel pomeriggio è scomparso nuovamente dalla scena. Dove è andato? Alla Riforma? In Contrada Mosca? Anche questo è impossibile da sapere. Come è impossibile sapere se davvero verso sera fosse già in possesso del cellulare di Sarah, visto che le testimonianze sulla sim sono contraddittorie. Per cui, ipotizzando che il Misseri non c'entri con l'omicidio, come d'altronde dice e vuole la procura, ma anche che non abbia sequestrato e ucciso la nipote fra le 14.28 (orario dello squillo inviato Sarah alla cugina che in teoria poteva anche indicare un suo arrivo di fronte al cancellino) e le 14.40 (orario in cui in via Deledda arriva Mariangela Spagnoletti), è probabile che durante la sua prima o seconda assenza da Avetrana abbia, in alternativa:

- assistito o partecipato all'omicidio di Sarah, sia in modo non volontario che attivo, impossessandosi del cellulare e degli oggetti personali per un futuro fuoco liberatorio (poi evitato al telefonino).

- ritrovato il cadavere di Sarah occupandosi di calarlo nel pozzo dietro indicazione del vero assassino (soggetto pericoloso che minaccia lui e la sua famiglia?) e quindi recuperando, forse di nascosto, il cellulare dal falò degli indumenti e degli oggetti personali.

- ritrovato il cellulare di Sarah senza però sapere cosa capitato alla nipote, venendone a conoscenza solamente in un secondo tempo.

- chiesto a qualcuno di informarsi per sapere se qualche personaggio poco raccomandabile avesse fatto del male al Sarah.

Pur ammettendo altre possibili soluzioni, è comunque ipotizzabile che il 26 agosto il Misseri fosse perfettamente conscio che per la nipote ci fossero poche speranze e forse che sapesse già anche il nome di chi l'aveva rapita. Tuttavia, a causa del suo carattere normalmente schivo, nessuno si accorse di un suo turbamento o stato emotivo alterato. Ora, ammesso che non fosse direttamente coinvolto nell'omicidio, se non avvenuto nel primo pomeriggio ma in un secondo tempo, ma sapesse della morte di Sarah, com'è possibile che non abbia cercato di indirizzare, magari in forma anonima, le ricerche e le indagini? Le uniche risposte possibili sono tre: che si trovasse vincolato a non farlo perché sotto pesante minaccia, che non volesse farlo perché qualche scheletro sarebbe uscito dal suo armadio, o, in alternativa, perché avrebbe dovuto coinvolgere persone con le quali aveva forti legami e segreti in comune. Comunque sia, dal 27 agosto il Misseri entra in un periodo di limbo durante il quale di lui non si sa quasi nulla, se non l’immagine fornitaci dai media: quella di uno zio preoccupato per la nipote. E questo fino alle prime ore del 29 settembre, quando mette in scena la pantomima del ritrovamento casuale del cellulare tra i resti di un piccolo falò da lui stesso appiccato il giorno precedente. Ma per quale incredibile motivo il Misseri volle a tutti i costi far ritrovare il telefonino? Tante risposte sono state date e tutte sempre contrarie ai membri della sua famiglia. Ma ipotizzando un sequestro avvenuto in via Sanzio e una morte successiva al 26 agosto... non è invece probabile che lui sperasse, dando il cellulare agli inquirenti, che da quell'oggetto i carabinieri potessero risalire agli assassini della nipote? Mentre accompagna il brigadiere a recuperare il cellulare bruciato, ma anche in altre occasioni si evince questo timore, una delle sue preoccupazioni riguarda le impronte digitali, quasi che grazie a quelle si potesse avere nome e cognome di chi aveva ucciso la nipote. Ma era anche preoccupato che si trovassero solamente le sue di impronte, visto che ad un certo punto aveva dovuto toccarlo a mani nude, come dice al brigadiere e si evince da un'intercettazione in carcere, mentre in precedenza si era premurato di evitare tale contatto. In un passaggio della sua prima confessione parla di un dettaglio assolutamente non compatibile con lo stato d’animo di chi ha appena ucciso una ragazzina: afferma di aver avvolto il cellulare in una pezza di stoffa e di averlo messo nell'abitacolo della sua auto. Perché? Cosa doveva preservare con quello straccio? Quindi, sempre nell'ipotesi, “chiamiamola fantasiosa”, di Sarah rapita e uccisa da "estranei" alla famiglia Misseri, è molto probabile che i reali colpevoli non sapessero che il cellulare fosse in possesso del contadino e che solamente dopo il ritrovamento abbiano avuto timore di venire scoperti... cominciando così solo dal 29 settembre in poi a fare forti pressioni su di lui (minacce di ritorsioni contro le sue figlie). Se fantasticando si ipotizza in questa ottica, risulta molto interessante l'analisi del famoso “soliloquio” del 5 ottobre, quando fu intercettato all'interno della sua auto. L’intercettazione avviene il giorno prima della convocazione in Procura e il giorno dopo la comunicazione della stessa. Potevano esserne al corrente anche gli assassini? E’ probabile che "qualcuno" li abbia informati o che ne abbiano avuto conoscenza diretta aumentando ulteriormente le pressioni e le minacce. Difatti le parole del Misseri, pronunciate in italiano misto a dialetto, potrebbero anche essere lette sotto una luce differente. Lui disse:

“Mi dispiace per la mia familia... (2 sec di pausa) ci onu (termini incomprensibili) io mò li scoprirò... (5 sec di pausa) ce ola diciunu, diciunu quiri, ce la bolunu a fannu, fannu... a filiata... iu no li creu... (45 sec di pausa) ci unu non c’era ulutu cu bai...”

Che sinora è stato tradotto in questo modo:

“Mi dispiace per la mia famiglia... (2 sec di pausa) se vanno (termini incomprensibili) io adesso li scoprirò... (5 sec di pausa) cosa vogliano dire, dicano quelli, che vogliono fare, fanno... a tua figlia... io non li credo (45 sec di pausa) se uno non fosse voluto andare...”.

Non entrando in sottili traduzioni dal dialetto avetranese (o di Manduria), ci si può attenere alla traduzione fornita dai Carabinieri e notare come il Misseri dica di non voler credere a qualcuno (io non li credo). Ma a chi non avrebbe dovuto credere? Inoltre, sebbene si sia detto che il contadino sovente confonda singolare con plurale, dice proprio di voler “scoprire” più soggetti maschili (io adesso li scoprirò), e non la moglie e la figlia perché in questo caso avrebbe usato il femminile e detto: io adesso le scoprirò (non credo che in dialetto il contadino faccia gli stessi errori che fa quando parla in italiano). E se i “soggetti” del soliloquio fossero proprio i reali assassini della nipote che lo avevano, probabilmente, prima coinvolto e poi minacciato? Si spiegherebbe allora il timore che possa accadere qualcosa a sua figlia, magari la stessa sorte toccata a Sarah. Poi ci sono le ultime parole che molto dicono; “...se uno non fosse voluto andare” lascia decisamente pensare che sia stato chiamato sul luogo del crimine ed abbia "solo" partecipato all'occultamento del cadavere. Questo spiegherebbe la maggiore credibilità della sua confessione sull’occultamento.

Ed ora, dopo la lunga premessa per intonare i pensieri a nuove idee, è giunto il momento di chiederci cosa può essere accaduto quel 26 agosto. Noi non c'eravamo, ma questo non ci vieta di ipotizzare. Quindi proviamo a fantasticare e a pensare alla vita di Michele Misseri, a un contadino che passa una buona fetta della sua giornata fuori casa in una zona in cui la delinquenza non manca, come d'altronde non manca in tutte le altre zone d'Italia e del mondo, e che da qualche mese è cambiato, è diverso, è più nervoso, tanto che con la moglie litiga per qualsiasi cosa. Non gli pare di vivere in famiglia e si chiude ancora di più in sé stesso, o trova una valvola di sfogo nella frequentazione con altri, con persone che prima vedeva di rado e non considerava, persone che magari frequentavano la sua sfera parentale ma non la sua casa? Proviamo a pensare per un attimo che questo sia vero e che a quelle persone, in quel periodo o anche precedentemente, abbia fatto qualche favore... parlo di favori che gli hanno fatto entrare scheletri schifosi nell'armadio. Proviamo quindi a pensare che in discorsi scambiati in sua presenza, qualcuno poco raccomandabile abbia inserito la nipotina bionda che stava crescendo. Che una frase recepita in maniera allarmante, o anche in maniera scherzosa a cui non aveva dato peso, gli sia tornata alla mente alle 15.50 del 26 agosto, quando Sabrina gli disse che Sarah non si trovava. Fino a quel momento era nel suo garage tranquillo, il trattore non partiva e lui, come quasi ogni giorno, sulle tre sarebbe andato a raccogliere i fagiolini. Ma quando viene a sapere che Sarah non è né a casa sua, né per strada, tutto cambia. La frase recepita in maniera allarmante o scherzosa, o un qualsiasi altro discorso ascoltato in precedenza sulla nipote, gli torna alla mente... ed ecco che decide di andare a verificare di persona. Dice alla moglie che va in campagna e chiama il fratello: gli serve un nome, un indirizzo o un aiuto perché le persone da cui deve recarsi non sono delle più tranquille? Comunque sia, per scrupolo si reca a cercare conferme o smentite. Le trova in quell'ora scarsa in cui il suo cellulare risulta fuori Avetrana, o non le trova e lascia a chi è più avvezzo a trattare con certe persone l'incarico di trovarle? Una persona di fiducia che poi lo informerà? Quando viene a sapere cosa è successo a Sarah? Il 26 stesso, o, come può essere anche possibile, il 27 agosto? Cosa accade quando si trova di fronte al cadavere della nipote? Lui è solo e gli altri sono personaggi pericolosi? Non può essere che venga costretto a seppellire il corpo, per renderlo partecipe al crimine, con la minaccia di far fare a Sabrina la stessa fine di Sarah? Minaccia reiterata per far sì che non parli a nessuno di quanto sa? Minaccia che si unisce allo scheletro che si ritrova nell'armadio? Per cui, se così fosse, viene imbrigliato in una storia da cui non sa come uscire. Ma Sarah è in quella cisterna, la sogna, il senso di colpa lo stordisce e vuol farla uscire. Ma come fare a denunciare i veri colpevoli senza parlarne ai carabinieri? Senza metterci il suo volto e senza far rischiare la sua famiglia? Ed ecco che, forse, crede di aver trovato la soluzione. Lui non parlerà, non può farlo, ma le impronte che crede si trovino sul cellulare di Sara, quello che non ha bruciato ma avvolto in uno straccio, forse sì. Per cui lo lascia in ogni posto sperando che qualcuno lo porti ai carabinieri. Ma il tempo passa e a nessuno pare interessare quel cellulare... ed allora si espone facendolo trovare. Crede che ci siano le impronte, che una volta rilevate i colpevoli salteranno fuori senza il suo aiuto. Ma non è così che funziona. Subito si viene a sapere che il telefonino lo ha fatto trovare lo zio e qualcuno si incazza di brutto. In quel momento tutti hanno paura di lui. Il nipote preferito sparisce e il fratello lo chiama solo per avere informazioni, sia 29 settembre dopo il ritrovamento del cellulare, sia il 6 ottobre prima che entri nell'ufficio dei Pm. Prima che, dopo ore di contraddizioni, confessi il delitto inventando una dinamica stringata alla quale non è facile credere perché troppo piena di lacune e imprecisioni, troppo piena dei suggerimenti di chi lo interroga e di tempistiche improbabili. L'unico punto in cui è davvero credibile riguarda l'occultamento del cadavere. E per quanto inverosimile, nella ipotesi fantasiosa che sto inseguendo si incastra perfettamente anche la confessione sul vilipendio. Se difatti il Misseri fosse giunto sulla scena del crimine, perché chiamato o portato, ed avesse trovato a terra il corpo nudo della nipote, sarebbe stato istintivo per lui pensare ad una violenza carnale. E confessando l'omicidio, per risultare credibile doveva assumersene la paternità... visto che non sapeva cosa avrebbe accertato l'autopsia. Da quella sua ricostruzione lacunosa si passa al lavoro svolto dal suo avvocato, Daniele Galoppa, che per attenuarne la responsabilità cercò di spostare l'asticella portandola sulla casella dell'omicidio colposo commesso dalla figlia. Senza però accordarsi in precedenza con Sabrina, senza chiederle se fosse d'accordo a farsi passare per assassina e a stare un paio d'anni in carcere al posto di suo padre. Il caos nato successivamente lo conosciamo e dopo aver letto le trascrizioni delle udienze non è difficile ammettere che la procura a processo non ha portato alcuna vera certezza. Solo illazioni ed ipotesi prive di conferme. Anch'io fantasticando ho fatto illazioni, seppure seguendo altre ricostruzioni, illazioni che se fatte a settembre da chi poteva unirle alle testimonianze del La Stella e dei fidanzati, ovvero all'ipotesi su un sequestro compiuto da estranei in via Raffaello Sanzio, avrebbero spostato il baricentro investigativo decisamente su altri soggetti. E già che si possano fare illazioni e ipotesi diverse da quelle accettate a processo dai giudici, significa che non c'è sicurezza di nulla e si è condannato in base a convincimenti personali. Perché comminare ergastoli senza avere le giuste sicurezze non è ciò che vuole il nostro Codice Penale. In ogni caso non è detto che questa idea sia quella giusta, non è detto che il tutto lasci pensare alla malavita organizzata locale, maestra nel far scomparire nei pozzi i cadaveri delle vittime (anche se quando le ricerche si ampliano, i giornalisti pullulano e a cercar cadaveri son tanti, è sempre meglio trovare una cisterna sicura), perché ci potrebbero stare pure indagini similari orientate verso un'altra cerchia di conoscenze del Misseri. E qui mi fermo, perché avventurarsi in simili illazioni potrebbe diventare molto rischioso e altamente diffamante...

Eppure c’è chi è sicura della sua verità.

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione.

Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

La stampa di Taranto e i corrispondenti locali di testate nazionali, salvo qualche rara eccezione in provincia, sono stati il megafono della procura di Taranto, sposandone in toto la strategia giudiziaria. Sono stati i primi a denigrare Avetrana; i primi a condannare senza processo i protagonisti della vicenda, iniziando proprio dalla vittima: da Sarah Scazzi. Mai una critica ai magistrati su come sono state svolte ricerche ed indagini. Critiche devolute addirittura dal supremo organo di giustizia. Poco spazio alle difese, salvo che non fossero quelle dedicate “alla ricerca della verità” (attività, questa, però, propria della magistratura). Sin dall’inizio vi sono state indiscrezioni a danno degli indagati, frutto di fughe di notizie. Nessuno come i giornalisti tarantini hanno violato la deontologia. Si impari da Maria Corbi de “La Stampa” come si redigono i servizi asettici e cos’è la coerenza. Ella non usa e getta. La vicenda di Sarah Scazzi culmina con la gogna mediatica dell’arresto di Cosima Serrano, con claque a seguito, in concomitanza con la chiusura dei salotti in tv. L’arresto preannunciato per dare tempo alle troupe televisive di ritornare ad Avetrana e stazionare in via Deledda per riprendere in diretta Cosima in manette. Evento atteso da mesi. Anche i mostri, quando sono tali, meritano il dovuto rispetto. Avetrana non è quella latrante contro Cosima. Avetrana è quella che pretende giusta pena in giusto processo, senza gogna mediatica, né tintinnar di manette.

L´intervista di “Positano News” a l´associazione Scienza per Amore perseguitata perchè impegnata in un progetto umanitario? Il“Bits of Future: Food for All”, promosso dall'associazione Scienza per Amore, hanno già aderito sette Paesi Africani, ha ricevuto il plauso e l'interesse della Presidenza della Repubblica Italiana e di importanti istituzioni e organizzazioni estere (FAO, IFAD, Banca Mondiale e Banca Africana di Sviluppo), il fine del Progetto è la concessione in comodato d'uso gratuito delle installazioni Hyst ai Paesi africani". Patrizia Vitale, dell'associazione Scienza per Amore, è entusiasta di Bits of Future.

Cos'è la tecnologia Hyst…

«La tecnologia Hyst produce, attraverso il trattamento di biomasse di scarto e residui agricoli, diversi prodotti
da destinare all'alimentazione umana, zootecnica e alla produzione di biocarburanti. I risultati delle applicazioni della Hyst sono stati analizzati dall'Università di Milano e riconosciuti dai Ministeri preposti (Ministero della Salute, Ministero delle Politiche Agricole) e da altre Università italiane tra cui La Sapienza di Roma».

Sembra tutto molto interessante, purtroppo...

«Questo progetto sta subendo da oltre 4 anni una continua persecuzione attraverso parole di fango che cercano di contrastare la realtà dei fatti che è comprovata da certezze scientifiche. L'associazione e tutti noi, quasi duecento membri. Siamo stati oggetto di una pesante gogna mediatica. Una situazione che ha causato danni materiali e morali, non solo a noi, ma a tutti coloro che hanno aderito al Progetto, a partire dai Paesi Africani che, con l'uso della Hyst, in questi 4 anni avrebbero potuto far fronte ai gravi problemi di carenza alimentare ed energetica che li affliggono».

Cosa è successo?

«Accuse  partite nel mese di luglio del 2009, inizialmente a carico del primo promotore del progetto (ed allora presidente della ex-associazione R.E. Maya), poi anche verso alcuni soci che si sono adoperati per il progetto, a Danilo Speranza sono stati attribuiti reati di riduzione in schiavitù dei soci della ex- R.E. Maya, che è stata definita una “setta” con a capo un “guru”, Danilo Speranza, secondo i denuncianti, aveva inventato l'esistenza di uno scienziato, di una tecnologia e di un progetto umanitario con il fine di arricchirsi tramite i contributi volontari estorti agli associati».

E che altro?

«A suo carico sono giunte simultaneamente anche accuse di violenza sessuale da parte di due ragazze minorenni, figlie di due associate, tutte le prove scientifiche lo scagionano completamente da queste accuse. Le varie denunce sono state depositate stranamente il giorno prima della firma che sanciva l’acquisizione della tecnologia da parte dell'Associazione. Sarebbe dovuto essere un momento storico per tutta l'Associazione, ma così non è stato. Dopo più di tre anni di indagini, le accuse non sono state supportate da alcun riscontro scientifico né da alcuna prova concreta, ma hanno solo rallentato l'avvio del progetto umanitario, forse nella speranza di una rinuncia da parte dell'Associazione a far valere i propri diritti. Sono stati aperti quindi due procedimenti: uno a Tivoli per abusi e uno a Roma per truffa. Gli stessi inquirenti hanno collegato tali procedimenti consegnando ai due tribunali la stessa documentazione. Le accuse, che si basano su “tesi mutanti”, inizialmente mettevano in dubbio l'esistenza stessa della tecnologia. Quando invece è stata dimostrata l'esistenza degli impianti e quindi della Hyst, le accuse, depositate a più riprese, sono modificate dichiarando che “la tecnologia produce veleni”. Ovviamente menzogne. Inoltre, la consulenza tecnica della ASL disposta dal P.M. non ha trovato traccia di alcun veleno; e la stessa ha anche confermato i risultati positivi relativi ai prodotti Hyst così come già rilevato dall'Università di Milano. La consulenza disposta dal P.M. è stata gravemente manipolata. Le indagini relative al caso da qualche mese sono state affidate a un altro procuratore poiché il precedente PM è stato arrestato. Ora la chiusura delle indagini - "Notificata la chiusura delle indagini", con art. 415 bis cpp, nella quale compaiono 17 indagati: persone che, come me, hanno dedicato parte della loro vita ad un Progetto Umanitario. La chiusura delle indagini del procedimento a Roma ha dato il via ad una nuova gogna mediatica, da parte di alcuni giornalisti, disonesti intellettualmente, incapaci di condurre un'inchiesta seria. Noi siamo tutti in attesa che qualcuno ci ascolti e che la magistratura esamini le certificazioni e le prove scientifiche. La nostra speranza è quella di vedere il prima possibile un impianto Hyst in funzione in uno di quei Paesi africani in cui sarebbe così utile. I Paesi in Via di Sviluppo hanno compreso la vitale importanza della Hyst e ce la stanno chiedendo a gran voce».

Siete molto preoccupati?

«Saremmo dei marziani se non fosse così».

Le baby squillo dei Parioli e l'ultima gogna giudiziaria. Per una settimana un dirigente della banca d'Italia è stato indicato come uno dei clienti pedofili. Tutto falso, era un errore. Ma non è ora di finirla? Si chiede Maurizio Tortorella su “Panorama”. La gogna mediatico-giudiziaria, crudele istituzione italiana, torna a fare danni irreparabili. Per oltre una settimana il vicecapo del Dipartimento d'informatica della Banca d'Italia, Andrea Cividini, 58 anni, è stato descritto dalle cronache nazionali come uno dei clienti delle due ragazzine «parioline» di 14 e 15 anni, che si prostituivano a Roma. I giornali, evidentemente attingendo a informazioni in mano agli inquirenti romani, hanno scritto e ri-scritto che il telefono di Cividini era tra i 40/50 che si collegavano con maggiore assiduità a quello delle due squillo minorenni. Le cronache sono state severe, indignate; e i commenti anche peggio: Gad Lerner è stato tra i più duri. Ecco che cosa ha scritto venerdì 14 marzo: «Escono con il contagocce, sempre per via delle speciali reticenze loro concesse dal nostro turbamento, i nomi dei clienti delle baby-prostitute dei Parioli. Definirli pedofili? Macché, il marchio non si applica se la “merce-corpo” desiderata e comprata ha apparenze maggiorenni: credevo avesse 19 anni come scriveva nella sua vetrina sul web… Dopo Mauro Floriani, il fascista-maiale marito della fascista col nome famoso, che ha infine ammesso ciò che prima tentò di negare, da oggi conosciamo anche il nome di un dirigente della Banca d’Italia: è Andrea Cividini, 58 anni...». Vicenda davvero paradossale: perché nel suo scritto Lerner critica quasi come una indebita, vergognosa autocensura la «reticenza» dei giornali sui nomi dei futuri, potenziali indagati. È invece bastato aspettare sei giorni e si è scoperto che Cividini non c'entrava nulla. Perché il cellulare «incriminato» non era suo, ma apparteneva alla Banca d'Italia, e l'ente non lo aveva dato in uso a lui, bensì a un collega (il cui nome per fortuna viene ora un po' più accortamente coperto dal segreto, forse per paura di nuovi, possibili, disastrosi errori di persona...). Il punto è che, mentre in prima battuta il nome di Cividini veniva scritto nei sommari degli articoli ed esposto nemmeno fosse una preda, nel momento in cui s'è capito che era stato accusato ingiustamente tutto è stato nascosto nel corpo degli articoli. Uno si domanda come debba sentirsi il malcapitato, o che cosa debba avere patito lui, la sua famiglia. Viene da domandarsi anche se Cividini abbia figli, e che cosa sia accaduto loro a scuola... Ma sono problemi che evidentemente non sfiorano quanti sono convinti che garanzie e tutele degli indagati, ma un po' anche la prudenza, siano soltanto una «speciale reticenza». Purtroppo sono in tanti. 

La gogna di Maurizio Tortorella. Casa editrice:  Boroli. Data pubblicazione:  luglio 2011. Come i processi mediatici e di piazza hanno ucciso il garantismo in Italia. Quando i processi si trasferiscono dalle aule di giustizia ai mezzi d'informazione, con pressanti campagne di stampa, vi è il rischio che risulti compromesso il principio costituzionale della presunzione d'innocenza, e che i “processi mediatici” si trasformino in un anticipo di condanna, senza possibilità di appello. Calogero Mannino, il ministro "mafioso", e il suo calvario durato quasi due decenni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo abbia avuto inizio. Silvio Scaglia, l'imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxifrode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Roteili, il "re delle cliniche private" accusato per quattro anni di un'odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto quasi in silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c'è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell'inchiesta Why Not. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso "Magnanapoli". Sette recenti casi giudiziari, sette storie di grande attualità raccontate attraverso le carte processuali e le relative cronache giornalistiche trasformate in condanne preventive. Calogero Mannino, il ministro «mafioso», e il suo calvario durato 18 anni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo avesse inizio. Silvio Scaglia, l’imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxi-frode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Rotelli, il «re delle cliniche private» accusato per quattro anni di un’odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto in totale silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c’è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell’inchiesta Why Not dell’ex pm Luigi De Magistris. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso Magnanapoli. Racconta le loro vicende «La Gogna» (Boroli editore, 160 pagine, 14 euro), il libro scritto dal vicedirettore del settimanale «Panorama», Maurizio Tortorella.  Sette recenti casi giudiziari, sette storie esemplari che raccontano i perché della morte del garantismo in Italia. In realtà, è dai tempi di Mani pulite, quando parte dei tribunali e delle redazioni cominciarono a piegarsi alla strumentalizzazione politica, che la gogna non ha mai smesso di funzionare: da allora, reclama sempre nuove vittime. E anche con la pubblicazione di migliaia d’intercettazioni la cronaca giudiziaria, che dovrebbe esercitare anche un qualche controllo sull’attività inquisitoria, si è trasformata in strumento, se non in megafono, delle procure.  Ogni inchiesta, quando se ne appropriano i mass media, si trasforma in un massacro senza salvezza, anche per il più saldo degli indagati. Vincono sempre le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il mostro che si nasconde nell’espressione «opinione pubblica», portato al guinzaglio da chi ne sa condizionare le pulsioni, reagisce sempre allo stesso modo di fronte all’apertura di un’indagine: ogni volta prevale una presunzione di colpevolezza che è l’esatto contrario del precetto costituzionale. Per questo «La Gogna» è un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura e pezzi dell’informazione. Tortorella, come inviato speciale di «Panorama», dai primi anni Novanta, ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i processi che ne sono derivati. È coautore di «L’ultimo dei Gucci» (1995, MarcoTropea Editore e 2002, Mondadori) e di «Rapita dalla giustizia» (2009, Rizzoli).

Scrive Giulia De Matteo per "Il Foglio”. La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d'ordine ("cricca", "la rete di relazioni", "appaltopoli", "l'affare") da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l'indagato nell'angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l'indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro "La Gogna" (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un'analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C'è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall'accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull'isola della Maddalena (poi spostato a L'Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l'apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l'indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo' di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l'opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l'età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l'articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell'indagato e dell'imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L'apertura di un'indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell'articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E' questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. "La Gogna" come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell'operazione "Why Not"). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

Tutto questo nonostante il potere mediatico si sia dato una parvenza di legalità. Naturalmente intervento inattuato!!

Codice Tv e Giustizia. Agcom: stop ai processi show in tv. I diritti inviolabili della persona pietra angolare del lavoro giornalistico. Così scrive Franco Abruzzo. Ordine dei giornalisti, Fnsi, Rai, Mediaset ed emittenti radio tv hanno firmato il CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. L'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. Sarà l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente.

Roma, 21 maggio 2009. Stop a i processi scimmiottati in tv o trasferiti impropriamente dalle aule di giustizia al piccolo schermo: l'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. E' stato siglato ieri pomeriggio a Roma, nella sede dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. A sottoscrivere l'intesa sono state le principali emittenti nazionali (Rai, Mediaset, T.I. Media), la Federazione Radio Televisioni, l'Aeranti-Corallo, l'Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della Stampa e l'Agcom. Il Codice, che esegue un atto di indirizzo dell’Agcom del gennaio 2008 e che è frutto di 18 mesi di paziente lavoro intorno ad un tavolo comune cui hanno partecipato tra gli altri i Presidenti emeriti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, autorevoli giuristi e rappresentanti del Csm, entrerà in vigore entro il 30 giugno 2009 dopo la costituzione di Comitato di controllo cui spetterà il compito di accertare eventuali violazioni e proporre le misure del caso. Sarà poi l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente. E’ stato così finalmente attuato quanto più volte sollecitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi".  Oltre al Presidente Agcom, Corrado Calabrò, erano presenti il Presidente della Rai Paolo Garimberti, il Presidente Mediaset Fedele Confalonieri, il Vice Presidente RTI Gina Nieri, l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni, il Presidente FRT-Federazione Radio Televisioni Filippo Rebecchini, il Presidente Aeranti-Corallo Marco Rossignoli, il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Roberto Natale e il consigliere Pierluigi Roesler Franz per l’Ordine nazionale dei giornalisti. «E' una svolta nella comunicazione – ha detto il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente alla firma in veste di "notaio" - Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile». Garimberti ha parlato di «opera meritoria», Confalonieri e Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione». Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».  Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. Con tale atto le parti s’impegnano ad osservare le seguenti regole nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore un’adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili, o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

ALLEGATO A

CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE IN MATERIA DI RAPPRESENTAZIONE DI VICENDE GIUDIZIARIE  NELLE TRASMISSIONI RADIOTELEVISIVE

Le emittenti radiotelevisive pubblica e private, nazionali e locali e i fornitori di contenuti radiotelevisivi firmatari o aderenti alle associazioni firmatarie, l’Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana, d’ora in avanti indicate come parti

VISTI gli articoli 2, 3, 10, 11, 15, 21, 24, 25, 27, 101, 102 e 111 della Costituzione italiana e gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;

VISTO l’articolo 3 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante “Testo unico della radiotelevisione”, secondo il quale sono principi fondamentali del sistema radiotelevisivo la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere, l’obiettività, la completezza, la lealtà e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose e la salvaguardia delle diversità etniche e culturali, nel rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali della persona, in particolare della dignità della persona e dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del minore, garantiti dalla Costituzione, dal diritto comunitario, dalle norme internazionali e dalle leggi statali e regionali;

CONSIDERATO che ai sensi dell’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”;

CONSIDERATO che ai sensi dell’art. 471, comma 1, del codice di procedura penale “l’udienza è pubblica a pena di nullità”, e che l’art. 147 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271, nel consentire la ripresa e la diffusione dei dibattimenti processuali, ne esplicita ed accentua la naturale destinazione alla pubblica conoscenza;

VISTA la Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13) relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali, la quale, nel ricordare i principi fondamentali in materia quali il diritto alla libera manifestazione del pensiero, il diritto di rettifica o di replica, il diritto al giusto processo, la tutela della dignità della persona e della vita privata e familiare, elenca i principi ispiratori dell’attività giornalistica in rapporto ai procedimenti penali e invita gli Stati membri a promuovere, anche attraverso gli organi di autodisciplina, il rispetto da parte dei media dei citati principi; nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali;

VISTA la Carta dei Doveri dei Giornalisti sottoscritta da CNOG e FNSI l’8 luglio 1993, la Carta di Treviso del 5 ottobre 1990, il Vademecum Carta di Treviso del 25 novembre 1995, la Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai;

VISTO l’“Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive” approvato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con delibera n. 13/08/CSP, il quale, nel declinare i principi e i criteri relativi alle trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, invita i soggetti interessati a redigere un codice di autoregolamentazione al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai predetti principi e criteri;

CONSIDERATO che il principio costituzionale secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo titolare della sovranità, che può anche direttamente parteciparvi, esige che la collettività in cui il popolo consiste sia informata nel modo più ampio possibile dei fatti attinenti a vicende giudiziarie nonché dell’andamento delle medesime e dei modi in cui in relazione ad esse la giustizia sia in concreto amministrata in suo nome;

CONSIDERATO altresì che l’esigenza informativa è assolta primariamente dai mezzi di comunicazione di massa che, a norma dell’art. 21 della Costituzione come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, concorrono a fornire alla pubblica opinione un’informazione completa, obiettiva, imparziale e pluralistica;

RILEVATO che l’attività professionale dei giornalisti e in genere degli operatori dell’informazione, in quanto comporta la necessità di raccogliere e valutare fatti ed indizi, vagliarne l’attendibilità, organizzarli secondo logica e assumerli o rifiutarli come elementi di convincimento per l’espressione del proprio pensiero in forma assimilabile al giudizio, il quale ultimo però si svolge secondo puntuali regole procedurali e trova parametri valutativi prefissati in precise norme, che tuttavia sono suscettibili di interpretazione al pari dei fatti ai quali esse vanno applicate, lasciando dunque inevitabili margini di opinabilità che comportano una relazione solo presuntiva di corrispondenza tra il giudicato e la verità dei fatti stessi.

RILEVATO, ancora, che l’attività informativa in forma di cronaca e critica giudiziaria su fatti oggetto di accertamento giurisdizionale si svolge inevitabilmente in stretto parallelismo con questo, solo così potendo assicurare il raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di rendere edotta la comunità mediante la formazione della pubblica opinione sugli eventi e sulle persone nei cui confronti, in suo nome, la giustizia è amministrata;

CONSIDERATO che tale andamento parallelo determina le condizioni di un circuito virtuoso potendo, in particolare, dare impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti nella prospettiva dell’espansione degli spazi di garanzia degli indagati e degli imputati, della completezza delle indagini e della maturazione del libero convincimento dei giudici;

CONSIDERATO che l’essenziale funzione di informazione accompagna ma non sostituisce la funzione giurisdizionale, rispettando l’esigenza di evitare la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori i processi in corso;

CONSIDERATA la necessità costituzionale di preservare la libertà di manifestazione del pensiero degli operatori dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa da ogni forma di pressione o censura, anche a garanzia del diritto dei consociati a ricevere informazioni complete, veritiere e pluralistiche;

CONSIDERATO altresì l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale libertà, i diritti inviolabili alla dignità, alla onorabilità e alla riservatezza, specificamente tutelati dalla presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 Cost., delle persone, specie se soggetti deboli in ragione dell’età minore o per altre cause, a qualunque titolo aventi parte in vicende giudiziarie o che, pur a queste estranee, possano in qualsiasi modo con esse trovarsi in occasionale rapporto di connessione; dovere da valutare, quanto alla esigibilità del suo corretto adempimento, in connessione con l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

PRESO ATTO che la peculiarità del mezzo radiotelevisivo, destinato alla narrazione per immagini in movimento, implica la modalità espressiva della rappresentazione scenica – comune peraltro agli aspetti “liturgici” della celebrazione processuale - la quale, se non contenuta in ragionevoli limiti di proporzionalità, può trascendere in forme espressive suscettibili di alterare la reale figura dell’indagato o imputato e di altri soggetti processuali o estranei al processo;

CONDIVIDENDO l’esigenza segnalata nella delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 13/08/CSP di disciplinare le modalità di rappresentazione televisiva delle vicende giudiziarie in corso, attraverso una scelta di autoregolamentazione da parte dei soggetti titolari del diritto costituzionale di liberamente manifestare il pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, anche a garanzia della formazione di una libera e consapevole opinione pubblica quale fondamento del sistema democratico;

IN CONTINUITÀ con un’autonoma tradizione di autodisciplina, ispirata al comune intendimento di assicurare il massimo grado possibile di effettività ai valori costituzionali sopra richiamati che, a partire dalla Carta di Treviso e dalla Carta dei doveri del giornalista, ha consolidato nel tempo l’acquisizione e l’attuazione dei criteri di un ponderato bilanciamento tra diritto-dovere dell’informazione, i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza della persona umana e i principi del giusto processo;

dopo ampio confronto in sede di “tavolo tecnico” istituito con la citata delibera AGCOM e ricevuta dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni l’attestazione che il testo elaborato risponde compiutamente ed in modo satisfattivo alle indicazioni da essa ivi formulate, che ne rimangono pertanto attuate

ADOTTANO

il presente Codice di autoregolamentazione di seguito denominato “Codice in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive”.

Articolo 1

1. Le parti, ferma la salvaguardia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione in sé e a garanzia del diritto dei cittadini ad essere tempestivamente e compiutamente informati, e ferma altresì la tutela della libertà individuale di manifestazione del pensiero, che implica quella di ricercare, acquisire, ricevere, comunicare e diffondere informazioni e si esprime segnatamente nelle forme della cronaca, dell’opinione e della critica anche in riferimento all’organizzazione, al funzionamento e agli atti dei pubblici poteri incluso l’Ordine giurisdizionale, si impegnano ad adottare nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso le misure atte ad assicurare l’osservanza dei principi di obiettività, completezza, e imparzialità, rapportati ai fatti e agli atti risultanti dallo stato in cui si trova il procedimento nel momento in cui ha luogo la trasmissione, e a rispettare i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza costituzionalmente garantiti alle persone direttamente, indirettamente od occasionalmente coinvolte nelle indagini e nel processo.

2. Ai fini di cui al comma 1, nelle trasmissioni radiotelevisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie, le parti si impegnano a:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore una adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

Articolo 2

1. L’accertamento delle violazioni del presente Codice, comprensivo delle indicazioni formulate con la citata delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni , alle quali esso compiutamente risponde, e l’adozione delle eventuali misure correttive sono riservati alla competenza di un apposito Comitato che le parti sottoscrittrici ed aderenti si impegnano a costituire entro il 30 giugno 2009.

2. In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all’Ordine professionale.

Articolo 3

1. Il presente Codice è aperto all'adesione da parte di altri soggetti iscritti al ROC presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e a loro associazioni e consorzi.

2. L’adesione comporta la piena accettazione del presente Codice.

Articolo 4

Il presente Codice entra in vigore all’atto di costituzione del Comitato di cui all’art. 2.

Roma, 21 maggio 2009

Per Rai – Radiotelevisione Italiana Spa: Dott. Paolo Garimberti, Presidente; Prof. Mauro Masi, Direttore Generale

Per RTI – Reti Televisive Italiane Spa: Dott. Fedele Confalonieri, Presidente Mediaset; D.ssa Gina Nieri, Vice Presidente R.T.I.

Per Telecom Italia Media Spa: Dott. Mauro Nanni, Amministratore Delegato

Per l’Associazione Aeranti – Corallo: Avv. Marco Rossignoli, Presidente e Coordinatore Aeranti – Corallo

Per l’Associazione FRT – Federazione Radio e Televisioni: Dott. Filippo Rebecchini, Presidente

Per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti: Dott. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere Nazionale

Per la Federazione Nazionale della Stampa: Dott. Roberto Natale, Presidente

ALLEGATO B

Gazzetta Ufficiale N. 39 del 15 Febbraio 2008 AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI  DELIBERAZIONE 31 gennaio 2008. Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive. (Deliberazione n. 13/08/CSP).

L'AUTORITA'

Nella riunione della Commissione per i servizi ed i prodotti del 31 gennaio 2008;

Visti gli articoli 2, 3, 21, 24, 25, 27, 101 e 111 della Costituzione italiana;

Visti gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;

Vista la legge 31 luglio 1997, n. 249, pubblicata nel supplemento ordinario n. 154/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 177 del 31 luglio 1997, ed in particolare l'art. 1, comma 6, lettera b), n. 6;

Visto il decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante «Testo unico della radiotelevisione», pubblicato nel Supplemento Ordinario n. 150/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 208 del 7 settembre 2006, ed in particolare i suoi articoli 3, 4 e 34, che delineano quali fondamentali principi dell'informazione, tra gli altri, quelli della lealtà ed imparzialità, della salvaguardia dei diritti fondamentali e della dignità della persona, della tutela dei minori;

Visto l'Atto di indirizzo sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo approvato dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi nella seduta dell'11 marzo 2003, secondo il quale, in particolare:

«1. Tutte le trasmissioni di informazione - dai telegiornali ai programmi di approfondimento - devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell'informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio; ai direttori, ai conduttori, a tutti i giornalisti che operano nell'azienda concessionaria del servizio pubblico, si chiede di orientare la loro attività al rispetto dell'imparzialità, avendo come unico criterio quello di fornire ai cittadini utenti il massimo di informazioni, verificate e fondate, con il massimo della chiarezza... .... omissis.... 4. Considerato che la legge garantisce agli imputati e alla loro difesa di tacere quando loro può nuocere; considerati altresì i vincoli ai quali la legge obbliga i magistrati, sia requirenti che giudicanti nel rapporto con i mezzi di informazione, in tutte le fasi del giudizio; nei programmi della concessionaria del servizio pubblico aventi ad oggetto procedimenti giudiziari in corso, l'esercizio del diritto di cronaca, come l'obbligatorio confronto tra le diverse tesi dovrà essere garantito da soggetti diversi dalle parti che sono coinvolte e si confrontano nel processo. La scelta di questi soggetti - la cui delicatezza è evidente – appartiene esclusivamente alle decisioni dei responsabili dei programmi»;

Visti i codici di autoregolamentazione applicabili alla comunicazione radiotelevisiva, e, in particolare, la «Carta di Treviso sul rapporto Informazione-Minori» del 5 ottobre 1990 e il suo addendum del 25 novembre 1995, la «Carta dei doveri del giornalista «sottoscritta dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della Stampa italiana in data 8 luglio 1993, la «Carta dell'informazione e della programmazione a garanzia degli utenti e degli operatori del servizio pubblico - RAI» del dicembre 1995, il «Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attivita' giornalistica» (allegato A1 del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196);

Considerato quanto segue:

1. Alcuni programmi televisivi mostrano la tendenza a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie ricostruzioni di vicende giudiziarie in corso, impossessandosi di schemi, riti e tesi tipicamente processuali che vengono riprodotti, peraltro, con i tempi, le modalità e il linguaggio propri del mezzo televisivo, i quali si sostituiscono a quelli, ben diversi, del procedimento giurisdizionale. Si crea cosi' un foro «mediatico» alternativo alla sede naturale del processo, dove non si svolge semplicemente un dibattito equilibrato tra le opposte tesi, ma si assiste a una sorta di rappresentazione paraprocessuale, che giunge a volte perfino all'esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio, cosi' da pervenire, con l'immediatezza propria della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico, in apparenza degno di fede, sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria. Tanto più accreditato risulta tale convincimento quanto più, nella percezione di massa, la comunicazione televisiva svolge una sorta di funzione di validazione della realtà. In tal modo la televisione rischia seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia: e può accadere che effetti «coloriti» o «teoremi giudiziari alternativi» o rappresentazioni suggestive (a volte persino con l'utilizzazione di figuranti) prevalgano sull'obiettiva e comprovata informazione, con il concreto rischio di precostituire presso l'opinione pubblica un preciso giudizio sul caso concreto, basato su una «verità virtuale» che può influire, se non prevalere, sulla «verità processuale», destinata per sua natura ad emergere solo da una laboriosa verifica che richiede tempi più lunghi, portando addirittura, in casi deteriori, a un giustizialismo emotivo e sbrigativo, talora non alieno da tratti morbosi.

2. La tecnica della spettacolarizzazione dei processi, che le trasmissioni televisive utilizzano a fini di audience, amplifica a dismisura la risonanza di iniziative giudiziarie che, per il loro carattere spesso semplicemente prodromico e cautelare, potrebbero nel prosieguo del processo anche rivelarsi infondate e risultare quindi superate, con il rischio della degenerazione della trasmissione in una sorta di «gogna mediatica» a scapito della presunzione di non colpevolezza dell'imputato e, in ultima analisi, della tutela della dignità  umana e del diritto al «giusto processo», garantiti dalla nostra Costituzione e dai principi comunitari. E la «gogna mediatica» può  diventare già  essa stessa una condanna preventiva, inappellabile e indelebile.

3. Il livello di civiltà di uno Stato si misura innanzitutto dal rispetto per la giustizia. E da un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Tuttavia, non si può supplire ai tempi troppo lunghi della giustizia trasferendo il giudizio dalle aule giudiziarie alla televisione, in violazione del canone della centralità del processo, quello vero, quale unica sede deputata dall'ordinamento alla ricerca e all'accertamento della «verità». La cronaca può indubbiamente riferire del processo, ma non può spingersi a crearne un surrogato che, nella pretesa di ricostruire la vicenda delittuosa, ne amplifichi a dismisura e - in un certo senso - ne rinnovi e incrudisca gli effetti lesivi. Il processo deve essere svolto dal giudice competente, l'accusa va sostenuta dal pubblico ministero, la difesa va fatta da avvocati che conoscano il diritto e gli incartamenti processuali: il tutto secondo regole che garantiscano il regolare e appropriato svolgimento del processo e i diritti fondamentali della persona. Non e' pertanto ammissibile - e contrasta con gli indirizzi dettati dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi sul pluralismo informativo - che il ruolo di giudici, accusatori e difensori sia svolto da giornalisti o conduttori televisivi o, comunque, da soggetti estranei, senza quelle garanzie che nella cultura giuridica del Paese rappresentano un caposaldo dello Stato di diritto.

4. L'attenzione distorta, insistente e talora parossistica dedicata a taluni pur gravi fatti delittuosi comporta notevoli rischi di alterazione, anche perché l'estremizzazione mediatica dell'indagine nel suo farsi processo da un lato inevitabilmente amplifica le sofferenze della vittima e dei suoi congiunti (trasformando il dolore della persona in spettacolo pubblico, in contrasto con elementari istanze di tutela della persona), e dall'altro enfatizza, spettacolarizzandolo, il ruolo dell'imputato, che esce dall'anonimato per venire oggettivamente proposto come un vero e proprio protagonista della vita sociale «mediatica», con risultati abnormi e talora aberranti, vuoi sul versante della deturpazione dell'immagine vuoi sul versante di un'enfatizzata notorietà che regala a protagonisti negativi una celebrità distorsiva dei valori di una società civile.

5. Né è da escludere o da sottovalutare il pericolo che una siffatta rappresentazione «mediatica» del processo - ispirata più dall'amore per l'audience che dall'amore per la verità in programmi delle principali emittenti televisive che occupano con grande ascolto la prima e la seconda serata - possa influenzare indebitamente il regolare e sereno esercizio della funzione di giustizia. Esiste, in particolare, il pericolo dell'identificazione dell'organo giurisdizionale con la «platea dei telespettatori» che rischia di mettere a repentaglio l'indipendenza psicologica del giudicante (anch'essa valore costituzionalmente rilevante), facendo risentire la pressione di un processo di piazza dei nostri tempi sul processo nella sede giudiziaria. Con la conseguenza che, quando il processo reale approderà al suo esito giudiziario, la sentenza, se conforme all'esito della rappresentazione televisiva, appaia nient'altro che la tardiva rimasticatura di quell'esito tempestivamente raggiunto e, se difforme, venga contaminata dal sospetto di una distorsione dal giusto esito che, per frange non trascurabili del pubblico, rimane quello del processo celebrato in TV, impressosi ormai nella memoria dei telespettatori. Per altro verso, un'attenzione sproporzionata a un certo «caso» può determinare una «personalizzazione» delle indagini che competono al giudice, esponendo così il singolo magistrato a tentazioni di protagonismo mediatico (oltre che a rischi personali) e sottoponendolo ad una sovra-pressione che può mettere a repentaglio la correttezza delle dinamiche di funzionamento del processo.

6. La problematica rappresentata, nei suoi molteplici risvolti, e' di estrema delicatezza, in quanto in essa confluisce la considerazione di plurimi valori costituzionalmente garantiti: in sintesi, da un lato la libertà di espressione e di opinione, il diritto di informare e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivo anche del diritto di cronaca - che costituiscono estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero affermata dall'art. 21 della Costituzione; dall'altra la salvaguardia delle libertà individuali e della tutela della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.), nonché il diritto al «giusto processo» tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 6) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 47). Il compito di contemperare i contrapposti interessi in gioco e' difficile e sfuggente, dovendosi ben ponderare, nella loro relazione reciproca, valori ciascuno di per sé meritevole di considerazione, di rispetto e di tutela.

7. La vigente disciplina delle riprese audiovisive dei dibattimenti (art. 147 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) già fornisce una misura - ed un caveat sulla necessità - di contemperamento degli interessi in gioco: garanzia del diritto di cronaca, ma anche salvaguardia delle personalità individuali. Omologo al diritto di cronaca e' il principio della pubblicità delle udienze, immediatamente riconducibile al disposto dell'art. 101 della Costituzione: in un sistema democratico che garantisce la sovranità popolare, e nel quale la giustizia e' amministrata in nome del popolo, devono esistere meccanismi di controllo sui modi di esercizio della giurisdizione. Dall'altra parte vi sono però i valori connessi al rispetto di alcune importanti prerogative dell'individuo, tra cui l'onore e la riservatezza. La norma dianzi citata prevede che ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca il giudice, se le parti consentono, può autorizzare in tutto o in parte la ripresa audiovisiva del dibattimento, purchè non ne derivi un pregiudizio al regolare svolgimento dell'udienza o della decisione. L'autorizzazione può essere data pure senza il consenso delle parti «quando esiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Anche quando autorizza la trasmissione, il presidente vieta la ripresa delle immagini di parti e testimoni, periti, consulenti ed altri soggetti presenti, se i medesimi non vi consentono. Infine, non possono essere autorizzate le trasmissioni di processi che si svolgono a «porte chiuse». Secondo autorevole dottrina, la norma testè esaminata non ha fugato i dubbi che il dibattito sulla «cronaca giudiziaria» ha sollevato. Come vi e' un interesse sociale alla conoscenza del dibattimento, infatti, vi e' anche un interesse generale a non turbare lo svolgimento del processo.

8. La vigente normativa sul sistema radiotelevisivo pone tra i principi fondamentali del settore la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo (inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni), l'obiettività, la completezza, la lealtà e l'imparzialità dell'informazione, nel rispetto delle libertà e dei diritti, in particolare della dignità della persona e dell'armonico sviluppo dei minori, garantiti dalla Costituzione, dalle regole di base dell'Unione europea, dalle norme e convenzioni internazionali e dalle leggi nazionali. Ne deriva che nell'ordinamento della comunicazione i principi rappresentati dalla libertà di espressione, di opinione e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivi certo anche del diritto di cronaca, costituzionalmente garantito, - devono pur sempre conciliarsi con il rispetto delle libertà e dei diritti, e in particolare della dignità della persona; ne discende che a tale rispetto non e' possibile derogare neanche nel caso in cui la persona sia sottoposta a procedimento giudiziario o sia stata condannata con sentenza definitiva.

9. Ferma la necessità di evitare ogni menomazione ed ogni ingiustificato limite al diritto di informazione, si ritiene, pertanto, che la rappresentazione in televisione di temi di cronaca giudiziaria non possa reputarsi totalmente esente da regole, ma debba osservare una serie di limiti modali, riconducibili in primis all'ambito della deontologia professionale, tali da evitare il rischio che attraverso la spettacolarizzazione di vicende delittuose e giudiziarie vengano compromessi i principi di correttezza, lealtà, equità e completezza dell'informazione, nonchè i valori del rispetto della dignità umana e del diritto al «giusto processo».

Considerato che ai sensi dell'art. 7 del «Testo unico della radiotelevisione» l'attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque emittente o fornitore di contenuti esercitata, costituisce un servizio di interesse generale e deve garantire il rispetto dei principi ivi recati, la cui osservanza e' resa effettiva dall'Autorità attraverso le regole dalla stessa stabilite.

Ritenuta la necessità che - in considerazione della delicatezza e degli aspetti marginali di opinabilità del problema - al soddisfacimento delle esigenze di correttezza della rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive si proceda attraverso un'opportuna e responsabile scelta di autoregolamentazione degli operatori interessati, in considerazione del valore costituzionalmente garantito della libertà di espressione del pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, valore che si traduce nell'esigenza che la democrazia sia basata su una libera opinione pubblica. Ravvisata, pertanto, l'utilità dell'istituzione di un apposito tavolo tecnico presso l'Autorità con l'obiettivo di promuovere la redazione, da parte degli operatori, di un corpo di regole di autodisciplina in tale materia.

Ritenuta, peraltro, necessaria al corretto dispiegarsi delle dinamiche autoregolamentari l'individuazione di criteri a presidio degli interessi tutelati dalle norme vigenti nella materia.

Ritenuta, pertanto, l'opportunità di adottare in questa sede un apposito atto di indirizzo sui criteri relativi alle corrette modalità di rappresentazione della materia delle indagini e dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive, anche in vista del successivo impegno autoregolamentare dei soggetti interessati. Udita la relazione dei Commissari Giancarlo Innocenzi Botti e Michele Lauria, relatori ai sensi dell'art. 29 del regolamento concernente l'organizzazione ed il funzionamento dell'Autorità.

Delibera:

Art. 1. Criteri sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive.

1. Le emittenti radiotelevisive pubbliche e private, nazionali e locali, e i fornitori di contenuti radiotelevisivi su frequenze terrestri, via satellite e via cavo - ferme la garanzia della libertà d'informazione e del pluralismo dei mezzi di comunicazione nonchè la salvaguardia della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o comunicare informazioni - sono tenuti a garantire l'osservanza dei principi normativi di obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione, rispetto delle libertà e dei diritti individuali, ed in particolare della dignità della persona e della tutela dei minori, in tutte le trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, quale che sia la fase in cui gli stessi si trovino.

2. I soggetti di cui al comma 1, al fine di garantire l'osservanza dei suddetti principi, si attengono, in particolare, ai seguenti criteri:

a) va evitata un'esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva, anche per le modalità adoperate, delle vicende di giustizia, che non possono in alcun modo divenire oggetto di «processi» condotti fuori dal processo. In particolare vanno evitati «processi mediatici», che, perseguendo il fine di un incremento di audience, rendano difficile al telespettatore l'appropriata comprensione della vicenda e che potrebbero andare a detrimento dei diritti individuali tutelati dalla Costituzione e delle garanzie del «giusto processo;

b) l'informazione, fermo restando il diritto di cronaca, deve fornire notizie con modalità tali da mettere in luce la valenza centrale del processo, celebrato nella sede sua propria, quale luogo deputato alla ricerca e all'accertamento della «verità»: dovranno pertanto essere seguite modalità tali da tenere conto della presunzione di innocenza dell'imputato e dei vari gradi esperibili di giudizio, evitando in particolare che una misura cautelare o una comunicazione di «garanzia» possano rivestire presso l'opinione pubblica un significato e una concludenza che per legge non hanno;

c) la cronaca giudiziaria deve sempre rispettare i principi di obiettività, completezza, correttezza e imparzialità dell'informazione e di tutela della dignità umana, evitando tra l'altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico che amplifichi le sofferenze delle vittime e rifuggendo da aspetti di spettacolarizzazione suscettibili di portare a qualsivoglia forma di «divizzazione» dell'indagato, dell'imputato o di altri soggetti del processo; deve inoltre porre sempre in essere una tutela rafforzata quando sono coinvolti minori, dei quali va salvaguardato lo sviluppo fisico, psichico e morale;

d) restando salva la facoltà di sviluppare sui temi in esame dibattiti tra soggetti diversi dalle parti del processo nel rispetto del principio del contraddittorio ed assicurando pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti intervenienti, vanno evitate le manipolazioni tese a rappresentare una realtà virtuale del processo tale da ingenerare suggestione o confusione nel telespettatore con nocumento dei principi di lealtà, obiettività e buona fede nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) quando la trasmissione possa inferire sui diritti della persona, l'informazione sulle vicende processuali deve svolgersi in aderenza a principi di «proporzionalità», accordando pertanto alle informative e alle analisi uno spazio equilibratamente commisurato alla presenza e all'entità dell'interesse pubblico leso e raccordando la comunicazione al grado di sviluppo dell'iter giudiziario, e quindi al livello di attendibilità delle indicazioni disponibili sulla verità dei fatti.

Art. 2. Codice di autoregolamentazione

1. I soggetti di cui all'art. 1, comma 1, singolarmente o attraverso le proprie associazioni rappresentative, sono invitati a redigere un codice di autoregolamentazione, con il concorso dell'Ordine dei Giornalisti e delle organizzazioni rappresentative delle professionalità della stampa, al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai principi e ai criteri individuati nel presente atto di indirizzo.

2. L'Autorità, con separato provvedimento, provvederà ad istituire un tavolo tecnico in funzione di promozione ed ausilio rispetto alla elaborazione del codice e alla definizione delle modalità della sua redazione e sottoscrizione.

3. L'Autorità, nell'ambito della propria competenza, uniformerà la propria attività di vigilanza in materia al rispetto delle norme e dei principi richiamati, avendo specifico riguardo alle disposizione del codice di autoregolamentazione.

La presente delibera e' pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e nel Bollettino ufficiale e sul sito web dell'Autorità ed e' trasmessa alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Napoli, 31 gennaio 2008

Il presidente Calabro'. I commissari relatori Innocenzi Botti – Lauria

Pierluigi Franz replica al presidente dei cronisti Guido Columba: “Il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto  dei diritti dei cittadini, dall’altro. “Il codice  riconosce la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso”.

Caro Presidente,  sono rimasto assolutamente sconcertato dal Tuo farneticante comunicato odierno: "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca. - Hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom - Soltanto lo scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" (Allegato A). E mi meraviglio che un cronista bravo ed esperto come Te sia riuscito a mettere insieme così tante inesattezze e imprecisioni senza neppure leggere l'ampio ed articolato preambolo al Codice, ricco di citazioni di numerose norme in vigore che soprattutto i giornalisti devono comunque conoscere e rispettare. Ad esempio, quando affermi nel titolo che "Fnsi e Ordine hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom, mentre soltanto nello scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" dimentichi un particolare tutt'altro che trascurabile. Difatti, successivamente - anche grazie al mio modesto contributo - il testo del Codice é stato del tutto modificato su un passaggio chiave per i giornalisti iscritti all'Albo. Si tratta in particolare dell'art. 2, secondo comma, che prevede testualmente che "In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all'Ordine professionale". Di conseguenza mentre fino a febbraio scorso concordavo pienamente con te e con i colleghi del Consiglio nazionale contrari all'approvazione di quella prima Bozza del Codice perché non potevano essere varate nuove regole a carico dei giornalisti in aggiunta a tutte quelle già esistenti (Costituzione della Repubblica, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13 -relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali - nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, codice penale, codice di procedura penale, codice civile, legge sulla stampa del 1948, legge n. 69 del 1963, Carta dei doveri, Carta di Treviso, Codice della Privacy, Testo unico della radiotelevisione, Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai; ecc.), la nuova formulazione accolta dal tavolo tecnico e dal Presidente dell'Authority Corrado Calabrò ha ovviamente ribaltato la situazione perché mantiene l'esclusiva competenza degli Ordini regionali territorialmente competenti così come era già avvenuto per il Codice di autoregolamentazione dell'informazione sportiva "Codice media e sport". E nell'ultima seduta del Cnog del 6-7 maggio 2009 se ne é preso atto, come delle dichiarazioni anch'esse favorevoli del Presidente della Fnsi Roberto Natale. Appare quindi del tutto inverosimile e fuorviante il sottotitolo "biforcuta" (come, cioé, se l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Fnsi avessero la lingua biforcuta di indiana memoria) al Tuo comunicato "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca" quando dovresti sapere che non é affatto vero, anzi é l'esatto contrario. E te lo dice uno come me come ha trascorso più di 30 anni in Cassazione, che si é letto una montagna di Gazzette Ufficiali e circa 600 mila sentenze della Suprema Corte e della Consulta, e che conosce circa 220mila tra leggi, codici e Trattati internazionali. A mio parere il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive, cui hanno lavorato tra gli altri due ex Presidenti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, fa, invece, finalmente chiarezza su una materia delicatissima che era stata più volte al centro di discussioni e polemiche. Mi limito solo a ricordarTi che:

1) il 30 gennaio scorso il Primo Presidente della Cassazione Vincenzo Carbone nella sua relazione sull'amministrazione della giustizia nella cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2009 al "Palazzaccio" di piazza Cavour a Roma aveva sottolineato la necessità di "evitare la realizzazione di veri e propri processi mediatici, simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre é ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali. La giustizia deve essere trasparente, ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria";

2) il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento dello scorso anno al Consiglio Superiore della Magistratura si era richiamato ai principi affermati dalla nostra Costituzione e insiti sia nell'ordinamento nazionale, sia in quello comunitario, osservando che l'indirizzo rivolto il 31 gennaio 2008 dal Presidente dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni Calabrò costituisce "un atto puntuale e fermo contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi";

3) il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente ieri alla firma in veste di "notaio" ha ribadito che il Codice rappresenta «una svolta nella comunicazione. Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile»;

4) Il presidente della Rai Paolo Garimberti ha parlato di «opera meritoria», il Presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione», mentre Roberto Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».

In conclusione ti ricordo che contrariamente a quanto affermi nel Tuo comunicato il Codice trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto dei diritti dei cittadini, dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione, in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso. Ti sarei molto grato se volessi rendere nota questa mia richiesta di rettifica del Tuo comunicato, essendo gravemente lesivo della mia onorabilità. Cordialmente. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

MEDIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME? NO! DALLA PARTE DEI MAGISTRATI.

“No. Più che altro avrei voluto che avesse seguito la mia religione. Io appartengo ai Testimoni di Geova e avrei voluto che restasse tra noi fratelli, come noi Testimoni di Geova ci chiamiamo l’un l’altro: tra noi sarebbe stata più al sicuro. Noi Testimoni di Geova nemmeno nella fantasia possiamo pensare di uccidere una persona, figuriamoci realmente. Lo dicevo sempre a mia figlia che chi non ama Dio non può amare te. Non l’ho mai obbligata a seguirmi, forse in questo ho sbagliato?” Così Concetta Serrano, la mamma di Sarah Scazzi, in un’intervista. Fervente Testimone di Geova che spingeva la figlia ad abbracciare la sua stessa fede, ma Sarah non voleva saperne, scrive “Articolo 3”. Inquietanti le coincidenze che ricorrono nella vita di due giovani scomparse o massacrate ed i Testimoni di Geova. Un’atra Sara al centro di un giallo ancora irrisolto, la scomparsa di Roberta Ragusa.  Si tratta di Sara Calzolaio, la giovane amante di Antonio Logli, il marito della giovane donna. Sara è stata allontanata dai Testimoni di Geova, dopo la scoperta della relazione con Logli. Dissociazione, la definiscono, una specie di morte civile, morti agli occhi della comunità e dannati in eterno per una delle colpe, a loro dire, più gravi: l’adulterio, aggravato dal fatto che sia stato commesso con un partner al di fuori della comunità, chissà poi perché. Sembra che anche Roberta, da ragazzina, avesse bazzicato nella comunità, della quale probabilmente la madre era un’adepta, e si racconta che ultimamente si fosse riavvicinata alla comunità. Un universo sessuofobo, quello dei Testimoni di Geova, e di sesso dietro ai misteri di Sarah e Roberta ce n’è tanto. Un mondo chiuso, greve, che non conosce vie di mezzo, fatto di minacce e maledizioni, in cui il perdono è vocabolo ed esercizio sconosciuto.

«Vorrei incontrare Sabrina: mi piacerebbe aiutarla ad iniziare un cammino giusto agli occhi di Dio. Farle capire che la scena di questo mondo sta per cambiare e resta poco tempo per farsi perdonare. Geova Dio, nella sua misericordia, è pronto a perdonarla nel momento in cui lei compie i passi richiesti». È quanto scrive Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, nella mail inviata al proprio avvocato Antonio Cozza e letta a «Quarto Grado», su Retequattro. «Sarah al momento non c’è, ma è viva agli occhi di Dio. Sabrina c’è, ma vive una vita priva di tranquillità - prosegue la lettera - . vorrei incontrarla, non per chiederle se ha ucciso Sarah, anzi... sarà un discorso che non farò mai, se lei non lo vorrà. Tra breve Sarah sarà riportata in vita, qui sulla Terra. Per me sarebbe davvero bello rivedere le due cugine nel "Nuovo Mondo", governato da Cristo Gesù, che si abbracciano, dimenticando il male che ha portato a questa tragica situazione, così che tutte e due possano vivere una vera vita. Sabrina potrà ottenere questo e tante altre benedizioni, se ubbidirà alla parola di Geova Dio».

«Incontrerei Concetta, ma senza telecamere, privatamente. La vedo passare qualche volta vicino casa e mi dispiace. Faccio finta di non guardarla, perchè ci rimango male. Non è giusto quello che è stato fatto. Quello che ho fatto. Le ridirei che sono colpevole, che non copro nessuno». Lo ha detto Michele Misseri in un’intervista rilasciata il 25 ottobre 3013 a "Quarto Grado", su Retequattro. L'uomo – che si proclama autore dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, condannato a otto anni di carcere per occultamento di cadavere – spiega il motivo per il quale richiede di essere ripreso di spalle dalle telecamere: «Non voglio più essere ripreso dalla televisione, mi hanno sempre bastonato perchè vado in tv, dicendomi che sono un pupazzo, un burattino. Per far emergere la verità, ho subìto tutte queste cose che fanno male. Per prima cosa chiederei perdono a Concetta. – prosegue Misseri – Mi scuserei per quello che è successo: non l’ho fatto apposta. Questa è la verità. Se lei mi guardasse negli occhi, si convincerebbe che sto dicendo veramente la verità. Non volevo uccidere Sarah. Non so nemmeno perchè l’ho fatto. Non mi hanno mai creduto, perchè non mi ricordo come ho fatto con la corda. Piango sempre quando ci penso. – aggiunge – Dovevo stare benone adesso e, invece, ho distrutto la mia famiglia e quella degli altri. Ero un uomo conosciuto da tutti e ora sono tra i più miserabili che esistano. Anche che se Concetta mi perdonasse, quel che ho fatto mi rimarrà sempre sulla coscienza». Alla domanda se si recasse a casa di Concetta, Michele Misseri replica: «Se Concetta me lo chiede, io ci vado, ma non spontaneamente perchè mi vergogno» Sulle accuse di Concetta, Misseri dice: «Non sono un furbacchione. Non è detto che Concetta mi debba credere per forza, ma io dico la mia verità». Riguardo all’eventuale perdono della madre di Sarah nei confronti della figlia, Misseri afferma: «Cosa deve perdonare Concetta a Sabrina, se mia figlia non ha commesso niente? Ha fatto tre anni da innocente». Non ha dubbi, invece, Concetta Serrano, che sarebbe disposta a perdonare, ma solo a certe condizioni, la nipote Sabrina, accusata di aver ucciso Sarah e condannata in primo grado all'ergastolo. «Perdonerei Sabrina solo se si mettesse nella condizione di essere perdonata: se si pentisse. Non basta piangere o disperarsi. E' una condizione di cuore e di mente. Se Michele venisse a casa mia da solo, non gli aprirei la porta. Ho ascoltato la sua intervista e dice: io dico la mia verità. E, infatti, sta dicendo la "sua" verità».

LETTERA APERTA A QUARTO GRADO.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Eppure si continua a mestare nel torbido.

«Avevo ragione io e, finalmente, la verità sta venendo a galla. Mia figlia Sarah aveva scoperto che qui ad Avetrana si celebrano terribili riti satanici, nei quali è coinvolta anche Sabrina. Adesso mia nipote deve dire tutto quello che sa. Deve spiegare dove e cosa avveniva in quel misterioso casolare di cui parla nella telefonata che è stata intercettata dai carabinieri». Chi parla con Giallo è Concetta Serrano Scazzi, 52 anni, mamma di Sarah Scazzi, scrive Luca Zecca su “Menti Informatiche”. La donna, sconvolta, mentre si sfoga tiene tra le mani un documento che potrebbe segnare una svolta nelle indagini di uno dei casi di cronaca più sconvolgenti degli ultimi anni: l’omicidio di sua figlia Sarah, appunto. Su questo foglio, finora mai pubblicato, è trascritta una misteriosa conversazione telefonica, intercettata dai carabinieri, tra la nipote Sabrina Misseri, condannata in primo Sarah, e un suo amico, Alessio Pisello. Questa conversazione risale ai primissimi giorni dopo la scomparsa di Sarah, avvenuta il 26 agosto 2010. Era il 4 settembre e Avetrana era ancora una tranquilla cittadina della costa pugliese, pochi, ancora, sapevano della scomparsa di Sarah, il cui corpo fu ritrovato più di un mese dopo, il 7 ottobre. Nei primi giorni dopo la scomparsa della ragazzina, i carabinieri seguivano principalmente la pista dell’allontanamento volontario. Tutti i telefoni delle persone che ruotavano intorno a Sarah erano dunque sotto controllo: il sospetto infatti era che qualcuno scoprisse la sua fuga. Alle 9,45 di quel 4 settembre, a soli sette giorni dalla sparizione di Sarah, Sabrina Misseri, mentre si trovava a casa con la sorella, chiamò al telefono il suo amico Alessio Pisello e disse: «Hei, Alè, ma tu lo hai detto ai carabinieri di quella masseria? ». Pisello rispose: «No, ancora no, perché non c erano. Non ti preoccupare… tanto ce chi sta andando prima di loro… Non ti preoccupare». Stanno andando, stanno andando… un paio di amici, in massa». Concetta guarda fisso il documento e stringe i denti per la rabbia. Dice la donna, con la solita calma che, però, tradisce l’emozione: «Adesso dobbiamo scoprire dove questo posto e, soprattutto, capire perché mia nipote non voleva che carabinieri andassero prima dei suoi amici. Cosa aveva da nascondere li?». E’ dilaniata, la povera Cosima. Da una parte ha paura di scoprire gli aspetti più nascosti della vita della sua bambina. Dall’altra, però, sa che questa nuova intercettazione non fa che confermare i suoi sospetti iniziali: «Ora ne sono sicura, lì avveniva qualcosa di losco che mia figlia sapeva e che non doveva raccontare a nessuno. Io l’ho sempre detto». Concetta, infatti, fin dall’inizio ha parlato di “riti malefici e messe nere” di ceri accesi che allungano le ombre dei muri devastati e sporchi di vecchi casolari. Oppure, di luoghi dove si consumavano sporchi giochi di lussuria e del vizio. Continua Concetta Scazzi: «L’ho sempre pensato leggendo i diari di mia figlia e vedendo i poster che appendeva nella sua stanza. Non mi sono mai piaciuti». In effetti, Sarah era attratta da tutto ciò che si accostava all’esoterismo, il mistero, l’eccesso. La sua stanza era tappezzata di foto di Marilyn Manson, il chiacchierato cantante statunitense bocciato dalla chiesa come l’Anticristo. Lei stessa amava presentarsi con il volto cereo e gli occhi truccati pesantemente e vestiva quasi sempre di nero. Ed è un caso che, poco prima di morire, Sarah avesse preso in prestito dalla biblioteca di Avetrana un libro su alcune sparizioni misteriose, dall’inquietante titolo Segreti di morte? Certo è che quale sia il luogo a cui si riferiscono Sabrina Misseri e il suo amico Alessio Pisello nell’intercettazione, rimane un mistero. Nessuno degli investigatori, infatti, ne ha mai chiesto conto ai protagonisti. Se lo chiede oggi mamma Concetta: «Perché non glielo hanno chiesto? E perché non glielo chiedono adesso a questi due? Mia nipote deve spiegare dove si trova quel luogo e cosa centra con la morte della mia Sarah. Io devo sapere cosa è successo». Ed ecco che, a tre anni di distanza da quei fatti, un altro mistero confonde le poche certezze dell orrendo delitto di Avetrana. Gli ingredienti del giallo, ancora una volta, ci sono tutti: un casolare abbandonato tra gli infiniti uliveti che circondano il piccolo paese sul confine delle tre province di Taranto, Lecce e Brindisi. Il desiderio di una presunta assassina che vuole tenere il più possibile lontano da quel posto le persone impegnate nelle ricerche della cugina scomparsa. E la tenacia di una madre che, per dare un senso al proprio, immenso, dolore, non si arrende. Concetta Serrano, infatti, non si è mai accontentata dell’unico movente che, secondo i giudici, avrebbe spinto Sabrina a uccidere la cugina: la sua gelosia nei confronti della cugina Sarah. Concetta non vuole escludere nessuna pista alternativa. Nemmeno quella, terribile, secondo cui Sarah sarebbe stata uccisa perché era venuta a conoscenza dei riti satanici che si svolgevano ad Avetrana. E’ proprio questo il secondo movente a cui si riferiva il pubblico ministero Mariano Buccoliero nel processo contro Sabrina e Cosima Misseri? In quell’occasione, infatti, l’uomo sostenne che era difficile pensare che Sabrina avesse ucciso sua cugina solo per la sua gelosia nei confronti di Ivano Russo, 26 anni, il ragazzo conteso tra le due. Il pubblico ministero fece riferimento a «qualcosa di grave legato allo stato di tensione tra le due cugine, la pubblicità dei rapporti intimi tra Sabrina e Ivano, e discussioni tra Sabrina e la madre per quello che avrebbe detto la gente». Cosa non doveva dire la ragazzina alla gente? Il pubblico ministero non lo disse chiaramente, ma lo lasciò intendere: «Se Cosima Misseri è uscita e ha preso lauto per riprendere Sarah, vuol dire che era necessario impedire che la ragazza tornasse a casa e raccontasse le ragioni del litigio e tutto ciò che era accaduto in casa Misseri». Cose che Sarah non avrebbe dovuto raccontare? Forse ciò che accadeva nelle campagne di Avetrana nelle sere dedicate a Satana? Questo è quello di cui è convinta Concetta. D’altra parte, anche Avetrana è piena di misteri e di casolari sparsi nelle campagne dove sono evidenti le tracce di sinistre attività. Uno, in particolare, è frequentato dalle coppiette e da alcuni ragazzi, tra i quali gli amici di Sarah e Sabrina. Questo casolare è pieno di scritte e graffiti dall’inequivocabile significato esoterico. In paese lo chiamano “la casa dell’Africa”. Si dice che proprio qui, molti anni fa, la giovane figlia di una nobile famiglia che ci abitava morì cadendo in un pozzo. E questa la masseria che tanto preoccupava Sabrina Misseri al telefono?

Intanto sull’argomento Concetta Serrano Spagnolo ribadisce una cosa. "Non ho mai detto che 'Sabrina faceva riti satanicì e che ha ucciso Sarah per farla tacere. Lo dichiara in una nota Concetta Serrano Spagnolo, mamma di Sarah Scazzi – la 15enne di Avetrana uccisa il 26 agosto 2010, delitto per il quale sono state condannate all’ergastolo in primo grado la cugina Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano – riferendosi ad alcune dichiarazioni a lei attribuite ("ma da lei mai rilasciate") da organi di stampa. "Non ho mai detto – prosegue la mamma di Sarah nella nota, diffusa dal legale di famiglia Luigi Palmieri – che mia figlia Sarah aveva scoperto che qui ad Avetrana si celebrano terribili riti satanici, nei quali è coinvolta anche Sabrinà, nè tantomeno di essere sicura che lì avveniva qualcosa di losco che mia figlia sapeva e non doveva raccontare a nessuno. E ciò semplicemente – ma fondamentalmente – perchè non sono a conoscenza di tali fatti e circostanze". Concetta Serrano sottolinea che "in caso contrario, trattandosi di mia figlia e del processo che riguarda la sua tragica fine, non avrei esitato nemmeno un istante nel riferire tali dati ai miei avvocati, alla Procura e alla Corte di assise, quando sono stata sentita, ed in ogni udienza a cui ho partecipato; avvocati, Procura e Corte di assise del cui lavoro, professionalità e serietà non ho mai dubitato". La mamma di Sarah spiega così "l'esigenza di puntualizzare" il suo "reale" pensiero: "tutelare me stessa e preservare il corretto andamento del processo in tutti i gradi di giudizio. Tutto ciò – conclude Concetta Serrano – in nome di una verità che io ho sempre incessantemente cercato, nel processo, e, come madre, auspicato di conoscere dalla parola di Sabrina e Cosima".

Palmieri, Gentile e Biscotti, ospiti fissi di Quarto Grado per perorare la loro causa. Nella puntata del 18 ottobre 2013 ancora a chiedersi quando saranno trasmesse ai difensori le motivazioni della sentenza di condanna emessa il 20 aprile 2013 per poter proporre appello. “Fine anno” è la risposta, l’anno nuovo per la presentazione della richiesta di appello e chissà quando il nuovo procedimento inizierà. Certo è che nessuna anima candida si turba nel considerare il fatto che si perda tempo inutilmente nonostante, nell’attesa, vi siano persone ancora presunte innocenti in carcere. Motivare una condanna preventivata dalla circostanze ambientali e non dall’istruttoria probatoria lascia, inoltre, il tempo che trova.

A distanza di tre anni dall'omicidio di Sarah Scazzi Linea Gialla è tornata ad Avetrana per cercare di capire cosa è rimasto di questa storia. Non è stato facile perché quello che prima sembrava un reality, un teatro dell'assurdo ha chiuso i battenti ingoiando tutti, vittime, carnefici, testimoni. Tutti nello stesso limbo.

Nessuno vuole parlare più con i giornalisti. E questi, bramosi ed allucinati, si chiedono anche il perché.

Non è perché questi signori giornalisti stravolgano la realtà senza senso della misura per accontentare il loro disgustoso ed infimo pubblico. Oltretutto con l’immancabile ospitata degli Scazzi e dei loro difensori senza il contraltare dei rappresentanti degli imputati?

Nella puntata del 29/10/2013 di Linea Gialla, il programma condotto da Salvo Sottile su La 7, pur di fare audience si cerca di far passare il messaggio che nell'omicidio di Sarah Scazzi, il ruolo di Sabrina Misseri è risultato ambiguo fin da subito, ancora prima che il corpo di Sarah venisse trovato. Secondo Salvo Sottile ed i magistrati dell'accusa Sabrina tenta di condizionare gli altri testimoni. Ecco cosa dice in effetti all'amica Mariangela all'interno di una caserma dei Carabinieri prima di un interrogatorio. Dalla lettura attenta della  intercettazione tra Sabrina Misseri e Mariangela Spagnoletti si deve percepire realmente il senso della conversazione e quale valenza probatoria possa avere.

S. «Non mi ricordo, ho detto….Io non mi ricordo il messaggio a che ora ho guardato: 14.32….»

M. «No, e 39…»

S. «E 39? Tu mi hai detto e 32…»

M. «E 39….»

S. «Io mi ricordo del messaggio, non mi ricordo a che ora….Io so detto che mi ricordo 2 e 35…»

M. «Meno venti erano, ma perché tu non ti ricordi….sempre quello è stato l’orario.. »

S. «Ma secondo me tu….non ti sei accorta….hai parcheggiato…non ti accorgi dell’asciugamano nella borsa….stavi aspettando nella macchina…»

M. «Perché tu stavi dentro? »

S. «Sotto la veranda…..»

M. «No….»

S. «Seduta sotto la veranda stavo, sai?!? »

M. «No, Sabrì…»

S. «No, tu ti stai ricordando proprio male….»

M. «Noni, Sabrì…»

S. «Ma se stavo seduta….»

M. «Noni, non stavi seduta. L’ultima volta stavi seduta. Quando sono arrivata, tu stavi e avevi pure chiuso il cancello. E io ho detto…E che? E Sarah? »

S. «No, io ti ho detto a te…Hai incontrato Sarah? »

M. «Io sotto…sul sedile seduta stavo…e mia sorella nella macchina.. »

S. «Vedi che ti stai sbagliando, tua sorella.. »

M. «Vabbè, come dici tu.. »

S. «Io mi ricordo perfettamente come è stato…tu ti ricordi l’asciugamano, forse l’ho dato a…»

M. «Lo tenevi in mano già.. »

S. «All’ingresso l’ho preso io Marià…»

M. «Non sei proprio entrata in casa Sabrì….non sei entrata proprio.. »

GUERRA MEDIASET-LA7. LA GUERRA DEI GOSSIPPARI GIUSTIZIALISTI.

Gianluigi Nuzzi e Salvo Sottile si sono di fatto scambiati la poltrona e conducono due programmi simili, Quarto Grado e Linea Gialla. In una puntata di quest'ultimo sono stati utilizzati filmati già usati a Rete4 l'anno prima. Mediaset non ci sta e diffida per utilizzo illecito. Non c’erano stati particolari screzi in merito all’avvicendamento di Gianluigi Nuzzi e Salvo Sottile, rispettivamente passati da La7 a Rete 4 e viceversa. In pratica i due si sono di fatto scambiati di ruolo. Ma adesso, dopo l’utilizzo da parte di Salvo Sottile di alcune registrazioni già andate in onda a Quarto Grado durante la scorsa stagione inerenti al caso Scazzi, Mediaset ha diffidato La 7 ed il programma Linea Gialla dal perseverare nell’utilizzo di materiale esclusiva dell’azienda Rti-Mediaset. Il Biscione ha diffidato l’editore di La7 Urbano Cairo per la diffusione non autorizzata di alcuni filmati di proprietà esclusiva di Rti-Mediaset nella trasmissione “Linea Gialla” del 29 ottobre 2013 condotta da Salvo Sottile. I filmati sostiene Mediaset erano già stati trasmessi dal programma di Retequattro “Quarto Grado” ed erano relativi al caso di Sarah Scazzi, oltre a immagini di Annamaria Franzoni. Nella diffida, Mediaset si riserva di agire in sede giudiziaria al fine di tutelare i propri diritti esclusivi, chiede a La7 di rimuovere immediatamente dal sito dell’emittente i brani audiovisivi illecitamente utilizzati da “Linea Gialla” e di cessare ogni altro loro utilizzo.

“Trovo sorprendete e censurabile utilizzare così il lavoro di altri giornalisti. Ho visto quelle immagini e sono rimasto abbastanza sconcertato”, è il commento di Gianluigi Nuzzi, conduttore di “Quarto Grado”. “Condivido e sostengo tutte le iniziative di Mediaset che tutelano la mia squadra”. E Nuzzi guarda avanti e non ha nemmeno chiamato il collega Sottile per chiedere spiegazioni.

Sorpresa, però, da Fremantlemedia Italia Spa, società produttrice per conto di La7 del programma di Salvo Sottile “Linea Gialla”. “Le immagini relative all’intervista concessa da Annamaria Franzoni al “Maurizio Costanzo Show”, trasmesse dal programma “Linea Gialla” martedì scorso, sono state regolarmente richieste alle strutture competenti di Mediaset e da queste ultime consegnate alla produzione nell’ambito di accordi vigenti tra La7 e Mediaset. Non è stata invece utilizzata alcuna immagine della stessa Franzoni tratta dal Tg4. Non vi è dunque alcuna violazione dei diritti relativi all’utilizzo di tali immagini, nè i presupposti per alcuna diffida. Quanto alle immagini relative al caso di Sarah Scazzi, si precisa che tali immagini non sono di proprietà esclusiva di Rti trattandosi di immagini amatoriali mai cedute in esclusiva ad alcuno. Contrariamente a quanto affermato in alcune ricostruzioni di stampa, infine, Salvo Sottile è estraneo a tutte le procedure di acquisizione delle immagini del programma. Sia Salvo Sottile, sia Fremantlemedia si riservano a loro volta di intraprendere ogni opportuna iniziativa legale a tutela del proprio operato e della propria onorabilità”.

Giù le mani dai miei filmati intima Mediaset a La7. E che filmati e che audio, niente meno che quelli di e su Sarah Scazzi e Annamaria Franzoni, commenta “Blitz Quotidiano”. Materiale televisivo con cui a suo tempo Quarto Grado su Retequattro costruì una piccola-grande fortuna in termini di audience e consolidò un format televisivo, quello dell’indagine a cuore aperto e alla casareccia sul delitto, meglio se di famiglia. Un format, una serialità televisiva che quasi si identificò nel conduttore: Salvo Sottile. Solo che poi Salvo Sottile da Mediaset è passato a La7, da Quarto Grado a Linea Gialla. E si è portato dietro memoria, stile, attitudini, contatti, abilità e…E, sostiene Mediaset, nelle tasche di Sottile è rimasto anche qualcosa di esclusiva proprietà di Mediaset, appunto i brani audio-video della migliore cronaca nera dibattuta in salotto/osteria/bar/Cassazione televisivi. Quindi Mediaset ha inviato “diffida formale” a La7, diffida dall’utilizzare ancora il materiale che Sottile ha già mandato-rimandato in onda (prima su Mediaset e ora su La7). Diffida a rimuovere quel materiale dal sito di Linea Gialla. Diffida a smetterla, altrimenti arrivano gli avvocati con la richiesta di risarcimenti. Presto saranno prevedibilmente gli avvocati a confrontarsi. A noi resta una curiosità: nei contratti tra le aziende televisive e i conduttori, contratti che spesso prevedono un costo, un prezzo a puntata, piuttosto alto in media ma “tutto compreso”, a chi viene attribuita, riconosciuta la proprietà del materiale informativo? Al team del conduttore che l’ha raccolto o alla televisione che lo paga e compra “tutto compreso”? E poi il diritto d’immagine a tutti coloro che appaiono o sono intervistati è riconosciuto? Insomma è Mediaset che cerca di vendicarsi di un “tradimento”, che lascia intravedere qualche difficoltà nella successione di Gianluigi Nuzzi a Salvo Sottile, che indirettamente confessa un risentimento, che cerca un pretesto? Oppure è il conduttore Salvo Sottile che nel trasloco si è portato a casa nuova anche biancheria e stoviglie della ex convivente facendo finta fossero sue?

Da che pulpito vengono le prediche!!

PARLA IL COMPAGNO DI CARCERE DI MICHELE MISSERI.

Michele Misseri: in carcere trattato da pascià.

Come si chiama, da dove viene, quale lavoro svolgeva e se ha una famiglia? Quale è la sua condizione familiare ora e se ci sono state conseguenze per lei e la sua famiglia? C’è qualcuno che l’ha aiutata in questa fase della sua vita? Per quale reato è stato condannato? Ritiene di aver avuto un giusto processo ed una valida difesa e se avendone diritto ha usufruito del gratuito patrocinio? Perché era detenuto nel carcere di Taranto?

«Mi chiamo Clemente Di Crescenzo. Svolgo l’attività di bar. Sono sposato e ho un bimbo nato durante questa mia prima detenzione. Ho 36 anni e sono di Caserta. Sono stato arrestato per strage, poi il reato è stato derubricato in minacce:  5 anni con il rito abbreviato e legge sulle armi a 8 mesi, nonostante non sono stato in possesso di armi. Trovarono una bomba inesplosa sotto la casa di una famiglia ritenuta dagli inquirenti, malavitosa. Secondo gli inquirenti la mancata strage fu dovuta a seguito l'agguato che fecero a mio fratello d'avanti agli occhi di sua figlia di un anno e sua moglie, che erano in auto. Mio fratello aveva 28 anni ed era titolare di un bar come me ed ex pugile professionista come  me. Per gli inquirenti volevo vendicare mio fratello. Un mio coimputato è morto per infarto durante questa detenzione. Ora sono un semilibero e un sorvegliato speciale.»

Come ha conosciuto Michele Misseri e come ha fatto, tenuto conto che Michele Misseri era in isolamento e sorvegliato speciale per paura di atti inconsulti?

«Ho conosciuto Misseri Michele perchè facevo il lavorante nel reparto infermeria,dove lui era isolato e guardato a vista notte e giorno dalle guardie piantonate fuori la sua stanza. Trovavo sempre il modo di dialogare con Misseri. Spesso quando Misseri dialogava con me le guardie involontariamente erano distratte a fare altro. Misseri non era molto capace di compilare domandine e quindi le guardie mi chiedevano la cortesia di compilarle per lui.»

Perché la stampa ha scritto che lei era in cella con Michele Misseri?

«Credo che la stampa diede anche notizie false su di me, comunicando che stavo in cella con Misseri anche perché voleva coprire la disattenzione avuta dalle guardie che lo sorvegliavano.»

Michele Misseri è stato oggetto di privilegi e trattamenti di favore e, se sì, quali e per quanto tempo?

«Misseri è stato sicuramente oggetto di privilegi. A Taranto non ho mai visto un superiore salire sui piani per fare gli auguri di natale ad un detenuto, mentre un ispettrice salì di sera in infermeria per fare gli auguri personalmente a Misseri Michele. Io la incrociai per il corridoio, visto che stava aperto per lavoro, ma lei nemmeno mi guardò, come se fossi io che ero accusato di quel terribile delitto.»

Com’è è la vita di un detenuto nel carcere di Taranto?

«Per lavorare a Taranto devi metterti in lista e poi magari dopo 2 anni ti chiamano, mentre per lavorare all'aperto nell'orto oltre ad aspettare 2 anni ,devi avere un reato non pesante ma di poco conto. Praticamente la vita per un detenuto a Taranto è molto dura. Non vi è possibilità di nessun inserimento e svago. Solo il passeggio e basta. Mentre a Misseri lo facevano lavorare nell'orto. Per non farlo intravedere dai lavoranti che passavano per i corridori, misero i vetri oscurati proprio sulla vetrata che affacciava all'orto dove stava Misseri.»

Lei era amico di Michele Misseri, perché con lei si confidava? Cosa le ha raccontato Michele Misseri durante le sue confidenze riguardo la famiglia, i magistrati, gli avvocati ed in particolar modo riguardo il delitto di Sarah Scazzi?

«Io sono stato l'unico detenuto che ha avuto modo di parlare con Misseri, forse anche per questo nei momenti tristi della giornata lui si lasciava nei suoi sfoghi. Io l’ho visto quando lo portarono e quando è uscito. I primi giorni chiedeva solo informazioni di come si stava nel penitenziario di Taranto, della legge sui benefici, del lavoro all'interno ecc, poi mi diceva che tutta la sua famiglia lo stava abbandonando, fin quando non mi incominciò a dire quello che poi in seguito disse a tutti, cioè che lui era colpevole di tutto. Mi disse che gli avevano garantito che continuava a lavorare nell'orto che tanto gli piaceva,che la figlia e moglie a seguito la condanna potevano usufruire di benefici ed altro. Insomma lo rassicurarono dicendogli che la migliore soluzione era dire la verità. Infatti in quel periodo vidi un via vai di esperti e psicologi.»

Lei ha parlato con qualcun altro detenuto coinvolto nel procedimento penale sul delitto di Sarah Scazzi? Lei, le confidenze di Michele Misseri, le ha scritte da qualche parte?

«Io mi feci un mio diario personale, quando lui dichiarò che gli avevano garantito che sua figlia usciva dopo 2 anni e che a lui lo mandavano nel convento. Io già lo avevo annotato sul mio diario personale. Tempo prima stava sereno anche con l'aiuto dei psicofarmaci e perché credeva di stare per fare la cosa giusta, poi lui aveva intuito che era tutto un tranello per fargli confessare il falso. A parte che poi non lo facevano nemmeno più uscire per fare l'orto. Appena intuito questo cambiò tutta la sua versione agli inquirenti. Avevo capito perché aveva incominciato a dubitare anche dei suoi legali e mi chiedeva parere su chi poteva nominare come avvocato. Questo prima delle sue dichiarazioni cioè quelle che si autoaccusava e che poi diede la colpa a tutti. Ebbi poi modo anche di parlare con il fratello di Misseri Michele, sembra Carmine, che mi chiedeva cosa era successo all'interno del carcere visto che cambiava di continuo versioni.»

Che fine hanno fatto gli scritti dove lei riportava quanto diceva Michele Misseri? Lei ritiene di aver avuto guai nell’essere amico di Michele Misseri e di essere stato depositario delle sue confidenze? Lei è stato chiamato a testimoniare nel processo sulla morte di Sarah Scazzi, ci sono cose che gli è stato impedito di dire o non le hanno chiesto?

«Riguardo a me, stava un mio compagno di cella che fu sorpreso dalle guardie mentre attaccava lettere ritagliate dai giornali, facendo lettere anonime. Io stavo lavorando per i corridoi, così fecero una perquisizione accurata, ma nella perquisizione notarono anche il mio diario e lo sequestrarono. Mi chiusero dal lavoro e la mia detenzione fu un inferno da quel giorno. Un brigadiere mi disse che le guardie potevano finire nei guai, perchè non mi dovevano far avvicinare a Misseri,che i medici potevano finire nei guai, se non avevano dichiarato tutti i psicofarmaci dati a Misseri. Inoltre avevo scritto sul mio diario anche le tante cose illegali che succedono all'interno del carcere e che ho visto personalmente anche grazie al lavoro che svolgevo in infermeria. Scrivevo tutto perchè non pensavo che poi mi potevano sequestrare i miei scritti. Ovviamente fui citato nella 17esima udienza dove mi fecero visionare il mio diario e dire se era mio. Notai che furono strappati dei fogli, dove annotai anche le cose a mio parere illegali che avevo visto e avevo scritto, compreso che in quel carcere esisteva la cosiddetta squadretta. Praticamente un gruppetto di guardie e un brigadiere che ti assalgono. Circa 10 persone. Ho vissuto personalmente questa esperienza. Funziona che ti portano nel reparto isolamento. Una specie di sottoscala o piano sotterraneo. Poi inizia il linciaggio. I medici sono al corrente di tutto. Infatti, quando stai in quel reparto, loro camminano facendo finta di non vedere e sentire. In infermeria, poi, ne ho viste di tutti i colori. La maggior parte dei detenuti non parla perché hanno paura di essere trasferiti lontano.»  

In effetti, tale intervista esclusiva conferma quanto già dichiarato in aula, a parte le violenze. L’accusa di Michele Misseri a sua figlia Sabrina?  Secondo Clemente Di Crescenzo, detenuto nello stesso carcere di Michele, sarebbero frutto di un “imbroglio”, realizzato in un momento in cui lo zio di  Sarah era fragile e prendeva psicofarmaci. Di Crescenzo riferendosi alle confidenze che gli avrebbe fatto in carcere Michele Misseri e che lui annotava su un diario ha spiegato:  “Mi disse che lo avevano imbrogliato, lo avevano confuso e convinto ad accusare ingiustamente la figlia nel periodo in cui assumeva gli psicofarmaci”.  Il riferimento è al primo difensore di Michele Misseri, avv.Daniele Galoppa, e alla criminologa ingaggiata da Galoppa come consulente, Roberta Bruzzone. ”Nei giorni delle festività natalizie del 2010 – ha precisato Di Crescenzo – mi chiamò mentre facevo le pulizie, era molto triste e mi disse che stava scrivendo alla figlia Sabrina perché l’aveva incolpata. Diceva che Galoppa e Bruzzone lo avevano convinto ad accusarla perché in questo modo sarebbe andato ai domiciliari in un convento a curare un orto e sarebbe uscito dopo due anni. Mi chiedeva anche in che modo poteva revocare l’avv. Galoppa perchè diceva che era stato il legale a creare il processo”.

“Il 7 ottobre Michele Misseri fu alloggiato in un cella d’isolamento e guardato a vista. Poi il 18 dicembre lo spostammo al primo piano, nella cella numero 10, dove fu recluso fino al 26 gennaio 2011”. Lo ha riferito Giovanni Lamarca, comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Taranto nel corso del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi.

”Un giorno prima, il 25 gennaio, un agente della sezione mentre faceva una normale ispezione – ha ricordato Lamarca – verificò che un detenuto, nella cella dove c’era anche Clemente Di Crescenzo, che faceva le pulizie nel corridoio, stava tagliando pagine di giornali e componendo delle lettere. Scoprimmo che stava scrivendo una missiva anonima con lettere ritagliate da giornali”. Quel componimento fu sequestrato. ”Il giorno dopo – ha aggiunto il comandante delle guardie penitenziarie – decidemmo di fare una perquisizione accurata della cella e in tale occasione fu ritrovato aperto un quaderno di computisteria scritto non da quel detenuto ma da Di Crescenzo, dove risultava più volte scritto il nome di Michele Misseri. Ci rendemmo contro che De Crescenzo aveva un diario delle conversazioni che aveva avuto in un mese e mezzo con Michele Misseri. Una specie di memoriale”.

Ha qualcosa da aggiungere a questa intervista esclusiva, della quale mi autorizza la pubblicazione nel mio libro e sugli organi di stampa?

«Come le dicevo lavorando in infermeria ho visto molti casi di violenza,una volta parlando con un dottore mi disse che lui purtroppo era un ospite in istituto e quindi se mandava una segnalazione alle autorità si trovava poi trasferito chissà dove. Poi vedevo che arrivavano diversi prodotti farmaceutici, ma subito messi in scatoloni e fatti sparire. Infatti, a parte psicofarmaci, non è che avevamo prodotti farmaceutici in caso di richiesta. Sono stato, in questi quasi 5 anni passati,  4 a Taranto, a Poggioreale e poi a Livorno. Notai che anche a Poggioreale ci stava la squadretta, con un ispettore che la dirigeva, ma solo a Taranto ho appurato il massimo della legalità, forse perchè lavoravo in infermeria. Posso dire che in casi disperati oppure in caso di un detenuto che tenta il suicidio, mettono codesto detenuto in una cella in infermeria, isolato nudo completamene e senza coperte. Li vedevo morti dal freddo mentre mangiavano nudi sopra un materasso. Cose da non credere. A parte Misseri ci fu un detenuto che aveva non proprio i massimi privilegi di Misseri ma quasi Era l'ex sindaco di Taranto. Mi sembra si chiamasse Cito Giancarlo. Nel reparto isolamento invece mandano i detenuti che devono scontare una sanzione disciplinare, solo che ti fanno firmare un foglio dove riporta che in quei giorni devi stare senza fare attività in comune, ma non sta scritto che non puoi fare il passeggio all'aperto, che non puoi avere tavolo, sedie, scopa e prodotti per pulizie, fornelli per cucinare. Pensate che la domenica pomeriggio stavi digiuno visto che a Taranto la domenica il carrello con il cibo non passa. Stai senza le coperte e sei fortunato se ti portano il materasso. Quando avevano bisogno di organizzare anche in infermeria una cella così, mi chiamavano le guardie e mi ordinavano di far diventare la stanza una cella liscia. Consiste di smontare tutto, compreso la branda per dormire, che te la restituiscono poi se ti comporti bene e sottostai a quelle condizioni. Ovviamente stai senza ricambi intimi e asciugamani e nemmeno penna e foglio, per non farti fare domandine e istanza alla direttrice o al comandante. Quando vuoi un ricambio intimo devi chiamare la guardia, ma la devi chiamare a sgolarti per 2 ore minimo, visto che quando stai in quelle condizioni le guardie non passano assolutamente vicino la tua stanza oppure al reparto isolamento. Praticamente dove ci sono i detenuti puniti.  Quando menano un detenuto e gli rimangono i segni sul corpo, non ti portano in sezione, ma ti mettono in una stanza in infermeria per aspettare che i lividi scompaiono e se ti metti a visita medica il dottore non viene ma aspetta che ti passano i lividi. Una volta vidi un fatto che mi traumatizzò. Portarono un detenuto in infermeria perchè si lamentava che l'infermiere non gli aveva fatto bene la medicazione Era di origine marocchina. L'infermiere chiamò la squadretta che appena arrivò lo riempirono di botte quasi a morire. Infatti il marocchino non riuscì a camminare per mesi. Quando videro che il marocchino non si riprese lo trasferirono. Io, durante l'esecuzione punitiva fatta al marrocchino, cercai di calmare le guardie. Alla fine mi misi in posizione di guardia, visto che sono un ex pugile professionista, ma solo per tentare di intimidirli Oovviamente continuarono a menarlo d'avanti a medici e infermieri che facevano finta di niente. Poi mi chiamò il brigadiere della squadretta e mi disse che non dovevo più fare l'eroe perchè li comandava lui e non io e che la prossima volta che mi intromettevo mi chiudeva dal lavoro e mi sbatteva nel reparto isolamento per 10 gg. Come già vi ho accennato poi ci sono finito per d'avvero, perché trovarono il mio diario personale che parlava di Misseri. Io, sapendo della vita disumana che si viveva in isolamento, non ci volevo andare li sotto. Gli dissi che volevo almeno il materasso e le mie cose personali e di cancelleria, penne e foglio per scrivere e passare il tempo. Loro accettarono, ma solo per farmi scendere. Quando stavo lungo il corridoio dell'isolamento mi accompagnò una guardia, ma mi vidi arrivare la squadretta. Questa volta non erano in 4 come di loro solito, ma 8. Si avventarono all'improvviso. A questo punto mi ribellai ma senza colpirli, anche perchè poi era ancora peggio per me. Schivai più colpi possibile, ma i loro anfibi facevano male. Fu l'incontro più duro della mia vita, anche perché dovevo solo difendermi ma senza colpirli, altrimenti poi sarebbe stata la fine. Mi spinsero in quella cella. Accettai la sfida: indurii gambe e piedi ben piantati a terra e prima che riuscissero a spingermi dentro li feci sudare. Trascorsero 10 giorni senza cuscino e materasso. Solo al colloquio con la famiglia riuscii a farmi dare dalle guardie i miei vestiti puliti. Allo scadere dei 10 giorni mi comunicarono che ne dovevo fare altri 10 e poi altri 10. Alla fine ne scontai 30, ma la cosa più strana è stata l’omertà dei dottori ed infermieri. Solo il sacerdote era una grandissima persona. Quando facevo il lavorante in infermeria le guardie mi dicevano che loro avevano la squadretta da quando fu uccisa una guardia fuori dal carcere. Si chiamava Carmelo Magli, come si chiamava il carcere. Sono dispiaciuto per questa guardia, ma non era il modo. Io non sono un santo, ma non immaginavo che esisteva tanto male gratuito e tanta ingiustizia. Ho capito che era tutto illegale, perché quando sapevano che era in arrivo la visita di qualche politico, chiamavano i lavoranti e soprattutto me, che ero il lavorante di un reparto più a vista. Si iniziava ad organizzare tutto. Arrivava la pittura, che si diceva che non arrivava per via della mancanza di fondi. Arrivavano prodotti per le pulizie e tutto l’occorrente per far diventare alcuni punti pulitissimi e brillanti. Poi li facevano passare per quei punti, ovviamente. Quando capitava che intervistavano un detenuto era tutto preparato prima. Chiamavano un detenuto che aveva la possibilità di lavorare e che era della zona e che, quindi, non voleva finire in Sicilia. Misseri diceva che Taranto era un albergo a 5 stelle, eppure era accusato di cose orrende.

Ogni volta che si ricevevano visite da politici o chicchessia, mi ordinavano di rendere vivibile il più possibile l'ambiente dell'infermeria circa 4 giorni prima della visita. Inoltre nelle visite dei politici veniva chiuso il reparto isolamento e venivano rifatti salire i detenuti in sezione, dicendo che il reparto isolamento è inagibile e quindi deve essere chiuso. Poi appena finisce la visita politica,vengono risbattuti nell'isolamento a cella liscia. Gli animali vivono meglio.»

Per rendere più credibile questa testimonianza, andiamo sull’altra sponda: «Io secondino ho assistito a torture in carcere». Tre giorni senza mangiare, botte dalla mattina alla sera, detenuti legati al letto. Eccezionale testimonianza di una guardia carceraria di Asti che non vuole essere più complice di criminali in divisa, scrive Franco Fracassi. «Il carcere è un mondo a sé. E non ci sono testimonianze. C'è la testimonianza mia, c'è la testimonianza di alcuni detenuti, qualche filmato dell'interno di un carcere che si è riusciti a mostrare. La violenza e l'omertà sono la regola dentro una prigione». Andrea Fruncillo è un'ex guardia carceraria della prigione di Asti. «Non ce la facevo più a convivere con tutto questo stando zitto. Quello delle carceri è un mondo di merda. È ora di iniziare a spalarla». Ecco un esempio del livello di conversazioni che avvengono all'interno di quel carcere. Cinque poliziotti sono stati messi sotto inchiesta per aver abusato di due detenuti. Questa è una delle intercettazioni che li hanno incastrati: «Poi vengono solo quando sono in quattro o cinque. Così è facile picchiare le persone». «È bello». «Ma che uomo sei. Devi avere pure le palle. Lo devi picchiare. Lo becchi da solo e lo picchi. Io, la maggior parte che ho picchiato, li ho picchiati da solo. Ma perché comunque qua non c'hai grattacapi. Non c'è niente. Perché con questa gente di merda. Hai capito?». Fruncillo ha lavorato ad Asti tredici anni. È stato l'unico a testimoniare delle torture che avvenivano nella cella di isolamento: «Quando arriva qualcuno che ha aggredito un agente, anche fuori dal carcere, non importa. Questa persona arriva già con una lettera di raccomandazioni. Questo ha sbagliato. Fino a che c'ha il processo lasciatelo stare. Poi, finite le udienze dategli una sistemata. Lo sistemavano. Lo portavano lì e prendeva botte dalla mattina alla sera. Ma quello è il minimo. Perché poi non li facevamo mangiare. Lo lasciavi pure due tre giorni senza mangiare. Gli mettevamo il piatto lì davanti alla cella. Lui non ci arrivava. E non lo facevamo mangiare. Ho assistito a tanti pestaggi. Quante volte è capitato che stavo in servizio e mi dicevano: "Andrea mi prepari una cella che stiamo portando uno". All'entrata dell'isolamento non funzionano le telecamere. Un'anticamera davanti a una delle celle. Quando arrivavano lì venivano denudati e picchiati. Era un vanto. "Io ho fatto quella cosa lì. Io ho fatto quella cosa là". Era un vanto. E lo è tuttora penso. Un detenuto non può fare nulla. Perché tanto non viene mai ascoltato». Perché tanta violenza? «Quando arrivi all'esasperazioni picchi. Quando c'hai i problemi a casa. Più i problemi che ti creano in carcere. Più quello che ti rompe le scatole. Da qualche parte ti devi sfogare», spiega l'ex secondino. Per essere ancora più chiaro, Fruncillo racconta un episodio di cui è stato testimone: «È entrato questo ragazzo. Viene messo in isolamento. Non c'era modo di avvicinarsi e di aprirgli la cella. Come aprivi la cella picchiava tutti. Perché lui si dichiarava innocente. Al che per debilitarlo era stato deciso di farlo mangiare di meno, di non dargli le razioni, in modo che gli fossero venute a mancare le energie. Il ragionamento era: "Se dobbiamo spostarlo, se arriva l'avvocato non gli possiamo dire: No, non te lo faccio uscire dalla cella". È stato fatto così, finché non si è debilitato un po'. Una sera è stata fatta un'ordinanza per mandarlo all'ospedale psichiatrico a Reggio Emilia. A Reggio Emilia quando arrivano tipi come lui, che sono animali ti legano al letto. È tornato da noi debilitato. È stato portato in cella in carrozzella. Magro, secco come un chiodo. Non ce la faceva neanche a mangiare. Quando arrivavano il pranzo e la cena mandavamo un altro detenuto per farlo imboccare. Fino a che non lo hanno scarcerato e dopo due giorni è morto. Un giorno parlando del più e del meno con un collega si è detto: "Ve lo ricordate quel ragazzo? Ma lo sai che alla fine era innocente veramente. Lo hanno assolto". Lo hanno trattato così perché diceva che era innocente. Non gli ha creduto nessuno. Alla fine è morto. La mamma ce lo disse. La mamma».

Altra testimonianza. Poggioreale: «Nudo, umiliato e picchiato dalle guardie». Le denunce dei carcerati al Garante dei detenuti che scrive alla procura: «Nel carcere di Napoli squadre di agenti penitenziari compiono violenze di notte. Nella “cella zero” pareti sporche di sangue», scrive Patrizia Capua su “L’Espresso”. Squadracce di agenti penitenziari che massacrano i detenuti in una camera chiamata "cella zero". Violenze gratuite, trattamenti disumani, abusi continui e pareti macchiate dal sangue dei carcerati picchiati. Benvenuti nell'inferno del carcere di Poggioreale, Napoli. Un luogo dell'orrore che somiglia ad Abu Ghraib, almeno a leggere la terribile denuncia che il garante della Regione Campania per i diritti dei detenuti ha mandato alla procura partenopea. E che "L'Espresso" ha letto in esclusiva, intervistando - a pochi giorni dalla denuncia del presidente della Cassazione sulle condizioni inumane dei carcerati italiani - anche uno dei detenuti picchiati. È il garante Adriana Tocco ad aver raccolto una serie di storie agghiaccianti che ha inviato tramite esposto al procuratore aggiunto della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo. «Le comunico – si legge nel documento - le gravi notizie di reato che mi sono pervenute e ho apprese durante alcuni colloqui intercorsi con i detenuti del carcere di Poggioreale». La Garante riferisce che «moltissimi detenuti lamentano abusi consistiti in violentissime percosse, spesso cagionanti lesioni gravi, che si consumano di notte ad opera di alcuni agenti penitenziari riuniti in “piccole squadre”. Alcuni mi hanno riferito i nomi degli agenti coinvolti. La maggior parte dei reclusi ha paura di denunciare le violenze subite per timore di ritorsioni». I racconti sarebbero tutti coerenti,  «ed evidenziano alcuni elementi comuni: i detenuti raccontano di essere stati prelevati dalle loro celle senza criterio, il fine univoco degli agenti chiaramente tra loro programmato, è dare sfogo alla loro violenza gratuita e costringerli a subire trattamenti disumani». Il racconto di un quarantaduenne che ha deciso di denunciare la violenza subita da alcuni agenti penitenziari mentre si trovava nel carcere napoletano. I dettagli sono drammatici: «La cella in cui si consumano tali atrocità è stata denominata “cella zero”: molti raccontano che le pareti sono spesso macchiate dal sangue dei detenuti percossi, che dopo gli abusi questi vengano abbandonati per ore e poi riaccompagnati al reparto di appartenenza. Molti compagni di cella confermano lo stato di agitazione, mortificazione e soggezione degli sfortunati deportati», che rientrano gonfiati di botte. Nell’esposto Tocco si dice convinta che «subire abusi così atroci costituisca una possibile causa concorrente ad altri fattori determinanti l’aumento del rischio di suicidi, rilevato il precario stato psicologico di tanti detenuti che ascolto». E chiede la punizione dei responsabili. Uno dei carcerati picchiati si chiama Luigi (è un nome di fantasia). E' stato condannato a due anni e dieci mesi, nel marzo 2011, per ricettazione di buoni pasto per un valore di trentamila euro. Durante la permanenza nel carcere di Poggioreale è stato vittima di atti di violenza da parte di tre guardie penitenziarie: trascinato di notte in una cella isolata dell’istituto di pena, ha spiegato di esser stato costretto a denudarsi completamente per poi essere percosso con pugni e calci. L’ex detenuto è uscito dall'istituto di pena lo scorso 10 gennaio, ma già dietro le sbarre aveva deciso di denunciare le violenze subite. Luigi, 42 anni, comproprietario di una salumeria a Napoli, sposato con figli adolescenti, dopo un primo periodo detentivo, in appello ottiene gli arresti domiciliari con successiva autorizzazione a riprendere il lavoro. Un giorno, andando al negozio, fa tardi e sfora l’orario assegnato dai giudici. Per lui ricominciano i guai. La Corte di appello aggrava la misura restrittiva e così Luigi finisce di nuovo a Poggioreale. Nei due mesi e mezzo di detenzione che deve ancora scontare gli capita un incidente: cade dal letto a castello, un terzo piano a quattro metri dal pavimento, e si frattura una caviglia. Poi, in una notte di luglio arriva il pestaggio da parte di tre agenti penitenziari. Scontata la pena e tornato libero, Luigi ha messo nero su bianco il racconto dei maltrattamenti subiti dietro le sbarre. Lo ha fatto per se stesso e, sottolinea, soprattutto nell’interesse dei suoi compagni di reclusione ancora in cella. E attende di essere convocato dal magistrato per fare nomi e cognomi. Una vicenda, questa napoletana, che richiama alla mente le dichiarazioni sull’indulto del primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce nella relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “In attesa di "riforme di sistema" non c’è altra via che l’indulto per ridurre subito il numero dei detenuti”, scarcerando chi “non merita di stare in carcere ed essere trattato in modo inumano e degradante”.

DELITTI DI STATO ED OMERTA’ MEDIATICA.

Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.

Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.

O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).

O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.

Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.

Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.

Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.

Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.

E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.

PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.

Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto,  “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere,  rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza:  l’inchiesta giornalistica,  quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco,  da omissioni complicità..  Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni  inadempienti  nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è  quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante  un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime,  costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa  ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime,  sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare  ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento  fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.

Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.

Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.

Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.

Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.

La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.

Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.

COSIMO COSMA. LA MORALE DEL NIPOTE DI ZIO MICHELE.

Avrebbe picchiato un uomo “reo” di aver molestato la nipote 16enne e lo avrebbe fatto in concorso con due parenti, per le vie di Erchie. Cosimo Cosma è stato ritenuto responsabile dal Tribunale di Brindisi in composizione monocratica di lesioni aggravate, in concorso con  Agata e Cosimo Ferrara, madre e zio della presunta vittima degli abusi. Cosimo Cosma è il presunto “complice” di zio Michele. Il giudizio di primo grado lo ha condannato a sei anni per aver aiutato Misseri a buttare il cadavere di Sarah Scazzi in una cisterna. Per tutti la pena decisa dal giudice monocratico è pari a un anno e quattro mesi. I fatti per cui i tre sono stati giudicati a Brindisi risalgono al 28 aprile 2008 e sono avvenuti appunto ad Erchie. La ragazzina, che ora è adulta, racconta di essere stata importunata dall’uomo di Erchie, paese di poche anime in cui ci si conosce tutti. La vittima denunciò ai carabinieri quanto accaduto e raccontò tutto ai suoi famigliari che, presi da un moto d’ira, vollero “chiarire” con il diretto interessato, poi imputato per violenza sessuale proprio in danno della 16enne, cioè colui il quale aveva avuto atteggiamenti censurabili, vista anche l’età di colei che li aveva subiti. Lo picchiarono e anch’egli decise di rivolgersi ai militari dell’Arma, con un referto alla mano. Due sono le inchieste sorte dai fatti verificatisi in tre giorni e altrettanti i processi. Alla sbarra per molestie ed abusi sessuali c’è Giuseppe Rizzo, parte civile nell’altro processo a carico dei tre, per lesioni, che si è concluso dinanzi al Tribunale di Brindisi con una sentenza che condanna i tre famigliari dell’adolescente. Il Rizzo si è costituito parte civile nel processo per lesioni e ha ottenuto dal giudice una provvisionale di 5mila euro, a carico di ognuno dei tre imputati che potranno beneficiare della sospensione condizionale della pena solo dopo aver pagato i danni.

L’OLTRAGGIO ALLA PUBBLICA MEMORIA, AL PUBBLICO PUDORE ED ALLA PUBBLICA DECENZA.

L’oltraggio, ossia il fatto di superare un limite; l’eccesso: Da quinci innanzi il mio veder fu maggio Che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, E cede la memoria a tanto oltraggio (Dante).

Offesa grave all’onore, alla dignità, al prestigio di una persona (o di un’istituzione), con atti o con parole: fare, recare oltraggio; colpa d’Atride, Che fece a Crise sacerdote oltraggio (V. Monti); Vergin di servo encomio E di codardo oltraggio. (Manzoni);

«Sarah Sticazzi». La famiglia della 15enne di Avetrana contro Nonciclopedia. Dal web. Dopo il falso profilo creato su un sito di incontri online da un utente che si era registrata utilizzando l’immagine della piccola Sarah, adesso la famiglia Scazzi è costretta ad affrontare un altro episodio, accaduto ancora volta su internet, che offende la memoria della 15enne. Sotto accusa finisce Nonciclopedia, la versione satirica di Wikipedia, scrive “Lecce News24”. Da un lato c’è Nonciclopedia, dall’altro la famiglia di Sarah Scazzi. L’uno contro l’altro. Già in passato l’enciclopedia satirica più irriverente del web era finita al centro dei riflettori mediatici per alcune battute poco “simpatiche” che avevano scatenato l’ira e la rabbia non solo dei diretti interessati. Era accaduto con Vasco Rossi, si era ripetuto poco dopo con Marco Simoncelli quando sul sito vennero pubblicate alcune frasi che ironizzano sulla morte del motociclista, scomparso tragicamente in un incidente durante la gara del Gp di Sepang, in Malesia. «Ennesima caduta per Marco Simoncelli. Ma ha promesso che questa è l'ultima» questa la frase incriminata che sdegnò il popolo social. Come in una soap a puntate, anche nel contesto 2.0, si alternano “notizie” che dividono, fanno discutere e tengono con il fiato sospeso i lettori. Ma quando indignano ed offendono la memoria di chi non c’è più la storia cambia. Ma facciamo un passo indietro: questa volta nel mirino della versione/parodia Wikipedia è finita Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa il 26 agosto del 2010 e poi ritrovata in un pozzo in contrada Mosca. A segnalare il contenuto ritenuto offensivo della pagina web è la stessa famiglia della ragazzina che ha voluto affidare ad una nota stampa tutta l’amarezza per l’ennesimo schiaffo alla memoria della piccola, vittima ancora una volta delle “speculazioni” fatte sulla sua memoria. Pensavamo di aver visto tutto dopo che una donna aveva utilizzato le foto di Sarah per aprire un profilo su Badoo ed invece «al peggio - come si suol dire - non c’è mai fine». Perché l’insulto al suo ricordo, in questo caso, va ben oltre il "buon senso" o meglio il "cattivo gusto". Mamma Concetta, che sempre si è battuta per conoscere la verità ha fatto sapere che  chiederà, per via giudiziaria, la rimozione immediata della pagina web che avrebbe dovuto, almeno nelle intenzioni ricostruire in chiave sarcastica la tragedia.

«La nostra famiglia, ancora una volta, è costretta a subire ingiustificate offese alla memoria di Sarah da parte del sito web denominato Nonciclopedia». E' quanto afferma in una nota la famiglia di Sarah Scazzi, la ragazzina di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010, che annuncia che chiederà per via giudiziaria la rimozione della pagina web. La pagina in questione dovrebbe essere una ricostruzione satirica della tragedia di Sarah Scazzi, ribattezzata Samarah, in stile con quasi tutte le pagine di Nonciclopedia che si auto definisce «l'enciclopedia libidinosa», rifacendo il verso in burla della più famosa Wikipedia. Non è il primo caso in cui una delle pagine di Nonciclopedia viene contestata sino a coinvolgere l'autorità giudiziaria, ad esempio è ancora in corso il ricorso di Vasco Rossi. Questa volta è la famiglia di Sarah Scazzi a sentirsi offesa. «Dobbiamo sopportare l’ennesimo attacco – è detto nella nota della famiglia Scazzi - da parte di chi utilizza internet con la pretesa e l’arroganza di presentare come satira quel che è, e rimane, solo ed esclusivamente un insulto gratuito, fatto di espressioni ingiuriose ed immagini deplorevoli. Espressioni ed immagini che, si ripete, non possono certamente ritenersi manifestazione del diritto di satira. Episodi del genere, intollerabili, specie se ripetuti e continuati nel tempo – è detto ancora – non fanno che rinnovare un dolore mai sopito ed infangare ulteriormente il ricordo di Sarah». «Abbiamo deciso, a questo punto – conclude la nota – di intraprendere tutte le necessarie ed opportune iniziative giudiziarie interessando le competenti Autorità finalizzate a porre fine a questa ennesima e gratuita mortificazione del nostro dramma, anche attraverso la rimozione della pagina incriminata».

La famiglia ha affidato la propria posizione ad una nota nella quale attacca coloro che dietro alla scusa della satira insultano gratuitamente la vittima del delitto infangando il ricordo della ragazza uccisa il 26 agosto 2010 rinnovando il dolore della famiglia. E per questo si chiede l’intervento della magistratura affinché venga rimossa la pagina incriminata. La pagina in questione è ricca di riferimenti relativi all’omicidio che più di un lettore potrebbe trovare di cattivo gusto.

(Samarah Scazzi da Nonciclopedia, l'enciclopedia liberatoria. NonNotizie contiene diffamazioni e disinformazioni riguardanti Sarah Scazzi. Risolto l'omicidio di Sarah Sticazzi. Sarah Sticazzi (la cui h è spesso considerata un optional) era una ragazza chiave nell'evento del suo omicidio. Il 26 agosto 2010 era scomparsa da Taranto, in provincia di Lussemburgo come le altre mille persone che spariscono senza ragione. Probabilmente a causa del suo cognome che fa notizia, è saltata più all'occhio degli altri e per giorni è stata cercata da Chi l'ha visto? (che non l'hanno vista), i parenti, la polizia e Roberto Giacobbo, che insisteva si trattasse di una leggenda maya.  Sarah Scazzi, campionessa italiana di nascondino. Chi avrebbe mai pensato di cercarla in un pozzo: Geniale. La Mediaset ha già acquistato i diritti per farne una fiction televisiva.

EHI TU, CHE COSA ASPETTI!?

Vuoi restare aggiornato sui particolari piccanti ritrovati nel diario di Sarah?

Vuoi acquistare un biglietto per il bus che visita la "Casa della Morte"?

Vuoi partecipare al concorso con cui vincere il modellino originale di Via Deledda fatto da Bruno Vespa?

Vuoi assistere alla ricostruzione dell'interrogatorio dello zio con veri attori?

Iscriviti subito alla nuova NEWSLETTER SCAZZI Scazzinostrimai@tg.it . E ricordati che solo con Sky potrai seguire 24 ore su 24 i giornalisti appostati fuori da casa Misseri! Sarah Scazzi, campionessa italiana di nascondino. Chi avrebbe mai pensato di cercarla in un pozzo. Geniale!! La Mediaset ha già acquistato i diritti per farne una fiction televisiva.

“La ragazza è scomparsa... chiamate se l'avete vista... ora passiamo alla madre che ha ucciso il fig... cosa? Cosa? Signori e signore, in diretta, lo zio ha confessato! L'ha uccisa e stuprata! La madre, inquadrate la madre, sta soffrendo! La polizia ha trovato il corpo! Gli fanno un monumento! L'INDICE D'ASCOLTO CRESCE!!!”  Puntata serale di Chi l'ha visto?

Questa è una vera tragedia, *sniff* *sniff*... sono triste... *sob* *sob*... e davvero, non... *sigh* *sob*... *sniff* *sob* *sob* *sigh* *sigh* *sniff* *sniff* *sob* *sob*...” Lo zio di Sarah in evidente disperazione.

“Per me può ancora avere figli”Silvio Berlusconi su Sarah.

“E la cantina buia dove noi, respiravamo piano!” Michele Misseri al karaoke del carcere.

“Oddio, non ci capisco più nulla!” Sherlock Holmes sul caso Scazzi.

La scomparsa

Il 26 agosto 2010 nel tranquillo paesino di montagna di Taranto era una giornata come tante. La madre di Sarah, come fanno tutte le madri normali con una figlia di 15 anni, l'ha fatta uscire la sera alle 10 aspettandola per le 5 del mattino. Ma alle 5 e un minuto del mattino, Sarah non è tornata a casa. Immediatamente, vengono chiamati in ordine: Studio Aperto per una notizia dell'ultimo minuto, il Papa per le condoglianze, Chi l'ha visto? per l'esclusiva e la polizia perché il padre era curioso di chiedere dove vendono le uniformi blu. Il tutto è iniziato con molta calma, finché non sono stati tirati in ballo elementi su cui i giornalisti si sono fiondati: un cognome equivoco, una ragazza figa e la sua pagina di facebook.

Le ricerche

La madre di Sarah depistò la polizia mostrando inutili foto della figlia a cinque anni. La polizia si è messa a cercare la ragazza in tutti i casolari della zona, tattica delle forze dell'ordine sin dagli anni '90. Le indagini, hanno avuto, infine, i risvolti desiderati: dopo estenuanti ricerche erano disponibili per tutti foto esclusive della ragazza tuttora reperibili. Della ragazza, però, nessuna traccia, escludendo un vecchio cellulare che, secondo gli esami, non vale un euro.

Durante le indagini le forze dell'ordine hanno fatto affidamento alla maggior parte delle serie poliziesche italiane senza riscontrare casi simili. Dopo 3 giorni dalla scomparsa un medium informa parenti, poliziotti e curiosoni che la ragazza era scomparsa.  Chi l'ha visto? non è stato ovviamente fermo a guardare, e ha messo in scena una super puntatona che ha catalizzato tutta l'attenzione degli spettatori battendo sul tempo Studio Aperto e Porta a porta, il primo concentrato sull'annoso problema dei koala sessualmente inattivi, il secondo impossibilitato a procedere per mancanza di un plastico. "Chi l'ha visto?" si è quindi rimboccato le maniche e per aiutare le indagini ha ottenuto diverse interviste esclusive strappalacrime coi parenti, di cui ricordiamo il povero zio Michele che si è commosso solo a vedere la telecamera. Cioè, si è commosso solo quando ha visto che lo stavano inquadrando.

- Appuntato: “Mia madre dice sempre che quando si cerca qualcosa di solito è più vicina di quanto ci si aspetti”.

- Commissario: “Io ho già guardato nelle tasche, ma ci ho trovato solo 50 cent.”.

Le ricerche sono continuate per tutto settembre, in particolar modo su Facebook, MySpace, NetLog e Nonciclopedia, alla ricerca di adescatori di minorenni. Ne hanno trovati a centinaia, ma nessuno coinvolto nella scomparsa di Sarah.

Gli scienziati della NASA hanno quindi attivato una sonda mobile su Marte. Hanno trovato vulcani, letti di fiumi, UFO e persino l'acqua, ma nessuna traccia della biondina.

La popolarità

I giornalisti sono soliti a trattare questi argomenti con delicatezza. Perché fin che dura è meglio approfittare. A causa degli svariati motivi già elencati mille volte, il caso Sticazzi ha avuto parecchia rilevanza mediatica. Oltre ad aver occupato il 99% delle notizie del telegiornale (levando spazio alla notizia dell'indipendenza di Busto Arsizio e a omicidi di ragazze meno bone), il caso ha portato alla creazione di tantissimi video su YouTube dedicati alla ragazza, prevalentemente composti dalle cinque/sei foto disponibili in rete, una musica straziante e quotatissimi commenti di "non ti dimenticheremo mai", "adesso sei un angelo" o "consolati!". Su fessbook ci sono poi gruppi di affetto e ricordi, cosa che suona strana in quanto nessuno la conosceva e nessuno sapeva chi era, ma adesso tutti dicono di essere sempre stati con lei. Inoltre, le verrà dedicato un monumento nel cimitero di Avetrana per aver... per... per essere stata uccisa brutalmente e violentata dopo la sua morte. Speriamo che la posa in cui verrà scolpita sia almeno di gloria.

Le reazioni del popolo di Facebook. Viene poi proposto un video caricato su Youtube contenente i commenti della rete nei confronti di Michele Misseri pubblicati poco dopo la sua ammissione di aver ucciso la ragazza, commenti in cui si auspicavano per lui le peggiori violenze e torture.

L'esplosione del caso: la confessione dello zio. Lo zio Michele mentre simula egregiamente il dolore per la nipote.

Durante la diretta di Chi l'ha visto? si è concluso l'interrogatorio di svariate ore (i carabinieri dicono undici, ma alla domanda di quanti minuti siano undici ore, si sono corretti con due ore) allo zio della ragazza, Michele Misseri. Sembra che dopo averlo costretto a leggere uno ad uno ogni singolo link condiviso dalla nipote su Facebook si sia arreso (e questo spiega la durata dell'interrogatorio). Lo zio ha confessato di averci provato con la nipote, che lei l'aveva respinto, che lui ci aveva riprovato, che Brock si era sposato con la cugina e tanti intrighi così. Alla fine, ha deciso di ucciderla cancellandole le musiche sull'mp3. Lo shock è stato così forte da averla fatta schiattare sul colpo. Già che c'era, lo zio ha fatto quello che tanto voleva fare nella cantina di casa sua. Poi, uscendo indisturbato con un sacco di un cadavere sulle spalle si è diretto al classico pozzo che tutti gli assassini hanno vicino casa e lanciato il corpo, dove è rimasto per 42 giorni. Ricordiamo Michele per aver simulato immensa depressione alle telecamere durante svariate interviste. Ad esempio, la sua prima intervista andò all'incirca così:

Michele: Ma è accesa quella telecamera?

Intervistatrice: Sì.

Michele: Aaaaaaaahhhh, la mia povera nipote, aaaahhh.... venite qua che vi racconto tutto io…

Intervistatrice: Oh, dica, buon uomo.

Michele: Vede... mi dispiace, mi dispiace moltissimo... io... io posso darle degli indizi, anche... vede, c'era una... una...

Intervistatrice: Chi c'era?

Michele: Una... una... mmmmhhh.... macchina! Sì, una macchina!

Intervistatrice: C'era una macchina a casa sua?

Michele: Sì! Cioè, no! A casa della mia nipote, non mia! Oooooooohhhh, le volevo bene, tanto bene...

Intervistatrice: Ha detto una macchina? Ne è sicuro?

Michele: Sì, una macchina... una... una macchina rossa! Rossa, con... due fanali, sì, una macchina... brutta, cattiva. Una macchina che ha a che fare qualcosa, dico io! Secondo me, dovreste indagare su quella macchina.

Intervistatrice: Come fa a ricordarsi bene di quella macchina in particolare? E in che direzione andava?

Michele: Beh, era una macchina... brutta, cattiva. Cattivissima. Da non dimenticare. E andava... il più lontano possibile da casa mia.

Intervistatrice: Grazie mille, e cosa ci dice riguardo alle voci su di lei?

Michele:……..

Intervistatrice: ...signore?

Michele: Ooooooh, che dolore, non posso parlare, mi si stringe il cuore, mi dispiace, tanto bene le volevo, che dolore, non parlo più, arrivederci. *Chiude porta*

 Intervistatrice: Che uomo addolorato, amici telespettatori.

Chi ha ucciso Sarah Scazzi?Descrizione: http://slot1.images.wikia.nocookie.net/__cb1393609173/common/skins/common/images/magnify-clip.png

Ci sono alte probabilità che l'assassino sia Bruno Vespa, in quanto dopo cinque secondi dall'annuncio della morte lui aveva già costruito un plastico di casa Misseri con l'intenzione di mostrarci dove trovare parcheggio.Descrizione: http://slot1.images.wikia.nocookie.net/__cb1393609173/common/skins/common/images/magnify-clip.png La locandina del nuovo film per il cinema distribuito da Merdaset. Da lunedì 21 dicembre 2012, in onda su Merdaset si terrà un nuovo reality show, condotto da Alessia Marcuzzi, intitolato "Chi ha ucciso Sarah Scazzi?". Il programma sarà per la maggior parte un polpettone mediatico che riassume tutte le vaccate sparate finora sul caso dai programmi di attualità e continuerà a seguire il caso col fiato sul collo. Grazie alla partecipazione di criminologi, psscologi, proctologi e giudice e giuria della corte suprema, sarà possibile studiare il caso in ogni (irrilevante) dettaglio e formulare accuse a vanvera contro chiunque sia vagamente collegato alla vicenda! Le puntate in onda previste sono:

Sarah è sparita, ma dove è andata?

Sarah è stata trovata, ma morta, perché?

Due ore di "cosa prova la madre"?

Lunga visione di ogni video-ricordo di YouTube.

Un monumento nel cimitero comunale: meglio equestre o no?

Fare Sarah santa? E perché, visto che non era cristiana?

Funerale, almeno quello, privato.

Lo zio ha confessato! L'ha violentata e uccisa!

Particolari della scientifica su come è stata consumata la violenza.

Spulciamo impudentemente nel diario della morta.

Gli psicologi affermano che sapevano che lo zio mentiva.

Ricostruzione con attori reali dell'interrogatorio dello zio.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah cresce.

Foto della casa del delitto, criminologi ne parlano.

Vespa costruisce un modellino della casa, perché le disgrazie non vengono mai da sole.

Un'ora di rosik per una pagina sul caso su Nonciclopedia.

Processo allo zio: al rogo o alla gogna?

La madre mostra senza motivo le foto della figlia.

Il numero di fiori davanti a casa di Sarah blocca il traffico.

La cugina è scioccata perché il padre è l'assassino.

La cugina non convince che sia scioccata perché il padre è l'assassino.

Potrebbe essere stata la cugina!!! Parliamone.

La cugina ha sempre provato rancore verso Sarah, ma lo scopriamo solo ora.

Gli psicologi affermano che sapevano fin dall'inizio che la cugina mentiva.

Nel diario di Sarah c'è la parola "cugina". Le indagini proseguono.

Postata su Facebook una foto di Sarah "in visita" all'obitorio. Sospettato Corona.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah inghiottono cinque persone vive.

Interviste al sindaco della città, alle amiche di Sarah e al maggiordomo, sospettato colpevole.

Massì che è stata la cugina: al rogo o alla gogna?

Lo zio dopotutto non era cattivo.

Lo zio ha comunque violentato Sarah!

Lo zio: alla forca o lapidato?

Apre la prevendita per fare un giro in bus alla casa della morta.

La cugina avrebbe trattenuto Sarah mentre moriva: si, no o aiuto del pubblico?

Ma la zia? Lei potrebbe centrare qualcosa!

Gli pissicologi affermano che sapevano fin dall'inizio che la zia mentiva.

No, la zia è innocente.

Gli pissicologi affermano che si sono dati all'ippica.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah ha superato la Torre Eiffel: grandi festeggiamenti a Pomeriggio Cinque.

La cugina era invidiosa delle curve di Sarah, mentre lei era più come un'autostrada.

La cugina aveva improvvisato uno strip davanti al bello della compagnia, venendo rifiutata: potrebbe essere un movente?

Salta fuori qualche "troppo caso mediatico", ma la notizia è offuscata da quelle sul caso mediatico.

Indagine: Sarah potrebbe non essere stata stuprata. Scusa, adesso lo scoprite?

Abbiamo già parlato di Ivano, l'amico di Sarah? Magari centra qualcosa, il nome non convince!

Nah, non c'entra niente.

Sarah ha rubato il diario della cugina! Ma quanti diari ci sono?

Sarah aveva legato con un randagio e l'aveva chiamato Saetta. Parliamone, anche se non c'entra niente.

E se fosse stato Saetta?

Forse abbiamo calcato troppo la mano, torniamo sulla cugina.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah è fuori controllo: avanza la proposta di appiccare un incendio.

Il papà di Sarah dice che vuole una pena giusta, ma non si spreca sui media.

La mamma della cugina scrive alla mamma della vittima: la ricetta della torta di mele e che Sabrina è innocente.

La zia di Sarah concede un'intervista: mia figlia è innocente, mio marito è colpevole e la mia ricetta del sugo non la do a nessuno.

La tv allenta la pressione sul caso. Questo è talmente strano che fa subito scoppiare un caso mediatico.

Quando Sarah era uscita aveva addosso gli auricolari, dove sono finiti? Intervista strappalacrime alla mamma degli auricolari.

La tv inizia a perdere interesse sul caso, a causa dell'ultima cazzata detta da Berlusconi sui gay.

Teodoro Errico, un pizzaiolo che non c'entra nulla, salta fuori come testimone. Non dice nulla di interessante, quindi arrivederci.

La polizia interroga gli altri abitanti della via.

La polizia interroga anche gli amici di Sarah.

Interrogato il cugino di un'amica di infanzia della compagna di banco di Sarah: la polizia brancola nel buio.

Dopo la morte di Sarah arrivò una misteriosa telefonata dal 118. Di chi era? E soprattutto perché è saltata fuori mesi dopo?

I fiori davanti alla casa di Sarah marciscono, e visto che la tv dimentica il caso nessuno mette più fiori.

C'è un misterioso buco di 40 minuti nel caso Sarah. Speriamo non l'abbia violentato lo zio.

Lo zio ritratta la versione dei fatti davanti al PM: include Willy il Coyote e svariate incudini.

Nella nuova versione, Sabrina ha detto allo zio di "aver fatto un casino". I media si stanno davvero attaccando a tutto per tirare avanti disperatamente la vicenda.

Viene mandato in onda un telegiornale che non contiene notizie sul caso Scazzi. Migliaia di fan rimangono delusi.

La mamma di Sabrina ha accusato un malore ed è sfuggita all'interrogatorio. I giornalisti hanno accusato malori per raggiungerla in ospedale.

Ivano aveva rifiutato l'amore di Sabrina. Delitto passionale: questa è nuova nel caso.

C'è voluto un po' di tempo (e tanti speciali), ma Sabrina è in carcere.

Il Grande Fratello contatta Ivano: ma che cazzo vuole?

Michele Misseri accusa un malore, ma il malore accusa Michele di averlo violentato.

Michele Misseri adesso dice che non ha violentato la nipote. Come diavolo fai a non essere sicuro di aver violentato una nipote!?

Il procuratore afferma che l'inchiesta è ancora aperta, rassicurando i telespettatori.

Roberta Bruzzone la "criminologa" che aveva sostenuto inizialmente la colpevolezza di Misseri con frasi del tipo "è un pedofilo assassino", lo va a difendere. Che coerenza.

La cintura di Sarah è un'unisex con probabili cuciture laterali, di altezza media di 2,6 centimetri... si, e allora?

Oramai non ci sono più fiori davanti alla casa di Sarah Scazzi... aspetta, chi? Ah già, quella che è morta.

Lo zietto Michele accusa la figlia nella versione definitiva dei fatti: l'ha uccisa in biblioteca, con la chiave inglese.

Nasce l'associazione "SARAH PER SEMPRE". Troppo tardi, mi dispiace.

Il sindaco di Avetrana vuole intitolare un canile a Sarah. Non che "Canile Scazzi" suoni invitante, però.

Una troupe francese segue la vicenda. Si vede che come da noi non hanno proprio niente da dire.

Nella casa di Zia Emma spunta una corda nascosta. Proprio quella che serviva ai giornalisti per tirarsela.

Il racconto di Michele non convince. La notizia è talmente generica che viene tirata avanti settimane, in versioni differenti.

Sarah Scazzi aveva mangiato un sofficino verso le 13... che sia questa la causa del decesso?

Il 26 novembre, nel Bargamasco, scompare la 13enne Yara Gambirasio. Ne parlano tutti i TG: Sarah Scazzi muore così per la seconda volta, dopo mesi di agonia.

Se volete partecipare al linciaggio mediatico e giudicare i seguenti colpevoli, mandate un sms al 48666, oppure telefonate al numero 166-666-116: Chi ha ucciso Sarah Scazzi?

Digita 1: per il porco zio

Digita 2: per la cuggina Sabrina

Digita 3: per la nobiltà nera

Digita 4: per gli alieni

Digita 5: per le scie chimiche

Digita 6: per il maggiordomo

Il sondaggio è stato creato alle ore 22:26 del nov 16, 2010, e finora 12416 persone hanno votato.

Vota! Attendere prego, il tuo voto è in elaborazione ... servizio offerto da Merdemol S.P.A il costo della chiamata sarà pari a millemila euri/sec. L'attesa potrà essere lunga, si prega di non riagganciare.

Note: Chi avrebbe mai pensato di cercarla in un pozzo?! Geniale!)

Ora toccherà alla magistratura valutare il da farsi.

Ed ancora…… D’altro canto, per essere condivisa l’informazione deve essere omologata e conformata. Non sentivamo la mancanza dell’ennesimo programma che sparla di questioni di giustizia. Eppure è arrivato. Un viaggio, "il varietà della mente", come lo ha definito lo stesso Carrisi. Un’avventura nei meandri della nostra mente, grazie al supporto della consulenza scientifica del neurofisiologo Marcello Massimini, documenti, filmati ed esperimenti sui meccanismi inconsci della mente umana. Si cercherà di comprendere i tanti dubbi che affollano la nostra mente: Siamo padroni di noi stessi? Perché diciamo bugie? Perché non riusciamo a tenere un segreto? In studio ci saranno diversi ospiti. Nella prima puntata sarà presente Giuliana Mazzoni, docente di psicologia cognitiva in Inghilterra.

Sabato 1 marzo 2014, debutta in prima serata, alle 21.30 su Rai 3, il programma in sei puntate, Il sesto senso. Sottotitolo: Quello che non ti aspetti dalla tua mente. Il conduttore-narratore è Donato Carrisi, noto per aver scritto alcuni romanzi di genere thriller. In questa trasmissione, si cercherà di capire come funziona la mente umana, delle sue potenzialità, ma anche degli scherzi del pensiero. Uno straordinario viaggio su come funziona il cervello. Si prenderà spunto anche da alcuni casi di cronaca. In una puntata, si tornerà a parlare, ad esempio del caso della morte di Sarah Scazzi e di Michele Misseri. Delle ragioni che lo hanno spinto a comportarsi in quel modo, fino a scoprire che la ragazza era morta. Il programma si occuperà anche di altre vicende, come quella di un uomo, che diversi anni fa, negli Stati Uniti, dopo aver sparato alla folla, si buttò da una torre. Dopo aver effettuato l'autopsia, si scoprì che l'uomo aveva un tumore al cervello. Ci si potrebbe chiedere quanto abbia influito, questo suo stato, nella decisione di voler ammazzare delle persone. Si parlerà anche dei grandi criminali della storia, come Hitler. La trasmissione, che va in onda dal Centro di produzione della Rai di Torino, farà vedere anche nuovi filmati. Si avvarrà della consulenza scientifica di un noto neurofisiologo, che è Marcello Massimini. Ogni settimana ci saranno poi degli ospiti in studio, nella prima puntata ci sarà Giuliana Mazzoni, che insegna psicologia cognitiva ed è esperta di problematiche che riguardano la memoria.

Ma chi meglio di lui, di Donato Carrisi, può raccontarci che cos’è "Il sesto senso"?

“Il sesto senso non esiste e lo spiego con le storie che racconto. In questi anni ci siamo dimenticati della potenza delle parole e tutto parte da lì. Come i miei libri e le mie sceneggiature, il programma è composto come un puzzle in 3D in cui voglio fare entrare il pubblico. Per esempio propongono la foto in bianco e nero di un bambino di tre anni. E’ buono o cattivo? E’ Adolf Hitler”.

Verranno affrontati anche fatti di cronaca? Carrisi spiega che si affronterà il caso di Sarah Scazzi e si cercherà di capire perché Michele Misseri ha confessato, "come e perché la sua mente si è convinta a parlare". Non solo.

"Andremo indietro nel tempo, fino al 1966 con il caso di un uomo che, negli Stati Uniti, salito sulla torre dell’università ha cominciato a sparare sulla folla. Sapeva di essere ucciso, per questo ha lasciato diverse lettere in cui chiedeva che sul suo corpo venisse eseguita un’autopsia. Venne fatta e si dimostrò che quest’uomo aveva un tumore che aveva invaso la regione della mente preposta al controllo dell’emozione e dell’aggressività. Era davvero colpevole?".

Questo viaggio si preannuncia sicuramente interessante e voi che farete, salirete a bordo? Lo guarderete?

Ma al peggio non c’è mai fine.

Sgarbi Vs Bruzzone. Lite a "Linea gialla"......il critico non si rialza, scrive Claudio Raccagni  su “Agora Magazine”. Un articolo palesemente a favore della Bruzzone che ne tesse le lodi e ne pubblicizza il libro. “Vittorio Sgarbi attacca gratuitamente la criminologa Roberta Bruzzone, ma la reazione della Signora non era prevista. Brutta esperienza per il critico Vittorio Sgarbi, che durante la trasmissione "Linea Gialla" del 5 Febbraio, condotta da Salvo Sottile, attacca gratuitamente la criminologa colpevole d'aver sottolineato come l’intervento di Sgarbi fosse fuori luogo rispetto alle tematiche trattate, ma la reazione composta e diretta della Bruzzone spiazza il critico stesso, che si ritrova muto e ferito.

Tutto parte dall’argomento della puntata in cui si parlava di "Amori malati" e femminicidio. Durante i vari interventi Vittorio Sgarbi interviene con tesi personali al di fuori della serata in questione, parlando del delitto di Avetrana e con considerazioni che banalizzavano la gravità dei reati di cui si parlava in trasmissione. Non solo, ma messo alle strette dal disappunto della criminologa e delle ospiti femminili in studio, si lasciava andare a esempi rozzi, come suo solito, evidenziando come fosse diversa la reazione se una donna avesse toccato il culo di Salvo Sottile in autobus (cosi diceva Sgarbi) e se invece fosse stato Sgarbi a toccare la Bruzzone. Atteggiamento e parole scurrili, totalmente fuori luogo in una puntata dove si parlava di omicidi, di femminicidio, di violenze gratuite. Atteggiamento che la criminologa non gradisce e risponde a dovere. Il critico non incontra simpatia dal suo atteggiamento e se ne rende conto, evidenziando già un primo nervosismo, che lo porta a forzare il suo quadro critico sulla problematica del femminicidio e riportando l’argomento sul delitto di Avetrana. Non solo, ma lo stesso Sgarbi è platealmente ripreso sul fatto che non sappia che il reato di femminicidio non esista, ma sia invece una classificazione di reato. Lo stesso Sgarbi non è al corrente dei dati che provano un aumento delle denuncie da parte di uomini verso le donne, per reati di stalking. Continua quindi il nervosismo del critico. La criminologa invita a non fare "Caciara" con le argomentazioni, ma Sgarbi non gradisce l’aggettivo e reagisce in modo spropositato, come suo solito fare. Roberta Bruzzone però reagisce in modo maturo e diretto al provocatore, dandogli poi della capra, cosa che il critico stesso è norma dare agli altri, ma raramente si sente ripreso al suo stesso modo. La rabbia di Sgarbi cade nel penoso con frasi tipo "Non mi dici caciara; chi cazzo sei tu; non sei nessuno; sei una lumaca", ma la criminologa tiene a bada lo stesso Sgarbi, che probabilmente non era pronto ad una reazione di petto. Lo scontro è un netto KO contro il critico, che evidenzia una tensione visiva acuta e un silenzio che sottolineano il non aver assorbito il colpo da campione della criminologa, che continua subito il suo intervento in trasmissione tranquillamente con il suo solito carattere combattivo. Di fronte invece resta un Vittorio Sgarbi silenzioso, che non torna all’attacco, probabilmente provato emotivamente dall’attacco della Bruzzone. Da sottolineare come Vittorio Sgarbi abbia attaccato con frasi come quelle riportate precedentemente una criminologa di fama internazionale; sempre al lavoro nella preparazione dei suoi studenti e sempre sul luogo del delitto o di studio. Recentemente premiata con il premio Falcone-Borsellino 2013 per la corposa attività scientifica e divulgativa nelle scienze criminologiche, quale imprescindibile ausilio alle attività di indagine. Roberta Bruzzone, laureata in psicologia clinica, è psicologa forense, criminologa, criminalista, analista della scena del crimine, esperta in Scienze Forensi, docente presso gli Istituti di Formazione della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri. È consulente tecnico forense ed ambasciatrice del Telefono Rosa Onlus. È autrice di diverse trasmissioni televisive tra cui “La scena del crimine” e “Donne mortali” di cui è anche conduttrice. Dal 2013 è docente e direttore scientifico del master in Criminologia Investigativa, Scienze Forensi e Analisi della Scena del Crimine presso l’Università degli Studi Niccolò Cusano. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Manuale Investigativo degli abusi sui minori”, Nuovo Studio Tecna Edizioni 2006, “Chi è l’assassino - Diario di una criminologa”, Mondadori 2012, e “Segreti di famiglia - Il delitto di Sarah Scazzi”, Aracne Editrice 2013.” Complimenti all’autore. Questi articoli non saranno mai censurati ed avranno la gratitudine delle beneficiaria!!

L’ULTIMO INSULTO PER SARAH. LA SUA FOTO SUL SITO DI INCONTRI.

E proprio da Erchie viene l’ultimo insulto per Sarah. Su Badoo.it l’ultimo insulto alla memoria di Sarah Scazzi. Sul famoso sito di incontri, infatti, circola l’immagine della ragazzina di Avetrana uccisa il 26 agosto del 2010. A usare l’immagine di Sarah Scazzi, come foto profilo, è la 42enne Maria Rosa, di Erchie, paesino in provincia di Brindisi. La signora cerca così di catturare nella rete l’interesse di uomini con cui intraprendere relazioni sentimentali. Badoo, che conta più di 196 milioni di iscritti, ha permesso tale appropriazione di immagine e di identità. Naturalmente la famiglia della ragazza uccisa è all’oscuro di tutto. Il volto di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa ad Avetrana nell’estate del 2010, utilizzato per adescare uomini sul noto sito di incontri Badoo. A pubblicare sul suo profilo la foto della ragazzina, una donna di 42 anni di Erchie, comune in provincia di Brindisi poco distante da Avetrana, dove venne ritrovato il cadavere della minorenne. “Maria Rosa vuole fare amicizia”: questa la scritta associata alla foto sulla piattaforma virtuale d’incontri che, ovviamente, è totalmente estranea al contenuto delle pubblicazioni. La notizia non è stata commentata dalla famiglia Scazzi che era all’oscuro di quanto accaduto. Si tratta solo dell’ultimo episodio di questo tipo. Qualche mese addietro, infatti, su Facebook furono pubblicate le foto di una ragazzina canadese che l’anno prima si era tolta la vita dopo aver subito violenza sessuale. Erchie, paesino in provincia di Brindisi sul cui confine con Avetrana si trova la tristemente famosa contrada Mosca dove la notte del 6 ottobre  2010 fu trovato il corpo della quindicenne. Badoo appunto, conta più di 196 milioni di iscritti in 180 paesi ed è tra i siti più frequentati dove la semplice amicizia tende a fare da preludio a incontri molto reali. Il nome e le immagini di Sarah Scazzi sono tra i più cliccati del web. Il motore di ricerca Google offre ben 641.000 pagine dedicate alla tragedia di Avetrana. Migliaia anche le foto presenti nella sezione «immagini» dello stesso motore.

I PRESUNTI TESTIMONI MAI CHIAMATI.

Oltre a Valentino Castriota, l’addetto stampa della prima ora a servizio della famiglia Scazzi, potrebbe esserci un altro testimone. Qualcuno che ha visto Sarah Scazzi pochi minuti prima dell’omicidio, nel pomeriggio del 26 agosto 2010, alle due meno un quarto. E’ quanto si legge nelle 5466 pagine delle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali effettuate durante le indagini sul delitto di Avetrana. Quella frase pronunciata il 10 gennaio 2011, “il testimone Giovanni, il genero è stato, che l’ha vista alle due meno un quarto” e ribadita nello stesso colloquio, “ha detto che quello l’ha vista alle due meno un quarto”, quindi, va presa con le dovute cautele. Chi è Giovanni? Non si tratta del fioraio, bensì sembra riferirsi a Giovanni Cucci, genero di Anna Pisanò. Il contadino sembra voler indicare il genero di Anna Pisanò (della quale si parla poco prima nel colloquio). Il riferimento sembra a Giovanni Cucci, che con la figlia della supertestimone Anna Pisanò abitava ad Avetrana, in via Deledda, nei pressi di casa Misseri, fino a marzo 2011, quando si è trasferito in Germania con la moglie Vanessa Cerra. Cucci è stato sentito dagli investigatori nell’autunno 2010 ma non su questa circostanza. E’ stata interrogata la moglie Vanessa Cerra, raggiunta in Germania dagli inquirenti, ma soltanto sulle dichiarazioni del fioraio. A quanto pare, su quella frase di Michele nessuno ha cercato riscontri, nemmeno durante il processo. Anche in una seconda visita della moglie, il 17 gennaio, Michele ripete quella che sembra una sua convinzione. Ma questa volta la “cimice” non capta integralmente la frase: «Eh … e il (incomprensibile) che ha visto alle due meno un quarto…», è la trascrizione del perito Giovanni Leo. Anche questa frase viene pronunciata in un analogo contesto, mentre si parla della superteste Pisanò. Cosima,, però, stando alle frasi pronunciate, sembra mettere in dubbio le parole del marito.

GLI ORARI CONTRASTANTI.

Gli orari. L’accusa ritiene che Sarah sia uscita di casa alle 13.45, la difesa ritiene che l’orario giusto sia intorno alle 14.30. La tesi è suffragata dal fatto che ci sono i messaggi inviati dal cellulare da Sabrina a Sarah ed alla Spagnoletti e le testimonianze concordanti dei fidanzatini intervistati più volte e del geometra La Stella che come punto di riferimento certo ha l’orario di spegnimento del suo computer. Avallata anche dalla testimonianze della famiglia di Sarah e della sua badante. Inoltre la vi è la consulenza della biologa Valeria Scazzeri, che ha eseguito una perizia di parte, affidatale dall'avvocato Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma, in relazione alla durata della digestione delle vittima, prima che venisse uccisa. Secondo la consulente, l’orario della morte di Sarah Scazzi andrebbe posticipato di un'ora e mezza-due ore e quindi indicato tra le 15.30-16 e non fissato alle 14-14.30, come stabilito dalla Procura. Sarah, il 26 agosto 2010, prima di raggiungere casa della cugina Sabrina Misseri, mangiò nella propria abitazione in tutta fretta un «cordon bleu». Secondo quanto asserito dalla biologa, per digerire l'alimento la ragazzina avrebbe dovuto impiegare 90-120 minuti, e non è possibile che lo abbia digerito in 30-40 minuti come affermato dal medico legale Luigi Strada nella perizia autoptica disposta dalla Procura. Nel corpo di Sarah in avanzato stato di decomposizione venne rinvenuta, secondo la perizia autoptica, solo una piccola quantità di liquido grigiastro, forse derivante dalla putrefazione di una mucosa, mentre la biologa ha contestato l'assenza dell'esame dell'intestino della vittima da parte del medico legale. Secondo la biologa, se al momento di ingerire il «cordon blue» l'intestino di Sarah era completamente libero, per digerirlo completamente sarebbero potute occorrere anche 6-7 ore dal momento dell' ingestione. Ed ancora, Donato Massari, papà di Francesca, amica intima di Sarah Scazzi, ha deciso di togliersi «il peso dallo stomaco» che non lo fa dormire da cinque mesi. Da quel maledetto giovedì 26 agosto, per la precisione, quando Sarah fu uccisa in casa degli zii e quando lui, più o meno all'ora del delitto, fece quello strano incontro. «Un furgone blu guidato da una persona con la parrucca e una Opel Astra station wagon come quella della mamma di Sabrina». «Tornavo da Torre Colimena ed erano passate da poco le 14 e 40. Entrando in paese passavo da uno dei primi incroci sulla sinistra (da lì si arriva da via Deledda, casa dei Misseri), dove vidi un furgone di colore blu modello Ford Galaxy affiancato ad una Opel Astra station wagon grigio.

Orari ballerini. Eppure la tesi dell’accusa si basa solo su quanto ha detto un solo testimone. Sarah Scazzi, il 26 agosto 2010, transitò a piedi in via Verdi, ad Avetrana, intorno alle 13,45 - 13,50 e si dirigesse verso viale Kennedy, che è anche in direzione di casa Misseri, in via Deledda. Lo ha ribadito lo stesso testimone, Antonio Petarra, mentre Sabrina Misseri, che è accusata del delitto insieme alla madre, ha sempre detto di aver inviato un sms a Sarah per andare al mare intorno alle 14,15. Petarra nel primo verbale del 21 settembre 2010 dichiarò di aver visto Sarah intorno alle 12.45, spostando l'avvistamento di un'ora in una seconda deposizione a verbale del 9 dicembre 2010.  

Descrizione: http://media.crimeblog.it/b/bf4/infografica-orari-scazzi.jpg

Sarah Scazzi. Le nuove testimonianze dimostrano che Sarah non è uscita di casa alle 13.55, scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Ora io capisco che quando si hanno in mano scritti provenienti da una procura tutti tendano a fidarsi ed a leggere, credendo di essere in presenza della verità, senza mai pensare che in realtà quanto è posto all'attenzione di un giudice è solo una ricostruzione di parte. Lo capisco, davvero. Ciò che non capisco è il motivo per cui nessuno mai lo legga in modo critico cercando di verificare se ciò che è scritto è compatibile con la verità o è sistemato ad arte per far credere sia "la verità". Poco ci vuole a fare un ragionamento logico e cronologico. Ultimamente si è tornati a parlare delle testimonianze portate in seconda battuta da chi in prima aveva fatto dichiarazioni diverse. Non ne ho mai scritto perché mai le ho trovate in internet. Fra l'altro credevo che tutti avessero capito la rivoluzione illogica degli avvenimenti, tante testimonianze che cambiano colore non stanno nella normalità, ma ora mi rendo conto che le nuove testimonianze di Concetta Serrano, di suo marito e della badante, potrebbero generare una sorta di tempesta mentale che non dovrebbe esistere perché porta solo pregiudizi sbagliati e fa quasi sragionare. Per capire cosa intendo dire iniziamo con il leggere le nuove testimonianze. Questa quella di Concetta Serrano, è del 30 novembre 2010: "Dopo che Sarah è andata via ho aspettato che l'acqua per la pasta bollisse, per poi cuocere gli spaghetti. Dopo aver apparecchiato ci siamo seduti noi tre ed abbiamo pranzato. Terminato il primo piatto, ho cucinato delle fettine in padella e preparato dell'insalata. Dopo aver mangiato il secondo e la frutta, unitamente a Maria ho sparecchiato, lavato i piatti e pulito la cucina. Terminate dette faccende sono andata nella mia stanza per riposarmi e mi sono accorta di tre telefonate - senza risposta - ricevute da Sabrina. Mentre mi accingevo a chiamare, ma sul punto non ricordo se la telefonata l'abbia effettuata o stavo per farla, sopraggiungeva Sabrina che mi chiedeva se Sarah si fosse sbrigata...". Questa quella del padre di Sarah, è del 21 dicembre 2010: "Dopo che Sarah è andata via, ricordo che Concetta ha aspettato che bollisse l'acqua che era già sul fornello per poi mettere la pasta. Ci siamo seduti a tavola io, Concetta e la badante. Terminato il primo piatto, mia moglie mise le fettine in padella e dopo averle cotte le ha servite a tavola. Terminato il secondo piatto abbiamo mangiato l'insalata e dopo la frutta, Sia la carne che l'insalata e la frutta consumate a tavola il giorno 26.8.2010, altro non erano che quelle acquistate poco prima con Sarah. Terminato il pranzo, Concetta e la badante hanno riassettato la cucina, in particolare hanno sparecchiato la tavola e hanno lavato i piatti, lavandino e fornelli. Nel frattempo io ho continuato a pulire le mattonelle dove erano cadute gocce di pittura. Mia moglie e la badante sono rimaste ancora per un po' in cucina a pulire, dopodiché Concetta si è recata in camera da letto così come la badante nella sua camera per riposarsi un po'." E questa quella di Maria Pantir, è del 14 dicembre 2010: "Poco prima che Sarah andasse via da casa, Concetta aveva già messo sul fuoco la pentola per riscaldare l'acqua della pasta. Concetta ha apparecchiato la tavola mentre io e Giacomo Scazzi abbiamo continuato a pulire le mattonelle. Concetta ci disse di interrompere le pulizie, io e Giacomo ci siamo fermati, abbiamo lavato la mani e ci siamo seduti a tavola con Concetta. Abbiamo mangiato la pasta e, dopo aver terminato, Concetta ha cucinato la carne e, dopo che si è cotta, l'ha servita a tavola. Dopo il secondo abbiamo mangiato la frutta. Terminato il pranzo, io e Concetta abbiamo sparecchiato e lavato i piatti e completato la pulizia nella cucina. Completati tali servizi, Concetta si è ritirata nella sua stanza. Dopo qualche minuto è arrivata Sabrina che ha citofonato..." Io capisco che il racconto dei fatti portati da una procura a un giudice debbano risultare credibili, ciò che non capisco è il motivo per cui persone che hanno in mano la vita di altre scrivano verbali "a modo" quasi stessero preparando la stesura di un pessimo libro giallo. Solo in questo contesto la logica può essere mortificata, non certo in un atto pubblico che può portare una persona all'ergastolo. Se non sono stati loro a scriverle a modo, se sono i familiari di Sarah e la badante a ricordare male, sono comunque da criticare perché le hanno accettate senza verificarle, senza tener presente che le tre testimonianze sono identiche. E questo è un particolare che farebbe storcere il naso ad un qualsiasi buon carabiniere perché testimonianze del genere le portano solo testi accordatisi in precedenza. Ma lasciamo stare l'identicità delle parole e vediamole nel dettaglio. Avrete notato che dalle testimonianze ho tolto "il fumo", quello che aveva il compito di andare negli occhi e non far notare il punto debole. Ma andiamo con ordine. I testi, dopo aver dichiarato per più di un mese che Sarah aveva detto che aspettava un messaggio e che non appena "Sabrina si fosse sbrigata" sarebbe andata con lei al mare, dopo aver detto che quando Sarah uscì di casa stavano pranzando, cambiano, o qualcuno li fa cambiare con convincimenti automatici e cronologicamente intuitivi (lo stesso procedimento usato nel caso di Melania Rea col Ranelli), il senso di due frasi e queste portano a modificare il tutto e trasformano un alibi in un atto di accusa. La prima frase diventata fumo nasce da questa: "Mi ha detto che aspettava un messaggio da...", modificata in: "Mi ha detto che le era arrivato un messaggio da...". Altro fumo nasce da questa: "Quando Sarah è uscita stavamo pranzando...", cambiata in: "All'uscita di Sarah l'acqua ancora non bolliva...". A questo punto occorre tenere in considerazione che prima del cambio effettivo delle testimonianze sono passati 96 giorni per Concetta, 110 per la badante e 117 per il padre. Occorre tenere in considerazione le tante ricostruzioni che tutti e tre hanno di certo fatto più volte al giorno in quel periodo (coi giornalisti, coi familiari, coi vicini, con gli amici ed i fratelli di chiesa), ricostruzioni che non aiutano a stabilizzare un ricordo ma lo confondono. Detto questo concentriamoci sulle parole trascritte in quei verbali considerando anche l'altro testimone che cambia versione in quel periodo, il Petarra. Lui dichiara di aver visto Sarah alle 13.55 circa, quindi un minuto dopo l'uscita di casa della ragazzina. Ora facciamo esattamente come ha fatto la procura con Concetta ma, tolto il "fumo dagli occhi", cerchiamo di stabilire quanto in procura si vuole resti nascosto, cerchiamo di stabilire ciò che è avvenuto in casa Scazzi dopo l'uscita di Sarah. L'interesse ha portato gli inquirenti a cercare di far partire Sarah prima delle 14.28/30, così da poter essere uccisa dalla cugina altrimenti innocente, ed allora ammettiamo sia vero ed uniamo gli orari antecedenti alla sua uscita con quelli successivi. Se tutto concorda hanno ragione i Pm e la Misseri deve marcire in galera, se al contrario gli orari non tornano anche in quel di Taranto c'è qualcosa che non torna, qualcosa da verificare al meglio, e la Misseri non ha ammazzato nessuno.  Partiamo con "la prova del nove" basandoci su una sequenza cronologica intuitiva, esattamente come fatto dai procuratori. Quindi ripartiamo da dove eravamo rimasti, e cioè che alle 13.55 l'acqua per la pasta ancora non bolle. Diciamo allora che gli spaghetti sono stati messi a cuocere sulle 14.00. Undici minuti per la cottura, qualche altro minuto per scolarli e condirli e chi è in quella casa inizia a mangiare fra le 14.15 e le 14.20. In base a questo le fettine di carne vanno in padella fra le 14.25 e le 14.30 ed arrivano in tavola fra le 14.35 e le 14.40 assieme all'insalata che, si presume, è stata preparata durante la cottura. Vogliamo dare a queste tre persone una decina di minuti o li vogliamo far ingozzare? Ed allora è fra le 14.45 e le 14.50 che, finita la carne, si mangia la frutta, forse una fetta di cocomero. Motivo per cui la tavola viene sparecchiata, a star stretti, fra le 14.50 e le 14.55... e non s'è preso il caffè perché in caso contrario il tempo si allunga ulteriormente. A questo punto si lavano i piatti e si pulisce la cucina. Facciamo un rapido calcolo. Ci sono da lavare e da asciugare minimo sei piatti, tre bicchieri, una padella, uno scolapasta, una pentola, qualche forchetta e qualche coltello, oltre al forno che s'è unto e tante altre piccole cose da rimettere a posto che portano via tempo. Diciamo quindi che Concetta si ritira in camera sua in un orario desumibile che va dalle 15.05 alle 15.10. E solo qualche minuto dopo arrivano Sabrina e Mariangela. Avete notato che vi hanno gettato del fumo sugli occhi impedendovi una visione reale? Avete notato che dando ascolto alla ricostruzione voluta e sistemata a modo la cugina di Sarah sarebbe arrivata per la prima volta a casa Scazzi in un orario compreso fra le 15.10 e le 15.15... quando in verità è provato che Sabrina Misseri è partita da via Deledda, assieme a Mariangela Spagnoletti, alle 14.42 ed è giunta a casa Scazzi prima delle 14.50? Ed infatti nel cellulare di Concetta Serrano ci sono le tre chiamate inviatele da Sabrina Misseri durante il percorso, l'ultima alle 14.49. Ora ditemi che ancora credete a quanto vi porta la procura per farvi andare dalla loro parte. Ditemelo se volete, ma prima considerate che il tempo che ho stimato per far mangiare i tre testimoni supera di poco i quindici minuti, cinque per la pasta e poco più di dieci per il secondo l'insalata e la frutta (e con questo tempo non si mastica e la digestione diventa lunga e complicata). Prima di dirmelo considerate che il resto dei minuti usati sono "tecnici", far bollire l'acqua, cuocere e condire la pasta, cuocere le fettine, lavare piatti bicchieri e quant'altro nonché pulire la cucina ecc. Prima di dirmelo tenete presente che non ho considerato la telefonata ricevuta dalla Pantir mentre stava mangiando, che non ho calcolato il tempo da lei perso per andare in terrazzo a rispondere, che non ho considerato alcun dialogo fra i tre. Prima di dirmelo munitevi di un orologio e sistemate l'orario alle 13.55, prendete una pentola e fate bollire l'acqua, cuocete gli spaghetti per tre adulti e conditeli. Prima di dirmelo metteteli in tre piatti e mangiatene uno (senza fare il bis), poi prendete una padella, fatela scaldare con un filo d'olio, cucinate le fettine per tre persone (se avete fatto sforzi pulendo e lavorando, come accaduto dagli Scazzi quel giorno, forse dovrete cucinarne qualcuna in più ed una sola cottura non basterà) e preparate l'insalata. Prima di dirmelo servite la carne, mangiatene e dopo questa mangiate anche una mela o una fetta di cocomero. Prima di dirmelo sparecchiate, lavate i piatti e fatevi aiutare a pulire la cucina il lavello e tutto il resto. Prima di dirmelo una volta arrivati in camera guardate l'orologio ed aggiungeteci altri tre o quattro minuti... Però non fate i furbi, non mangiate alla Fantozzi perché a casa di Concetta Serrano quel giorno, almeno a pranzo, non c'era motivo per correre ed ingozzarsi dato che poi ci si andava a riposare.

LE MOTIVAZIONI DELLE CONDANNE…..11 MESI DOPO.

Taranto lunedì sera 11 marzo 2014. Undici mesi dopo la sentenza di primo grado, i giudici della Corte di Assise di Taranto hanno depositato le motivazioni della condanna  all'ergastolo per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, ritenute responsabili dell'omicidio della 15enne.

Undici mesi dopo la sentenza di primo grado (emessa il 20 aprile 2013), la Corte di Assise di Taranto ha depositato le motivazioni della condanna alla pena dell’ergastolo di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, ritenute responsabili dell’omicidio della 15enne Sarah Scazzi. Il deposito delle 1.631 pagine della motivazione è avvenuto nel tardo pomeriggio di oggi da parte del presidente della Corte di assise di Taranto, Cesarina Trunfio. Sarah Scazzi fu strangolata il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto) e il suo corpo fu gettato in un pozzo-cisterna nelle campagne del paese, dove venne trovato la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010. Per il delitto, furono condannate complessivamente nove persone: otto anni di reclusione, per soppressione di cadavere, furono inflitti a Michele Misseri, papà di Sabrina e marito di Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima.

La sentenza di primo grado sul processo per il delitto di Sarah Scazzi è stata scritta: Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono state riconosciute colpevoli di omicidio e per questo dovranno scontare il carcere a vita. Alla parola «ergastolo» Sabrina, come sempre vestita di nero, è scoppiata in lacrime; mamma Cosima, invece, è rimasta impassibile, in silenzio. Era il 20 aprile del 2013. Non era stato facile arrivare a quell’epilogo: entrambe le imputate non hanno mai mostrato un segno di cedimento e si sono dichiarate sempre estranee all'omicidio di cui, invece, si è autoaccusato, più e più volte soprattutto a favor di telecamera, Michele Misseri.

11 mesi dopo, i giudici della Corte di Assise di Taranto hanno depositato le motivazioni della sentenza. Argomenti, prove e indizi che hanno convinto la Corte di Assise della colpevolezza delle due donne di casa Misseri, contenuti in poco più di 1.600 pagine, consegnate ieri sera in cancelleria. Che cosa accadde realmente quel pomeriggio del  26 agosto del 2010 quando a perdere la vita fu una ragazzina di soli 15 anni convinta di dover andare al mare con le amiche? Si chiede "Lecce News". In sostanza niente di più e niente di meno della ricostruzione del terribile delitto fatta dai pm Pietro Argentino e Mariano Buccoliero. Innanzitutto l’alibi «falso»  fornito Sabrina Misseri in relazione ai frangenti in cui Sarah Scazzi è stata uccisa, come confermato dagli sms non veritieri che la stessa aveva inviato dal telefonino della cugina. E poi la non attendibilità del contadino di Avetrana che più volte ha cercato, invano, di addossarsi la colpa del delitto. «Non sussiste – si legge- alcun ragionevole motivo per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti».  Lo Zio Michele «non avrebbe retto il peso della verità» come dimostrerebbe il soliloquio intercettato in auto del 5 ottobre 2010. Le due donne sono nel carcere di Taranto, nella stessa cella. Sabrina sta molto male e per questo i suoi legali avevano fatto una richiesta di scarcerazione rigettata prima dalla corte di Assise di Taranto e poi dall’appello. Il mancato deposito (avvenuto stasera, 11 mesi dopo la condanna) delle motivazioni della sentenza che ha inflitto l’ergastolo a Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi, due mesi fa aveva indotto i legali di Sabrina a chiedere la scarcerazione della giovane. La richiesta è stata però rigettata prima dalla Corte d’assise, poi dal Tribunale del Riesame che hanno ravvisato a carico dell’indagata il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio. Nell’istanza i difensori della giovane, Franco Coppi e Nicola Marseglia, sottolineavano nel gennaio scorso che i nove mesi trascorsi invano per il deposito delle motivazioni della sentenza "sono un periodo contrario ad ogni principio giuridico". I legali rilevavano inoltre che Sabrina "non ha la personalità, i mezzi, l’attitudine e la capacità di darsi alla fuga, di inquinare la prova, di commettere un qualsiasi reato" e che la giovane è "da tempo sottoposta ad osservazione psichiatrica in conseguenza dell’oggettivo stato depressivo nel quale versa". Sabrina Misseri ha riferito un «falso alibi» in relazione ai frangenti in cui Sarah Scazzi è stata uccisa, come confermato dagli sms non veritieri che la stessa Sabrina ha inviato dal telefonino della cugina. Lo scrive la Corte di Assise di Taranto nelle motivazioni della sentenza sul delitto di Avetrana depositate. Sarah Scazzi fu strangolata il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto) e il suo corpo fu gettato in un pozzo-cisterna nelle campagne del paese, dove venne trovato la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010. Per il delitto, furono condannate complessivamente nove persone: otto anni di reclusione, per soppressione di cadavere, furono inflitti a Michele Misseri, papà di Sabrina e marito di Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima. Dal soliloquio intercettato in auto del 5 ottobre 2010 si evince che «Michele Misseri non è più in grado di reggere il peso di ciò che egli sa essere accaduto», cioè che la figlia Sabrina ha ucciso la cugina Sarah Scazzi. «Non sussiste - scrive la Corte - alcun ragionevole motivo per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti».

Sarah Scazzi venne strangolata in casa Misseri da Sabrina e Cosima con una cintura. Lo scrive la Corte di Assise di Taranto nelle motivazioni della sentenza con le quali le due donne sono state condannate all’ergastolo, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. "Non vi sono elementi probatori - scrive in proposito la Corte – che avvalorino l’ipotesi che Sarah sia stata uccisa (strangolata) in auto. Le evidenze probatorie, se valutate unitamente ai comportamenti  post-delictum, fanno ragionevolmente ritenere che le imputate, dopo aver riportato la ragazza presso la loro abitazione, dove evidentemente si rinfocolava la lite, ivi l’abbiano strangolata con una cintura, secondo gli esiti dei rilievi autoptici del consulente Strada". Agli inquirenti che hanno indagato sull'uccisione di Sarah Scazzi, la cugina Sabrina Misseri ha riferito un "falso alibi", mentre Michele Misseri, papà di Sabrina, non aveva alcun motivo per incolpare ingiustamente del delitto la figlia, così come dal soliloquio dell’uomo intercettato in auto il 5 ottobre 2010 si deduce che l'agricoltore di Avetrana (Taranto) non riusciva a reggere il peso della verità, cioè che la figlia aveva ucciso Sarah. Michele Misseri è stato poi condannato a otto anni di reclusione per soppressione di cadavere, reato quest’ultimo riconosciuto anche alle due donne. Le 1.631 pagine che custodiscono le motivazioni della sentenza, scritta dal presidente della Corte, Cesarina Trunfio, sono suddivise analiticamente in sezioni, dagli accertamenti degli investigatori quando fu denunciata la scomparsa di Sarah (26 agosto 2010, data anche del delitto) alle dichiarazioni di testimoni e persone informate su fatti, alla ricostruzione del delitto e delle responsabilità sulla base degli elementi raccolti e inseriti in un mosaico complessivo. L’alibi di Sabrina, per la Corte di Assise, non regge, anzi la giovane estetista ne ha costruito uno falso: falsi sono, in quel primo pomeriggio del 26 agosto 2010, gli sms inviati al cellulare di Sarah perchè la cugina quindicenne era stata già uccisa nella villetta di via Deledda; realizzato ad arte, per lo stesso  motivo, è lo squillo che parte dal telefonino di Sarah verso quello di Sabrina. Dal canto suo Michele Misseri, papà di Sabrina, non è credibile – secondo la Corte – quando ritratta la chiamata in correità della figlia, accuse che formulò in un drammatico interrogatorio del 15 ottobre 2010 nella caserma dei carabinieri a Manduria e che poi confermò in incidente probatorio un mese dopo, il 19 novembre. "Non sussiste alcun ragionevole motivo - scrive la Corte – per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti". Lo stesso Michele Misseri che, in un soliloquio intercettato nella sua auto il 5 ottobre 2010, quasi preannuncia con la frase "li scoprirò" quella chiamata in correità della figlia nel delitto, che avverrà una decina di giorni dopo. Dal soliloquio si evince che "Michele Misseri non è più in grado di reggere il peso di ciò che egli sa essere accaduto", cioè che la figlia Sabrina ha ucciso la cugina Sarah Scazzi, scrive ancora la Corte di Assise di Taranto. I difensori dei nove imputati condannati in primo grado, a cominciare dai legali di Sabrina e Cosima alle quali è stato inflitto l’ergastolo, avranno 45 giorni di tempo dal momento della notifica delle motivazioni della sentenza per proporre appello. Madre e figlia continuano a rimanere detenute nella stessa cella del carcere di Taranto: Sabrina è lì dal 15 ottobre 2010, quando il padre la tirò in ballo nella ricostruzione del delitto; Cosima è reclusa dal maggio 2011. Per i suoi legali, Sabrina è da tempo in un profondo stato depressivo, motivo per cui nelle scorse settimane era stata chiesta la sua scarcerazione o, in subordine, gli arresti domiciliari, anche perchè, dopo 11 mesi, non erano state ancora depositate le motivazioni della sentenza di primo grado. Istanza che era stata rigettata sia dalla Corte d’Assise che dai giudici del Riesame. Ora tocca al collegio difensivo trovare eventuali falle nelle motivazioni della Corte di Assise per convincere i giudici in appello che ad uccidere Sarah, innanzitutto, non furono Sabrina e Cosima.  Sarah Scazzi venne strangolata in casa Misseri da Sabrina e Cosima con una cintura. "Non vi sono elementi probatori - scrive in proposito la Corte – che avvalorino l’ipotesi che Sarah sia stata uccisa (strangolata) in auto. Le evidenze probatorie, se valutate unitamente ai comportamenti post-delictum, fanno ragionevolmente ritenere che le imputate, dopo aver riportato la ragazza presso la loro abitazione, dove evidentemente si rinfocolava la lite, ivi l’abbiano strangolata con una cintura, secondo gli esiti dei rilievi autoptici del consulente Strada". Sabrina aveva un movente per commettere il delitto", un movente che "non può essere riduttivamente ascritto alla 'gelosià". Alla gelosia "va considerata - scrive la Corte – la parallela incidenza, ancor più nel caso di una situazione configurabile come delitto d’impeto, del groviglio di concorrenti sentimenti e tensioni, anche da altre cause originati", in cui la gelosia "s'innestò in un determinato momento della vita dell’imputata, caricandosi ulteriormente di rabbia e rancore destinati ad esplodere, alla prima occasione, in danno della cugina Sarah, rea di aver determinato la rottura con il Russo (Ivano, ragazzo di cui le due cugine si erano invaghite, ndr), in quel contesto temporale ritenuta irreversibile". Il tutto "nell’ambito di un profilo caratteriale connotato da accenti di irruenza e aggressività". La soppressione del cadavere di Sarah Scazzi avvenne con "l'accordo iniziale di tutti i componenti della famiglia Misseri". Subito dopo la morte della Scazzi - scrive la Corte – tutti e tre i componenti del nucleo familiare interloquirono sul da farsi; Michele Misseri, unica persona, peraltro, che avrebbe potuto provvedere ad allontanare immediatamente il cadavere di Sarah, quale atto più urgente, ritenne di accondiscendere alla richiesta proveniente dalle autrici del delitto. Nell’occasione lo stesso Misseri assicurò a moglie e figlia, anche in questo caso accedendo ad una specifica loro richiesta, che avrebbe distrutto tutto e fatto sparire ogni traccia di Sarah".

“Sabrina Misseri condannata perché l’alibi era falso”. Le motivazioni della sentenza sul delitto di Avetrana depositate a quasi un anno di distanza dalla condanna: Michele non poteva sopportare il peso della verità, scrive “La Stampa”. Sarah Scazzi venne strangolata in casa Misseri da Sabrina e sua madre Cosima con una cintura. Sabrina «aveva un movente per commettere il delitto», un movente che «non può essere riduttivamente ascritto alla `gelosia´», pur se il tutto va inserito «nell’ambito di un profilo caratteriale connotato da accenti di irruenza e aggressività». Inoltre la soppressione del cadavere di Sarah avvenne con «l’accordo iniziale di tutti i componenti della famiglia Misseri». Sono alcuni punti fermi delle motivazioni, depositate ieri in cancelleria, con le quali la Corte di Assise di Taranto, il 20 aprile dello scorso anno, ha condannato all’ergastolo per quel delitto Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, infliggendo otto anni di reclusione a Michele Misseri per soppressione di cadavere, reato quest’ultimo riconosciuto anche alle due donne (in tutto ci furono nove condanne, anche per reati minori). Le 1.631 pagine che custodiscono le motivazioni della sentenza, scritta dal presidente della Corte, Cesarina Trunfio, sono suddivise analiticamente in sezioni, dagli accertamenti degli investigatori quando fu denunciata la scomparsa di Sarah (26 agosto 2010, data anche del delitto) alle dichiarazioni di testimoni e persone informate su fatti, alla ricostruzione del delitto e delle responsabilità sulla base degli elementi raccolti e inseriti in un mosaico complessivo. Secondo la Corte, agli inquirenti che hanno indagato sull’uccisione di Sarah Scazzi, la cugina Sabrina Misseri ha riferito un «falso alibi», mentre Michele Misseri, papà di Sabrina, non aveva alcun motivo per incolpare ingiustamente del delitto la figlia, così come dal soliloquio dell’uomo intercettato in auto il 5 ottobre 2010 si deduce che l’agricoltore di Avetrana (Taranto) non riusciva a reggere il peso della verità, cioè che la figlia aveva ucciso Sarah. L’alibi di Sabrina, per la Corte di Assise, non convince, anzi la giovane estetista ne ha costruito uno falso: falsi sono, in quel primo pomeriggio del 26 agosto 2010, gli sms inviati al cellulare di Sarah perché la cugina quindicenne era stata già uccisa nella villetta di via Deledda; realizzato ad arte, per lo stesso motivo, è lo squillo che parte dal telefonino di Sarah verso quello di Sabrina. Dal canto suo Michele Misseri non è credibile - secondo la Corte - quando ritratta la chiamata in correità della figlia, accuse che formulò in un drammatico interrogatorio del 15 ottobre 2010 nella caserma dei carabinieri a Manduria e che poi confermò in incidente probatorio un mese dopo, il 19 novembre. «Non sussiste alcun ragionevole motivo - scrive la Corte - per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti». Lo stesso Michele Misseri che, in un soliloquio intercettato nella sua auto il 5 ottobre 2010, quasi preannuncia con la frase «li scoprirò» quella chiamata in correità della figlia nel delitto, che avverrà una decina di giorni dopo. Dal soliloquio si evince che «Michele Misseri non è più in grado di reggere il peso di ciò che egli sa essere accaduto», cioè che la figlia Sabrina ha ucciso la cugina Sarah Scazzi, scrive ancora la Corte di Assise di Taranto. I difensori dei nove imputati condannati in primo grado, a cominciare dai legali di Sabrina e Cosima alle quali è stato inflitto l’ergastolo, avranno 45 giorni di tempo dal momento della notifica delle motivazioni della sentenza per proporre appello. Madre e figlia continuano a rimanere detenute nella stessa cella del carcere di Taranto: Sabrina è lì dal 15 ottobre 2010, quando il padre la tirò in ballo nella ricostruzione del delitto; Cosima è reclusa dal maggio 2011. Ora tocca al collegio difensivo trovare eventuali falle nelle motivazioni della Corte di Assise per convincere i giudici in appello che ad uccidere Sarah, innanzitutto, non furono Sabrina e Cosima.

Processo Misseri, l’ergastolo a Sabrina e Cosima spiegato in 1600 pagine. Depositata la motivazione della sentenza nel procedimento che riguarda la morte di Sarah Scazzi. La difesa: «curioso che ne servano così tante per dimostrarne la colpevolezza». Le due donne ora nel carcere di Taranto, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Depositata la motivazione della sentenza del processo Misseri pronunciata quasi dieci mesi fa, il 20 aprile del 2013. Sono 1600 pagine per spiegare l’ergastolo a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima. Otto anni invece la condanna a Michele Misseri che continua a ripetere di essere il solo responsabile della morte della piccola Sarah, sua nipote. Un tempo lunghissimo, come fanno notare gli avvocati difensori. Franco Coppi, a fianco di Sabrina Misseri insieme all’avvocato Nicola Marseglia, è «molto curioso di leggere queste 1600 pagine spese per dimostrare la colpevolezza di una ragazza che io ritengo innocente. 1600 pagine mi sembrano tante per dimostrare la colpevolezza di una persona». Il professor Coppi fa notare come a fronte di «11 mesi la legge dà alla difesa solo 45 giorni per leggere e scrivere un atto di appello». Cosima Serrano ha maturato nel tempo «un "autonomo" risentimento» verso la nipote Sarah Scazzi, che «s'innestava in un sostrato di rancori famigliari», creando «un personale movente della donna» sfociato nell'uccisione della nipote quindicenne. Lo scrive la Corte di Assise di Taranto motivando la condanna all'ergastolo di Cosima Serrano. Il «movente personale» creatosi in Cosima Serrano «affiancatosi a quello della figlia (Sabrina, ndr) - scrive ancora la Corte di Assise - nella condivisione del malanimo verso Sarah, l'avrebbe portata all'impeto finale, vedendola perseguire, nei momenti topici, lo stesso obiettivo di Sabrina Misseri: la morte della Scazzi». Anche Sabrina Misseri, come la madre Cosima, è stata condannata all'ergastolo. La Corte aggiunge che «la reazione omicida della Serrano non è premeditata, come non lo è da parte di Sabrina Misseri. Sarah è ricondotta a casa Misseri non già con il fine di ucciderla, ma per calmarla e convincerla al silenzio». Fu di Cosima la decisione di sequestrare Sarah. Secondo la Corte l''iniziativa di "sequestrare" Sarah, costringendola a salire a bordo della sua auto, è «sicuramente ascrivibile» a Cosima Serrano. Fu quest'ultima «con la sua autorità di zia, e non già Sabrina Misseri, a intimare a Sarah di salire a bordo dell'auto». La Corte aggiunge che «la presenza di Cosima Serrano col ruolo di indiscussa protagonista, nella fase antecedente all'omicidio, caratterizzata da una condotta violenta e/o minacciosa volta a privare Sarah Scazzi della sua libertà personale, esclude, dal punto di vista logico, che, una volta avvenuta la forzata riconduzione della nipote in casa Misseri, la Serrano si potesse disinteressare della questione». Di conseguenza, non è possibile che Cosima lasciasse «Sarah da sola con Sabrina mettendosi tranquillamente nel letto a riposare». Non ci sono «spiegazioni alternative» rispetto a quelle della «partecipazione al grave fatto delittuoso», ovvero all'uccisione di Sarah Scazzi, di Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri: è quanto scrive la Corte di Assise di Taranto nelle motivazioni. La Corte spiega che non sono noti i precisi contorni della discussione in casa Misseri che avrebbe preceduto il delitto «e neppure è indispensabile accertarli ai fini del giudizio di responsabilità, una volta che si disponga di punti fermi e probatoriamente verificati». I «punti fermi», vedono «Sabrina Misseri e Cosima Serrano insieme a Sarah pochi minuti prima della sua morte (in occasione del sequestro) ed evidenziano i comportamenti susseguenti alla sua fine in termini che - conclude in proposito la Corte - non consentono spiegazioni alternative rispetto a quelle della partecipazione al grave fatto delittuoso».

Anche Franco De Iaco riflette sulle motivazioni «fiume»: «Milleseicento pagine dimostrano la difficoltà di dimostrare un assunto onirico. Perché ricordiamo la colpevolezza di Cosima è legata a un sogno. E il sognatore (il fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri) ha sempre confermato che fosse un sogno come così gli altri testi interrogati sulla circostanza e per i quali è stata chiesta la rimessione degli atti per falsa testimonianza all’ufficio del pubblico ministero. Noi abbiamo 45 giorni per rispondere contro i 300 e passa giorni utilizzati dalla corte di Assisi per redigere le loro motivazioni». Le due donne sono nel carcere di Taranto, nella stessa cella. Sabrina sta molto male e per questo i suoi legali avevano fatto una richiesta di scarcerazione rigettata prima dalla corte di Assise di Taranto e poi dall’appello. Secondo i giudici di appello Sabrina potrebbe reiterare il reato, fuggire ed inquinare le prove . Sta male? Secondo l’appello non è stata presentata alcuna documentazione clinica sullo stato di salute della Misseri. Nessun dubbio neanche alla luce di quanto scritto nella richiesta dalla difesa della ragazza. ossia che la domanda della difesa alla casa circondariale di Taranto per ricevere copia del diario clinico della ragazza non ha ha avuto esito. Quindi, fanno notare i giudici «l’assunto della difesa è meramente assertivo poiché non è stata provata documentalmente neanche la richiesta di rilascio della copia del diario clinico carcerario della Misseri». Nessuna possibilità, quindi per Sabrina Misseri di aspettare una sentenza definitiva libera e nemmeno agli arresti domiciliari. I termini della carcerazione preventiva scadranno per lei ad ottobre. È quindi molto probabile che il processo di Appello si tenga questa estate. 

Delitto Scazzi, Valentina Misseri: «Sabrina sta malissimo». La sorella:«In cella da innocente, il vero colpevole è mio padre». A pochi giorni dalle motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Taranto, il delitto di Avetrana torna alla ribalta della scena. A portare sugli schermi di Quarto Grado, su Retequattro, il 14 marzo 2014, nuove rivelazioni è stata Valentina Misseri, sorella di Sabrina condannata all'ergastolo con la madre Cosima Serrano per il delitto di Sarah Scazzi. In studio a commentare il caso c’è parterre di colpevolisti, giusto per dire come si fa informazione. Sono presenti l’avv. Carlo Taormina, l’avvocato degli Scazzi, Nicodemo Gentile, i giornalisti Carmelo Abbate e Barbara Palombelli, il criminologo e psichiatra Alessandro Meluzzi, da sempre unico fautore in studio della tesi innocentista, ed il medico legale Dalila Ranaletta.  «Mia sorella sta malissimo. Mi scrive che è come stare in un incubo e che ha bisogno di cure psichiatriche e restare in carcere da innocente è la cosa peggiore che può capitare ad un essere umano», ha raccontato Valentina in un'intervista che va in onda la sera del 14 marzo, «in una lettera mi dice anche che una parte di lei è andata via insieme a Sarah e che avrebbe voluto essere al suo posto».Per la sorella di Sabrina «nella mia famiglia non ci sono buchi neri, il buco è nella giustizia capace di condannare persone innocenti». L'accusa è tutta per il padre, Michele Misseri, «Il buco nero c'è stato nella mente di mio padre quando ha ucciso Sarah e quando ha incolpato mia sorella. Sono convintissima dell'innocenza di Sabrina. È stato per forza mio padre: per come me lo dice, per come lo conosco, so che sta dicendo la verità». Riferendosi ad un aspetto del movente del delitto indicato nelle motivazioni della sentenza di primo grado, secondo cui Sarah avrebbe saputo qualcosa che avrebbe potuto screditare la famiglia Misseri, Valentina ha poi affermato nell'intervista che «non c'era nulla di inconfessabile, assolutamente nulla. Non c'era nulla da nascondere».Ho sentito, ha aggiunto «addirittura parlare della stanza dove mia sorella lavorava come estetista, dove ci sarebbero stati dei rapporti intimi con Ivano. In realtà lì lei faceva solo dei massaggi. E poi, di solito c'era anche mia madre in casa e, visto che la descrivono come una bigotta, non penso le permettesse di stare da sola in camera». Per la sorella di Sabrina non c'era alcun segreto da tenere nascosto. «I giudici dicono che non si possono conoscere i contorni della discussione che sarebbe avvenuta in casa tra Sabrina, mia madre e Sarah. Allora come possono dire che c'è stata questa discussione, se poi non sono neppure riusciti ad argomentarla?». Valentina ha ammesso inoltre che c'era «un rapporto conflittuale» tra la madre e Sabrina «per una questione di caratteri, ma non perché si odiassero, come hanno scritto», aggiungendo, a proposito della sua deposizione al processo, che «quando in aula parlavo della mia preoccupazione per gli atteggiamenti di Sarah, mi riferivo alla reputazione di mia cugina e non della mia famiglia». Infine, sulla intercettazione in cui al telefono Cosima le ha detto «è successo in casa, il fatto è successo a casa nostra, è tutto contro di noi», Valentina ha risposto: «Sinceramente non me la ricordo. Evidentemente non ho dato importanza a questa frase, anche perché mio padre e mia sorella erano in carcere. Comunque era già evidente che per l'accusa, il delitto si riferiva alla nostra famiglia. Mia madre quando parla di casa si riferisce a tutta l'abitazione, cantina compresa. Quindi non ci ho visto nulla di strano».

Vergogna, frustrazione, rabbia sono i sentimenti che avrebbero spinto Sabrina Misseri ad uccidere Sarah Scazzi (depositaria di alcuni misteriosi segreti di famiglia) con la complicità della mamma Cosima. Per la prima volta, parla Valentina Misseri: Mia sorella sta malissimo. Mi scrive che è come stare in un incubo e che ha bisogno di cure psichiatriche e restare in carcere da innocente è la cosa peggiore che può capitare ad un essere umano. In una lettera mi dice anche che “una parte di lei è andata via insieme a Sarah” e che avrebbe voluto “essere al suo posto”. Nella mia famiglia non ci sono buchi neri. Il buco è nella giustizia capace di condannare persone innocenti. Il buco nero c’è stato nella mente di mio padre quando ha ucciso Sarah e quando ha incolpato mia sorella. Sono convintissima dell’innocenza di Sabrina. È stato per forza mio padre: per come me lo dice, per come lo conosco, so che sta dicendo la verità. Riferendosi al movente descritto nelle motivazioni della sentenza di primo grado, secondo cui Sarah avrebbe saputo qualcosa che avrebbe potuto screditare la famiglia Misseri, Valentina afferma con decisione: Non c’era nulla di inconfessabile, assolutamente nulla. Non c’era nulla da nascondere. Ho sentito addirittura parlare della stanza dove mia sorella lavorava come estetista, dove ci sarebbero stati dei rapporti intimi con Ivano. In realtà lì lei faceva solo dei massaggi. E poi, di solito c’era anche mia madre in casa e, visto che la descrivono come una bigotta, non penso le permettesse di stare da sola in camera. Non c’è assolutamente nessun segreto. Il nulla più totale, i giudici dicono che non si possono conoscere i contorni della discussione che sarebbe avvenuta in casa tra Sabrina, mia madre e Sarah. Allora come possono dire che c’è stata questa discussione, se poi non sono neppure riusciti ad argomentarla? C’era un rapporto conflittuale tra mia mamma e Sabrina per una questione di caratteri, ma non perché si odiassero, come hanno scritto. Come è possibile che se si odiassero così tanto e poi abbiano ucciso insieme Sarah, per evitare il discredito a Sabrina? Qui procederebbero in simbiosi, andrebbero d’amore e d’accordo per uccidere Sarah. Quando in aula parlavo della mia preoccupazione per gli atteggiamenti di Sarah, mi riferivo alla reputazione di mia cugina e non della mia famiglia», spiega Valentina. «Non mi riferivo a quanto mia madre potesse dare importanza alla reputazione della mia famiglia. Questa è stata deduzione dei giudici, non l’ho detto io. Non le è mai interessato il parere degli altri. Ad esempio: quando io e lei litigavamo, le dicevo di abbassare la voce ma a lei non fregava niente. Valentina Misseri commenta, infine, l’intercettazione considerata dirimente dai giudici, nella quale al telefono Cosima le dice: “È successo in casa, il fatto è successo a casa nostra, è tutto contro di noi”: Sinceramente non me la ricordo. Evidentemente non ho dato importanza a questa frase, anche perché mio padre e mia sorella erano in carcere. Comunque era già evidente che per l’accusa, il delitto si riferiva alla nostra famiglia. Mia madre quando parla di casa si riferisce a tutta l’abitazione, cantina compresa. Quindi non ci ho visto nulla di strano.

In seguito alla pubblicazione tardive delle motivazioni i talk show si sono scatenati. Ai Fatti Vostri del 24 marzo 2014 è invitata l’avv. Francesca Conte, già difensore dimissionario di Sabrina Misseri e l’avv.  Daniele Galoppa già difensore revocato di Michele Misseri, moderatore ed intervistatore Giancarlo Magalli. La prima senza alcun interesse, se non quello di denigrare chi ha agevolato la sua estromissione e da buon avvocato di sviolinare lodi a favore dei magistrati; il secondo con il chiaro intento di difendere il suo operato, ombrato dall’accusa di aver indotto Michele a fornire una versione di comodo, incolpando Sabrina. Viene anticipata una clip con il punto della vicenda fatta da Filomena Rorro, notoriamente colpevolista ai danni di Sabrina e Cosima. Quella del “tu sei una cretina”, frase proferita da Michele Misseri. Clip introduttive che parla al passato o presente certo e non al condizionale, rispetto alle accuse confermate dalla Corte di primo grado. Questo sta ad indicare quale sia la piega dell’intervista.

Magalli: «Entrambi siete stati coinvolti nel processo. Galoppa è stato difensore di Michele…di zio Michele, all’inizio, poi i vostri rapporti si sono guastati, al punto che lei, addirittura, l’ha querelato ad un certo punto per quello che ha detto. Però lei all’inizio aveva assunto la difesa di Michele. Ha seguito il procedimento e ovviamente avrà letto con grande interesse le motivazioni che sono state pubblicate della sentenza. In pratica qualcosa abbiamo accennato della scheda. Sabrina avrebbe ucciso la cugina assieme alla zia. Per quale motivo? I giudici dicono che non è solo un fatto di gelosia. Ma allora di che si tratta?»

Galoppa: «Ma sicuramente le motivazioni della sentenza, al di là della corposità delle stesse, sono comunque esaustive dal punto di vista logico a mio modo di vedere. Si ricostruisce ciò che è avvenuto quel maledetto giorno. E lo si ricostruisce dal punto di vista logico, che poi non fa altro che andare a fare da collante ai diversi indizi che ci sono stati e naturalmente a tutte le versioni relative ai fatti che sono avvenuti, dati dai protagonisti della vicenda, in primis dal signor Misseri Michele, dove appunto lo stesso viene trattato inizialmente nella fase iniziale della sentenza. Nella stessa, appunto, si va a mettere uno dietro l’altro le sue versioni e si dà una spiegazione logica di quello che poteva essere avvenuto effettivamente e quello che assolutamente non poteva avvenire come era stato detto soprattutto all’inizio.»

Magalli: «Ecco, quindi, si è dato credito alla prima versione, soprattutto, alle prime versioni e si è, poi pensato, evidentemente hanno pensato i giudici, che le versioni successive, specialmente quelle in cui si è contraddetto, fossero state, in qualche modo, non del tutto frutto della sua volontà.»

Galoppa: «Se ricordiamo, inizialmente, aveva confessato l’omicidio in prima persona ed anche l’occultamento di cadavere, attribuendosi ogni tipo di responsabilità. Poi comunque la sentenza e il dispositivo ha invece un altro tenore nel momento in cui afferma che ad uccidere non sia stato lui, ma altri due soggetti, quelli della famiglia. Ma abbia compartecipato insieme agli stessi relativamente all’occultamento di cadavere. Ha avuto quello che è stato definito un percorso che è arrivato fino ad una versione bene o male attendibile relativamente all’incidente probatorio nel momento in cui ha attribuito la responsabilità maggiore alla figlia e poi comunque, per motivi che vengono ampiamente snocciolati all’interno delle motivazioni, ha fatto una marcia indietro e si è capito anche nelle motivazioni, perché è successo una cosa del genere.»

Magalli: «….Che poi ancora non è una cosa definitiva perché ancora oggi Misseri si professa colpevole.»

Galoppa: «Da quello che apprendo sì, naturalmente, col suo valore, col valore che può avere quello che dice.»

Magalli: «Avvocato Conte, lei è stata uno dei primi difensori di Sabrina Misseri, ha raccolto tra l’altro la sua versione iniziale dei fatti. Lei, dal suo punto di vista di legale ma anche umano, che impressioni ha avuto di questa ragazza?»

Conte: «L’impressione di quando l’ho conosciuta di una ragazza molto provata e smarrita dagli eventi, sicuramente più grandi di lei, in un processo che continua ad essere un processo indiziario, anche se come dico sempre le sentenze vanno rispettate. Il presidente relatore Rina Trunfio ha una penna che definire di diamante è dire poco, anche se secondo me un processo indiziario lascia molti spazi aperti al collegio difensivo che è un ottimo collegio difensivo peraltro.»

Magalli: «Qualcuno si sorprende perché da un processo indiziario può far scaturire un ergastolo però…

Conte: «Il nostro ordinamento è chiaro. Il 192 comma 3 parla della prova indiziaria e se gli indizi sono gravi, precisi e concordanti fanno prova, nel nostro ordinamento è così, questi sono processi o da ergastolo o da assoluzione per l’art. 530.»

Magalli: «Qua l’alternarsi delle versioni  all’inizio ha generato dubbi, sospetti, Michele si è accusato poi si è scagionato. Quando la primissima versione “io l’ho sepolta ma l’ho uccisa”, addirittura aveva confessato di aver abusato del cadavere, si è buttato del fango addosso non da poco, lei era ancora il suo difensore. Lei aveva la percezione che quell’uomo stesse mentendo perché indotto a mentire dalla paura o da qualcuno o le sembrava sincero?»

Galoppa: «Guardi, queste dichiarazioni che io ho fatto sin dall’inizio e che poi trovano conforto nelle motivazioni della Corte d’Assise e cioè è vero dell’impossibilità che quei fatti fossero accaduti così come sono stati raccontati all’inizio dal signor Misseri. Tra l’altro mi trovo a dovermi difendere da alcune diciamo così congetture nei miei confronti, perchè secondo loro io avrei premeditato tutto quanto. Quindi avrei premeditato una determinata strategia difensiva nel momento in cui dicevo che erano cose davvero assurde quelle che venivano riferite la sera del sette ottobre del  2010, momento in cui per la prima volta qualcuno si era dichiarato responsabile di quell’orrendo delitto. Poi comunque ci sono naturalmente i giudici che hanno messo a tacere, penso che lo continueranno a fare anche nei successivi gradi di giudizio, queste illazioni secondo le quali un’accusa così grave era davvero campata in aria e poi non ha avuto neppure riscontro di un minimo indizio che poi invece sembra, e io sono d’accordo con quello che è stato stabilito, sembra che in un’unica direzione, cioè quello della sentenza che poi ha visto la condanna.»

Conte: «Però guardi io la cosa che mi ha colpito, durante l’incidente probatorio a cui con il collega Daniele Galoppa abbiamo partecipato, io in qualità di difensore di Sabrina Misseri, è che anche laddove chiamava in reità la figlia in quella sede, il suo racconto è stato infarcito da contraddizioni tanto che ha costituito oggetto quel racconto di molte contestazioni in senso tecnico, per cui Michele Misseri sembra mentire da un punto di vista della logicità del racconto e della coerenza interna anche quando chiama in correità la figlia. Io se fossi stata nella Procura di Taranto lo avrei lasciato in concorso nell’omicidio fino all’ultimo. Non lo avrei graziato da questo punto di vista portandolo al processo solo per l’occultamento di cadavere, forse la verità sarebbe stata più fluida nel suo evolversi degli eventi.»

Magalli: «Abbiamo detto che Michele si è poi ribellato a questa ipotesi, ha ritrattato, si è addossato tutte le responsabilità, ha detto che il coinvolgimento della nipote e della moglie gli erano state in qualche modo estorte, addirittura, lo dicevo prima, ha accusato l’avvocato Galoppa e Roberta Bruzzone, la criminologa, di averlo indotto a tirare in ballo Sabrina per deresponsabilizzarsi

Galoppa: «Diciamo che c’è un processo per calunnia.»         

Magalli: «…E c’è, e l’ho detto prima, un processo per calunnia che sia lei che la dottoressa Bruzzone avete intentato contro Michele Misseri…. Beh, abbiamo capito che è stato un processo dove la conflittualità fra legali e clienti è stata alta, abbiamo visto l’avvocato che rimette il mandato, zio Michele che se la prende con lei e con la Bruzzone, anche Sabrina ha ricusato…»

Conte: «Guardi dottore, diciamo io per la prima volta in 30 anni di attività professionale mi son trovato in quella circostanza, c’era un avvocato che si chiamava Russo che aveva un atteggiamento molto poco professionale sinceramente, che mi ha colpita, per cui non accettava assolutamente di mettersi da parte. Ha fatto quello che ha fatto, non a caso è stato anche condannato a 2 anni. Quindi diciamo che la qualità dei difensori forse all’inizio di alcuni (forse riferito anche a Galoppa, ndr) non di tutti ovviamente non è stata all’altezza della gravità del caso, della delicatezza del caso, perché io sono convinta che se l’impostazione tecnico giuridica dall’inizio di questa vicenda fosse stata affidata ad avvocati, non dico titolati, ma avvocati che sapessero fare bene il proprio lavoro anche da un punto di vista etico, l’esito del processo non sarebbe stato questo, ne sono convinta. Ci sono stati atteggiamenti talmente temerari, talmente poco deontologici all’inizio di questa vicenda, che hanno scatenato letteralmente la legittima reazione della Procura di fronte a questo. Sono state occultate prove, ci sono stati depistaggi ad opera di alcuni difensori che hanno fatto la differenza, buttando anche disdoro su Fori importanti come quello di Taranto e quello di Lecce.»

Magalli: «In sostanza lei concorda con la sentenza oppure no?»

Conte: «Guardi, io le sentenze le rispetto, non concordo nella sentenza perché io sono convinta che dovendo esagerare ci si trovi di fronte ad un omicidio preterintenzionale, ma non  assolutamente omicidio volontario e questo trasuda da tutto il processo, però rispetto innanzi tutto per le parti offese e per la memoria della povera Sarah, rispetto per la Corte d’Assise che con la massima professionalità e terzietà ha fatto il processo, per gli imputati e per i loro difensori. Personalmente ritengo che ad esagerare ci si trovi di fronte ad un omicidio preterintenzionale.» 

Michele Misseri in una intervista destinata a essere trasmessa nella serata di venerdì 28 marzo 2014 a Quarto Grado, su Retequattro, è tornato a criticare la sentenza della corte d'Assise di Taranto che ha condannato sua figlia Sabrina e sua moglie Cosima per l'omicidio della nipote Sarah Scazzi. «Sono preoccupato per mia figlia. Sta male. Non ce la farà. Io cerco di resistere. Se Sabrina non reggerà fino alla Cassazione, nemmeno io ci sarò più sulla faccia della terra. Ho detto a mia figlia che se fosse stata un'assassina l'avrei aiutata, non l'avrei abbandonata. Ma in ogni caso, non mi sarei assunto la sua responsabilità e non l'avrei aiutata a seppellire un corpo».

Misseri, che dapprima aveva accusato la figlia e poi è tornato ad autoaccusarsi, è stato infatti condannato per l'occultamento del cadavere della giovane Scazzi e ora è tornato a chiedere per sé una nuova perizia psichiatrica. «Quel buco nero di cui hanno parlato, quel giorno io l'avevo in testa. Ho chiesto una perizia psichiatrica, ma non mi è stata concessa. Non ricordo come sia successo, quando ho messo la corda ... Sarah non mi aveva fatto niente. Perché l'ho uccisa? Nel prossimo grado di giudizio chiederò ancora una perizia psichiatrica: voglio sapere quel che ho in testa», ha dichiarato nell'intervista.

La giornalista Ilaria Cavo durante l'intervento ha sottolineato come per i giudici non è stato lui ad uccidere. «E davano a me il cellulare?», ha risposto Misseri. «Mi dicevano tienimi pure il cellulare che poi lo fai trovare? Non lo penso. L'avrebbero distrutto loro». «Per i giudici», ha continuato l'uomo, «sono credibile solo quando accuso Sabrina, perché gli fa comodo... perché secondo loro lei ha il movente».

Michele Misseri commenta il movente descritto nelle motivazioni della sentenza, depositate dalla Corte d’Assise di Taranto, secondo le quali Sarah Scazzi sarebbe stata uccisa perché venuta a conoscenza di un segreto indicibile della sua famiglia: «E chi siamo? La ‘ndrangheta? La più grossa malavita dell’Italia? Tutti ci hanno sempre descritto bene poi, tutto a un tratto, siamo diventati una ‘ndrangheta? Non c’era nessun segreto.»

Nell’intervista esclusiva rilasciata all’inviata Videonews Ilaria Cavo, lo zio di Sarah afferma: «Quel buco nero di cui hanno parlato, quel giorno io l’avevo in testa. Ho chiesto una perizia psichiatrica, ma non mi è stata concessa. Non ricordo come sia successo, quando ho messo la corda… Sarah non mi aveva fatto niente. Perché l’ho uccisa? Nel prossimo grado di giudizio chiederò ancora una perizia: voglio sapere quel che ho in testa…»

La giornalista sottolinea poi che, secondo i giudici, non è stato lui a ucciderla, ma Sabrina e Cosima: «E davano a me il cellulare? Mi dicevano tienimi pure il cellulare che poi lo fai trovare? Non lo penso. L’avrebbero distrutto loro.»

Michele Misseri continua scagliandosi contro la sentenza, dove si sostiene che la figlia e la moglie abbiano ucciso assieme “perché esasperate”: «Sarebbero scattate tutte e due insieme per ammazzare Sarah? Non lo penso proprio. Tutto sbagliato… C’è stato solo un periodo in cui in casa c’era un po’ di nervosismo… anche se non abbiamo mai parlato di separazione e io non ho mai pensato di andarmene. Sabrina mi ha detto tante volte che quando si sarebbe sposata, sarei dovuto andare a vivere a casa sua. Mi manca quella parola che mi diceva: paparino… non mi sento più un padre. - Ha aggiunto - Per i giudici, sono credibile solo quando accuso Sabrina, perché gli fa comodo… perché secondo loro lei ha il movente, sono preoccupato per mia figlia. Sta male. Non ce la farà.. Io cerco di resistere. Se Sabrina non reggerà fino alla Cassazione, nemmeno io ci sarò più sulla faccia della terra. Ho detto a mia figlia che se fosse stata un’assassina l’avrei aiutata, non l’avrei abbandonata. Ma in ogni caso, non mi sarei assunto la sua responsabilità e non l’avrei aiutata a seppellire un corpo.»

Ha proseguito: «Mio nipote Cosimo sta malissimo. Mi dispiace per lui, perché se muore, muore da innocente. È il mio nipote preferito, sempre pronto ad aiutarmi qualunque cosa gli chieda. Certo, non darmi una mano per gettare Sarah in un pozzo. È innocente, come mio fratello Carmine.»

Quando la giornalista gli domanda se lui avesse avuto un istinto sessuale nei confronti di Sarah Scazzi, Misseri risponde: «No. Forse le ho toccato il seno quando l’ho sollevata, forse le ho fatto male e lei mi ha dato un calcio. Mi sono fatto crescere i baffi in segno di lutto. Me l’ha chiesto mio fratello Salvatore in un sogno. Ma se mia moglie e mia figlia usciranno dal carcere, li toglierò.»

Intanto, a parlar di giornalisti, domenica 6 aprile 2014 l’ennesima ospitata di Concetta Serrano Spagnolo. Concetta, la madre di Sara Scazzi è stata ospite di Barbara d’Urso nella puntata di Domenica Live. In studio riguarda i video di quando cercava sua figlia Sarah, con sua nipote Sabrina Misseri al suo fianco, successivamente condannata all’ergastolo con la madre Cosima, per l’omicidio della ragazza. Concetta è rimasta ad Avetrana e con il passare del tempo, confessa alla D’Urso, “mi sento ancora più tradita”. Barbara d’Urso le chiede se incontra ancora Michele Misseri, lei risponde senza problemi: «Lo incontro spesso, lui nemmeno mi guarda. È da una vita che dice che vuole venire a chiedermi perdono, ma non so cosa abbia realmente in mente.» I complessi di Sabrina. Concetta Scazzi racconta di quello che Sabrina aveva dichiarato alla tv, circa i “complessi di Sara” sulla sua eccessiva magrezza e su qualche difetto fisico. La madre di Sarah non ci sta: «Io da Sara sentivo l’esatto contrario. Mi diceva che Sabrina aveva i complessi, che piangeva per Ivano. Da Sara non ho mai sentito complessi. Si legava pure i capelli, se avesse avuto problemi con le orecchie, li avrebbe tenuti slegati. È evidente che né Sabrina, né Cosima amavano Sarah. Se avessi saputo perché, non l’avrei di certo mandata in casa loro. Purtroppo sono state brave a mascherare questo atteggiamento.» Lo sgomento, l’incredulità di Concetta è ribadito ancora una volta in poche parole, rotte da una voce provata: «Non potevo immaginare che queste persone arrivassero a tanto.»  In video, le testimonianze di Sabrina su quelli che definisce i "complessi" di Sarah, le "brutte orecchie": «Era una bella ragazza, ma una ragazza di 12 anni si faceva questi complessi….Sarah era molto magra, quando mi abbracciava o si metteva sopra, mi faceva male, si sentivano le ossa….Io da Sarah sentivo tutto il contrario. Mi diceva che Sabrina aveva i complessi, che piangeva per Ivano. Da Sarah non ho mai sentito di complessi. Si legava pure i capelli, se avesse avuto questo complesso, li avrebbe lasciati liberi». Si è data delle ragioni per l'omicidio? «Evidentemente non amavano Sarah. Se avessi saputo perchè non la avrei mandata in casa loro. Purtroppo sono state molto brave a mascherare quest'atteggiamento». In loro covava l'odio e l'hanno mascherato?, chiede la D'Urso. «Non potevo immaginare che queste persone arrivassero a tanto». La motivazione, per la giustizia italiana, è stata la gelosia. «Con mia sorella avevo un rapporto normale prima, In pratica si aiutava se c'era bisogno, ma nulla di più». Sapevi che tua nipote aveva tentato più volte il suicidio? No, l'ho saputo al processo tramite i messaggi che si scambiava con Ivano. Non posso sapere quello che ha in mente una persona. Se lo dice è probabile che si sentisse oppressa dalla situazione che viveva».

L’APPELLO ED IL TRAVISAMENTO DELLE PROVE.

“Prove travisate su Sarah”. La difesa pronta per l’Appello. Dovrebbe iniziare ad agosto 2014, pausa ferie permettendo,  il processo d’appello per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, in primo grado condannate all’ergastolo per la morte della giovane Sarah Scazzi. I legali della Misseri hanno depositato 476 pagine di motivazioni, mirate a smontare punto per punto quelle della sentenza di primo grado, a loro giudizio viziata da “palesi travisamenti delle prove”. Franco Coppi, uno dei legali, spiega quali siano questi travisamenti: il fatto che un giudice popolare sia stato sostituito in corso di dibattimento per aver manifestato il proprio pregiudizio; che i giudici abbiano fatto richiesta di astensione, dopo che un loro fuori onda era stato diffuso dalle tv; che siano state ignorate le sentenze della Cassazione che per due volte ha “annullato provvedimenti di custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza”, tanto per citarne alcuni. Secondo Coppi e l’altro legale, Nicola Marseglia, l’alibi di Sabrina è ferreo, poichè “la successione dei messaggi e dei contatti telefonici con la cugina consente di collocare l’arrivo di Sarah a casa Misseri non prima delle 14.28, rendendo pertanto impossibile prospettare un coinvolgimento attivo di Sabrina nell’omicidio”. La difesa porta anche una nuova perizia sull’arma del delitto, curata dall’Emerito di Anatomia e Istologia Patologica Arnaldo Capelli, secondo cui si tratta di corda e non di cintura come sostiene la sentenza contestata. Particolare importante visto che Michele Misseri parlò proprio di corda nella sua prima confessione.

Ad agosto tornano in aula Sabrina Misseri e la madre Cosima, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Il 20 aprile 2013 la Corte d’assise di Taranto ha condannato all’ergastolo Sabrina Misseri e la madre Cosima. Ad agosto 2014 potrebbe iniziare il processo d’appello per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, condannate in primo grado all’ergastolo per la morte di Sarah Scazzi. Franco Coppi e Nicola Marseglia, legali della Misseri, hanno depositato i motivi di appelli, 476 pagine mirate a smontare punto per punto le motivazioni della sentenza di primo grado che si è formata, dicono «con evidente superficialità, con palesi travisamenti delle prove».  Sintomo evidente, tutto ciò, di un prematuro “pregiudizio” circa la colpevolezza di Sabrina». E poi la storia del processo, la circostanza «che un giudice popolare sia stato sostituito nel corso del dibattimento per aver manifestato incautamente il proprio pregiudizio», il fatto che i giudici togati abbiano fatto richiesta di astensione dopo che un loro imbarazzante fuori onda era stato diffuso dalle tv. E anche il fatto che siano state ignorate le sentenze della Cassazione che per due volte ha «annullato provvedimenti di custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza». Sentenze della Suprema Corte passate su questo processo, dice Franco Coppi «come un soffio di vento su una lastra di marmo». Molte le pagine su Michele Misseri e le sue versioni. Secondo la difesa di Sabrina Misseri la sentenza di condanna annulla «con superficiale disinvoltura», il tema del movente sessuale, nonostante la Cassazione abbia definito fragile il movente della gelosia sollecitando approfondimenti circa il movente sessuale. Secondo Coppi e Marseglia l’alibi di Sabrina è «ferreo», garantito «dalla successione dei messaggi e dei contatti telefonici con Sarah e Mariangela che consentivano di collocare l’arrivo di Sarah a casa Misseri non prima delle 14.28 e rendevano pertanto impossibile prospettare un coinvolgimento attivo nell’omicidio di Sabrina». Sull’arma del delitto la difesa porta una nuova perizia affidata al Arnaldo Capelli, Emerito di Anatomia e Istologia Patologica, secondo cui si tratta di corda e non di cintura come sostiene la sentenza impugnata. Particolare importante visto che Misseri nella sua prima confessione ha parlato di corda, che si trovava a portata di mano sul trattore. 

«Sabrina spera e ha fiducia nel giudizio d'appello, anche se si trova in una situazione di dolore e amarezza. Il suo pensiero è rivolto costantemente alla cugina a cui era profondamente legata: nelle lettere che mi scrive, finisce molto spesso per parlare di lei. Sarah è la vittima in questo processo, ma accanto ce ne sono tante altre» Così si esprime l'avvocato Franco Coppi - ospite a "Quarto Grado"del 16 maggio 2014 - che nei giorni prima, insieme all'avvocato Nicola Marseglia, ha presentato ricorso per chiedere la scarcerazione di Sabrina Misseri, condannata all'ergastolo con la madre Cosima Serrano per l'omicidio di Sarah Scazzi.

«Difendo Sabrina perché sono convinto della sua innocenza. Ha chiesto aiuto e non posso sottrarmi all'impegno di giustizia: difendo una persona innocente, senza mezzi, che può risultare stritolata dallo strapotere del meccanismo giudiziario che si muove contro di lei. Sabrina è innocente per una serie di motivi. Certamente l'alibi ferreo è rappresentato dalla successione delle telefonate che si sviluppano nel pomeriggio del 26 agosto 2010. Queste telefonate dimostrano l'esatto adempimento degli impegni presi dalla ragazza la sera precedente e non un tentativo di depistaggio. Nel ricorso che abbiamo presentato, abbiamo avanzato critiche dure al metodo col quale si è proceduto all'esame dei testimoni. Molte testimonianze iniziali sono state cambiate e ora andrebbero riviste una per una, specialmente quelle riguardanti gli orari di uscita di Sarah per recarsi a casa dalla cugina. La ricostruzione del delitto sostenuta dall'accusa e descritta nella sentenza è grottesca e supera i limiti della fantasia. Le due cugine avevano trascorso la mattinata tranquillamente insieme e non è chiaro il motivo per il quale nel pomeriggio avrebbero dovuto litigare a tal punto che Sarah sarebbe scappata. Poi, sempre secondo questa ricostruzione, la ragazza sarebbe stata inseguita da Cosima, riportata repentinamente a casa, uccisa dalla cugina con l'aiuto della madre. In seguito, sarebbe stato svegliato il padre Michele che, in modo del tutto naturale, avrebbe deciso di coinvolgere il fratello e il nipote per seppellirla in campagna. Ciò sarebbe avvenuto senza alcuna obiezione o complicazione. Non ho dubbi che sia stato Michele Misseri ad uccidere Sarah, sia per le sue confessioni che per una serie di elementi oggettivi, come l'innocenza di Sabrina. È un uomo con una dimensione etica e psicologica molto rozza ed è convinto che sostenendo di non poter spiegare le ragioni per le quali ha ucciso, possa trovare una giustificazione di fronte alla famiglia. Se ammettesse l'approccio sessuale, il perdono non potrebbe essergli concesso dalla famiglia, dal paese e nemmeno da se stesso. In aula riprodurremo l'approccio fisico avuto da Misseri prima del delitto, per noi il movente dell'omicidio: lui sollevò Sarah toccandole involontariamente il seno, lei reagì con un calcio e lui la uccise. L'evento sarà ricollegato al tentativo di approccio sessuale che Misseri ebbe tre/quattro giorni antecedenti il 26 agosto 2010 nei confronti della nipote. L'uomo ha ammesso il fatto e non l'ha mai smentito. In quell'occasione ottenne un rifiuto fortissimo e Sarah lo minacciò di rivelare tutto a Sabrina».

La difesa, a sostegno di questa tesi, ha chiesto che nel processo di secondo grado venga acquisita agli atti l'intervista di Michele Misseri rilasciata a "Quarto Grado" in cui l'uomo lo racconta per la prima volta. Della sentenza, i difensori di Sabrina Misseri contestano anche il movente della gelosia e l'arma del delitto, sostenendo che è una corda e non una cintura, proprio come aveva rivelato all'inizio Michele Misseri. Secondo la difesa, nello spazio di 25 minuti, inoltre, troppe persone sarebbero state coinvolte. Sarebbero nate una serie di condotte "che vanno contro l'umana razionalità".

LA SENTENZA E LE MOTIVAZIONI SBAGLIATE.

È lunga ben 1631 pagine, è stato necessario attendere quasi undici mesi dalla lettura del dispositivo per il suo deposito in cancelleria ma la sentenza per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana scomparsa il 26 agosto del 2010, contiene alcuni errori, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È discordante, innanzitutto, riguardo il risarcimento danni chiesto dal Comune di Avetrana, costituitosi parte civile tramite l’avvocato Pasquale Corleto. Nelle motivazioni viene stabilito, a pagina 1627, il pagamento di 14.985 euro per le spese legali sostenute dal Comune di Avetrana ma nel dispositivo non se ne fa alcun cenno. Inoltre, sarebbe incompleto il compendio delle pene accessorie inflitte agli imputati. E così, mentre sono stati già depositati i ricorsi contro la sentenza di primo grado e già si fanno previsioni sulla data di inizio del processo dinanzi alla corte d’assise d’appello, si ritorna davanti alla corte d’assise. Lo ha stabilito il presidente Rina Trunfio, a seguito di una istanza fatta dall’avvocato Pasquale Corleto, fissando una camera di consiglio per il prossimo 18 giugno 2014, alla quale prenderanno parte i pubblici ministeri Pietro Argentino e Mariano Buccoliero, gli imputati Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Michele Misseri e Carmine Misseri, assieme ai loro difensori. Gli imputati potrebbero peraltro rinunciare alla presenza ma visto lo stato di detenzione a cui si trovano ormai da alcuni anni, non è escluso che Sabrina e sua madre Cosima approfittino dell’udienza per lasciare almeno per qualche ora il carcere, tornando nelle aule del palazzo di giustizia dalle quali mancano dal 20 aprile 2013, giorno di lettura della sentenza. In camera di consiglio, si procederà alla correzione degli errori materiali compiuti nella stesura della sentenza. La corte d’assise nelle motivazioni della sentenza ha riconosciuto il risarcimento del danno in favore del Comune di Avetrana, rilevando che «la piccola comunità locale, del quale il Comune è ente esponenziale, abbia risentito dei fatti così come contestati, in termini di turbamento nonché abbia patito un danno della propria immagine, per cui il predetto Comune debba intendersi soggetto direttamente danneggiato. Il dibattimento ha in concreto dimostrato che il Comune di Avetrana, si componga realmente di una piccola comunità di persone, spesso legate tra di loro da rapporti di parentela, affinità, a volte di amicizia e, più spesso, di mera conoscenza. Si tratta di una comunità autoreferenziale. Ne discende che un evento così brutale e inaspettato, verificatosi all’interno della collettività avetranese ed a causa della condotta di cittadini di Avetrana, abbia arrecato un danno alla stessa comunità». Ciò rilevato, la corte stabilisce il risarcimento dei danni in separata sede, e quantifica in quasi 15mila euro il rimborso delle spese legali sostenute, scrivendo testualmente che «si liquida come da dispositivo». Ma nel dispositivo, come eccepito dall’avvocato Pasquale Corleto, non c’è nulla a riguardo. Da qui, la necessità di riparare all’errore materiale. Espletata questa incombenza, tutto il fascicolo sarà trasmesso alla corte d’assise d’appello che avrà tempi stretti. Il 20 gennaio del 2015 decoreranno i termini di custodia cautelare per Sabrina Misseri e sua madre Cosima che dunque torneranno libere se entro quella data non sarà stata emessa una nuova sentenza di condanna nei loro confronti. Ecco perché il processo d’appello potrebbe partire anche in piena estate.

NON CHIAMATEMI ASSASSINA.

Sabrina Misseri dal carcere: “Non chiamatemi assassina”. La 26enne condannata per l’omicidio Scazzi: nessuno crede alla mia verità, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. «Non voglio più saperne di niente, scusami se non ti telefonerò ma non sto bene, questa botta non riesco a reggerla... Preferisco mollare piuttosto che continuare, qui dentro non uscirò mai, non vogliono credermi e non so più cosa fare. Non ce la faccio più... tutto ha un limite, sono un essere umano». Sabrina Misseri scrive dal carcere alla sorella Valentina. Sono 4 anni che è in cella per l’omicidio della cuginetta Sarah Scazzi. Continua a dirsi innocente con una condanna in primo grado che, invece, dice «fine pena mai». La Cassazione a giugno 2014 ha respinto il ricorso dei suoi legali, Franco Coppi e Nicola Marseglia, che avevano sperato negli arresti domiciliari. «Tutt’oggi pomeriggio ho riflettuto su questa cosa - si sfoga Sabrina - non riesco a calmarmi, la Cassazione è stata sempre la mia speranza e adesso sto sprofondando nel buio». Il suo legale Franco Coppi cerca di darle speranza nelle lettere che le invia costantemente. «Ma non è facile», spiega il professore che ha deciso di prendere questa difesa pro bono. «Perché credo fermamente nell’innocenza di questa ragazza», spiega. «È una cosa indegna di un Paese civile che un imputato sia pure accusato di un gravissimo delitto si trovi ristretto in carcere quando dopo 4 anni dall’inizio della custodia cautelare ancora non si conosce la data dell’inizio del processo di appello. Le scrivo spesso tentando di tirarla un po’ su. Ma è disperata, ha pensieri cupi povera figlia e sono molto preoccupato per lei. Spero che le permettano di vedere lo psichiatra che per lei in questi anni è stato un punto fermo». Ci sono storie e persone che ci accompagnano nei pomeriggi televisivi, fatti lontani da noi che viviamo come fossero un romanzo, un giallo da risolvere tutti insieme. Poi ci sono i personaggi di quei fatti, che leggono le loro vite attraverso la nostra interpretazione, il nostro giudizio, spesso la nostra superficialità. L’inchiostro che fissa i pensieri di Sabrina dovrebbe riportare tutti alla realtà, al dubbio, almeno alla pietà.  «...Vivi con la paura di rimanere qua, con la paura che subito dopo l’appello mi trasferiscano...», scrive Sabrina Misseri. «Sono sola come un cane, lo psichiatra non lo posso vedere, la psicologa di prima non ce l’ho più... Non riesco a ragionare più, il male è più forte del bene, è inutile non si può fare niente. Non la vogliono la verità, deve essere come dicono loro... Tanto vale che mi mettano in croce come Gesù Cristo così sono tutti più contenti». «Non riesco a reggere più l’etichetta dell’assassina», scrive Sabrina. «Il vomito è aumentato per l’agitazione.... perché devo subire tutto questo, non c’è mai una notizia buona, sono passati quasi 4 anni, ero entrata a 22 e adesso ne ho 26, e più si va avanti è sempre peggio». E ancora: «Ho bisogno di sfogarmi, sto talmente male con gli occhi, non sto vedendo bene. Mi è venuto mal di testa a furia di piangere, non riesco a calmarmi, mi stanno attraversando mille pensieri brutti... La verità è che non ci sarà giustizia, la giustizia non esiste». Sabrina si sente «al limite»: «Sto male e qui ti rispondono stai tranquilla, male che vada con i benefici di legge esci prima, ma io il carcere non voglio farlo più innocentemente, credo che per poco riuscirò a sopportare, il mio limite è arrivato». 

Ad oltre due settimane dalla decisione della Corte di Cassazione di negare gli arresti domiciliari a Sabrina Misseri – in carcere per l’omicidio di Sarah Scazzi – rompe il silenzio la sorella Valentina in un’intervista esclusiva realizzata da Ilaria Cavo per “Segreti e Delitti”, in onda il 18 luglio 2014 in prima serata su Canale 5.

«Bisogna ricordare che siamo ancora al primo grado di giudizio: quindi potete fare tutti un passo indietro e frenare tutti i giudizi affrettati?», prosegue Valentina Misseri. «Ancora non tutti hanno capito che per la sentenza di condanna, tutto gira intorno a una possibile bugia di Sarah: secondo loro Sarah esce di casa dicendo a sua madre di aver ricevuto un messaggino in cui Sabrina le dice di andare al mare, però questo messaggio non c’è, non esiste. Allora dicono che Sarah se lo inventa perché vuole uscire prima per non fare le pulizie a casa… In effetti quel messaggio lo riceve, ma dopo, verso le 14.25. A quel punto Sarah esce di casa, non prima, e a quell’ ora incontra mio padre, non incontra Sabrina».

Lei rimane convinta che suo padre sia colpevole?

«Per forza. Mi dà questa impressione: che le sentenze vengano fatte in base a quello che si dice in televisione, è come se avessero paura dell’opinione pubblica».

Sua sorella scrive nelle lettere che non odia vostro padre ma non lo perdona….

«Questo è un sentimento che provo anch’io».

Ha sentito le dichiarazioni di suo padre, quando nella perizia psicologica afferma che è stato violentato sotto l’albero di fico?

«Non lo sapevo e mi dispiace tantissimo. Avrei dovuto capirlo. Dico che quell’albero di fico è importante. È chiaro che significa qualcosa per papà. Non è un caso se ha deciso di portare Sarah proprio là sotto».

C’è un qualcosa di personale che riguarda lui…

«Per forza. Dopo quello che ha raccontato mi ha dato un’ulteriore conferma a quello che io già pensavo sulla sua responsabilità».

Resta la domanda di fondo: come può un padre accusare una figlia innocente, se la figlia è innocente?

«È la cosa che mi chiedono tutti e mi fa arrabbiare veramente questa domanda. Sentiamo tutti giorni alla tv che ci sono padri che uccidono le figlie e le stuprano: perché chiedersi ancora come può un padre accusare la figlia, se ci sono padri che hanno fatto ancora peggio?».

LETTERE DI SABRINA MISSERI DAL CARCERE:

«Mi è crollato il mondo addosso. Non sto bene, questa botta non riesco a reggerla. Tutto ha un limite, sono un essere umano. Non riesco più a reggere l'etichetta dell'assassina. Credo che farò lo sciopero della fame. Il vomito è aumentato per l'agitazione. Sono passati 4 anni: più si va avanti, peggio è. La giustizia non esiste. Purtroppo sono una pezzente, non posso chiedere aiuto a nessuno da qui. Adesso non vedo più un tunnel, ma un buco nero infinito che ti risucchia e non esci più. Credo che per poco riuscirò a sopportare, il mio limite è arrivato». Così, in una lettera scritta dal carcere di Taranto, Sabrina Misseri commenta la decisione della Corte di Cassazione di negarle gli arresti domiciliari. La missiva, datata 30 giugno 2014, resa nota insieme ad altre a “Segreti e delitti” su Canale 5, è solo l’ultima della corrispondenza che l'estetista condannata all'ergastolo (insieme alla madre Cosima Serrano) per l'omicidio della cugina quindicenne Sarah Scazzi, tiene dal carcere con la sorella Valentina.

Di seguito alcuni stralci delle lettere scritte da Sabrina Misseri alla sorella in questi anni di detenzione.

Il 27 febbraio 2012, a poco più di un mese dall’inizio del processo, Sabrina scrive: «Questo processo non saprei come definirlo, tanti testimoni dicono il falso. Troppo pesante far passare i giorni. Non so per quanto riuscirò a sopravvivere, un innocente o impazzisce o si uccide».

Nelle lettere successive, la ragazza mette nero su bianco tutta la sua frustrazione. È il 18 aprile 2012: «So già che ci sarà una condanna. La giustizia italiana istiga al suicidio... In questa tragedia si sta dando poca importanza a Sarah e mi dispiace. Se fosse uscita prima quel giorno, Sarah non si sarebbe trovata in cantina e...».

Nella lettera del 20 febbraio 2013, Sabrina si lamenta di non poter vedere lo psichiatra: «L'ultima volta che sono riuscita a vedere lo psichiatra è stato il 28 gennaio. Sto peggiorando, sono 15 giorni che non mangio e quando la mia compagna di cella mi sforza, quel poco che entra nello stomaco subito dopo lo vomito. Sono dispiaciuta anche per mamma, sta male e non può fare niente».

Quattro giorni dopo, la ragazza ribadisce la necessità di incontrare uno specialista: «All'uscita della visita medica mi sono sfogata con le assistenti dicendo che stavo chiedendo aiuto prima di fare un gesto estremo. Mi hanno spiegato che lo psichiatra non lo posso vedere perché possono andarci solo i pazienti pazzi, io non rientravo in questa categoria. Devo vedere la psicologa. Più tempo passa e meno mi importa di vivere perché la consapevolezza di essere innocente e non essere creduta è atroce».

Dopo la sentenza del 20 aprile 2013 che condanna Sabrina e la madre all’ergastolo, la giovane reagisce con grande amarezza: «Mi sento condannata a morte, mi sento di essere sequestrata, non riesco a dare un senso a stare qui senza aver fatto niente. Non riesco a darmi pace!!! È una tortura mentale, anche solo vedere le sbarre mi viene l'ansia».

Dalla lettera del 27 giugno 2013: «Non ce la faccio più ad aspettare così tanto e non avere la certezza che uscirà fuori la mia innocenza, accettare che Sarah non c'è più, che papà ha ucciso Sarah, papà che mi accusa sapendo che non ho fatto niente... Essere marchiata, accusata di essere una mafiosa, criminale, fredda, senza pietà, senza coscienza... Non resisto più a sopportare tutto questo, anche il mio corpo si ribella!».

Il 1° dicembre 2013, Sabrina Misseri scrive invece: «Stanno giocando con la mia vita, e con il tempo, per loro sono solo un numero. Ho paura di dormire, penso tanto a Sarah come se fosse viva, non riesco a immaginarla morta. Le lettere di papà mi fanno male perché parla di perdono ma io non posso finché non vedo il pentimento completo, la verità la dice a metà. Perché Sarah gli ha tirato il calcio? Gli altri non usano il cervello ma io sì».

Sarah Scazzi. Dieci motivi da catalogare sotto la scritta "carta e cartone", scrive Massimo Prati. In un periodo storico dove qualunque certezza è dettata dagli indizi e dalle menti di chi li osserva, c'è pure chi riesce a farsi accogliere da un giudice una nuova ordinanza cautelare, in sostanza un nuovo arresto, in base a dieci motivi logici che di logica hanno solo l'apparenza. Ed un giudice ha il dovere di fare un procedimento logico prima di prendere una decisione che influirà sulla vita di una persona che, fino al momento di una condanna definitiva, ha gli stessi suoi diritti. Ma in quel di Taranto, come più volte ricordato, la Legge ed il Codice Penale non sono perfettamente in linea con la Legge ed il Codice Penale vigente in Italia. Per cui può capitare che chi richiede un arresto scriva proprie convinzioni, non avendo alcun supporto probatorio, e chi lo deve accogliere o negare accetti quanto letto senza cercare neppure di verificarle. Ed il problema che ne sorge è evidente perché i giornalisti del nuovo millennio, quelli folgorati dalle apparizioni del Dio Denaro, e ne avvengono continuamente in Italia (le ultime a Brembate, ad Ascoli e giust'appunto ad Avetrana), riprendono col copia-incolla le parole del primo scribano che capita e diffondono nell'etere i vuoti pensieri senza neppure averli analizzati. Ora capita che in quel di Taranto sia stato chiesto l'arresto di una ragazza già carcerata portando al giudice, quale prova del merito d'essa di restare in prigione, dieci motivazioni che "paiono" inchiodare l'imputata e chi eventualmente l'ha aiutata a portare a termine il crimine di cui è accusata. Ma sarà davvero così? Andiamo con ordine ricordandoci anche che il giudice che ha avvallato queste dieci motivazioni è lo stesso che ha avvallato in precedenza, con altre motivazioni, il primo arresto della ragazza imputata e che, in base ad altre versioni, ad altre motivazioni logiche della procura, non l'ha mai scarcerata. Oltrepassiamo le motivazioni precedenti e concentriamoci sulle ultime uscite.

Partiamo dal primo motivo in cui si sostiene che il garage al momento dell'arrivo di Sarah fosse chiuso. E lo si sostiene in quanto le testimonianze di Cosima Serrano e di sua figlia erano indicative del fatto che alle 13.30 Michele Misseri fosse in cucina, visto riposare da Cosima, e che alle 14.40, quando la figlia gli ha chiesto se avesse visto Sarah, lui fosse ancora sulla sdraio, anche in questo caso è la moglie a collocarlo in quella posizione ma senza in realtà averlo visto in quanto stesa sul letto in camera sua. E qui sarebbe bastata al giudice una semplice riflessione per capire che Cosima, avendolo visto in precedenza in cucina, aveva ritenuto lì fosse rimasto; e non era difficile chiedersi per quale motivo, se davvero l'uomo non era in garage ma si trovava in casa, Sabrina gli avrebbe dovuto chiedere se avesse visto Sarah. All'interno la cugina non era e lei si trovava in veranda, che significato aveva il chiedere a chi era dentro dato che lei proveniva dal dentro ed era già all'esterno? Nessuno, quindi la prima motivazione si è persa nel nulla.

La seconda motivazione riguarda il motivo per cui Sarah sarebbe dovuta entrare in garage dato che anche sua zia Emma ed altri hanno testimoniato che mai sarebbe scesa sola. E' quindi una valutazione soggettiva nata dalle parole dei parenti. Ma non tengono conto del fatto, forse ancora non lo sapevano, che lo zio le aveva dato altre volte 5 euro e che lei, a secco di ricarica telefonica e di soldi, infatti non ha risposto ai messaggi dell'amica, quel pomeriggio avrebbe dovuto elemosinare dalla cugina con cui dalla sera precedente era in rotta di collisione. Quindi il farsi vedere e lo scendere potrebbero essere stati dettati dalla speranza che lo zio le desse la possibilità di non chiedere alla cugina i soldi per una ricarica o quant'altro.

Con questa semplice logicità decade anche il motivo numero tre, quello in cui si dice che il cancelletto è posto prima del portone del garage.

La quarta motivazione riguarda l'arma del delitto che è tutt'ora da trovare e non si può dire con certezza sia una cintura anche se il dottor Strada la da per plausibile. Per come la vedo io è facile si tratti di una corda piatta (tipo quelle da persiane) molto resistente e per questo usate spesso in agricoltura; ma potrebbe trattarsi anche di una corda normale molto usurata. L'usura del tempo spiana questo genere di corde togliendo la rotondità ed ammorbidendole. In ogni caso questa sarà una certezza da riscontrare in tribunale e non è un dato al momento valido per stabilire che l'arma del delitto la si debba individuare in casa. E darne la certa presenza in quella villetta, dopo aver fatto analizzare tutte quelle presenti e non averne trovate di compatibili, è una affermazione che risulta alquanto pretestuosa.

Come è pretestuoso il quinto motivo tendente a farci credere che se in possesso del Misseri la cintura sarebbe dallo stesso stata consegnata. Ma lui ha dichiarato più volte di aver bruciato l'arma del delitto, che ha individuato in una corda, cosa doveva consegnare la cenere?

Il sesto motivo è ancora più puerile degli altri perché che Sarah fosse attesa da Sabrina è noto a tutti, ciò che non si sa è se Sabrina ha mai incontrato Sarah. Quindi di cosa stiamo parlando? C'è chi ha detto di aver visto le due cugine insieme in quegli orari?

Ma questo non è nulla se paragonato al settimo motivo che vorrebbe la casa, chiamata scena del crimine a sproposito o per influenzare, sporca a due mesi dalla scomparsa, risale a quel periodo la visita degli analisti. Per cui il ragionamento è: "Non c'erano tracce di Sarah perché la casa è stata pulita ed il pavimento lavato proprio per eliminare tracce compromettenti". Ed io mi chiedo se i procuratori ed il giudice lasciano che a casa loro resti per mesi la sporcizia perché, caso mai dovesse accadere un crimine da qualche parte, si sarebbe certi di non trovarne traccia nelle loro abitazioni.

Però, nonostante fino ad ora ci abbiano propinato motivi infantili e di poco costrutto, arrivati all'ottavo motivo si resta sbigottiti dal lavoro certosino che il giudice asserisce abbiano fatto in procura. Infatti lì si trova scritto che il garage era chiuso in quanto Sabrina Misseri aveva parlato a suo padre in casa, ed esattamente nella camera da letto, circa dieci o venti minuti prima del messaggio inviatole da Mariangela alle 14.23.

E qui occorre che in procura si mettano d'accordo perché se alle 14.00 Sarah era già in casa Misseri e Sabrina la stava uccidendo, questa l'ultima ricostruzione dell'omicidio e quanto scrivono per supportare l'ottava motivazione, la stessa non poteva trovarsi a letto qualche minuto dopo e parlare col padre. Quindi, o ritengono valida quella in cui si dice che sulle 14.10 era a letto ed ha parlato col padre, per cui il garage era chiuso, o non la ritengono valida perché l'omicidio era in atto e pertanto non è una affermazione che può supportare il fatto che l'uomo fosse in casa ed il garage non fosse aperto. E' un ossimoro, come hanno fatto a non capirlo, e nella sua infantilità è persino ridicolo. Troppi pensieri e troppa voglia di fare incasinano il quadro?

Passiamo, per finire, ai due ultimi motivi che hanno convinto il Gip.

l nono è quello che vuole il cellulare di Sarah prima in cucina e poi in garage perché ha agganciato due frequenze diverse. E di questo la perizia non da la certezza parlando di compatibilità, quindi l'accettarlo come motivo valido è stata una scelta soggettiva del giudice basata su una sua libera interpretazione della perizia. Forse ha fatto testa o croce. Il decimo motivo viene da una intercettazione, che in un altro articolo ho già contestato, impostata tutta al maschile e che la procura vuole sia riferita al femminile. Quindi una loro interpretazione unisex del dialetto locale. Ma il bello è che è datata 5 ottobre e che non vi è alcun riferimento certo su quanto il Misseri stesse in quel momento pensando e dicendo. A meno di non ammettere che oltre ai sognatori si voglia dar retta anche ai sensitivi o ai lettori del vecchio pensiero altrui.  Perciò, per concludere, abbiamo notato come i dieci motivi accettati dal giudice per tenere in carcere Sabrina Misseri siano da catalogare sotto la scritta "carta e cartone" prima di essere gettati negli appositi contenitori per lo smaltimento intelligente dei rifiuti. Forse che a Taranto non la fanno la raccolta differenziata?

L'ultimo gioco di prestigio del Gip... continua Massimo Prati. Michele Misseri è libero perché ad Avetrana il dialetto è unisex. Ed ecco che l'inimmaginabile, quello che fino a pochi giorni fa sembrava utopia, si è avverato. L'avevo scritto che in quel di Taranto stavano preparando dei giochi di prestigio grandiosi, l'avevo scritto di prendere i pop corn e mettersi sulla poltrona ad aspettare perché si stava per proiettare un kolossal, ma nemmeno io mi aspettavo un numero così bello, così pieno di pathos e di effetti speciali. E non è stato neppure difficile perché al Gip è bastato alleggerire la posizione del Misseri, l'ex orco di Avetrana ora nuovo santo patrono della cittadina pugliese, per far sì che la Difesa ne approfittasse, e a dire il vero qui c'è stato un colpo di scena perché non ha accolto la richiesta di scarcerazione del De Cristofaro, e che la procura procedesse con il suo disegno già cesellato fatto di ulteriori allegerimenti, e questa volta, visto che proveniva dalla procura, la richiesta è stata accettata. Chissà perché. In ogni caso è stata una stupenda visione per l'Italia e gli italiani... ora tutti in piedi ad applaudire come quei venti che all'esterno del carcere hanno rischiato i calli alle mani a causa dei tanti applausi. Com'è che si dice? C'è sempre una prima volta? Ed in effetti a mia memoria non ricordo nessuno che si sia dichiarato colpevole e che, nonostante questo, venisse liberato perché non creduto. Bravi, veramente bravi, ora manca solo il suggello di una bella impiccagione, o di un suicidio in campagna, per completare l'opera che, in caso contrario, non troverebbe un finale adeguato e lascerebbe l'amaro in bocca. C'è solo da capire chi deve uccidersi. Sabrina Misseri? Suo padre? Sua madre? Il calcolo delle probabilità ci dice che è possibile che almeno uno dei tre muoia nel giro di un mese, forse per questo è stato allertato uno psicologo che avrà il compito di seguire il Misseri nel suo recupero. Perché, pover'uomo, va recuperato alla società se alla prossima festa di paese lo si vuole portare su un palco da casa sua alla chiesa cantando "osanna dall'alto dei cieli"! D'altronde, dice il Gip, lui non ha fatto nulla, era in garage a sistemare il trattore. E che nulla centri con l'omicidio, dice ancora il Gip, lo dimostrano le parole intercettate il giorno precedente l'arresto quando, da solo in auto, parlò in maniera convincente e sicura. Infatti a leggere i quotidiani disse: "Mi dispiace per la mia famiglia se vanno... io adesso li scoprirò... cosa vogliano dire, dicano quelli... è andata così, che vogliono fare, fanno a tua figlia... io non li credo, se uno non fosse voluto andare...". Questo ha detto per i quotidiani pugliesi, ma ha veramente detto così? All'incirca sì, ma solo all'incirca perché ogni lettera in più, ogni pausa, ogni minima differenza, cambia il senso di quanto uno può voler dire. Ora le sue frasi, con tanto di tempi fra i vari concetti, le inserisco in dialetto, non si sa mai che qualche lettore di Taranto mi confermi la traduzione. "Mi dispiace per la mia famiglia... (pausa 2,5 sec.) ci onu (seguono termini incomprensibili) io mo' li scoprirò...(pausa di 5,5 sec) ce ola diciuno, diciuno quiri, è sciuta cussì, ce bolunu a fannu, fannu... (non è scritto quanto tempo sia stato senza parlare) a fiiata... (anche in questo caso il tempo senza parlare non è inserito) io no li creu... (pausa di 45 sec.) ci unu non c'era uluto cu bai...". Questo quanto il Misseri disse il 5 ottobre mentre andava in campagna frammezzando l'italiano al dialetto. Il giudice la traduce così: "Mi dispiace per la mia famiglia... (pausa) se vanno (termini incomprensibili) io adesso li scoprirò... (pausa) cosa vogliono dire dicano quelli... è andata così, che vogliono fare fanno a tua figlia... io non li credo... (pausa) se uno non fosse voluto andare...". Ed ecco che grazie a questa intercettazione in procura si è capito che l'uomo è innocente. Ed il giudice si è adeguato. Ma cosa sta a significare quell'ammasso confuso di Parole? Per il Gip è del tutto evidente che al momento in cui pronuncia quelle parole il Misseri non era più capace di mantenere un segreto così devastante e nonostante le pressioni ricevute si era deciso a parlare. Ed infatti va direttamente in caserma e confessa. No? Ed allora il giorno dopo non appena entrato in procura confessa. No? E quando confessa se le frasi stavano a significare che non voleva più coprire nessuno e si era convinto a parlare? Confesserà attorno alle 22.45 della sera successiva, quindi dopo 13 ore e 15 minuti dal suo ingresso in procura e dopo 37 ore e 15 minuti dall'aver pronunciato quelle frasi? Cavolo, si era ben convinto a confessare e a non voler più proteggere le streghe della famiglia! Ma ci faccia il piacere dottor Rosati! Prima di tutto che le frasi siano dette in riferimento all'omicidio è una sua soggettiva convinzione, sua e della procura, per seconda cosa le pause, una addirittura di 45 secondi, non necessariamente sono pause del pensiero. Una persona non è un registratore che lo fermi e quando lo riavvii riprende da dove s'è interrotto. Una persona anche se smette di parlare con la bocca continua a parlare col pensiero e quando riprende riprende da dove l'ha portato la mente. A me pare logico. Fra l'altro il dire "io adesso li scoprirò" non significa domani sera alle 22.45 farò sapere agli inquirenti quanto è accaduto. Adesso, almeno nella mia città, significa adesso, non domani sera. E "li scoprirò" è un concetto pronunciato al maschile non al femminile. Ed anche dire "cosa vogliono dire dicano quelli" da l'idea che si riferisca a uomini, se fossero state donne avrebbe detto "quelle". Ed il dire "è andata così" non vuol significare che domani andrà come dovrà andare ma che è già andata, che quanto doveva accadere era già accaduto è non ci si poteva far nulla. Inoltre anche  la frase "io non li credo" è al maschile. Quindi non crede a più persone, è vero, ma a uomini. Per caso il dialetto che si parla ad Avetrana non riporta il femminile ma solo il maschile? E' un dialetto unisex dottor Rosati? Io sono convinto che lei abbia commesso un grave errore, ma per carità è una mia convinzione e per ciò che mi riguarda che sia in galera il Misseri o la moglie, o che lei abbia deciso di fargli fare sei mesi a testa, nulla mi cambia. Io spero davvero sia tutto calcolato e che le microspie, di certo piazzate in casa e in auto, diano presto a lei ed alla procura la certezza che in galera ci siano ora le persone giuste, in caso contrario una penitenza vi tocca. Ciò che è certo è che nelle intercettazioni inserite nelle sue motivazioni, in tutte, il Misseri parla al maschile e al femminile mentre in quella che ha convinto prima la procura poi lei il femminile non ci sta proprio. Ciò che è certo è che io e lei abbiamo due concezioni diverse dell'analisi logica. Non è detto sia migliore la mia, forse non lo è ed è migliore la sua, ma perlomeno io riesco ancora a distinguere il maschile dal femminile.

Era già tutto previsto ed ora possiamo passare oltre e parlare con cognizione di causa di una malattia da curare, spiega ancora Massimo Prati. Infatti la condanna comminata in primo grado dal giudice Trunfio, ci fa capire che l'accanimento tenuto da quelli di Taranto nei confronti di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano è a tutti gli effetti una malattia incurabile. Non dando alcun credito al dubbio, che in giudizio deve prevalere quando non si ha nulla su cui contare effettivamente, i togati hanno dimostrato di aver contratto la stessa malattia di chi ha sostenuto l'accusa. Una malattia nata nella mente dei primi investigatori, una malattia coltivata e cresciuta grazie ai profiler dei carabinieri che indicavano quali colpevoli le persone che più assiduamente frequentavano la vittima (ma è una indicazione che danno ad ogni omicidio). Una malattia che ha contagiato ogni singola parte della giustizia tarantina... dai carabinieri ai procuratori, dal Gip al Gup, dai giudici togati a quelli popolari. Nessuno si è salvato, neppure i giornalisti del luogo che troppo hanno frequentato i malati... e tutti si son fatti forza convincendosi l'un l'altro di non avere alcuna malattia giuridica. Ma presto ci saranno dottori che visitandoli capiranno e li cureranno. Perché quanto è avvenuto negli ultimi ottocento giorni, ma questi vanno accomunati a quanto accaduto negli ultimi due decenni a tanti altri imputati tarantini, parla chiaro. Da subito nulla si è fatto per come si doveva giuridicamente fare, lo dimostrano i modi con cui sin dai primi giorni si è agito contro due persone incensurate. A Sabrina Misseri hanno rovinato la vita. Senza concederle il beneficio del dubbio, senza fare la più piccola indagine, senza fare alcuna verifica, senza avere null'altro che le parole di un contadino imbambolato da giorni e giorni di farmaci e, come dice lui stesso, dalle parole del suo avvocato, un padre giudicato da uno psicologo anafettivo, l'hanno sequestrata di fronte ai fotografi e alle telecamere come fosse stata una terrorista. Un cappuccio in testa e via di spinta dentro l'auto che l'avrebbe condotta prima alla caserma di Manduria e poi in carcere. Una scena che l'ha resa agli occhi dei più una persona, anzi un'assassina, infame. Dal 16 ottobre del 2010 Sabrina Misseri, che al momento del suo arresto era una ragazza di 22 anni, ha vissuto, e da italiano che ama la Giustizia mi vergogno a chiamare vita questo periodo per lei troppo lungo, con l'approvazione di un'opinione pubblica resa cieca dai media, nel carcere di Taranto, in una cella di due metri per tre. Due anni e mezzo da incubo, due anni e mezzo inframezzati da piccole speranze sempre disattese, dall'alternarsi continuo di quelle depressioni fisiche e morali che solo chi è stato confinato ingiustamente in galera conosce. Quelle depressioni che prova un cane che prima di perdere la libertà ammirava chi non avrebbe mai creduto potesse metterlo in gabbia e diventare il suo "padrone crudele". Un cane ritrovatosi chiuso fra quattro pareti e vessato da chi godeva nel picchiarlo pubblicamente col bastone chiodato delle parole infamanti, da chi godeva nel ritrovarsi sui denti le sue gocce di lacrime sangue e dolore. Ma qui è sorto un problema irrisolvibile: il cane Sabrina Misseri non si è fatto addomesticare come previsto, non ha fatto ciò che in procura si voleva facesse, non ha fatto come tanti altri indagati di Taranto che negli ultimi decenni, pur di far cessare l'agonia, hanno confessato omicidi mai commessi. Per questo dal suo padrone e dagli amici del suo padrone è stata dipinta e messa alla gogna come una bestia ricoperta di rogna. E la gente è accorsa a vedere quell'essere infame, quel putrido mostro con gli occhi da belva. E la gente si è divertita a sputargli sopra il disprezzo basato sul nulla, quel disprezzo creato ad arte da chi non sapeva come far emergere una verità inesistente, la propria assoluta verità, e raccontava a tutti favole horror imbottite di vecchi "luoghi comuni". Eppure ci voleva poco a capire che erano solo favole illogiche, favole narrate al mondo da cantastorie ignoranti che approfittando della sofferenza altrui cercavano solo di guadagnare il loro benessere sociale, favole disegnate ed elaborate in maniera pessima ma spacciate per stupende, favole ridicole proiettate continuamente sugli schermi accondiscendenti per convincere l'opinione pubblica della loro veridicità. Poca materia grigia ci voleva a capirlo e chissà perché mai in troppi non l'hanno trovata nella loro mente quel minimo di materia grigia. Vedremo quali motivazioni si scriveranno e se altri giochi di prestigio cercheranno di portarci ad applaudire il giudice gemello di turno. E se Sabrina è stata trattata come un cane con la rogna, se è stata inserita quale attrice protagonista in favole ricostruttive prive di qualsivoglia logica, favole piaciute tanto a una corte di giustizia (così è chiamata anche quella di Taranto), c'è da dire che a sua madre non è toccata sorte migliore. Cosima Serrano fu invitata a presentarsi in caserma e subito arrestata; come già deciso fu costretta a restare in attesa dell'arrivo dei compaesani e delle telecamere per essere trattata quale animale aberrante, per essere trattata come fosse lei la vera "bestia antropofaga", l'assassina di una decina di bambini e adolescenti della Milano campestre di qualche secolo fa. Una bestia alla fine imbalsamata e mostrata ai visitatori anche per far perdere loro la paura provata per mesi, visitatori attratti dal muso assassino di chi potevano finalmente offendere e additare a infame. E come si fece a Milano nel 1792 si è fatto ad Avetrana nel 2011, quando al momento dell'arresto della "bestia Cosima", sulla pubblica piazza si son presentate un centinaio di persone irose. Persone aizzate dai giornalisti amici dell'ingiustizia, persone che non si resero conto di essere burattini manovrati da "bravi" burattinai, persone che pur entrando ogni mattina in bagno, e pur possedendo almeno uno specchio, neppure a posteriori capirono di essere diventate loro gli animali infami dal brutto muso, di essere loro la bestia antropofoga imbalsamata da osservare con disprezzo. C'è modo e modo di arrestare un indagato... e non si può non capire che a Taranto si decise di dare spettacolo solo per seguire una sceneggiatura prestabilita, non si può non capire che Cosima era la vittima designata da offrire in pasto a una parte dell'opinione pubblica, alle bestie antropofaghe, a quegli orchi famelici con gli occhi iniettati di sangue che abitualmente sbavano e attaccano i loro contrari per ucciderne mentalmente le idee e colmare quei vuoti mentali che in loro non trovano pace, per dar soddisfazione a quell'istinto primordiale che li vorrebbe assassini impuniti, a quella rabbia accumulata a causa di famiglie di bassa lega incapaci di insegnare ai propri figli l'amore e la democrazia, quella rabbia ereditata da genitori invisibili che invece di accarezzare mordevano, da genitori che non sapendo fare i genitori hanno lasciato ai media volgari il compito di allevare ed educare la loro prole. Una rabbia alimentata da burattinai mai fermati da uno Stato che da tempo non esiste, esseri senza una vera guida che con decisioni proprie si autorizzano ad aizzare gli orchi grazie a un sistema giustizia sempre più sull'orlo del baratro. Come non capire che a Taranto esiste una sorta di "casta" alternativa che non basandosi sulla legge e sui fatti provati, non basandosi sulla logica e sul buonsenso, ha agito e agisce come solo i sequestratori di uno Stato dittatoriale possono agire? Carcerando due incensurati senza aver nulla di serio in mano, senza verificare con perizie le parole di chi accusava, hanno cercato la soluzione che non esisteva intimidendo ed incattivendosi oltre ogni giusto e lecito limite giuridico-investigativo. Coadiuvati da giudici di scarso spessore, giudici chiacchieroni asserviti, prestigiatori di penna, da giornalisti copia e incolla buoni solo a scrivere sotto dettatura, giornalisti chiamati così perché scritto su un pezzo di carta, ma in realtà esseri privi di una mente propria a cui nessun editore affida mai il compito di scrivere articoli ragionati, perché al massimo capaci di venderli i giornali, hanno messo in atto una rappresentazione vergognosa, una rappresentazione indegna di uno Stato che si dichiara democratico. Ed allora i casi sono due: o queste non sono persone in grado di fare bene il loro lavoro, e far cambiare mestiere a tutte non sarebbe un male, o sono persone che usando il potere di cui dispongono hanno mischiato bugie, omissioni, astuzia e inganno, e pur di imporre le idee colpevoliste di parte, non fatti accertati e provati validi per giustificare il carcere preventivo, hanno spinto e insistito in modo da inserirle a viva forza nell'emotività di quell'opinione pubblica che si fida di chi parla dagli schermi privilegiati, quell'opinione pubblica che non avendo tempo e modo di leggersi migliaia di pagine, in questo caso gli atti che dimostrano come la sola intimidazione fosse la logica usata in quel di Taranto, si affida al tal giornalista, al tal opinionista, perché nel tempo gli getta quel mangime che nutre la sua soddisfazione. Una soddisfazione effimera il credere di aver ragione grazie a chi alimenta quelle convinzioni nate a causa di insinuazioni velate, grazie al modo usato nel dare la notizia; un modo di fare ben conosciuto nel martellante settore pubblicitario, ma subdolo se usato al di fuori degli spazi convenzionali. Perché far credere di essere al di fuori di uno spazio pubblicitario annulla quelle difese psichiche che portano a dubitare del prodotto reclamizzato e fa pensare di aver elaborato in autonomia quanto in realtà da altri ci viene iniettato nella mente. Scrivere all'unisono le stesse identiche frasi e ripeterle continuamente sul video (una sorta di "mantra"), non può non influenzare... e chiunque sa che non è questo il modo di fare giornalismo. Eppure tanti esponenti dei media in questi anni hanno pubblicizzato, a volte apertamente altre fra le righe, costantemente la colpevolezza di Sabrina Misseri e di sua madre, portando così l'uomo comune ad acquistare il prodotto colpevolista senza pagare un euro (il costo da sborsare è un altro freno psichico che porta a dubitare della pubblicità). Un comportamento aberrante perché si sa che quando l'opinione pubblica abbraccia un'idea crea una forza d'urto capace di influenzare l'ordine delle cose, comprese le decisioni di chi opera in un tribunale (i giudici, sia togati che popolari, prima di entrare in un'aula di giustizia sono essi stessi una parte dell'opinione pubblica). Un comportamento aberrante perché è vergognoso accanirsi su una persona senza aver prova di nulla, solo le parole di chi per lavoro si innamora della propria tesi e in base a questa accusa. Ed è da censurare il comportamento acritico di quei giornalisti inutili, figli di uno stallo sociale da decenni privo di idealisti e pieno di approfittatori, capaci di creare mostri, capaci di trasformare le menti altrui in bestie antropofaghe. E' un comportamento da censurare che la sentenza di oggi pare però giustificare. Ma quanto sentenziato da un giudice del tribunale di Taranto, ricordiamoci che è una struttura con una percentuale di errore paurosa e un costo a carico della collettività indecente, è solo un giudizio scontato da tempo, un giudizio che tutti, proprio a causa dei media acritici che vivono giorno e notte inginocchiati sulle scale della procura, si aspettavano. Insomma, perdere oltre un anno in 52 udienze, con altri costi spaventosi, è parsa quasi una formalità da sbrigare per dimostrare che tutto s'è fatto a regola d'arte... ma era un passaggio che si poteva saltare tanto era scontata la condanna. Riuscite forse a immaginare cosa sarebbe accaduto se la Trunfio avesse assolto? Ogni personaggio coinvolto sarebbe rimasto incastrato in evidenti responsabilità. Niente più processi per i testimoni scomodi all'Accusa, niente condanna per il fiorista di Avetrana e una figura pubblica davvero barbina sia del Gip che di tutti i procuratori. Con la sua sentenza, invece, il giudice ha "liberato tutti": la "cosa giusta" servita a fare in modo che nessuno possa criticare quanto fatto in questi due anni e mezzo. Ora però è finita. A Taranto non saranno più giudicate né Sabrina Misseri né Cosima Serrano... e la storia recente ci dice che in appello tutto sarà di certo diverso, ci dice che la verità prenderà il sopravvento e surclasserà il pregiudizio. Per il momento, quindi, cali il silenzio e si chiuda il sipario in attesa che un nuovo teatro, un nuovo e diverso tribunale con nuovi giudici, riprenda la rappresentazione e decida che dopo anni di carcere ingiusto è arrivata finalmente l'ora di usare la logica della Vera Legge, quella che aiuta a sentenziare non usando solo le intimidazioni e il convincimento di parte. Oggi la giustizia italiana, ultima in Europa e in caduta libera nel pianeta, ancora una volta ha perso. Oggi nessuno ha vinto e di certo nessuno vincerà in futuro: quando dopo altri anni passati in carcere, al dolore già accumulato si sarà sommato altro dolore e lacrime. E nessuno si azzardi a dire che Sarah ha avuto Giustizia. La Giustizia è un'altra cosa. La Giustizia ha il sapore dolce e non lascia il gusto amaro di odio fermentato da un mosto senza zucchero. A Taranto oggi ha vinto l'odio, quello generato da chi ha raccontato un'altra storia, quello recepito da chi ha ascoltato un'altra storia... una storia senza senso, una storia infarcita da testimonianze indecenti e mille dubbi. E come dall'odio non può nascere mai la giustizia, così dai dubbi non si potrà mai estrarre la giusta verità...

LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE.

Sabrina Misseri – condannata in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della cugina quindicenne Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010 – deve rimanere in carcere e non può essere messa agli arresti domiciliari perchè ha «una personalità portatrice di accentuata pericolosità e propensione a delitti della specie» di quelli commessi. Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi e relative al «no» alla scarcerazione della Misseri deciso nell’udienza dello scorso 27 giugno 2014. Ad avviso della Suprema Corte - sentenza 34071 della Prima sezione penale – deve essere confermata la decisione del Tribunale di Taranto che lo scorso 18 febbraio aveva escluso che la Misseri potesse uscire dal carcere. Secondo gli ermellini, i giudici di merito hanno detto «no» alla scarcerazione con «argomenti esaurienti, in diritto corretti e non illogici in fatto, ancorati ai dati processuali e riferiti a condotte, allo stato positivamente accertate, costitutive di non uno, ma ben quattro delitti (sequestro di persona e omicidio, occultamento di cadavere e calunnia) e di una ritenuta costante e pervicace opera di depistaggio, inarrestabilmente proseguita anche dopo il delitto più grave, sino all’arresto». Correttamente, sottolinea la Cassazione, queste «condotte sono state ritenute tutte nel loro complesso indice di una personalità portatrice di accentuata pericolosità e propensione a delitti» come quelli già commessi. «In altri termini – prosegue la Suprema Corte – gli articolati riferimenti alla molteplicità ed estrema gravità dei fatti delittuosi commessi, alla propensione manifestata dalla Misseri ad ostacolare l’accertamento della verità, alle modalità odiose di consumazione dei delitti, all’inquietante atteggiamento tenuto nelle interrelazioni familiari e parentali, al movente futile e alla spregiudicatezza manifestata, correttamente e non illogicamente risultano complessivamente valorizzati per escludere sia l’insussistenza di esigenza cautelari sia la sussistenza di elementi specifici idonei a dimostrare positivamente che dette esigenze potevano essere soddisfatte con altre misure».

Una motivazione televisiva.

LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE, scritto da Solange Manfredi.

Al Qaeda, sventati piani attacchi in Francia, Germania e Gb

Niger: Francia attende richieste di Al-Qaeda su ostaggi

‎Afghanistan: Inglese rapita, i talebani vogliono Lady Al Qaeda

‎Islamabad: ucciso il capo di Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan

Donne kamikaze, Europa a rischio ''Al Qaeda punta a terrorizzarci''

‎Mali, due civili uccisi in raid Mauritania contro Al Qaeda

‎Yemen, esercito libera la provincia di Shabwan da milizie di Al-Qaeda

‎Niger: Kouchner, Al Qaeda probabile responsabile rapimento francesi

‎Allarme negli Usa: Al Qaida cerca terroristi già residenti

Iraq: al Qaeda rivendica duplice attentato di domenica a Baghdad

Questi sono solo alcuni dei titoli comparsi in questa settimana sui principali quotidiani nazionali.

Il problema è che Al-Qaeda non esiste più almeno dal 2002. Proprio così. A dirlo non sono io, ma, come già evidenziato da un precedente articolo di Maurizio Blondet,  il capo dei servizi segreti francesi davanti al senato: “Il 29 gennaio 2010 la Commissione Affari Esteri convoca Allain Chouet, già capo della DGSE (Direction Générale de la Sécurité Extérieure, il controspionaggio francese) per dare una sua valutazione sul «Medio Oriente nell’ora del nucleare». Ecco come esordisce monsieur Chouet: «Come molti miei colleghi professionisti nel mondo, ritengo, sulla base di informazioni serie e verificate, che Al Qaeda è morta sul piano operativo nelle tane di Tora Bora nel 2002….Sui circa 400 membri attivi dell’organizzazione che esisteva nel 2001, meno di una cinquantina di seconde scelte (a parte Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri che non hanno alcuna attitudine sul piano operativo) sono riusciti a scampare e a scomparire in zone remote, vivendo in condizioni precarie, e disponendo di mezzi di comunicazione rustici o incerti». «Non è con tale dispositivo che si può animare una rete coordinata di violenza politica su scala planetaria. Del reso appare chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli attentati post-11 settembre (Londra, Madrid, Sharm el-Sheikm, Bali, Casablanca, Bombay, eccetera) ha avuto contatti con l’organizzazione. …..Tuttavia, si deve constatare che tutti, a forza d’invocarla ad ogni occasione e spesso fuori proposito, appena un atto di violenza è commesso da un musulmano, o quando un musulmano si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato, o anche quando non ci sono musulmani affatto (come negli attentati all’antrace in USA), a forza d’invocarla di continuo, certi media o presunti “esperti” di qua e di là dell’Atlantico, hanno finito non già di resuscitarla, ma di trasformarla come quell’Amedeo del commediografo Eugene Ionesco, quel morto il cui cadavere continua a crescere e a occultare la realtà, e di cui non si sa come sbarazzarsi». Dunque Al Qaeda non esiste più sin dal 2002. Eppure i nostri media, i nostri governi, se non ogni giorno, sicuramente ogni settimana ci ripropongono questo nemico inesistente. Perché? La risposta è semplice: perché siamo gli obiettivi di una guerra psicologica e, in questo caso, la tecnica utilizzata si chiama “MECCANISMO DELLA RIPETIZIONE” (si ripetere un fatto non vero così spesso da farlo diventare reale). La Guerra psicologica consiste nell'uso pianificato di operazioni psicologiche allo scopo principale di influenzare opinioni, emozioni, atteggiamenti e comportamento delle masse. Condizione necessaria perché le operazioni di guerra psicologica possano aver successo è quella di creare nella “popolazione obiettivo” frustrazione insicurezza e paura. Queste condizioni, infatti, riducono l'uomo ad uno stato di sottomissione in cui le sue capacità di ragionamento sono annebbiate e in cui il suo responso emotivo a vari stimoli e situazioni diventa non solo prevedibile ma “sagomabile”.

Per creare frustrazione, insicurezza e paura si devono creare all’interno del paese le seguenti condizioni:

Inflazione

tassazione non equa

concussione e corruzione

scarsezza di uomini nelle forze dell’ordine

appoggiare forme di sanzione o altro

scarsezza di necessità primarie come di abitazioni e altro

fomentare l'intolleranza razziale e religiosa

disunità politica e mancanza di fiducia nei capi

mancanza di risorse che possono sostenere l'economia

azioni di terrorismo e di violazione dei diritti umani

Create queste condizioni l’operatore di guerra psicologica può iniziare il suo lavoro.

I mezzi primari di manipolazione mentale sono la scuola, televisione e l’industria dell’intrattenimento (altri sono la droga, l’alcool, gli psicofarmaci e l’alimentazione).

Della scuola abbiamo già parlato in un precedente articolo sottolineando come questa operi per:

Insegnare lo stretto necessario perché la popolazione possa essere produttiva nei termini e nei modi voluti dal potere;

imporre sistemi d’istruzione che sono volti a uniformare e conformare la popolazione evitando accuratamente di insegnare le materie che sviluppino la capacità di ragionamento (dialettica, retorica, logica, ecc.), ovvero quelle materie che sviluppano il pensiero critico, autonomo;

instillare nei giovani quei preconcetti, pregiudizi e stereotipi su cui poi conformeranno tutte le loro esperienze.

La funzione esercitata dalla scuola, che ha il vantaggio di poter agire sui bambini e giovani, maggiormente ricettivi all’instillazione di pregiudizi e stereotipi, è importantissima dal momento che l’operatore di guerra psicologica, per poter operare con successo, deve poter contare su una popolazione che risponde a determinate sollecitazioni, ovvero per poter manipolare deve conoscere il modello di comportamento della popolazione, i modi di comunicazione, le motivazioni poste alla base del loro agire. Preparato il terreno dalla scuola, arriva la manipolazione attraverso i media. Strumento fondamentale di guerra psicologica dal momento che la nostra mente, tendenzialmente pigra, è attratta da tutto ciò che non richiede lo sforzo di pensare. Oltre a ciò è mediamente consapevole di di 200 bits di informazioni su 400 miliardi che il cervello elabora in un secondo. Ovvero siamo consapevoli di mezzo miliardesimo di ciò che avviene nel nostro cervello. Tutto il resto ci condiziona senza che ce ne accorgiamo.

Le principali tecniche di manipolazione attraverso i media sono:

creare un messaggio credibile

usare il linguaggio giusto

creare un ampio numero di fonti di informazione

creare “opinion leader”

attivare il meccanismo della ripetizione

operare debunking.

Vediamole nel dettaglio.

CREARE UN MESSAGGIO CREDIBILE. L’operatore di guerra psicologica che, come abbiamo detto, conosce gli schemi su cui si muove la popolazione, deve creare messaggi credibili. Attenzione il messaggio deve essere credibile, non vero. Anzi, spesso, la verità toglie credibilità al messaggio. Le menzogne sono più attraenti della verità perché fanno leva sulle nostre speranze, sui nostri pregiudizi, ecc... La verità, invece, ha la sconcertante abitudine di metterci davanti all’imprevisto, a ciò a cui non eravamo preparati e che, tendenzialmente quindi, rifiutiamo. L’operatore di guerra psicologica, che sa perfettamente che la maggior parte del pubblico non è alla ricerca della verità, ma di ciò che le permette di non uscire dagli schemi psichici indotti, su queste basi manipola la realtà. Facciamo un esempio. La sera del 10 aprile 1991 140 persone morirono bruciate sul Moby Prince davanti al porto di Livorno. Se domandi a qualcuno cosa causò la tragedia ancora oggi ti senti rispondere: c’era una fitta nebbia, l’equipaggio, davanti alla televisione a vedere la semifinale di Coppa delle coppe Juventus Barcellona, e non si è accorto della petroliera Agip Abruzzi entrando con questa in collisione. Tutto ciò è falso. Dagli atti e documenti processuali è emerso che:

- quella sera la visibilità era perfetta, nessuna nebbia né prima, né durante né subito dopo la collisione (come dimostrano foto, e video amatoriali, uno dei quali trasmesso anche dal TG1);

- nessuno dell’equipaggio stava guardando la partita (nella cabina di comando non vi erano televisori);

- l’impatto non è stato improvviso. Tutti i passeggeri erano nel salone De Lux (stanza provvista di porte tagliafuoco) con bagagli e giubbotti di salvataggio. Questo significa che erano stati richiamati dalle cabine presso cui si trovavano, alcuni stavano mettendo a letto i bambini visto che tutto è successo dopo le dieci di sera, invitati a rifare i bagagli, indossare i giubbotti e radunarsi nel salone, là dove sono stati trovati. Nessuno dei corpi presentava traumi.

Difficile conciliare tutto ciò con un impatto improvviso causato dalla negligenza dal personale che guardava la partita, ma nella memoria collettiva è rimasto quella notizia: la tragedia è avvenuta perché l’equipaggio guardava la partita di calcio. Perché? Perché il messaggio selezionato dall’operatore era assolutamente credibile, mezza Italia si ferma davanti ad una semifinale di Coppa delle Coppe.

USARE IL LINGUAGGIO GIUSTO. Come abbiamo accennato l'uomo vede il mondo in termini di precedenti esperienze, pregiudizi e stereotipi. Oltre a ciò, avendo una mente tendenzialmente pigra è attratto da tutto ciò che gli permette di ridurre problemi complessi in formule semplicistiche (tecnica che serve anche a costruire ed alimentare a dismisura il nostro ego facendoci credere di essere intelligentissimi e di aver capito tutto). L'operatore di guerra psicologica risponde a questa esigenza usando le parole. Gli stereotipi sono parole o frasi così intimamente associate ad idee o credenze comunemente accettate da essere di per se stesse convincenti senza bisogno della ragione o dell’apporto dell’informazione. Esse fanno appello a quelle emozioni quali l’amore per la patria, il desiderio di libertà, ecc.. Ovvero si accettano senza sottoporle ad un ragionamento operando su di esse un transfert. Proprio per questo gli stereotipi sono lasciati volutamente vaghi, affinché l’uditore possa interpretarli in maniera personale. Anche in questo caso facciamo un esempio. I nostri telegiornali, parlandoci del conflitto in Iraq usano il termine "guerra di liberazione", in realtà si tratta di una guerra di aggressione preventiva, illegale e criminale secondo il diritto internazionale. Le truppe dei paesi invasori al telegiornale diventano “truppe alleate”, mentre i combattenti iracheni vengono definiti "fedelissimi di Saddam", per condizionare i telespettatori e far pensare che siano uomini che combattono per difendere un criminale, non il loro paese.

CREARE AMPIO NUMERO DI FONTI DI INFORMAZIONE. L'uditorio non deve avere la sensazione di essere controllato. L’operatore di guerra psicologica crea, quindi, un ampio numero di fonti d’informazione, i cui messaggi devono essere leggermente diversi, ma condizionare tutti allo stesso modo, così da dare la sensazione all’obiettivo di stare scegliendo di propria volontà tra diverse opzioni e programmi (basti pensare ai telegiornali, non solo danno le stesse notizie, ma, spesso, hanno anche la stessa scaletta).

CREARE "OPINION LEADERS". L’operatore di guerra psicologica sa perfettamente che gli “opinion leaders”, hanno il potere di influire sull’opinione pubblica quanto le personalità politiche ed allora li crea. Sono quelle persone che compaiono in tutte le trasmissioni televisive e la cui fama viene costruita dai media. Vengono presentati come esperti del settore, opinionisti, ma difficile per il telespettatore dire se l’opinionista sia diventato esperto del settore perché è comparso in televisione o sia comparso in televisione perché realmente era un esperto del settore.

ATTIVARE IL MECCANISMO DELLA RIPETIZIONE. Creata la realtà voluta l’operatore di guerra psicologica deve attivare il meccanismo della ripetizione, ovvero deve ripetere un fatto non vero così spesso da farlo diventare reale, come nel succitato caso di Al Quaeda.

OPERARE DUBUNKING. Il debunking è una forma di manipolazione che consiste nello smontare e confutare teorie ed informazioni che vanno contro l’informazione (leggi manipolazione) ufficiale, ovvero la c.d. controinformazione. L’opera del debunker è di fondamentale importanza per la guerra psicologica, egli opera con messaggi semplici, prevalentemente diretti a livello emotivo con ganci diretti all’inconscio, ovvero a quei pregiudizi e stereotipi inculcati sin dai tempi della scuola e rinforzati quotidianamente dai media. Normalmente il messaggio teso a screditare la fonte di controinformazione del debunking si apre con un attacco sul piano personale, ovvero etichettando la persona con insinuazioni varie. Le principali etichette sono: bugiardo, paranoico, complottista, affetto da delirio di persecuzione, mitomane in cerca di pubblicità, Euroscettico, conservatore, nazionalista, xenofobo, razzista, fascista, sionista, antisemita, fondamentalista, comunista, ecc.. Tali parole (etichette) hanno la capacità, inserendosi in automatismi creati sin dalla scuola, di “impermeabilizzare” la nostra mente , ovvero neutralizzare a priori ogni possibile apporto ad un pensiero diverso. Queste sono le principali tecniche di manipolazione mentale. Ora che si conoscono le tecniche ci si può difendere. Come? Ad esempio:

- quando i media trasmettono notizie come quelle su Al-Quaeda ci si deve domandare cosa vogliono ottenere terrorizzando la popolazione. Vogliono far passare leggi che elidano ancora di più i diritti fondamentali dei cittadini? Si tratta di un “falso bersaglio”, ovvero desiderano attirare l’attenzione della massa su un fronte per operare indisturbati su un altro?

- Quando una persona in un dibattito non confuta i fatti ma si affida a frasi generiche e banali con ganci chiaramente emotivi si deve cambiare canale ed approfondire personalmente la questione. Stessa cosa si deve fare tutte le volte che qualcuno, invece di contestare nel merito un’affermazione, attacca sul piano personale etichettando l’interlocutore allo scopo di delegittimarlo;

- si deve analizzare sempre il contenuto di ciò che viene detto, ovvero verificare se si tratta solo di forma (parole inutili e stereotipi) o vi è anche sostanza, ecc…

Gli esempi potrebbero essere infiniti ma tutto si riduce, in fondo, ad una sola cosa: ci dobbiamo riappropriare della capacità di pensare.

Proprio a ridosso dell'articolo di Solange sulla funzione della televisione, ci viene dato un esempio plateale di come questo strumento serva a prendere in giro i cittadini, veicolando false notizie e manipolando la realtà, scrive Paolo Franceschetti. Da giorni molti mi hanno scritto, anche su questo blog o privatamente, chiedendomi perché non scrivevo un articolo su Sarah Scazzi. La risposta è semplice. Non so nulla di questa vicenda. Non potevo scrivere nulla, perché le mie idee me le facevo solo - come tutti - leggendo i giornali. L'unica cosa che mi era chiara è che eravamo davanti all'ennesima presa in giro perpetrata dai media ai danni delle persone normali. Anche semplicemente leggendo le notizie ufficiali era possibile rilevare queste anomalie.

Primo. In Italia scompaiono circa 1000 persone all'anno. Nel 2009 erano 1033, secondo le stime ufficiali della Polizia di Stato. Difficile capire come e perché i media avessero scelto di occuparsi solo ed esclusivamente di Sarah. Abbiamo detto molte volte che quando di un fatto se ne occupa ossessivamente la TV, vuol dire che dietro c'è molto altro, rispetto a quello che dicono.

Secondo. L'altra anomalia è che la famiglia Scazzi sceglie come difensore l'avvocato Walter Biscotti, già difensore di Rudy Guede nel processo Meredith, e coinvolto anche nel caso Marrazzo. L'avvocato risiede a Perugia. C'è da domandarsi come ha fatto la famiglia a scegliere un difensore che risiede a centinaia di chilometri, e con che criterio. Inoltre, nella fase di ricerca di una persona scomparsa, il difensore è assolutamente inutile, non essendoci procedimenti né civili né penali da affidare al legale. Guarda caso poi, il legale in questione non solo trova il tempo di recarsi personalmente ad Avetrana, ma ha anche la fortuna di trovarsi alla trasmissione "Chi l'ha visto" proprio quando in diretta mandano la notizia del ritrovamento del cadavere.

Terzo. Nella trasmissione Porta a porta, del 4 ottobre (quindi precedente al ritrovamento del cadavere), Bruno Vespa incalzava la moglie di Michele Misseri e la madre di Sarah domandando loro "ma voi